Posts written by Francesc 25

  1. .
    «Matt?» lo chiamò Ben.
    «Sì?»
    «Guarda lì.»
    E guardò nella direzione che suo fratello indicava col dito. Vide le solite cose che vedeva da più di quattordici anni: lo steccato della loro fattoria, colorato di rosso l’anno prima da loro padre; la stalla in cui le vacche dormivano beate, muggendo alacremente; l’erba che cresceva alta e rigogliosa coprendo l’intera zona e trasformandola in un tappeto verde bagnato. Altro non vide, e grazie al Cielo. Due settimane prima uno stronzo mezzo matto – il vecchio Tobia, che aveva una cattiva reputazione in tutta Rockmond - aveva cercato di oltrepassare lo steccato per venire a rubare delle mucche. Erano riusciti a prenderlo a calci nel sedere prima che facesse danni, e pensavano di avergli dato una buona lezione di vita che avrebbe ricordato per sempre.
    Tirò un altro tiro di sigaretta. Suo padre non voleva che fumasse, ma il vecchio aveva da tempo passato l’età in cui si è ancora abbastanza lucidi per capire certe cose. L’aria era fresca, il che, per gli standard dell’Arizona, pure quella settentrionale, non era affatto normale. I due fratelli erano sempre stati abituati al caldo torrido; com’era possibile che da qualche giorno a quella parte piovesse quasi in continuazione? Il meteo aveva detto che il freddo sarebbe continuato a durare fino alla fine di quel mese, e tenuto conto che a suddetta fine ci mancava sì e no una settimana, andava benissimo così. Tuttavia con le piogge il raccolto era andato a gonfie vele e non c’era più bisogno di farsi due docce al giorno per sentirsi freschi.
    Quel giorno dell’agosto 1967 era stato abbastanza normale: si erano svegliati entrambi alle sette del mattino; avevano aiutato papà a raccogliere il mais; avevano dato da mangiare alle vacche; poi, nel pomeriggio, si erano riposati guardando qualche programma trasgressivo che mostrava donne in abiti succinti, donne con bellissime labbra e sedere sventolante. Avevano finito di mangiare quindici minuti prima – pollo arrosto con insalata – e sentivano ancora lo stomaco pesante, Matt in particolare.
    «L’hai visto?» chiese Ben. Matt si voltò a fissarlo. Come lui, il fratello era seduto su una sedia, ma non fumava: aveva una birra mezza piena nella mano destra. I suoi occhi verdi, eredità della defunta madre, parevano quella sera tristi e al tempo stesso curiosi. Eh, sì. Aveva quindici anni, uno in meno rispetto a Matt.
    «Cosa avrei dovuto vedere, Ben? Non c’è un cazzo di niente!»
    Suo fratello scosse la testa, e Matt vide che sembrava quasi… che sembrava quasi spaventato. Ben… spaventato! Anche se era il fratello minore, aveva sempre avuto più coraggio di Matt, e per questo papà lo preferiva un po’ di più.
  2. .
    Nicole, un po' troppo ad alta voce, tanto che il piccolo Steve quasi si svegliò.

    Il bambino aveva dormito per tutto il tragitto, russando come non faceva da tempo. Il suo sonno profondo, molto raro di quei tempi, era dovuto a tre pillole di sonnifero che Nicole aveva sciolto nel latte del bambino. Era andata incontro a non poca fatica: ciò che stava per fare la disgustava, e già sentiva i sensi di colpa che la consumavano. Tuttavia, rifletté, non c'era altra scelta. Non dopo che suo marito l'aveva quasi uccisa. Non dopo aver malauguratamente scoperto che non c'era nessun altro posto in cui andare a vivere.

    Superò il confine e si trovò nel caro, vecchio Ohio. Che bello. Aveva molti ricordi su quello stato, e gran parte di essi erano positivi. Tranne due. Uno era su sua madre, la quale una volta, quando erano andati a far visita alla (defunta) zia Jessica, le aveva dato uno schiaffo perché, a detta sua, s'era comportata troppo male. L'altro era su un cane che l'aveva morsa alla gamba, ed era stata costretta a farsi i punti.

    «Mmm» disse Steve.

    «Dormi, tesoro.»

    Premette sull'acceleratore e in quell'istante ripensò alle parole dell'uomo che l'aveva indirettamente portata fin lì, che le aveva dato la possibilità di cambiare la sua vita. Dammi il bambino e io ti do diecimila dollari. Un sogno... ma si sarebbe avverato? Aveva trovato il numero del tale su uno strano annuncio trovato su un sito altrettanto strano, uno di quelli che non trovi facilmente su internet, se non tramite appositi software. Uno di quelli che poteva metterti in guai seri, anche solo guardando senza fare niente. «Però» disse tra sé, dopo aver gettato un'occhiata a Steve - i bei capelli rossi del bambino che gli cadevano sulla fronte, il muco che gli scendeva dal naso -, «non sono stata io a farmi venire l'idea. E ho esitato, sia chiaro.»

    Cercava forse di discolparsi agli occhi di Dio? Assolutamente sì; anche se non era particolarmente credente, aveva paura di una punizione divina, perché in fondo cos'altro si meritano le persone come lei?

    «Ma non avevo altra scelta. E non ce l'ho tutt'ora.»

    E le tornarono alla mente gli schiaffi di David, così forti da lasciarle una macchia rossa sulla guancia. E non si fermava solo a quello, nossignore. Come dimenticare gli insulti, la paura e le tattiche per allontanarla dagli altri, che alla fine avevano avuto un vero effetto su di lei? Eh no, un'altra alternativa non c'era.

    E poi la città, a quanto diceva il cartello sulla destra, era a pochi metri da lì. Questione di tre minuti.


    «Quindi è questo il poppante, eh? Carino.»

    L'uomo con cui Nicole si era messa in contatto era molto diverso da come se l'era immaginato. Aveva pensato che sarebbe stato brutto, grasso, con un sorriso furbo che riusciva solo a farti tremare e le mani sporche di qualcosa che poteva essere grasso. Invece era un individuo del tutto normale. Anzi, era molto bello, e non poté fare a meno di soffermarsi su quegli occhi verdi. E per non parlare dei muscoli che si vedevano attraverso la maglietta trasparente. Trasparente perché era tutta coperta di sudore.

    Eh sì, fa molto caldo.

    «Potresti togliergli le mani di dosso? Sai, solo per adesso.» Erano nel garage dell'uomo, che aveva detto di chiamarsi Rich. Il garage era piuttosto pulito, e si sentiva un buon odore di detersivo al limone. C'era un tavolino con degli attrezzi che servivano a creare e ad aggiustare cose, attrezzi come cacciaviti, chiodi, martelli e così via. C'era anche un piccolo secchio nero.

    «Perché?» Chiese Rich, allontanandosi dalla macchina. Teneva Steve in braccio. Il bambino continuava a dormire. «Non gli farò niente. È un bambino così carino.»

    «Lo capisco, ma...» Abbassò lo sguardo, e le parve di essere osservata da qualcosa. Magari erano gli occhi di Dio, che le urlavano contro di tirarsi indietro. Forse si poteva ancora fare. Forse... «Veniamo al dunque. Dove sono i soldi?» Le parole le sembrarono così lontane.

    Rich sorrise. «I soldi? Eccoli qui!» Si girò, con ancora Steve in braccio, e afferrò un sacco che si trovava nel fondo del garage. Tornò da Nicole. «Non sono proprio diecimila dollari, ma ti potranno bastare.»

    Nicole prese il sacco. Cristo, pesava tantissimo. Chissà quanti soldi c'erano dentro. Soldi marci, cara mia, soldi illegali. Ma la felicità prese il sopravvento, e quasi mise a tacere quella vocina. «Non mi hai truffato...»

    «Nossignora, gli scambi avvengono sempre in maniera pulita, con me. Be'... pulita come intendo io.»

    «Grazie.»

    Strinse le mani a Rich e gettò il sacco sul sedile posteriore, dove un tempo era seduto Steve.

    Salutò l'uomo, osservò un'ultima volta Steve, provando una fitta di malinconia che però diventava sempre più piccola, e partì.


    In seguito avrebbe scoperto che i soldi erano falsi. E che dentro quel sacco c'era un GPS molto potente.
  3. .
    Il gabbiano si sedette sullo scoglio e Ruth, che di gabbiani, nel corso dei suoi dodici anni di vita, ne aveva visti parecchi, gli mollò un pezzo di pane, giusto una briciola. «To', amico, saziati pure.» Il gabbiano divorò la briciola e poi... ruttò? Era possibile che un gabbiano ruttasse? Le venne in mente un detto del capitano Sam, quando era ancora un vita: «Gli uomini sono come i gabbiani: ruttano e mangiano senza pietà.» Non aveva molto senso, ma c'era da dire che il capitano Sam, con quel suo occhio destro mancante e la gamba di legno e l'odore dei sette mari, era sempre stato un tipo parecchio fuori di testa.
    E non era stato certo l'unico, sulla nave in cui Ruth era nata.
    Non aveva mai visto la terra ferma, lei... be', fino ad ora, s'intende. La vita l'aveva passata su quella gigantesca barca di legno che, di fatto, ospitava un mondo intero, con tutti i suoi colori, le sue etnie e le persone. Si ricordava benissimo di Bob Sperlog, il cuoco nero con denti d'oro; di Susan Hon, quella ragazza dai capelli biondi che adorava spassarsela con gli schiavi a bordo; di Jack Juls, quel bellissimo ragazzo muscoloso con occhi verdi per cui lei si era presa una cotta; e di tante altre centinaia di persone che avevano segnato la sua vita.
    Ma, chissà come, non si ricordava dei suoi genitori. Ricordava la voce della madre, dolce e gentile, ma il suo aspetto era un mistero. Alle volte le giungevano alle orecchie queste parole: «Fa' la brava, Alice.» Alice... non era quello il suo nome, e menomale! Quindi perché la voce di sua madre, la donna che l'aveva partorita, la chiamava così? Era una domanda che si poneva fin da bambina, quando non doveva passare la pezza sul pavimento o quando era costretta a vedere se arrivavano navi nemiche. Forse il suo nome era davvero Alice; il capitano Sam poteva aver dato ordine di cambiarlo in un momento in cui Ruth era troppo piccola per ricordarlo. Se era andata così, poteva essere successa solo una cosa, ai suoi genitori: erano stati gettati in mare, fatti dare in pasto agli squali. Perché? Ogni motivo era buono, su quella nave dove i padroni di tutto erano i cosiddetti capitani, dove anche solo rubare una mela poteva farti andare contro all'amputazione del braccio.
    E poi si chiedevano perché era fuggita, perché, quando la luna era alta in cielo e il vento soffiava poco, si era tuffata in acqua e aveva nuotato fino alla costa, con le onde sempre più grandi. Il ricordo la fece tremare e fu come tornare a quel momento, con l'acqua che le entrava dritta nei polmoni, che cercava di soffocarla. Oh, Ruth, piccola mia, dove credi di andare? Io sono qui per infrangere i tuoi sogni, piccola. Ti ucciderò, perché io sono il Mare In Tempesta e non c'è uomo che riesca a sconfiggermi. Eppure lei c'era riuscita. Aveva sconfitto l'acqua e quando aveva toccato la morbida sabbia, ancora di salvezza, barlume di vita, aveva ringraziato non un semplice Dio, ma il Dio del Mare, lo stesso Dio che veneravano su quella dannata nave. «Oh, Dio del Mare» aveva detto, rivolta al blu del cielo infinito, «grazie per aver scelto di salvarmi. Te ne sarò per sempre grata.»
    Solo che, col tempo, lei si era dimenticata di quello strano Dio, e aveva scelto il Dio della Terra, colui che adesso la assisteva, colui che l'aveva protetta da quel misterioso uomo con cilindro che aveva provato ad aggredirla, quando lei era arrivata in città per la prima volta.
    Ah, la città, che meraviglia! In quel luogo le persone non erano costrette a stare strette, come su una nave; al contrario, erano ben divise tra loro, con quartieri stupendi e fumo che usciva dalle case. La città in cui era finita si chiamava Barlow, e fin dal primo momento se ne era innamorata... Finché non aveva visto l'uomo col cilindro.
    Era successo una settimana prima. Stava camminando per le strade cittadine, confusa e un po' spaventata ma al tempo stesso emozionata come non era mai stata. In mano aveva un pezzo di pane caldo: l'aveva rubato a una bancarella gestita da un uomo grasso, che non sembrava particolarmente sveglio. Billy il Cretino, l'aveva soprannominato lei. L'uomo si era voltato un attimo, lei, piuttosto piccola per la sua età, aveva allungato il braccio e... gnam! Che buon odore! E com'era morbido! Sulla nave il pane era nero, secco e duro. Davvero una piacevole novità, quel pane così invitate.
    Aveva finito di mangiarlo (le aveva riempito lo stomaco e fatto aumentare il suo umore), quando un uomo di circa sessant'anni, con un cilindro nero in testa e uno strano sorriso dipinto sul volto decrepito, le aveva messo una mano sul collo, un tocco freddo che l'aveva fatta rabbrividire e che aveva cancellato la gioia del momento.
    «Dove vai, bambina mia?» aveva chiesto l'uomo. Ruth non sapeva cosa fare: sulla nave si conoscevano quasi tutti, o comunque c'era un certo rispetto reciproco, e non aveva mai avuto bisogno delle classiche regole contro gli sconosciuti, oh, tesoro, stai attenta a quel tipo, non dire nulla, e così via. Quindi non era scappata via ed era rimasta immobile, voltandosi all'istante.
    «Salve, signore» aveva risposto, a disagio. Le mani tremavano e la bocca si apriva e si chiudeva, sissignore, si apriva e si chiudeva. «Io... non sto andando da nessuna parte.» E con questa frase aveva provato ad andarsene, ma l'uomo aveva stretto la presa.
    «Tutti vanno da qualche parte, piccola. Perché non vieni con me? Potremmo divertirci, insieme.»
    Così lei aveva capito di trovarsi in pericolo e si era messa a pregare il Dio del Mare, sperando che la salvasse un'altra volta. Ma non era successo niente. L'uomo aveva cominciato a strattonarla, mentre lei piagnucolava. Allora, terrorizzata, aveva avuto l'idea di pregare il Dio della Terra, di cui aveva sentito parlare, in termini assolutamente negativi, sulla nave. «Il Dio della Terra è un mostro mordipalle» aveva detto una volta il buon vecchio Stuart Shey, quell'uomo che, secondo Ruth, beveva fin troppi calici di vino.
    Era un mostro mordipalle... ma Ruth aveva pregato rivolta a lui e un agente di polizia aveva gridato contro all'uomo col cilindro, dicendogli di lasciarla in pace. E così il vecchio aveva fatto, scusandosi e scappando via, in un angolo buio dove nessuno avrebbe potuto inseguirlo.
    «Tutto a posto, bambina?» le aveva chiesto il poliziotto, e lei aveva annuito. Poi era fuggita, con il Dio della Terra nel cuore e la consapevolezza che ormai doveva adattarsi a quel nuovo mondo, fatto di mille, piccole sorprese e scoperte fuori dall'ordinario. Quel mondo in cui non c'era il sale che ti finiva in faccia o le sirene che al chiaro di luna cantavano inni all'amore. Un mondo dove nessuno si conosceva.
    Il gabbiano la scrutò attentamente, portandola al presente, e parve chiederle: cosa farai adesso, Ruth? La verità era che non lo sapeva. Aveva trovato un lavoro come venditrice di giornali per strada, ma la paga non era granché (in fondo lavorava solo da tre giorni) e molte volte il cibo lo trovava in strada o nelle botteghe, rubandolo come aveva rubato il pane. Quasi quasi rimpiangeva di essere scesa dalla nave, di essersi avventurata sulla terraferma... ma poi ripensava a sua madre, alla fine che aveva potuto fare, alle cose orribili che accadevano su quella nave, e scopriva che no, sotto sotto era fiera delle sue scelte. Una nuova vita, tesoro.
    Lanciò una pietra addosso al gabbiano, ma lui volò via e Ruth lo vide scomparire in cielo. Chissà, penso. Forse è diretto alla nave.
  4. .
    CITAZIONE
    Volevo chiederti: l'altra storia non la continui più?

    Diciamo che sono impegnato. Sto scrivendo un romanzo e non ho tempo per pensare ad altre storie. Le continuerò dopo che avrò finito di scrivere la mia opera; per ora le tengo come idee per storie future.
  5. .
    Eravamo ormai giunti all'hotel quando Amelia, mia sorella, iniziò a mostrare i primi segni della malattia. Fino ad allora il viaggio era stato relativamente facile. Avevamo trovato un po' di benzina e ci era bastata per parecchi chilometri; a volte ci era capitato di trovare dei cadaveri per strada, ma nulla di davvero preoccupante. Ciò di cui ci preoccupavamo era di non toccare persone infette: conoscevamo tutti le conseguenze. Ancora oggi non ho capito come Amelia abbia contratto la malattia. Fatto sta che quando vedemmo l'insegna rossa, ENGLAND HOTEL, sentii mia sorella tossire. Era dietro di me; io mi facevo strada e lei e il resto del gruppo - il mio amico Jack, mia moglie Wilma e un vecchietto che avevamo pescato a caso in un MC Donald's, un certo Martin - mi seguivano come cagnolini. In spalla avevamo i nostri zaini, mattoni necessari che ci appesantivano la schiena.
    Quando la udii starnutire mi voltai di scatto verso di lei. Sembrava normale: stanca, triste e spaventata. Ma normale. Solo in un secondo momento mi accorsi del rossore che si andava creando nelle sue iridi, dei suoi movimenti lenti e - Cribbio! - di quella strana, piccola macchia che le era comparsa vicino alla bocca. Come avevo fatto a non notarli prima?
    Dissi agli altri di fermarsi e loro lo fecero. Martin si lamentò: «Non possiamo andare all'hotel? È a giusto due passi da qui.» In effetti tra noi e l'edificio c'erano solo dieci metri di distanza: una vera cazzata, rispetto ai chilometri che ci eravamo fatti a piedi. «No, Martin» risposi. «Non possiamo. Amelia ha l'H56.»
    Silenzio generale. Durò per qualche secondo, ma fu terribile. Vidi i miei compagni, coloro coi quali avevo passato le mie avventure e che mi avevano salvato più volte, giudicare la situazione con cinismo. Cosa dobbiamo fare, ora? Andiamo avanti? Uccidiamo Amelia? Che facciamo con Jason, suo fratello? Erano queste le domande che si stavano ponendo, e io stesso non riuscivo a trovarvi risposta. E se fossi stato anch'io infetto? D'altronde l'avevo abbracciata, ero stato con lei per varie tappe del viaggio, a volte mi aveva persino baciato sulla guancia.
    «Lo sapevi?» chiese Jack, osservando lei e poi me. La rabbia dipinta sul suo volto.
    «Non sapevo niente!» Mi rivolsi ad Amelia. «E immagino che neanche tu sapevi di avere l'H56, vero?»
    Amelia, che fino ad allora era rimasta zitta, parlò: «Certo che no! Non so nemmeno come l'ho preso!» Si sedette a terra e cominciò a piangere. Dopo tanto dolore, dopo tanti giorni di camminate, era davvero questo il destino che le spettava? Morire per colpa di una malattia che aveva già decimato metà della popolazione mondiale? Era assolutamente ingiusto, un destino deciso da qualche divinità malvagia.
    Se il destino ha un volto, allora è quello di un clown sadico che si diverte a infliggere dolore. Avevo visto morire molti amici e conoscenti, ma mia sorella... mia sorella!
    Wilma si avvicinò a me. «Jason...» Una pausa. Poi: «Non possiamo portarla più con noi!»
    «Ma è mia sorella!»
    «Tua moglie ha ragione» dissero Jack e Martin all'unisono. Jack proseguì. «Se ha la malattia potrebbe infettare qualcun altro. Dobbiamo lasciarla qui. Le daremo tutto ciò di cui ha bisogno: cibo, acqua, farmaci... Quando morirà - e non ci manca molto, se ben ricordo gli effetti letali dell'H56 - sarà felice, e saprà di aver salvato tutti noi.»
    Erano parole convincenti, razionali, ma io non sono mai stato una persona razionale e afferrai Jack per il colletto, digrignando i denti. Wilma si allontanò da me e stette accanto a Martin, spaventata. «Non osare proporre cose del genere!»
    «Jason, noi dobbiamo...»
    Gli diedi un pugno in bocca. Non gli spaccai alcun dente, ma uscì un po' di sangue. «Jason, fermati!» Era la voce di Amelia. Lasciai andare Jack, che finì sulla terra asciutta, e guardai mia sorella. Non piangeva più, ma aveva ancora paura e disperazione. «Hanno ragione loro! Devo restare qui!»
    Le lacrime sgorgarono potenti dai miei occhi. «No, ti prego, vieni con noi!» Lei scosse la testa. «Non posso, Jason. Andate, andate all'hotel! Il rimarrò qui a vedere il tramonto. Aspetterò che la mia ora sopraggiunga.»
    Sì sedette di nuovo a terra, con un modo di fare che definirei stoico. Dov'era finita la mia sorellina sensibile e triste? Dov'era finita quella giovane donna che cercava in tutti i modi di vivere? Amelia era già morta, e fu allora che capii la follia delle mie azioni. Certe cose non possono essere evitate, pensai. Devi accoglierle e basta.
    «Va bene» dissi. Poi aiutai a Jack a rialzarsi («Scusa per averti fatto questo») e mi rivolsi al resto del gruppo: «Noi andiamo all'hotel. Fra poco il sole tramonterà, ci sarà freddo e avremo bisogno di un riparo.» Tutti annuirono. Salutammo un'ultima volta Amelia, tenendoci a distanza da lei, e partimmo.
    Arrivammo all'hotel in pochi minuti. Sembrava abbandonato; la porta di vetro all'ingresso era spaccata e c'era un odore di merda che non riuscivo a sopportare. Provai a baciare mia moglie, ma lei mi respinse. «Non fraintendermi, Jason. Ti amo e ti voglio un bene dell'anima. Solo...sai, potresti essere infetto anche tu. Aspettiamo qualche altra settimana, vediamo cosa succede e se sei sano, be', torneremo a baciarci.»
    Aveva ragione. La fissai da capo a piedi, e i miei occhi si soffermarono sul suo bel pancione. Era incinta di otto mesi; avevamo deciso che si sarebbe chiamato Robert, che era il nome di mio padre. E a proposito di mio padre: chissà dov'è lui, ora. L'ultima volta che ci siamo visti è stato un anno fa, prima che iniziasse l'H56. Eravamo nella calda Florida, a goderci il mare estivo. Stavamo bevendo dei cocktail sotto un ombrellone; mia madre era a casa a chiacchierare con le sue amiche. «Senti, papà» gli avevo chiesto, dopo aver bevuto un lungo sorso rinfrescante. «Com'è essere in pensione? Voglio dire, come passi le tue giornate?»
    «Mi chiedi cosa faccio ogni giorno ora che sono vecchio e stanco? Assolutamente niente. Mi sveglio tardi, leggo un po', guardo la TV, alle otto in punto mangio e questo ogni giorno della mia vita.»
    «Non sembra male» avevo ribattuto, e qui si fermano i ricordi. Pensare a mio padre mi rende felice: riesco a sentire la sua voce, le sue dita. Spero stia bene e che sia ancora vivo.
    Comunque, entrammo nell'hotel. Io ero l'ultimo della fila, lontano dagli altri. L'atrio si presentava sciatto, sporco e disordinato. Il tavolo di legno era stato capovolto e una striscia di sangue si diffondeva su tutto il pavimento. Trasalimmo, ma poco - avevamo visto di peggio.
  6. .
    «Hai bevuto anche stasera?» chiese Max, mentre sistemava Ricky sul divano. Non c’era bisogno che il ragazzo rispondesse: gesticolava, sorrideva in modo ebete e aveva le guance rosse. Sì, era chiaramente ubriaco. Max aveva più volte provato a spiegargli che bere era sbagliato (si rischiava di confessare parecchie cose, da ubriaco) ma Ricky non lo ascoltava. Quella sera una ragazza di nome Lily aveva organizzato una festa alla sua villa fuori città. Ricky era innamorato di Lily e aveva sicuramente provato ad attaccare bottone con lei… con scarsi risultati, però. L’unica cosa che aveva ottenuto erano state delle intimidazioni da parte di alcuni rivali, intimidazioni che non gli avevano dato alcun effetto. Max era venuto a prenderlo alle 23:54.

    Ricky provò ad alzarsi in piedi, barcollò e tornò sul divano. «Ehi…»

    Max si voltò verso di lui. «Che vuoi dirmi?»

    «La festa è stata una figata, Max! Avresti dovuto esserci!»

    «Sai che detesto le feste.» Iniziò a pulire i piatti con cui aveva mangiato. Poi si fermò, colpito da un dubbio. «Hai fatto delle cazzate, laggiù? Hai detto qualcosa di troppo?»

    «Oh, certo che no…» Ricky si portò una mano alla testa e per un attimo sembrò riflettere. Disse: «Oddio sì, forse una cazzata l’ho fatta!» E scoppiò a ridere.

    Max si piombò su di lui e gli mollò un pugno al naso, da cui uscì un fiotto di sangue. «Che cazzo hai fatto? Dimmelo ora!»

    Ricky si pulì il naso e rispose: «Be’, ecco, potrei aver parlato un po’ con Bill Edwards.»

    «Bill Edwards? Quel Bill Edward?»

    «Sì.»

    «E cosa gli hai detto?»

    «Gli ho detto di non andare a camminare nel bosco, domani. Ovviamente a lui piace farlo, e all’inizio non mi ha ascoltato, ma poi ha detto di sì e…»

    Non finì di parlare che Max gli diede un calcio nei testicoli. «Testa di cazzo! Quando ti deciderai a prendere il tuo lavoro sul serio?» Prese una pistola dal mobile lì vicino e la diede a Ricky. «Adesso sarai tu ad ucciderlo, capito? Solo tu! E dovrai anche trovare un nuovo posto in cui farlo!» Ricky osservò la pistola. A questo punto la sua sbornia era finita ed era preso dalla paura. Iniziò a riflettere sulla cazzata che aveva fatto.

    «Va bene.» Prese la pistola. «Quanto hai detto che ci pagheranno?»

    «Tremila dollari. E, ti giuro, se succede un’altra volta ti uccido.»
  7. .
    Guardare la città da lassù era come porre uno sguardo su centinaia di storie, vite umane che il tempo si prendeva, non lasciandone alcuna traccia. Natasha si sporse un altro po’, poi decise che era troppo pericoloso: con la pioggia che bagnava il pavimento, c’era il rischio di scivolare e cadere. Un volo di settanta metri che, forse, non sarebbe stato nemmeno così male. Le luci della città, comunque, arrivavano fino al tetto dell’edificio, tanto erano potenti. In quella città non esisteva l’oscurità; a ogni ora del giorno, dalla mattina fino alla sera, le luci di quegli enormi grattacieli erano accese, illuminando anche i cuori delle persone. D’altronde, il sole non arrivava mai, c’era solo una fitta nebbia grigia che anche adesso avvolgeva la città nel suo freddo abbraccio.
    In lontananza, si sentì un suono metallico: polizia. Natasha conosceva il suono dei terribili veicoli della legge perché aveva sempre provato a scappare da essi. Erano strutture rettangolari di medie dimensioni; si libravano in aria di mezzo metro (i modelli nuovi potevano volare addirittura a tre metri di altezza) ed erano fatte di acciaio spesso, liscio e freddo al tatto. Emanavano una potentissima luce al neon verde, e in alto, sopra una piccola finestrella quadrata da cui i poliziotti osservavano l’esterno, c’era una telecamera, un sistema che analizzava i dati biomedici dei soggetti da catturare, cosicché gli agenti di polizia sapessero come agire. La telecamera riusciva anche a guardare attraverso i muri: inutile nascondersi.
    Il suono si udì di nuovo, e Natasha pensò: chissà chi stanno arrestando. Mah, in quella città c’era ogni tipo di feccia: assassini, ladri, stupratori, serial killer. Il governo sosteneva che si trattasse di fenomeni isolati, ma Natasha sapeva che quel tipo di persone erano dovunque; semplicemente, il governo tendeva a nasconderle, rinchiudendole in appositi quartieri in cui avrebbero potuto fare progenie, dando vita a generazioni intere di criminali. Li aveva persino visitati, quei posti. Erano bui, freddi: la luce non arrivava e nell’oscurità era possibile vedere delle ombre, ombre di persone la cui esistenza non interessava a nessuno, persone che avevano abbandonato lo status di essere umano per diventare delle bestie dedite alla violenza e alla malattia mentale.
    Le era capitato di vederne alcune alcuni: donne, uomini, bambini. Soprattutto bambini. Erano piccole creaturine innocenti che non avevano mai conosciuto la luce, la gioia e la parte benestante della vita. Nei loro occhi si poteva scrutare un’apparente malignità, ma sotto quella coltre v’era paura, la paura di chi non capisce cosa stia succedendo. Una volta aveva provato ad accarezzare uno di quei bambini, e come ricompensa il bambino l’aveva morsa e, mentre lei si portava la mano alla bocca, le aveva rubato l’antico orologio che conservava in tasca. Era un orologio risalente a più di duecento anni prima: non se ne vedevano più, di simili, in quell’epoca in cui tutti gli orologi erano ormai digitali. Se l’avesse venduto, Natasha avrebbe potuto farci un buon affare, guadagnare molti soldi, ma era troppo affezionata a quell’oggetto.
    Aveva cercato il bambino per tutto il quartiere, ma non era più riuscita a trovarlo. Era come se non fosse mai esistito, e in un certo senso era vero.
    Si sporse un altro po’. Adesso le giungevano tutti i suoni della città. Pensò che era straordinariamente bello, e non poté fare a meno di ridere. Ma era una risata amara che portava con sé tutta la tristezza della vita che aveva vissuto, tutti i rimpianti, tutte le difficoltà.
    «Ehi, signora! Che ci fa quassù?!»
    La voce proveniva a qualche metro da lei, e per qualche secondo non la udì. Si voltò e vide un uomo di mezz’età, moro, arrivare verso di lei. Indossava l’uniforme della sicurezza, e capì subito di essere fottuta. Adesso avrebbe dovuto sorbirsi centinaia di domande, e a non tutte sarebbe riuscita a rispondere. Si preparò psicologicamente.
    L’uomo disse: «Mi ha sentito?!»
    «Sì, l’ho sentito!» rispose Natasha, facendo scivolare la mano nella tasca sinistra del suo giubbotto, dove teneva il taser. Meglio stare attenti.
    «Lavora qui? È per aggiustare qualcosa?»
    L’uomo iniziava a farsi più vicino. Aveva capito qualcosa. Forse, in mezzo alla nebbia, in mezzo alla luce dei grattacieli, aveva riconosciuto nel viso di Natasha qualcuno che aveva già visto, magari in televisione o sui giornali. Natasha aveva fatto di tutto per cambiare aspetto, per non assomigliare alla giovane ragazza che anni prima riempiva la testa di poliziotti e civili allarmati, ma di tanto in tanto c’era qualcuno che la riconosceva. E a quel punto si doveva passare alle maniere forti, a volte anche all’omicidio.
    «No no, semplicemente mi piace stare qui, ammirare il paesaggio.» La mano stretta al taser. L’uomo sempre più vicino. La pioggia che batteva forte sulla sua testa. La paura che saliva dentro di lei.
    «Un momento. Lei non è…»
    Natasha andò contro l’uomo e, con una mossa rapida, gli piantò il taser nei testicoli. Lui urlò di dolore, ma i suoni della città e della pioggia coprirono il suo urlo. Natasha gli diede un pugno al naso e il sangue uscì a fiotti. Poi lo fece stendere a terra, gli diede un’altra scossa, frugò nelle sue tasche e trovò una pistola. La prese, si alzò in piedi e la puntò all’uomo. «Non lo faccia!» la pregò lui, in lacrime. Era terribile vedere quell’uomo tarchiato e dal viso gentile piangere come un bambino, ma Natasha non aveva altre opzioni: se l’avesse lasciato vivere, lui l’avrebbe denunciata, avrebbero fatto delle indagini e alla fine sarebbero risaliti a lei. No, non poteva permetterselo.
    Ripensò a tutto ciò che aveva vissuto. A com’era iniziata la sua avventura. A tutte le vite che aveva visto sgretolarsi, quella di sua madre in primis. E ripensò al bambino tenero che le aveva rubato quell’orologio, magro dalla fame e terrorizzato.
    Sparò.
    Tutto divenne irreale. Tutto divenne lontano, più lontano della sua dimora e dei pianeti nello spazio. Riusciva solo a sentire i suoni dei veicoli della polizia, che adesso si erano fatti più intensi. Evidentemente era una maxi operazione, una di quelle che non si vedeva da almeno dieci anni. L’uomo aveva ormai smesso di muoversi e la sua lingua cadeva burlescamente da fuori la bocca. Prima era stato un uomo; adesso era solo un ammasso di carne. Natasha mise la pistola in una tasca interna del giubbotto e, oltrepassando il cadavere, si fiondò alla porta di servizio dalla quale era arrivata.
    La tromba delle scale era umida e semi-buia. I ragni facevano i nidi negli angoli, la sporcizia copriva gli scalini e si respirava un tanfo di morte: evidentemente, doveva esserci qualche animale morto, forse un piccolo ratto. Camminò lentamente, per non farsi sentire. L’ascensore si trovava al piano di sotto. Natasha schiacciò il pulsante rosso alla parete e sentì l’ascensore salire. Dopo qualche secondo le porte si spalancarono e lei si fiondò dentro. L’interno dell’ascensore era caldo, accogliente e si sentiva un profumo di rose: un’ottima scelta. Le porte si richiusero e una voce metallica dal tono femminile chiese: «A che piano vuole andare?»
    «Al primo piano, grazie.» L’ascensore iniziò a scendere, Natasha inspirò e si sedette sul freddo pavimento di metallo, stanca morta. Le lacrime sgorgarono dai suoi occhi, potenti come fiumi in piena. E pensare che voleva semplicemente godersi un po’ il panorama, avere un attimo di pace. Possibile che dovesse essere sempre tutto così difficile? Che ogni cosa dovesse finire, prima o poi? Era così immersa nei suoi pensieri che quasi non si accorse della voce metallica: «Siamo arrivati al primo piano.» Le porte si spalancarono e davanti a Natasha si profilò un corridoio piuttosto illuminato che conduceva alla porta d’ingresso in vetro, dalla quale arrivavano i suoni della città.
    Si alzò in piedi, asciugò le lacrime e in fretta attraversò il corridoio. Il cuore le batteva all’impazzata. La porta di vetro si aprì al suo passaggio e si trovò fuori dall’edificio.
  8. .
    In una notte d’autunno del 2009 mio padre mi chiese se conoscessi il senso della morte. Avevo nove anni; abitavamo tra i boschi del Wisconsin, in una piccola casetta di legno. Quella notte ero terribilmente assonnato ed ero sul punto di spegnere la piccola lampada sul mio comodino, quando papà, che prima mi aveva raccontato alcune meravigliose fiabe, mi afferrò la mano, scuotendo la testa. «No, Pete» sussurrò, fissandomi dritto negli occhi. I suoi erano occhi che trasmettevano tristezza ma anche malinconia, ma anche una felicità oscura… la felicità che provano certe persone in punto di morte, quando la loro vita è a pezzi e morire sembra l’unica alternativa alla sofferenza. In quel momento, con la mia innocenza di bambino, non capii tutto questo, e solo più tardi avrei capito cosa davvero volevano dire quegli occhi. Le mie mani tremano ogni volta che ci ripenso.

    «Perché non posso dormire, papà?» chiesi sbadigliando. Papà mi accarezzò sulla guancia e disse: «Voglio farti una domanda, Pete. Una sorta di indovinello… solo che sarà un indovinello strano, senza alcuna ricompensa. Ti piacciono le domande; Pete?» Se mi piacevano le domande? All’epoca le adoravo! Ero un bambino con molta logica: amavo i problemi di matematica che ci davano a scuola e risolvevo con un nonnulla situazioni molto imbarazzanti. Le domande (certe domande, sia chiaro) erano, per me, un allenamento; papà sapeva sempre cosa chiedermi. Mi aspettavo, tutto entusiasta, l’ennesima domanda sulla matematica, sulla storia o sulla filosofia. Ciò che mi chiese, però, andava ben oltre ogni mia aspettativa.

    «Pete, tu… concepisci la morte?»

    La mia anima sprofondò. Per un secondo il mio cervello andò in tilt, come in uno dei cartoni animati che guardavo all’epoca. La parola “morte” non mi piaceva, la detestavo… ma lo facevo soltanto perché i miei genitori mi avevano insegnato a disprezzarla, a vederla come un qualcosa di estremamente pericoloso. Tuttavia, il significato preciso di questa parola mi era ignoto: sapevo che se una persona moriva non c’era più, ma nient’altro. Chiesi delucidazioni a mio padre, e lui riformulò la domanda: «Voglio dire… cosa pensi che succeda a una persona quando muore, Pete?»

    «Va in paradiso, papà.»

    «E come fai ad esserne sicuro, ragazzo mio?»

    «Perché me l’avete detto voi e…» Mi fermai. Provai a riflettere per qualche secondo e mi accorsi che sì, papà aveva ragione. Non potevo sapere se il paradiso esistesse davvero; nessuno, d’altronde, era mai tornato indietro per dimostrarlo. Tornare indietro. Queste parole risuonarono nella mia testa, e per la prima volta mi accorsi del vero significato della morte. Se morivi, non c’era alcuna garanzia di continuare ad esistere: potevi sparire, diventare un vuoto senza senso.

    Iniziai a tremare, e papà se ne accorse. «Ora dimmi, Pete: tu credi che la morte sia dovunque intorno a noi?» Qualche minuto prima avrei risposto di no, ma adesso, assorto in mille pensieri, mi accorsi che la risposta era sì. La morte era tra noi, in tutte le sue oscure forme, dai piccoli animali morti che trovavo in giardino fino alle terrificanti notizie che davano in televisione e che i miei genitori mi vietavano di guardare.

    Papà si alzò in piedi, mi diede un bacio sulla fronte (stavo tremando) e spense la luce. Prima che se ne uscisse dalla stanza, però, chiesi: «Papà… perché mi hai fatto questa domanda?»

    Lui si fermò di colpo. «Lo capirai a tempo debito» disse. «A tempo debito.» E uscì dalla stanza.

    ---

    Mio padre morì quello stesso autunno.

    Avevo iniziato a notare dei segni, ma solo dopo molto tempo: dopo quella discussione, ero troppo impegnato a pensare alla morte che lentamente iniziava a incombere su di me. Ogni giorno mi sentivo più vecchio, e quando guardavo il mio riflesso vedevo l’orrore: un bambino che non era un bambino, con le mani rugose e i denti marci, i capelli quasi inesistenti e la pelle che cadeva. Era una visione che mi tormentava anche nei sogni, quelli che facevo quando il vento soffiava all’esterno e la luna era alta in cielo.

    Devo dire che la tristezza dell’autunno ha decisamente avuto un impatto sui miei pensieri. Quando vedevo le foglie autunnali cadere dai loro alberi e finire al suolo, secche e fragili, non potevo fare a meno di trovare analogie con la morte di malati e vecchi quando finalmente si spengono. Provavo a pregare Dio di farmi vivere a lungo, ma quel discorso con papà fece germogliare in me i primi semi dell’ateismo: se non siamo sicuri che esista un paradiso, dicevo, come possiamo essere sicuri che esista un Dio? E per questo le mie preghiere non erano rivolte al dio biblico, ma a me stesso, a una parte di me che voleva covare speranza. Forse è questo che fanno i credenti, in fondo: pregano rivolti a se stessi, non a una qualche divinità.

    “Pregavo” per tutti i membri della mia famiglia, e quando notai i segni che mio padre stava per morire, iniziai a farlo solo per lui. Vi starete chiedendo di quali segni io stia parlando, giusto? Ve ne parlerò ora, dall’inizio.

    Ogni autunno io e mio padre andavamo a caccia di funghi nei boschi. Adoravo quei posti: il vento fresco, il profumo di alberi e piante, gli animali… tutto faceva scaturire nel me bambino una vivacità impressionante. Tuttavia, quell’autunno il bosco mi sembrò un luogo triste. Il vento fresco era diventato la voce dei morti, il profumo delle piante mi provocava un sentore di marcio e decadenza, e gli animali sembravano stanchi e soli.

    Quel giorno trovammo molti funghi, anche se ce n’erano di meno rispetto all’anno prima perché aveva piovuto poco. Trovai perfino un fungo velenoso, uno di quelli rossi con puntini bianchi, e lo mostrai a mio padre. «Dovresti buttarlo, Pete: sai che questo tipo di funghi non è commestibile.» Lanciai il fungo contro un albero sul cui ramo uno scoiattolo stava mangiando una noce. Quando il fungo colpì l’albero, lo scoiattolo scappò via, spaventato dal suono dell’urto, e tornò al suo nido. Per un secondo ammirai quel bellissimo animale che coi suoi occhietti curiosi fissava il mondo intorno a lui. Pensai: è incredibilmente vivo, non ha paura della morte. Forse è vero. Forse gli animali non si preoccupano di quello che c’è dopo la morte, forse la evitano solo per istinto. La loro è un ignoranza che invidio.

    Cominciava a fare buio e dovevamo tornare a casa. Il bosco ora non era più triste, ma minaccioso; le sensazioni che provavo non mi trasmettevano felicità o tristezza, ma solo paura. D’altronde, ero un bambino, no? Mentre camminavamo, mio padre si fermò vicino a un albero, piantò nel terreno il bastone che aveva nella mano destra e prese a respirare profondamente. Sembrava stare molto male: non l’avevo mai visto così. Era come se stesse lottando per mantenersi in forma, per restare quell’uomo forte che si era sempre preso cura di me.

    Qualcosa si accese, nella mia testa.

    Fu una semplice intuizione, ma dolorosa come mille aghi nello stomaco. Qualcosa iniziò a farsi strada dentro di me, qualcosa che mi implorava a gran voce di abbracciarlo e chiedergli: «Tutto bene, papà?» Ma decisi di non fare niente, di restare lì fermo a osservare quel pover’uomo che lottava contro un mostro che si annidava dentro di lui.

    Ormai i suoni del bosco iniziavano a tacere, e gli animali andavano a dormire. I fiumiciattoli si facevano anch’essi stanchi e sembrava che si fossero d’improvviso ghiacciati: anche loro, evidentemente, provavano profondo rispetto per mio padre. A volte la natura riflette ciò che proviamo.

    Questo silenzio fu rotto da mio padre, che tossì aspramente. Mi avvicinai a lui lentamente, e a terra vidi del sangue. Raggelai. Mio padre aveva sputato sangue. Non sapevo che sintomo fosse, ma ero abbastanza intelligente da sapere che non era una cosa positiva. A quel punto fui certo che mio padre stesse morendo. Durante quelle settimane i suoi movimenti mi erano parsi lenti, meccanici: si muoveva a fatica e la sua vitalità stava scomparendo. Avevo però dato la colpa a un semplice malanno; d’altronde, in quel periodo era normale, visto il freddo che veniva da Nord. Gesù, come avevo fatto a essere così ingenuo? Avevo solo nove anni, ma dovevo pur capire qualcosa! Ormai era troppo tardi, lo sapevo.

    Le lacrime cominciarono a sgorgare dai miei occhi, e lo abbracciai. Lui sussultò e fece cadere il bastone a terra. «Papà…» In lontananza, un gufo cantò una melodia triste, che trasmetteva un po’ di paura, ma anche affetto. Affetto per le persone ormai defunte a cui hai voluto bene.

    «Tranquillo, Pete, è tutto a posto.» Iniziò ad abbracciarmi. «Tutto a posto.» Cominciò a tossire.

    La notte scese sulle nostre teste. Adesso c’eravamo solo noi due, in quel bosco silenzioso. E quel buio scese anche sul mio cuore, coprendolo per sempre.

    ---


    Papà aveva un tumore maligno al fegato. Gliel’avevano diagnosticato qualche giorno prima, e lui e la mamma s’erano messi d’accordo di non dirmi niente. Ora che ci ripenso, la domanda di mio padre in merito al senso della morte acquisisce un certo significato. Ogni giorno si svegliava e vedeva, allo specchio, la morte che lo attendeva. Forse aveva cercato di farmi abituare alla morte, smuovendo la mia innocenza di bambino. Forse era così disperato che non aveva avuto altre idee. Sono domande che mi pongo in continuazione, ma che non hanno molta importanza rispetto alla grande vera domanda: perché a mio padre? Perché la morte, dannata bastarda, deve colpire le persone migliori su questo pianeta? Me lo chiedevo sempre, quando non riuscivo a dormire e le lacrime, fredde e amare, inzuppavano il cuscino, mettendo a nudo tutta la mia paura di bambino.

    Paura che mi accompagnò per le ultime settimane di vita di mio padre. La cosa che davvero temevo era quel momento, il momento in cui avrebbe esalato l’ultimo respiro, fissandomi dritto negli occhi. Si sarebbe proteso ad accarezzarmi, non ci sarebbe riuscito e poi, dopo aver detto: «Ti voglio bene, Pete» sarebbe morto. Una visione terribile che governava i miei sogni e mi faceva dire: «Papà, no! Torna qui, ti prego!»

    Io e mamma provammo a trattarlo il meglio possibile. Ci occupavamo di ogni cosa: eravamo noi a pulire i piatti; eravamo noi ad occuparci delle faccende di casa; eravamo noi ad accudire il nostro bel cagnolino, Rusty. Papà diceva di volerci aiutare, ma quando provava a fare qualcosa tossiva sangue e la mamma si faceva pallida, un pallore simile a quello che avrebbe poi assunto papà da lì a pochi giorni, insieme al suo aspetto cadaverico che mi avrebbe sempre fatto venire la pelle d’oca.

    Parlavo di tutte queste mie paure a Rusty: non avevo nessun altro con cui parlare, poiché ero un bambino molto solitario. Il mio cagnolino era silenzioso e ascoltava con passione ogni mia parola; a volte percepiva la mia tristezza e mi toccava la guancia con una sua zampetta morbida che mi dava calore. Solo Rusty conosceva le parole esatte con cui ho espresso il mio dolore, ed è inutile chiedergliele: è morto anche lui, ormai. Quelle parole sono adesso perdute nel tempo, e nessuno le ritroverà più.

    I giorni passarono, e mio padre dovette andare in ospedale. Il tumore si era evoluto con una velocità straordinaria: gli rimaneva solo una settimana. Gli portammo fiori, dolci e parlai con lui di tutti i momenti che avevamo avuto, e di come fosse stato un ottimo padre. «Ne sei proprio sicuro, Pete?» mi chiese. «Certo, papà. Sei stato il miglior padre del mondo.» Lo abbracciai con tutta la forza che avevo a nove anni, e quasi gli feci male, tanto era debole. Nulla era rimasto del grande uomo che avevo sempre ammirato: il tumore l’aveva totalmente divorato.

    E la prospettiva più spaventosa era che, una volta morto, forse non avrebbe nemmeno continuato ad esistere.

    In quel periodo volli credere a Dio, alla sua esistenza, al paradiso e altre stronzate. Volli sperare che mio padre sarebbe finito in un posto migliore, in cui avrebbe potuto continuare a osservarmi, augurandomi il meglio. E per un po’ ci credetti… solo per un po’, ma fu sufficiente a farmi sentire meglio.

    Mio padre morì il 12 novembre 2009, dopo tante sofferenze. Quel giorno pioveva a dirotto e il vento sbatteva contro le finestre dell’ospedale. Ero seduto davanti al letto di papà; in mano avevo un fiore che avevo deciso di portargli. Mia madre era fuori a parlare con alcuni suoi medici e amici. Non prestavo molta attenzione a ciò che stava succedendo: ero chiuso nella mia mente, a ripensare al giorno in cui papà mi aveva fatto quella strana domanda sulla morte. D’improvviso, mio padre disse: «Pete…» Alzai gli occhi, lo fissai e, con una lancia emotiva che mi attraversava il petto, capii che quel giorno sarebbe morto. Provai a chiamare mia madre, ma dalla bocca non uscì nulla. Riuscii solo a piangere, mentre mio padre esalava l’ultimo respiro, incapace di parlare. Capii presto cosa avrebbe voluto dirmi: «Pete, sei stata la cosa più bella che mi sia capitata, il figlio migliore al mondo.» Capite? La morte – quella puttana – l’ha preso prima che potesse dirmi addio. È morto con le parole bloccate in gola: un’agonia che nessuno dovrebbe mai provare.

    Uscii dalla stanza, in lacrime. Il corridoio dell’ospedale era d’un bianco nauseante, un bianco che cozzava con l’orrore che mi stava assalendo. Mia madre stava parlando con un medico, un suo amico di nome Fred che io conoscevo di vista. Mia madre si voltò verso di me e le bastò vedermi piangere per capire cos’era successo. Nel corridoio si diffuse un silenzio irreale, e anche il mio pianto divenne lontano.

    ---

    Tutto questo accadeva dodici anni fa. La mia vita è andata tutto sommato bene: mia madre ha fatto un ottimo lavoro nel crescermi come unico genitore, ho continuato a studiare, mi sono fatto una cerchia di amici e adesso sono all’università. Studio per diventare professore di scienze. È passato molto tempo, ora non sono più un bambino, eppure mi sembra ancora di vedere il volto di mio padre consumato dal tumore, quando mi guardo allo specchio. Solo che, ad un’attenta occhiata, noto che quello non è il volto di mio padre: è il mio volto… quando sarò sul punto di morte.

    Eh sì, la paura della morte non mi ha ancora abbandonato. Ripenso a mio padre ogni giorno; ripenso alle sue mani, alla sua gentilezza, alla sua forza. Mi chiedo: ora dov’è? Non esiste più, oppure è in paradiso, se esiste? Sono domande a cui non troverò mai una risposta, ma mi aiutano a sperare che esista qualcosa di meglio di questo mondo: un posto in cui i morti vivono in pace.

    Oggi sono andato alla tomba di mio padre. Di nuovo. Ci vado ogni mese: con l’università e lo studio, ho poco tempo per tornare nella mia città natale. Ho posato i fiori sulla tomba e ho detto: «Buonanotte, papà. Spero che tu riesca a sentirmi.»

    ---

    E buonanotte anche a me. Sono le tre del mattino e devo dormire per essere ben riposato. Quanto tempo ho speso a scrivere questo testo tutto sommato breve? Non lo so e non mi interessa. Voglio solo dormire, ora.

    Dormire e sognare il volto di mio padre, che mi ha accompagnato su quella accidentata strada chiamata vita per ben nove anni.

    È il periodo giusto: è autunno.

    Buonanotte a tutti.
  9. .
    La tempesta si avvicinava velocemente, ma Lara non era per nulla preoccupata. Era seduta sul divano in salotto, leggendo un libro, mentre Zack, suo figlio di sette anni, stava giocando con la macchinina telecomandata che Lara gli aveva regalato il Natale scorso. Zack faceva sfrecciare la macchinina per tutti i corridoi e le stanze della casa: prima in bagno, doveva aveva quasi urtato il vecchio vaso che Lara teneva per bellezza; poi in salotto, passando sotto il tavolino su cui era posata la tazza di tè che Lara beveva durante la lettura; e infine - dopo aver camminato sugli scalini, non senza l’aiuto del bambino - nella stanza di Zack, ritirandosi sotto il letto. Il bambino rise, posò il telecomando su una sedia e accese la televisione, gustandosi un ottimo cartone su Bugs Bunny. Il poster di Luke Skywalker che aveva attaccato vicino alla finestra e che a Lara era costato venti dollari fissava Zack con sguardo curioso.
    Fuori, il clima dava il peggio di sé.
    L’albero che si trovava vicino alla drogheria di Rick Way, a qualche metro da casa, cadde e si riversò sulla strada. Grazie a dio non era un albero troppo grosso e non fece male a nessuno, anche perché quel giorno erano tutti a casa, ma cadde proprio sulla macchina di Way, che era come al solito parcheggiata di fronte al locale. Il vecchio Rick non ne sarebbe stato per nulla felice; quella macchina era con lui da almeno tredici anni, e vederla col parabrezza e il tettuccio distrutti gli avrebbe fatto male al cuore, e non solo per i soldi che avrebbe dovuto ‘pagare per le riparazioni. Più in là, una signora che tornava da casa dopo aver fatto la spesa si ritrovò con l’ombrello spazzato via dal vento. Lo vide svolazzare davanti a un idrante, poi spiccò di nuovo il volo e sbatté contro un lampione. La signora provò a riprenderlo, ma scivolò in una pozzanghera e imprecò. Le onde sul lungomare distruggevano le barche e i pescatori si allontanavano.
    Sì, c’era chiaramente una tempesta in arrivo. L’aveva detto anche il meteo alla televisione.
    Ma, di nuovo, a Lara non importava molto. Se le cose avessero iniziato a mettersi male – e si erano più volte messe male, durante il cattivo tempo; ricordava benissimo quando, due anni fa, il vento aveva distrutto le vetrate dei balconi al secondo piano e per rimetterle a posto aveva dovuto versare trecento dollari a Will Hemington, il serramentista locale sempre disposto a fare il suo lavoro, anche se l’alcol che consumava giornalmente aveva iniziato un po’ a dargli alla testa (Lara si era ritrovata perfino a dirgli espressamente di non portare lattine di vodka o birra) – e Zack avesse iniziato ad aver paura, sarebbero semplicemente scesi in seminterrato come facevano di solito. Lara aveva letto su Google che quello era il metodo migliore per difendersi da un temporale, e se non lo fosse stato, beh, a chi importava. Almeno Zack sarebbe stato tranquillo.
    Posò il libro sul divano – “Avventure di una ragazza a New York” era il titolo. Era una storia d’amore su una ragazza, Sandra, che, fattasi la laurea e aver detto addio ai genitori e al suo paesino, si trasferiva a New York per lavorare in campo informatico. Sandra poi incontrava, in ufficio, un ragazzo molto carino dai capelli rossi (Il mio stesso colore dei capelli! aveva pensato Lara) di nome David. Iniziavano a frequentarsi e a discutere, ma il loro amore era osteggiato dal capo geloso che puntava gli occhi su Sandra. Era sicuramente una trama banale, elaborata da qualche scrittore ventenne che aveva da poco iniziato a scrivere e che non era nemmeno dotato di troppa fantasia; ma Lara era una gran romanticona e adorava leggere questi libri quando fuori pioveva – e bevve un sorso di tè. Voltando gli occhi alla finestra Lara vide un fulmine squarciare il cielo. Un brivido le percorse la schiena. Quel fulmine… Era incredibilmente vicino. Distava solo qualche metro dalla finestra. Nella mente di Lara comparve una visione davvero terrificante – una di quelle visioni che vengono in mente alle persone con troppa fantasia, ma che non sono poi così irreali. Si vide seduta sul divano con la tazza di tè, mentre un fulmine entrava dalla finestra dalla finestra. Vide, nella visione, la tazza cadere a terra, e lei, semiviva, che cercava di chiedere aiuto, ma dalla bocca non le usciva niente e…
    Un urlo di Zack la riportò alla realtà.
    Si alzò velocemente, posò la tazza sul tavolo e si diresse da Zack, pensando: Chissà cos’è successo ora. Salì il primo gradino, che scricchiolò sotto i suoi piedi. Di solito questo non avrebbe spaventato Lara, ma ora iniziava a provare una certa angoscia; perfino la tempesta la spaventava, ora. Forse era stato per quel fulmine.
    Arrivata al secondo piano si precipitò nella stanza da letto del figlio. Aprì la porta e trovò il bambino intento a fissare il davanzale della finestra. Piangeva. “Che è successo?” chiese Lara, abbracciando Zack. Osservò la finestra e vide che era rotta, pezzi di vetro a terra (uno di essi ferì Lara, che era scalza, e ritrasse un gemito di dolore); poi posò il suo sguardo sul davanzale, e notò una pietra su cui era legato un foglio piegato. Zack era in fondo alla stanza che osservava la madre, ancora confuso. La pioggia batteva forte, ora. Il vento iniziò ad ululare e delle foglie furono trasportate all’interno della stanza tramite la finestra aperta.
    Lara prese il foglio e lo aprì. Lesse le seguenti parole:

    COME VA, TESORO? ZACK STA BENE?


    Quella calligrafia… la conosceva fin troppo bene. Bastardo! Era così ossessionato da mettersi in contatto con lei che aveva perfino lanciato una pietra – una fottuta pietra! – nella stanza del suo stesso figlio. Non gli era passato in mente, a quello stronzo di Howard, che Zack avrebbe potuto farsi male?! O si era ubriaco come al solito, esattamente come si ubriacava durante il loro matrimonio? Pensare al suo matrimonio con Howard fece male a Lara. Lei e Howard si erano sposati otto anni fa, un anno prima che Zack nascesse. Si erano conosciuti nel bar in cui lei lavorava.
  10. .
    Jeff

    Quando siamo piccoli i nostri genitori ci dicono sempre di non parlare con gli estranei. Ci dicono che non dovremmo parlare con gli sconosciuti che si siedono accanto alla panchina nel parco su cui siamo seduti, per fare un esempio. Lo dicevano anche a me, sapete? Non parlare con gli sconosciuti, stai attenta... Queste erano le principali raccomandazioni che mi facevano quando ero piccola.

    Ad ogni modo, devo ammettere di non averle seguite molto attentamente. Mi sono sempre divertita a chattare sulle chat anonime di internet, frequento spesso posti come Omegle, ma sono sempre stata attenta a non dare il mio indirizzo di casa o a non farmi manipolare. Credevo che di questo fosse capace anche mio fratello Brian, anche lui solito chattare online, ma evidentemente mi sbagliavo.

    Mi chiamo Tiffany. Ho sedici anni e vivo in un piccolo quartiere di un'anonima città del Maine. Come detto prima, ho un fratellino di nome Brian, dieci anni. Poi ci sono i miei genitori, Shelley e Tim. Siamo una famiglia felice, la tipica famigliola che si vede nelle pubblicità.

    Abbiamo molti hobby: mio padre adora fare camminate in montagna, mia madre badare al prato, io disegnare... Poi ci sta mio fratello, che adora passare il suo tempo sui giochi online, dove ci sono delle chat con cui conversare tra utenti. Mia madre dice che non gli fa tanto bene, ma mio padre non è della stessa opinione. Dice che finché Brian parla solo con i suoi amici, non c'è nulla di male. Ma nel complesso i miei genitori sono entrambi così impegnati che raramente controllano quello che fa Brian sui suoi giochi. E a me, sinceramente, non è mai fregato nulla.

    In questi giorni mio fratello mi ha detto di aver fatto amicizia online con un tizio di nome "Jeff". Mi ha detto che "Jeff" è un ragazzino un po' più grande di lui, molto simpatico e che è anche molto intelligente. Mi ha detto che vorrebbe conoscerlo di persona. Io gli ho detto, con noncuranza, "sì sì, prima o poi lo conoscerai, ne sono certa" e poi sono tornata a leggere il mio libro.

    Qualche giorno fa i nostri genitori sono partiti per una luna di miele, lasciandoci soli. Ho badato a me e mio fratello, facendogli il cibo e divertendoci insieme. Sere fa, lui mi ha detto che finalmente avrebbe conosciuto Jeff, che sarebbe andato con lui e che sarebbero stati felici, il tutto con un sorriso stampato in faccia. Ho riso e l'ho messo a dormire.

    Quella sera stessa mio fratello scomparve. Trovai la finestra aperta e il letto vuoto, con solo il peluche del mio fratellino sopra.

    Andai nel panico. Contattai la polizia, poi i miei genitori, che mi dissero che sarebbero tornati il più presto possibile. Ero terrorizzata. Dove poteva essere finito? Chi poteva averlo preso? Poi mi venne in mente quel nome. "Jeff". Poteva essere stato quel tale, che magari era un maniaco che fingeva di essere un bambino per attirare le sue vittime? Iniziai a sudare e bevvi un sorso d'acqua da una bottiglia presa dal frigorifero. No, no, non poteva essere vero, non poteva...

    Mio fratello tornò due giorni dopo. Era sporco, la faccia era piena di graffi, le sue braccia coperte di lividi e piangeva, piangeva come se l'avessero quasi ucciso. Non potevo crederci. Gli corsi incontro, con le lacrime agli occhi, e gli chiesi cosa diavolo fosse successo. Lui mi disse, singhiozzando: "Jeff... Lui... Mi ha fatto del male". Lo abbracciai e lo portai dentro.

    Adesso è steso sul divano. L'ho curato e lavato, e ora è come nuovo. Sono agitata, non so che fare. Per avere un po' d'aiuto ho contattato il mio amico David. David è un bravo ragazzo, dai capelli biondi e occhi verdi, molto bello e simpatico. Vive accanto a casa mia, e spesso mi aiuta e consola nei momenti di bisogno. So che potrebbe essere sciocco farlo venire adesso piuttosto che chiamare la polizia, ma devo farlo. Lo chiamo e gli chiedo di venire, e lui accetta.

    Subito dopo suona il citofono e gli apro.

    "Oh, menomale che sei qui, non puoi capire che è successo", gli dico, abbracciandolo.

    "Tranquilla, piccola... Andrà tutto bene, scopriremo il responsabile. Come sta tuo fratello?"

    In questo preciso istante mio fratello viene da noi. Guarda me, poi David, e il suo sguardo si congela. Sembra impaurito, e posso vedere che i suoi pantaloni sono bagnati.

    "Ciao, Jeff" dice a David.

    Jeff? "Ti ha chiamato Jeff. Perché l'ha fatto? Che sta succedendo?" Improvvisamente noto che David mi sta stringendo troppo forte, non riesco a levarmelo di dosso. "Perché ti ha chiamato Jeff?! Rispondi! E lasciami, ti prego!".

    Sul suo volto compare un sorriso sinistro, terrificante, di una persona disturbata. "Sei pazzo! Sei pazzo!" urlo con tutte le mie forze, prima che lui mi metta una mano in bocca, zittendomi.

    Lui si volta a guardare mio fratello, ancora intento a fissarci e immobile per la paura, e dice: "Oh ciao, Brian... Ti sei divertito con me?"
  11. .
    Quando ero piccolo, i miei genitori mi dicevano sempre di non firmare mai un contratto o cose del genere. Ricordo benissimo quando loro, incredibilmente spaventati, mi dissero che se l'avessi fatto ci sarebbero state terribili conseguenze. Non capivo bene perché, ma la loro faccia, la loro voce mi bastavano per capire che stessero dicendo la verità.

    All'epoca ci credevo, ma quando divenni adolescente, cominciarono a sorgere i primi dubbi.

    Oggi mio nonno è venuto da me con un foglio in mano. Il suo viso era terrorizzato, quasi stesse per morire. Mi ha detto di firmare il foglio. L'ho fatto, non sapendo esattamente cosa stesse succedendo.

    Solo ora scopro che mio nonno è morto un'ora prima che firmassi quel foglio.
  12. .
    Sono una madre single con una bambina di sette anni, ho divorziato con mio marito due anni fa. Vivo in una casa nel mezzo della Pennsylvania, in un piccolo boschetto. La mia vita è normale, sono felice e non ho nulla di che lamentarmi: mia figlia è molto brava e si comporta come una normale bambina.

    Stamattina si è svegliata assonnata. Le ho chiesto se avesse dormito abbastanza, ma lei ha detto di no perché la luce dei fulmini proveniente dall'esterno non l'aveva fatta dormire. Sono rimasta alquanto sorpresa: di che fulmini stava parlando? Non li avevo visti.

    Ad ogni modo, non ci ho pensato molto. Ho fatto colazione, ho accompagnato mia figlia a scuola e sono andata a lavoro; adesso sono a casa. È sera, ho cucinato e sto per dare la buonanotte al mio angioletto. Lentamente entro nella sua stanza, mi avvicino al suo letto e...

    È vuoto. Non c'è nessuno. Mi guardo intorno, stranita, e la noto.

    Una macchina fotografica appoggiata al davanzale della finestra, adesso aperta.

    Improvvisamente, penso a quanto possa essere facile scambiare il flash di una fotocamera fuori dalla finestra per un fulmine...

  13. .
    Il titolo dice tutto. Come personaggi, quindi, preferite Jeff The Killer o Jane?

    So benissimo che le loro storie fanno schifo, ma io intendo proprio come aspetto, come background, come psicologia.

    Se ne avessero una...


    Io sinceramente preferisco Jane. E voi?
  14. .
    Sinceramente l'incipit non mi sembra male.

    e poi io ho sempre adorato questo tipo di storie ^_^


    Cerca però di fare attenzione mentre scrivi, cercando il più possibile di evitare errori grammaticali e di rendere la storia più interessante possibile. Ah, e come titolo ti consiglierei: "La confessione di un assassino"

    a me fa impazzire come titolo
  15. .
    Oddio! Che cosa inquietante! E pensare che dal titolo avevo pensato anche peggio.... :siga: :siga:

111 replies since 18/8/2019
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