La città della nebbia

Un racconto distopico che sto scrivendo

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    Guardare la città da lassù era come porre uno sguardo su centinaia di storie, vite umane che il tempo si prendeva, non lasciandone alcuna traccia. Natasha si sporse un altro po’, poi decise che era troppo pericoloso: con la pioggia che bagnava il pavimento, c’era il rischio di scivolare e cadere. Un volo di settanta metri che, forse, non sarebbe stato nemmeno così male. Le luci della città, comunque, arrivavano fino al tetto dell’edificio, tanto erano potenti. In quella città non esisteva l’oscurità; a ogni ora del giorno, dalla mattina fino alla sera, le luci di quegli enormi grattacieli erano accese, illuminando anche i cuori delle persone. D’altronde, il sole non arrivava mai, c’era solo una fitta nebbia grigia che anche adesso avvolgeva la città nel suo freddo abbraccio.
    In lontananza, si sentì un suono metallico: polizia. Natasha conosceva il suono dei terribili veicoli della legge perché aveva sempre provato a scappare da essi. Erano strutture rettangolari di medie dimensioni; si libravano in aria di mezzo metro (i modelli nuovi potevano volare addirittura a tre metri di altezza) ed erano fatte di acciaio spesso, liscio e freddo al tatto. Emanavano una potentissima luce al neon verde, e in alto, sopra una piccola finestrella quadrata da cui i poliziotti osservavano l’esterno, c’era una telecamera, un sistema che analizzava i dati biomedici dei soggetti da catturare, cosicché gli agenti di polizia sapessero come agire. La telecamera riusciva anche a guardare attraverso i muri: inutile nascondersi.
    Il suono si udì di nuovo, e Natasha pensò: chissà chi stanno arrestando. Mah, in quella città c’era ogni tipo di feccia: assassini, ladri, stupratori, serial killer. Il governo sosteneva che si trattasse di fenomeni isolati, ma Natasha sapeva che quel tipo di persone erano dovunque; semplicemente, il governo tendeva a nasconderle, rinchiudendole in appositi quartieri in cui avrebbero potuto fare progenie, dando vita a generazioni intere di criminali. Li aveva persino visitati, quei posti. Erano bui, freddi: la luce non arrivava e nell’oscurità era possibile vedere delle ombre, ombre di persone la cui esistenza non interessava a nessuno, persone che avevano abbandonato lo status di essere umano per diventare delle bestie dedite alla violenza e alla malattia mentale.
    Le era capitato di vederne alcune alcuni: donne, uomini, bambini. Soprattutto bambini. Erano piccole creaturine innocenti che non avevano mai conosciuto la luce, la gioia e la parte benestante della vita. Nei loro occhi si poteva scrutare un’apparente malignità, ma sotto quella coltre v’era paura, la paura di chi non capisce cosa stia succedendo. Una volta aveva provato ad accarezzare uno di quei bambini, e come ricompensa il bambino l’aveva morsa e, mentre lei si portava la mano alla bocca, le aveva rubato l’antico orologio che conservava in tasca. Era un orologio risalente a più di duecento anni prima: non se ne vedevano più, di simili, in quell’epoca in cui tutti gli orologi erano ormai digitali. Se l’avesse venduto, Natasha avrebbe potuto farci un buon affare, guadagnare molti soldi, ma era troppo affezionata a quell’oggetto.
    Aveva cercato il bambino per tutto il quartiere, ma non era più riuscita a trovarlo. Era come se non fosse mai esistito, e in un certo senso era vero.
    Si sporse un altro po’. Adesso le giungevano tutti i suoni della città. Pensò che era straordinariamente bello, e non poté fare a meno di ridere. Ma era una risata amara che portava con sé tutta la tristezza della vita che aveva vissuto, tutti i rimpianti, tutte le difficoltà.
    «Ehi, signora! Che ci fa quassù?!»
    La voce proveniva a qualche metro da lei, e per qualche secondo non la udì. Si voltò e vide un uomo di mezz’età, moro, arrivare verso di lei. Indossava l’uniforme della sicurezza, e capì subito di essere fottuta. Adesso avrebbe dovuto sorbirsi centinaia di domande, e a non tutte sarebbe riuscita a rispondere. Si preparò psicologicamente.
    L’uomo disse: «Mi ha sentito?!»
    «Sì, l’ho sentito!» rispose Natasha, facendo scivolare la mano nella tasca sinistra del suo giubbotto, dove teneva il taser. Meglio stare attenti.
    «Lavora qui? È per aggiustare qualcosa?»
    L’uomo iniziava a farsi più vicino. Aveva capito qualcosa. Forse, in mezzo alla nebbia, in mezzo alla luce dei grattacieli, aveva riconosciuto nel viso di Natasha qualcuno che aveva già visto, magari in televisione o sui giornali. Natasha aveva fatto di tutto per cambiare aspetto, per non assomigliare alla giovane ragazza che anni prima riempiva la testa di poliziotti e civili allarmati, ma di tanto in tanto c’era qualcuno che la riconosceva. E a quel punto si doveva passare alle maniere forti, a volte anche all’omicidio.
    «No no, semplicemente mi piace stare qui, ammirare il paesaggio.» La mano stretta al taser. L’uomo sempre più vicino. La pioggia che batteva forte sulla sua testa. La paura che saliva dentro di lei.
    «Un momento. Lei non è…»
    Natasha andò contro l’uomo e, con una mossa rapida, gli piantò il taser nei testicoli. Lui urlò di dolore, ma i suoni della città e della pioggia coprirono il suo urlo. Natasha gli diede un pugno al naso e il sangue uscì a fiotti. Poi lo fece stendere a terra, gli diede un’altra scossa, frugò nelle sue tasche e trovò una pistola. La prese, si alzò in piedi e la puntò all’uomo. «Non lo faccia!» la pregò lui, in lacrime. Era terribile vedere quell’uomo tarchiato e dal viso gentile piangere come un bambino, ma Natasha non aveva altre opzioni: se l’avesse lasciato vivere, lui l’avrebbe denunciata, avrebbero fatto delle indagini e alla fine sarebbero risaliti a lei. No, non poteva permetterselo.
    Ripensò a tutto ciò che aveva vissuto. A com’era iniziata la sua avventura. A tutte le vite che aveva visto sgretolarsi, quella di sua madre in primis. E ripensò al bambino tenero che le aveva rubato quell’orologio, magro dalla fame e terrorizzato.
    Sparò.
    Tutto divenne irreale. Tutto divenne lontano, più lontano della sua dimora e dei pianeti nello spazio. Riusciva solo a sentire i suoni dei veicoli della polizia, che adesso si erano fatti più intensi. Evidentemente era una maxi operazione, una di quelle che non si vedeva da almeno dieci anni. L’uomo aveva ormai smesso di muoversi e la sua lingua cadeva burlescamente da fuori la bocca. Prima era stato un uomo; adesso era solo un ammasso di carne. Natasha mise la pistola in una tasca interna del giubbotto e, oltrepassando il cadavere, si fiondò alla porta di servizio dalla quale era arrivata.
    La tromba delle scale era umida e semi-buia. I ragni facevano i nidi negli angoli, la sporcizia copriva gli scalini e si respirava un tanfo di morte: evidentemente, doveva esserci qualche animale morto, forse un piccolo ratto. Camminò lentamente, per non farsi sentire. L’ascensore si trovava al piano di sotto. Natasha schiacciò il pulsante rosso alla parete e sentì l’ascensore salire. Dopo qualche secondo le porte si spalancarono e lei si fiondò dentro. L’interno dell’ascensore era caldo, accogliente e si sentiva un profumo di rose: un’ottima scelta. Le porte si richiusero e una voce metallica dal tono femminile chiese: «A che piano vuole andare?»
    «Al primo piano, grazie.» L’ascensore iniziò a scendere, Natasha inspirò e si sedette sul freddo pavimento di metallo, stanca morta. Le lacrime sgorgarono dai suoi occhi, potenti come fiumi in piena. E pensare che voleva semplicemente godersi un po’ il panorama, avere un attimo di pace. Possibile che dovesse essere sempre tutto così difficile? Che ogni cosa dovesse finire, prima o poi? Era così immersa nei suoi pensieri che quasi non si accorse della voce metallica: «Siamo arrivati al primo piano.» Le porte si spalancarono e davanti a Natasha si profilò un corridoio piuttosto illuminato che conduceva alla porta d’ingresso in vetro, dalla quale arrivavano i suoni della città.
    Si alzò in piedi, asciugò le lacrime e in fretta attraversò il corridoio. Il cuore le batteva all’impazzata. La porta di vetro si aprì al suo passaggio e si trovò fuori dall’edificio.
     
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    Ser Procrastinazione

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    rosso alla parete

    sulla*

    Interessante. Più che altro, mi incuriosisce la presenza della microcriminalità e dei quartieri ghetto, anche se, con quei livelli di avanzamento tecnologico, non dovrebbero esserci. Mi sa tanto di Akira, dove i criminali avevano accesso alla tecnologia e dove i fondi governativi erano tutti stati allocati al progetto Akira (indi per cui il governo non poteva occuparsi granché dei poveri).
    Vediamo come si evolverà, finora non sembra scritta male. :o:
     
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1 replies since 3/8/2023, 21:54   73 views
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