Votes taken by Tommas02

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    Partecipo alla categoria scrittura!
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    Mi piace, aspetto il seguito!


    Ti consiglio soltanto di evitare espressioni stereotipate, del tipo "scattò come una lepre", perché la descrizione perde di efficacia :)
  3. .
    Micol era morta da tre giorni. Fuori, il vento si dibatteva e l’oscurità premeva contro le finestre. Grumi di ombre si contorcevano agli angoli del soffitto. Tenevo il naso premuto contro il cuscino che era stato di Micol e sentivo il suo odore agre che scendeva graffiando lungo la gola.
    Il suo profumo, ecco cosa mi rimaneva. Ma anche l’intensità di quello si andava man mano attenuando. Ancora una notte, forse, poi sarebbe svanito del tutto. Mi sarei ritrovato ad andare alla ricerca di tracce inesistenti, come un uomo può andare alla caccia di mosche nel buio pesto.
    Ogni tanto mi sentivo tremare dalla testa ai piedi. Era come la danza di dita fredde proprio alla base della mia schiena… E quell’odore di agrumi mi aveva morso alla gola e mi stava trascinando al pianto.
    Fu allora che decisi che l’avrei riportata in vita. La rivelazione fu una deflagrazione silenziosa all’interno della mia anima. L’immagine di Micol che si rialzava dalla tomba e si scrollava via la terra di dosso… Per un attimo la danza gelida sulla mia nuca si fece più sfrenata, ma poi venne la speranza, e la speranza leniva il dolore.
    Da giovane avevo letto due o tre manuali di magia nera. Ne ricordavo vagamente uno soltanto: il De Vermis Mysteriis. Un librone dalla copertina verde, con delle grandi lettere dorate incise sulla superficie scabra. Ma li avevo sfogliati in maniera svogliata – quello dell’occultismo era un grande interesse di mio padre e se avevo preso in mano quei libri era solo a causa della sua spinta.
    Adesso però era il mio interesse a essere sbocciato. Non dormii quella notte. Attesi l’alba ripensando alle parole magiche che quei libri contenevano, tentando di recuperare dall’archivio della mia memoria stralci di pezzi letti oltre trent’anni addietro. E mi sembrava di riuscirci davvero. Doveva essere solo suggestione, certo… ma la mia folle speranza iniziale stava cambiando forma, e nel mio cervello era diventata un cauto convincimento.
    Il sorgere del sole spense le mie suggestioni, o almeno lo credetti. Nel corso della giornata provai a evitare che la mia mente tornasse su quell’argomento. Ma rimanevano ceneri recalcitranti all’interno del mio cervello… no, il fuoco non si era sopito.
    Ed ecco che la notte successiva tornò a sfavillare nella mia anima, più caldo e convincente di prima. Potevo riportare Micol da me. Dovevo provarci, per lo meno. E se non ci fossi riuscito…
    Fu un'altra notte insonne. Il mattino, questa volta, contribuì solo a rinforzare la mia certezza. Feci un’abbondante colazione – era da quando Micol si era ammalata che non mi rimpinzavo in quel modo – e decisi che mi sarei messo al lavoro.
    C’era tutta la biblioteca di mio padre da consultare. Alla sua morte, avevo recuperato tutti i suoi libri e li avevo accatastati in scatoloni di cartone, che avevo poi gettato in cantina. Li recuperai e sfogliai i vari titoli. Organizzai una bibliografia: divisi i libri in prioritari, secondari e ignorabili. Cominciai quel giorno stesso. Il tempo aveva accumulato polvere sulle copertine, l’umidità vi aveva creato macchie di muffa che si allargavano sui dorsi. I bordi delle pagine erano ingialliti dagli anni. Nel complesso, però, il testo era leggibile. Prendevo appunti su un taccuino senza realizzare davvero quel che stavo facendo, o quello che avrei dovuto fare. Una certezza sempre più solida mi cullava. L’impressione era quella di stare a galla mollemente sul filo del mare, con l’acqua che ti entra nelle orecchie e ti lava via i pensieri e la sicurezza che quell’oceano immenso non potrebbe mai vincerti.
    Dopo una settimana dovetti tornare a lavorare. Passavo le mattinate e le prime ore del pomeriggio a discutere di architettura con i ragazzi dell’università, ma non appena ritornavo a casa mi ripiombavo sul compito che dovevo portare a termine. Quanto più m’impratichivo nella trascrizione di appunti e di antiche formule, tanto più la mia frenesia aumentava. Ma era una frenesia placida – una fretta addolcita dalla consapevolezza che sarebbe andato tutto alla grande.
    Fu solo dopo un mese che ripescai il De Vermis Mysteriis. Era il librone che ricordavo dalla mia adolescenza. Questo, a differenza degli altri, non aveva sofferto dello scorrere del tempo. Le lettere sulla copertina rifulgevano d’oro; all’interno, le frasi erano talmente precise che pareva fossero appena state stampate. Aprii quel libro, e subito una nuova suggestione scosse il mio animo… Un gorgoglio sordo che veniva dal fondo della mia mente, il riemergere di un sapere che era sempre stato lì ma che non avevo mai conosciuto. D’un tratto, tutte quelle formule che avevo trascritto sul taccuino, fino ad allora dal significato oscuro e dubbio, parvero assumere un senso preciso, una certa struttura che richiamava a quel librone verde. Un significato sinistro, cominciai a intuire, per quanto non fossi ancora in grado di tradurre quelle formule.
    Il De Vermis Mysteriis era un manuale più impegnativo degli altri e richiedeva una grossa apertura mentale verso quei canali inesplorati dalla scienza. Alcuni passaggi oscuri, letti nei momenti di pausa dal lavoro, spesso appena prima di andare a dormire, sbiadivano nel sonno e non lasciavano tracce nella mia mente. E allora mi toccava ricominciare da capo al giorno successivo. La fatica e la grandiosità dell’opera stavano rallentando il mio lavoro, così decisi di licenziarmi. Mi parve la scelta più sensata. Se davvero avevo intenzione di rivedere Micol, allora dovevo compiere una scelta, e l’unica scelta possibile era inseguire il mio sogno. Solo l’idea di annusare ancora quell’odore di agrumi… quell’odore che, dopo quell’ultima notte in cui il fuoco della speranza aveva cominciato a sfolgorare nella mia anima, era per sempre svanito. Mi sentivo mancare, se solo ci ripensavo.
    Adesso potevo dedicare tutto il mio tempo agli studi. Giornate intere passate su quel grosso librone verde, con il carico di pagine da affrontare che via via diminuiva e momenti vaghi in cui mi pareva di poter intravedere al di là della nebbia che mi oscurava la mente…
    Finché un giorno le mie dita sfogliarono l’ultima pagina di quel libro, e i miei occhi, preda di una fattura, scorsero assetati le ultime parole del manuale. E allora tutto mi fu chiaro.
    Non dirò qui delle Forze che giacciono mute tutt’attorno a noi… Forze da cui riusciamo a scampare solo grazie alla loro indifferenza cosmica. Né descriverò il meccanismo danzante che fa stridere le catene dell’universo, o il vento infernale che spira e che avvolge le anime andate. Non potrei, se anche volessi. Sarebbe un discorso troppo impegnativo da tenere e il mio tempo potrebbe volgere al termine prima del suo compimento. E poi la testimonianza potrebbe essere inquinata dalla mia esperienza successiva. Il manuale descrive tutto. Lo fa con delle frasi così nitide che risulta facile figurarsi le immagini che quelle parole evocano. Vi basti sapere dell’esistenza di queste Forze, e della presenza di un Guardiano in grado di fare da tramite tra il nostro universo e il Loro. Era il Guardiano che dovevo evocare, perché questi spalancasse il sipario che ci divide e consentisse l’esaudimento del mio desiderio. E dovevo farlo nell’ora più buia della notte in cui il velo tra i due Universi si assottiglia, e influssi sottili possono agire su corpi ormai privi di vita.
    Mancavano quattro mesi alla notte dei Morti. È una denominazione che risale a epoca ben più antiche di quella cristiana. Dalla lettura del De Vermis Mysteriis, risulta evidente come già i latini avessero ereditato questa ricorrenza da una popolazione ancora antecedente. Si rinvengono segni di un culto parallelo anche nelle civiltà precolombiane, che non sono mai entrate in contatto con i popoli occidentali dell’antichità.
    Ma non sta a me dimostrare tali affermazioni. Il manuale rimane a disposizione di chi sia interessato a leggerlo. Lo sarà per sempre, immagino. Dovrebbero essercene altre quattro copie sparse per il mondo. Io non dirò dove ho nascosto la mia.
    Trascorsi i cinque mesi che mancavano alla notte dei quattro ripetendo mentalmente le operazioni che avrei dovuto compiere. Presto tutte quelle parole si svuotarono di significato e rimasero a rigirarsi nella mia mente come suoni vuoti, dalle articolazioni sinistre, ma privi di senso. Ero più deciso che mai. Il mio tempo sembrava correre verso la meta.
    Micol mi fu sempre accanto. Col senno di poi, potrei dire che la sua anima – se così posso chiamarla – era al mio fianco già nel momento in cui mi misi alla ricerca delle formule che l’avrebbero riportata in vita. Mi piacerebbe dire che era una sorta di angelo protettore posto sulla mia spalla. Un angelo che mi mormorava buoni consigli all’orecchio, consigli che io non fui in grado di ascoltare, troppo accecato dalla bramosia di riaverla con me. Penso però che la parte buona del suo spirito si fosse dissolta con la morte. Adesso credo che Micol fosse vicino a me perché voleva che portassi a termine il mio progetto, perché nessuno potesse convincermi che quell’idea era folle. Era lì, al mio fianco, ridente, mentre già si pregustava il risuono dei segreti dell’Altra Parte, preparandosi al momento in cui le sue labbra avrebbero riecheggiato quel vento…
    La notte dei Morti arrivò talmente in fretta da cogliermi impreparato. Certo, la mia mente aveva ripetuto centinaia di volte la successione delle operazioni da fare e ogni muscolo del mio corpo fremeva per rivedere Micol, ma… rimaneva una resistenza vaga, qualcosa di cui nemmeno mi accorgevo, ma che adesso mi lanciava brevi tremiti di paura.
    Una parte di me intuiva la follia di quell’azione, o forse si ritraeva di fronte all’idea di capovolgere le regole della natura. Anche nel peggiore degli assassini sopravvive l’animo di un bambino, un nocciolo fragile che bisogna solo mettere a nudo. Ecco cos’ho letto da qualche parte. Dev’essere accaduta la stessa cosa a me.
    Dovevo cominciare col sangue. C’è una pompa di benzina, a qualche centinaio di metri da casa mia, che la notte fa da rifugio per un branco di cani randagi. Ci andai in macchina, portando con me un secchio con del cibo, un paio di guanti e un coltello a serramanico in legno. Quando arrivai, alle nove di sera, i cani erano già lì. Aspettai che l’unica auto in fila per fare benzina fosse andata via e mi avvicinai al branco. Sparsi la carne che avevo nel secchio per terra, facendo attenzione a distribuirla per bene: i cani dovevano dividersi. Se si fossero avvicinati tutti insieme, sarebbe stato pericoloso. Un labrador magro dal pelo ingrigito si accostò a me fiutando il terreno. Gli porsi la mano e mi chinai al suo fianco. Lui leccò i miei guanti. Cominciai a carezzarlo sulla schiena, scendendo pian piano verso il costato, mentre il cane prendeva a mangiare voracemente. Tenevo il coltello a serramanico nell’altra mano. L’odore di pelo incrostato mi saliva fino alle narici e pareva attaccarsi ai miei vestiti. Quando il cane mi parve abbastanza mansueto, premetti il legno contro il suo costato e feci scattare la lama.
    I suoi muscoli sciolti si irrigidirono tra le mie mani. Ci furono un paio di guaiti distorti, quasi degli ululati. Subito feci scorrere il secchio sotto la ferita ed estrassi il coltello. Il sangue cominciò a colare a fiumi, macchiando il pelo grigio dell’animale e schizzando sui bordi del secchio. Il cane continuava a guaire, in maniera sempre più disperata. Ma nel giro di qualche secondo il suo abbaiare si placò e le gambe gli cedettero. Afferrai il secchio, che si era riempito a metà, e m’infilai in macchina. Guidai fino al cimitero e fu lì che mi appostai per il tempo che mancava a mezzanotte. Una gioia impazzita mi schizzava qua e là nel cervello come una pallina da ping pong. Potevo immaginare già le carni di Micol che premevano contro le mie, il suo respiro agre che mi faceva fremere la pelle.
    Risorgeremo, recitava una scritta a caratteri cubitali posta sul muretto che cingeva il cimitero. Guardavo la scritta e un sorriso che saliva dalla parte più profonda di me mi allargava le labbra.
    L’ora più buia della notte. Le due e mezza, in quel caso. A quell’ora avrei dovuto agire. Ma all’una ero già dentro, con la cassetta degli attrezzi in una mano e una torcia nell’altra. Ero entrato scavalcando il cancello e adesso andavo alla ricerca della tomba. Era sotto terra e non, come la maggior parte delle altre, posta in un tumulo. La cosa mi facilitò il lavoro. Diressi il fascio di luce verso il punto in cui era posta la lapide e cominciai a scavare.
    Durò un’ora intera. I crampi si arrampicavano sulla mia spalla e mi mordevano i muscoli e un velo di sudore si era posato sulla mia fronte. Poi la punta della mia pala batté sul legno della bara. Il rumore che ne venne fuori fu graffiante e assordante. Dissotterrai del tutto la cassa e mi calai nella buca. Con un cacciavite e un trapano, rimossi i chiodi che tenevano chiusa la tomba. Non la spalancai, anche se una sorta di debolezza lasciva mi prese allo stomaco, e le mie braccia tremavano dalla voglia di rivedere il suo volto.
    Ritornai in superficie e osservai la fossa che avevo scavato. Un metro di pendio all’incirca. Quando Micol si fosse rianimata…
    Ma dovevo seguire il rito. Un’ultima occhiata all’orologio. Le due e un quarto. Dovevo agire, e in fretta.
    Scavalcai per uscire dal cimitero, tornai alla macchina e presi con me il secchio pieno di sangue. Quindi tornai alla tomba. Nella cassetta degli attrezzi c’erano anche una tavoletta di legno abbastanza larga, della carbonella, fogli di giornali e un accendino. Presi un pennellino, lo intinsi nel sangue e cominciai a scrivere su un lato del pezzo di legno.

    Micol Sartri.
    27/03/2018


    Poi dipinsi una figura stilizzata di Micol, facendo attenzione a cogliere gli aspetti particolari del suo viso – l’ovale allungato della testa, la fessura stretta degli occhi, il naso lungo e regale. Poggiai il pezzo di legno a terra, aspettando che il sangue si seccasse, e intanto cominciai ad accendere il fuoco. Bastava qualche fiamma, non era necessario un falò sfolgorante. Ci impiegai qualche minuto. Nel frattempo, la scritta si era fissata sul legno. La guardai nella luce della torcia, e le lettere scure e frastagliate mi parvero contenere un segreto oscuro.
    Quindi voltai la tavoletta di legno e cominciai a scrivere anche sull’altro lato.

    Charon transitus, mihi aperi tuas immensitatis. Vitam pro vita tibi do.


    Fatto questo, contai i due minuti che mancavano alle due e mezza. Il buio era fitto e assoluto, se non per la luce giallastra della torcia e il rifulgere timido del fuoco. Tutt’attorno, la danza di un’accolta di ombre.
    Quando fu il momento, gettai la tavoletta nel fuoco e cominciai a recitare: «Charon transitus, mihi aperi tuas immensitatis. Vitam pro vita tibi do». Lo dissi a voce alta la prima volta, e quando lo ripetei stavo quasi urlando. Il fuoco consumava la tavoletta di legno in maniera repentina; trenta secondi, e non era rimasto che un mucchio di cenere.
    E allora qualcosa accadde. Il mio cervello precipitò in un oblio vaporoso, i miei sensi si addormentarono e i contorni del mondo sfumarono nell’incertezza. Era un po’ come l’effetto di una sbronza. Ma, in quello stato di incoscienza, c’erano voci… suoni che non saprei descrivere, e un grande stridio, e un rumore rombante che era come vento. Tutte sensazioni che non giungevano direttamente alle mie orecchie. I suoni parevano essere sotto di me, ma anche al di sopra della mia testa, o ai miei lati… forse erano dentro di me, come il risuonare di un universo nascosto.
    Tornai in me con l’udire di un tonfo. Una scossa elettrica attraversò la mia schiena. Il coperchio della bara si stava sollevando.
    E la vidi venir fuori. Si tirò su sulle gambe e potei sentire tutte le sue ossa scricchiolare dopo i mesi di immobilità. La felicità mi inondava il cervello; una sensazione d’amore che mai avevo provato prima mi gonfiava il cuore. La sua faccia… brandelli di pelle cascanti e terra nelle piaghe della decomposizione. Un colorito grigiastro le invadeva le guance. Si arrampicò e tese le mani verso di me. Aveva le unghie sporche di terra, i vermi le avevano mangiato il dorso della mano e s’intravedeva il reticolo delle ossa. Mi guardò negli occhi. Il suo sguardo era buio e bieco, eppure luccicante di una conoscenza che veniva da mondi insondabili…
    Mi abbracciò, e io risposi alla sua stretta. La zaffata che mi aggredì le narici sapeva di terra marcita e pelle vecchia… ma fu come il profumo di agrumi per il mio cuore. Tra i nostri corpi, i vestiti e il sudario che era rimasto appicciato alla sua camicetta, ma potevo sentire le sue carni sgretolarsi al mio tocco… la freddezza delle sue dita.
    Avvicinò la bocca al mio orecchio, emettendo un fiato roco e gelido, appena udibile.
    Mi sussurrò segreti che solo una donna morta può conoscere.
    Mai delle parole ebbero un tale potere evocativo. Suoni turpi, che si distorcevano vibrando attraverso le sue corde vocali già rotte, si trasfiguravano in immagini precise, in sensazioni che avvolgevano ogni sfera sensoriale. Vidi, e sentii.
    Le decine di occhi che si frangono sul volto del Guardiano, e il ghigno che si apre sulla sua bocca color sangue e squamata quando nuove anime si accingono alla sua fila infinita. E le Forze che danzano nel vento e lanciano suoni stridenti, e il meccanismo infernale che ruota in maniera distorta senza posa, e il Nero Assoluto che circonda quel palcoscenico di terrore…
    L'orrore montava nel mio petto come un vortice. Le mie gambe si erano fatte cera sciolta e mi ero lasciato cadere a terra; la bocca di Micol non si staccò dal mio orecchio e anche lei si accasciò, seguendomi a gattoni nella sua caduta. L’odore di terra marcita nelle mie narici era così denso che pareva aver impregnato il mondo.
    Lei pose le sue dita gelide sulle mie. Una cascata di pelle morta tra le fessure delle mie dita. O forse era solo terra.
    Poi il suono nelle mie orecchie cambiò. Non più parole, per quanto gracchianti e distorte, con quella magica facoltà di evocare immagini e sensazioni nitide… Ora la sua bocca riecheggiava i suoni infernali di quell’altro Universo. Il vento che investe le anime dannate, un suono rombante in cui i lamenti e il dolore si perdono, e divengono solo frammenti rovinati, sofferenza individuale che si mescola al flusso incurante di quell’Universo.
    Già le frasi del De Vermis Mysteriis mi avevano impressionato per la loro precisione e le parole distorte di prima si erano tramutate in immagini vive nella mia mente. Ma non era nulla rispetto a quell’eco di un Universo forse inarrivabile, eppure così prossimo…
    Micol strinse più forte la presa sulle mie dita.
    E allora il terrore mi sopraffece. Urlai e con un balzo mi tirai indietro dal rimbombo di quei suoni. Per un attimo ancora guardai i suoi occhi. L’immagine si è stampata come un fulmine al centro della mia testa; mi basta chiudere gli occhi e quello sguardo torna a perlustrare gli anfratti più segreti della mia anima.
    Occhi torvi, che apparivano senza vita, a guardarli frettolosamente. Ma più in fondo, lì dove lei voleva condurmi, c’era il riflesso di ciò che stava accadendo dall’Altra Parte.
    Scappai dal cimitero e tornai in macchina.
    Questo è accaduto tre giorni fa. Ho solo vaghi ricordi e sensazioni delle ore trascorse da quel momento ad adesso. Il terrore, soprattutto. Un fuoco che carbonizza i miei ricordi e la mia essenza. Non è svanito, ma stamattina mi ha concesso una breve tregua e mi ha permesso di tornare in me.
    Ero nel mio letto, sudato e sporco. Una bruma fitta mi oscurava la memoria. Mi sono alzato, dolorante, e quando le mie ginocchia hanno scricchiolato per la lunga dormita, ecco che alla mia mente si è presentata l’immagine delle ossa crepitanti di Micol. Allora ho ricordato tutto. Ho fatto sì che l’orrore non mi vincesse, questa volta, e sono corso al mio studio. Il De Vermis Mysteriis era ancora lì, con le sue lettere dorate più fulgenti che mai.
    Ho acceso un fuoco nel camino e, quando è diventato grande abbastanza, ci ho buttato dentro il libro. Nel giro di un minuto, il fuoco si è spento. Il manuale è rimasto integro – nemmeno il segno di una strinatura agli angoli delle pagine. Allora ho nascosto il manuale – dove, come già affermato, non lo dirò.
    E adesso sono di fronte a una decisione. Sopravvivere, con la consapevolezza del terrore che mi aspetterà una volta che il mio corpo sarà senza vita e il tormento che rosicchierà il mio cervello per gli anni che mi mancano; o porre fine a tutto già adesso, affrontando subito il mio destino.
    Le due possibilità mi paiono entrambe raccapriccianti. Ho una sola domanda che mi girovaga per la mente da quando sono sveglio.
    Cosa sono gli anni che mi restano, di fronte alla corrente infinita di quel vento?
    E la domanda non fa che riannodare ancor di più il groviglio nella mia testa.
    Se deciderò di sopravvivere, allora riprenderò questo commentario e lo aggiornerò con le mie ultime sensazioni, cosicché si mantenga memoria della mia esperienza.
    Se la mia decisione sarà diversa, queste saranno le mie ultime parole.

    Edited by Erein Uzuki - 26/10/2018, 21:47
  4. .
    CITAZIONE (Emily Elise Brown @ 13/10/2018, 23:38) 
    È davvero così importante sapere in cosa si trasformerà?

    Penso sia meglio che sia il lettore ad immaginarselo :P

    Io sono d'accordo, essendo una creepypasta non mi aspetto una spiegazione ma l'effetto sorpresa. Qui c'è, e il resto si può immaginare :)
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    Seguo. Per ora mi piace. :)
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    Nicola sembrava emaciato. Seduto a uno dei pochi tavolini del bar, teneva lo sguardo basso e con il dito raccoglieva la polvere in eccesso. Lui e Stefano si vedevano sempre più di rado: dal loro ultimo incontro era passato un anno esatto. In quell’occasione, Stefano l’aveva trovato in forma, un uomo solido e forte. Adesso suo cognato aveva perso almeno dieci chili. La pelle flaccida penzolava sulle sue guance come un sipario decrepito mosso dal vento; ai lati degli occhi si aprivano decine di grinze. Il motivo poteva essere sua figlia: Marta aveva sei anni, ormai. Doveva essere faticoso badare a lei.
    «Allora, Nico’? Come va?» cominciò Stefano. Era sempre difficile rompere quel silenzio ghiacciato. Stefano provava un imbarazzo che gli rendeva la voce tenue.
    Nicola alzò la testa dal tavolino. «Ciao, Stefano». Aveva occhi piccoli e infossati, e sbiaditi. Come se su di essi si fosse adagiato un velo di pioggia.
    «Che hai?»
    Nicola non rispose. Si limitò a guardarlo dal basso, le labbra appena dischiuse e il volto tutto tremante.
    Stefano non insisté. Non era una buona giornata nemmeno per lui. Scrutò la giacca camicia sporca di terra e i pantaloni lisi del cognato. «Hai intenzione di venire vestito così al…»
    «Si tratta di Elisa». Quando ebbe parlato, Nicola si portò la tazzina di caffè alle labbra e la mandò giù in un solo sorso. Le dita gli tremavano, e anche le labbra. Un rivolo scuro colò lungo il mento.
    Stefano si era interrotto a bocca aperta. Le parole gli erano rimaste incastrate in gola come spine. «Elisa?»
    «Sì. Te ne ho già parlato l’altro giorno. Dovresti ricordarlo. È tua sorella, faresti bene a preoccuparti anche tu per lei». Per un attimo, gli occhi di Nicola rilucettero come un fuoco rabbioso, violento. Poi precipitarono di nuovo nella vacua oscurità.
    «L’altro giorno?» Stefano cominciava a sentire freddo. Un senso di vaga inquietudine si allargava nel suo petto.
    Nicola tacque. Di nuovo quella collera incandescente nel suo sguardo. «Sì, l’altro giorno. Non fingere di averlo dimenticato».
    Stefano non riusciva a parlare. Aveva la gola riarsa, la lingua secca e incapace di articolare parole sensate.
    «Comincia a vomitare. Sempre più spesso. E non mangia per niente. Sta dimagrendo… sta dimagrendo tanto. Troppo». Alzò un mignolo a mimare la sagoma di Elisa.
    «Nicola, Elisa è…»
    «Cancro allo stomaco. È questo che dicono i medici. Se non troviamo dei soldi per portarla a Roma e farla operare… Le hanno dato sei mesi di vita». La voce di suo cognato si andava spegnendo sempre più ad ogni parola pronunciata. Era una voce secca e roca; delle unghie che strisciano contro il tronco di un albero. «Dove pensi che troveremo questi soldi?»
    Stefano non ebbe la forza di rispondere. Il senso di inquietudine si era acuito. Gli sembrava che, al posto del sangue, nelle vene circolasse petrolio. Poteva sentire l’aria sibilare nei suoi polmoni e fuoriuscire dalle narici come un ansito pesante.
    «Una colletta, pensavo». Nicola non stava parlando a lui. Lo guardava, ma con occhi spenti, in cui solo a tratti scoppiavano quei lampi di rabbia. Sembrava rivolgersi a qualcuno dietro Stefano, o forse a qualche spettro. «Io e te potremmo mettere insieme la metà dei soldi. Cinquantamila. Ti ho detto che il totale è centomila?»
    «No» bisbigliò Stefano. La voce era sfuggita al controllo della sua mente.
    «Be’, ora lo sai». Nicola ridacchiò – una risata appena accennata e sussultante, del tutto normale. Stefano sentì la pelle delle braccia che si increspava e un brivido profondo conficcarsi nella nuca. «Potremmo chiedere a don Antonio di organizzare una colletta per racimolare gli altri cinquantamila. Che ne dici?»
    «Una colletta». Ora il gelo era penetrante e totale. Sua sorella. Ancora. Si sentiva catapultato in un terribile incubo.
    Nicola tacque e lo scrutò. La smorfia sul suo volto si contrasse: il naso si arricciò, un lato della bocca si piegò di lato e verso il basso. Una goccia di caffè stillò dal mento sulla sua camicia già macchiata. «Mi stai ascoltando?»
    «Sì» disse Stefano. La voce gli venne fuori flebile, soffocata dal suono del suo cuore che rimbombava nelle orecchie.
    «Dovresti affrontarlo. Stai facendo finta che non stia succedendo niente. Non è così che le cose andranno a posto». Lo guardò negli occhi. Forse si attendeva una risposta. «Io ho Marta. Non è facile neanche per me. Lei… piange ogni giorno. Elisa urla dal dolore, e Marta comincia a piangere. A volte ho paura di impazzire, a stare dietro a entrambe».
    Stefano guardava Nicola. Sentiva i lineamenti del volto duri e paralizzati. C’era odore di disinfettante tutt’attorno a loro. Stefano poteva sentirlo, annusarlo in tutta la sua corposità.
    «Sai una cosa, Stefano? Vaffanculo. Me la vedo da solo. È tua sorella, e invece di pensare a qualcosa mi guardi come un imbecille e stai zitto». Si alzò di scatto e urtò il tavolino con le gambe. La tazzina di caffè precipitò a terra e si infranse con un unico rumore secco. «Vaffanculo» disse ancora. La sua voce adesso era imprigionata tra le lacrime.
    Nicola lasciò il locale e Stefano lo guardò andar via. Quanto era durata quell'incontro? Non si era nemmeno seduto al tavolino. Era rimasto in piedi tutto il tempo.
    Ma c’era stata davvero quella conversazione?
    Dal vetro inzaccherato del bar, Nicola vedeva il sole invadere la piazza lì vicino. L’odore del disinfettante pareva essere svanito, ma rimaneva un fondo agro a impestare le sue narici, un indistinto odore chimico. Il freddo non si era dissolto, però. Come se un unico blocco di ghiaccio avesse inglobato la sua figura.
    Mario, il titolare del bar, gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. «Pover’uomo. Sono tre anni oggi, giusto?»
    Stefano assentì con la testa quattro volte.
    «Dev’essere stato tremendo. Elisa era una grande donna. È un peccato che quel tumore l’abbia portata via. Crescere la bambina da solo, poi…» Fece un sospiro, scrollò la spalla di Stefano e si chinò a raccogliere i cocci della tazzina da caffè.

    Edited by Annatar - 13/7/2018, 21:47
  7. .
    Davvero bella. Gioca molto sulle sensazioni e ti fa vivere la scena, è ben strutturata e fa paura. Bravo!
  8. .
    Tre ragazzi scomparsi e nessuna traccia. Questo, oltre ogni altra considerazione, era tutto quello che quelli avevano. Non sarebbero giunti alla soluzione in questa maniera.
    Già la prima scomparsa aveva lanciato il paese su tutte le pagine dei giornali regionali, ma era con gli altri due ragazzi che il clamore aveva assunto dimensioni clamorose. Televisioni, opinionisti, criminologi: tutti ne avevano parlato. Era inevitabile che il caso fosse stato affidato alla polizia di Stato e non a lui, soprattutto quando la notizia era rimbalzata sui giornali, ma Borghi provava fastidio. Niente contro i suoi colleghi, che semplicemente svolgevano il loro lavoro, né contro chi gli aveva sottratto il comando delle indagini. Solo che lui aveva indagato sulla prima scomparsa, lui aveva tentato di trovare un sentiero percorribile in quella strada così misteriosa, e adesso a indagare c’era qualcun altro.
    Con quali risultati, poi?
    Stava percorrendo con la sua Panda la strada che correva in mezzo al bosco, dirigendosi verso il paese. Nelle ultime settimane il paese era stato invaso dai giornalisti e stare in mezzo a loro, o anche solo a casa con la consapevolezza che quelli lo aspettavano sotto il portone, si era fatto insopportabile. E poi quelle passeggiate in auto lo aiutavano a pensare. Lì c’era l’aria più buona che avesse mai respirato.
    Davanti a lui la strada si dipanava in curve e dossi. Ai lati si apriva il bosco, digradando verso il basso, sempre più folto. C’erano fossi e buche in ogni punto dell’asfalto. Il guardrail era arrugginito e ammaccato, e a tratti interrotto. Lì la strada si affacciava a strapiombo sugli alberi. Nel cielo c’era il sole di mezzogiorno, alto e secco.
    Avanzava lentamente, il finestrino aperto, lasciando che l’aria entrasse e circolasse nella sua mente, a rischiarare un po’ le tenebre fitte lì dentro. Ma non aveva effetto. Nessuna ipotesi davvero percorribile e un campo sterminato di possibilità che gli si stendeva davanti.
    I ragazzi avevano tutti tra i tredici e i quindici anni. Il primo era scomparso una mattina di tre settimane prima. Era uscito di casa per prendere l’autobus che l’avrebbe portato al liceo, in città. Ma i suoi compagni non l’avevano visto sul mezzo. Il suo zaino era posato su un muretto, vicino alla fermata del bus, a pochi metri dalla strada sterrata che si gettava nel bosco. Ma lui non c’era, e i giorni di ricerca erano stati vani.
    Poi era toccato a una ragazza. I genitori l’avevano vista uscire di casa alle sei e mezza di pomeriggio e le amiche la aspettavano al bar del paese alle sei e quaranta. Non era arrivata. Solo dieci minuti, ma sufficienti perché una ragazza sparisse nel nulla, senza dare segnali e senza lasciare tracce… e nessuno aveva visto nulla.
    Questo era accaduto otto giorni dopo la scomparsa del primo ragazzo. Dopo questo episodio, i carabinieri locali avevano serrato il controllo sul paese e la questura aveva affidato le indagini al commando regionale. Borghi aveva tentato di dare il suo apporto ai nuovi arrivati, ma non c’era stato nulla da fare.
    Solo quattro giorni prima, con le forze dell’ordine sparse per la città e i nuovi arrivati che sondavano il terreno per le indagini, era sparito il terzo ragazzo. Borghi lo conosceva bene e sapeva che aveva un rapporto di amicizia con il primo ragazzo scomparso. L’intuizione aveva gettato una luce ancora più oscura sulla vicenda.
    Intanto, l’asfalto si stava trasformando in ghiaia e cemento. Era la parte più consumata della strada, quella che più si avvicinava al paese. Forse, con la popolarità che si stava vivendo, avrebbero asfaltato anche quel tratto.
    Borghi aveva scandagliato qualsiasi possibilità. I ragazzi potevano essersi allontanati spontaneamente… ma perché? Non erano emerse problematiche con i genitori né avevano confessato qualcosa agli amici. Soprattutto, l’idea che tre ragazzi decidessero di svanire da un momento all’altro, in una comunità di settecento persone, era poco convincente.
    Allora si era insinuata nella sua mente l’ipotesi di un rapitore, o di un assassino seriale. Aveva tentato di trovare una sorta di filo conduttore che legasse i tre ragazzi – qualche legame che avesse spinto l’assassino a rapirli uno dopo l’altro – ma non ne aveva trovati. C’era solo l’amicizia tra il primo e il terzo. Era una cosa disturbante. Chissà perché, la mente di Borghi tornava sulla stessa ipotesi: il terzo ragazzo era giunto a un passo dalla verità e qualcuno aveva deciso di fermarlo. Un presentimento insensato, ma ossessivo, che gli ravvivava le braci recalcitranti che aveva nel cervello. Lui non era riuscito a intuire nulla, quelli della regione parevano in alto mare: come poteva un ragazzino avvicinarsi alla soluzione?
    A un certo punto, Borghi notò qualcosa e accostò. La strada era ricca di sentieri e straducole che si inoltravano nel bosco e conducevano a chissà quali fontane, ma quello che si apriva alla sua sinistra gli pareva di non averlo mai visto. C’era un’apertura di un metro o poco meno tra gli alberi, in un punto in cui il guardrail si interrompeva. Al di là del varco, Borghi riusciva a scorgere la luce che penetrava tra le fronde e le erbacce insinuate tra il terriccio, ma solo per qualche metro. Non immaginava cosa potesse trovarsi oltre quel breve ritaglio di terra che riusciva a intravedere, perché il sentiero gli era del tutto nuovo.
    O forse era sempre esistito?
    Ne dubitava. Era cresciuto nel paese e aveva giocato tra i suoi alberi fino a conoscerne ogni angolo a memoria. Da ragazzo, quando nemmeno la seconda parte della strada era asfaltata, imboccava la via sterrata e camminava per due chilometri prima di incrociare il primo sentiero che lo portasse nel cuore del bosco. Questa apertura doveva trovarsi a non più di cinquecento metri dall’inizio del paese. Poteva già vedere il belvedere in bilico su un precipizio terroso e la cupola della chiesetta svettare sugli altri edifici.
    Ma le cose potevano essere cambiate negli anni. Percorreva ancora quella strada, ma lo faceva con minore attenzione – senza filare dritto fino al primo sentiero, col cuore in gola per la fatica di camminare su quelle salite. Andava dal paese alla città per fare compere e poi ritornava al paese, senza dar conto al numero e alla collocazione dei viottoli che si aprivano ai lati della strada principale.
    Eppure… no, non c’era mai stato. Ne aveva la convinzione, perché il suo occhio era abituato a quel paesaggio e ne avrebbe colto qualsiasi cambiamento, nonostante la sua mancanza d’attenzione. Ma il sentiero ora era lì.
    In quel momento si rese conto che c’erano delle impronte sulla terra, appena prima dell’imbocco della straducola. Passi confusi, forse due o tre paia di piedi. Alcune erano più fresche. Tutte continuavano oltre l’imbocco del sentiero, fin dove il suo sguardo riusciva ad allungarsi.
    Borghi sentì il cuore gonfiarsi fino a riempirgli il petto e un’esplosione di adrenalina correre per tutti i vasi sanguigni. Un sentiero sconosciuto, delle orme stampate che vi si immettevano. Poteva essere un inizio.
    Spense la macchina di fronte al sentiero e scese a terra. Il sole era sempre alto su di lui, e le ombre degli alberi erano tozze. La terra su cui erano impresse le orme pareva disseccata e arsa dal sole. I rami degli alberi creavano una sorta di arco striminzito, un passaggio per introdursi nella stradina. Borghi dovette chinarsi per oltrepassarlo.
    L’ambiente era tipico di quei boschi. La vegetazione verde e fitta, i tronchi imponenti e scuri, riarsi, su cui si arrampicava il muschio. Il sole penetrava a fatica tra le foglie e, poco dopo l’accesso del vialetto inondato di sole, sullo sterrato si stendeva una griglia ombrosa.
    Ma c’era qualcosa di diverso. Qualcosa di strano… di mancante. Borghi si girò immediatamente e per un attimo il varco da cui era entrato sembrò essere svanito. Solo rami e foglie fitte tutt’attorno a lui. Poi si accorse che c’era. Sembrava addirittura più stretto e basso di quanto gli fosse apparso prima, quando l’aveva scorto per la prima volta dalla strada e poi quando l’aveva attraversato. Non c’era da stupirsi che non l’avesse mai notato prima.
    Guardò davanti a sé. Il terriccio sembrava continuare per chilometri: nessuna casa, né fiumi né capannoni o fontane che si scorgevano lungo quel sentiero. C’era soltanto quella stretta strada in terra che si dipanava all’infinito. Però ai lati poteva aprirsi qualche ulteriore stradina. Una mulattiera, ingoiata tra gli alberi, e da quella parte un pozzo in cui gettare dei corpi, o dei massi con cui coprirli… Le cose cominciavano a mettersi al posto giusto. Borghi tastò la pistola d’ordinanza nella fondina.
    Camminò per una decina di minuti. Il sole era alto nel cielo – riusciva a intravederlo tra la scacchiera di foglie. L’aria era calda e umida. E c’era qualcosa di strano. Solo una sensazione che pulsava sommessamente nel fondo del petto. Non vide stradine dispiegarsi ai suoi lati. Il bosco pareva una coltre scura e inaccessibile; solo un sentiero lungo e tremulo ad attraversarlo. Un sentiero che pareva proseguire fino a quando l’occhio non lo perdeva di vista, sboccando sul nulla.
    Doveva tornare indietro. Poteva essere pericoloso inoltrarsi nel folto del bosco, con tutti quegli alberi dietro cui poteva celarsi qualcuno, quella vegetazione compatta a nascondere minacce sconosciute. Aveva trovato un traccia fondamentale per l’avanzare delle indagini, ma adesso non doveva fare l’eroe. Era tra le prime cose che imparavi, a fare questo lavoro. Si voltò e camminò verso l’accesso del sentiero. L’afa offuscava il paesaggio davanti a lui, e al di là di qualche centinaio di metri Borghi non vedeva che immaginarie pozzanghere d’acqua.
    Proseguì per qualche minuto, ma il paesaggio non mutò. Il varco d’accesso al sentiero non si intravedeva nemmeno a distanza. Continuò a camminare, fino a quando un doloroso crampo cominciò a tirare i suoi muscoli, proprio in mezzo alle spalle. Doveva essere quasi giunto a destinazione… ma allora perché la sua meta rimaneva invisibile? Stirò i muscoli e controllò l’orologio. Segnava l’una in punto. Quando era entrato nel sentiero, doveva essere passato mezzogiorno da qualche minuto. Era trascorsa quasi un’ora, quindi, ma il sole pareva non essersi mosso da quella posizione, fisso al centro del cielo.
    In quel momento il panico inondò il suo cervello, il terrore gli riempì le vene di veleno. Cominciò a correre. Le gambe scoordinate inciampavano sullo sterrato, i piedi bruciavano a contatto con la terra bollente e presto cominciò a sentire caldo dentro di sé, come se i polmoni e lo stomaco fossero immersi nell’acqua bollente.
    Si fermò e si accasciò al suolo. Forse aveva sbagliato strada. Aveva pensato di essersi voltato nella direzione giusta, ma aveva semplicemente proseguito dritto, ingannato dal fatto che la strada si distendesse allo stesso modo in entrambi i versi. Era per questo che non trovava più l’accesso. Adesso avrebbe ripreso fiato, recuperato la calma e sarebbe tornato verso l’apertura del sentiero. Poi avrebbe radunato una squadra, o informato i capi…
    Si rialzò a fatica. Le gambe erano già indolenzite, i muscoli della schiena anchilosati. Il sudore gli si era seccato sul collo e gli aveva appiccicato la camicia alla pelle. Il sole nel suo zenit sembrava sempre più abbacinante, benché gli alberi filtrassero la luce.
    Si voltò e riprese a camminare, barcollando. L’aria attorno a lui pareva troppo densa. La sensazione era quella di camminare nell’acqua. Ai suoi lati, gli alberi erano una massa compatta e impenetrabile.
    Ecco cosa manca, realizzò poi. Gli insetti. Non ho sentito il loro ronzio da quando sono entrato qui. E non sono venuti a posarsi sul mio sudore. Eppure non mancano mai.
    Ma poi il pensiero gli sfuggì, e camminò ancora nell’aria umida.

    Il sole cadeva ancora a picco su di lui quando fu costretto ad accasciarsi, spossato. Si era girato innumerevoli volte per cambiare strada, e innumerevoli volte non aveva incontrato che il bosco fitto ai suoi lati e il sentiero terroso di fronte a sé. Se quando si era introdotto in quel passaggio si era ritrovato immerso in una cascata di luce, adesso da tempo indicibile si ritrovava intrappolato in quei riquadri d’ombra.
    Intrappolato. Era la parola giusta. Intrappolato, chiuso in una bocca che l’aveva prontamente ingoiato e adesso indugiava a masticarlo e si gustava il freddo terrore nelle sue vene…
    Si rigirò nel terreno e la polvere gli entrò nelle narici. Tossì. Almeno non c’erano gli insetti. Poi si voltò e guardò il cielo e il sole.
    Sarebbe mai giunto il tramonto?
    Tutto era fermo attorno a lui. Niente vento – un altro elemento mancante in quel territorio immobile; nemmeno il suono di un ruscello in sottofondo, che era così frequente incontrare in quei sottoboschi. Non provava fame o sete: nulla di nulla. Pareva che i suoi sensi avessero perso acutezza.
    Provò a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi al sonno – o qualcosa di più profondo. Non ci riuscì, nonostante la spossatezza dei muscoli.
    Intrappolato per sempre in quel sentiero, col sole infinito di mezzogiorno, lo sguardo a perdersi e a intontirsi dietro quei riquadri di luce e ombra…
    Forse il bosco poteva salvarlo. Era così vicino… così nero. Il tuo sguardo si poteva perdere lì dentro e potevi annusare la paura sulla tua pelle, ma tutto era meglio di quel monotono labirinto.
    Si risollevò con un ultimo sforzo e si infilò tra due alberi vicini. Forse i suoi rami gli sfiorarono le braccia. Cadde subito dopo, la testa già immersa tra la vegetazione.
    Poi venne la penombra, e nella penombra poteva scorgere la compattezza immobile del bosco. Il sonno non arrivò. Non l’avrebbe fatto mai.

    Edited by Tommas02 - 18/6/2018, 00:23
  9. .
    Arrivò nello studio con le gambe che sembravano inutili borse d’acqua gelida e quasi inciampò sull’uscio. Sbatté la porta alle sue spalle e ci fu un rumore rintronante. Prima che questa si chiudesse, riuscì a intravedere Loris. Era a pochi metri di distanza e avanzava ancora con la sua camminata monotona e goffa.
    Miriana si lasciò sfuggire un singhiozzo. Quella cosa… il modo in cui l’aveva preso…
    Giovanni aveva solo sollevato lo sguardo dalla sua sedia dietro la scrivania. Adesso era immobile, un’espressione dura e un po’ perplessa sul viso. La mano intenta a scrivere si era bloccata sul foglio e il bagliore della sua sigaretta si stava attenuando. Diede un breve tiro e il rossore si ravvivò. Poi si sfilò la cicca dalla bocca. «Miriana?»
    Lei si sentì sciogliere. Era stata una questione di poche decine di secondi, ma la paura le si era condensata nella testa. Adesso le stava colando addosso, invadendole tutto il corpo. La durezza sull’espressione di Giovanni svanì, e rimase solo la perplessità. Si alzò e la raggiunse. «Cosa c’è, tesoro?» disse, stringendola tra le braccia. Le posò una mano sulla spalla nuda e lei rabbrividì.
    «Qualcosa… qualcosa uscito dai muri…» disse tra i singhiozzi. Poi il pianto la sopraffece e Miriana si tuffò nel petto del marito. La colse un altro brivido di disgusto: l’immagine era ancora stampata nel suo cervello.
    La camicia di suo marito odorava di fumo. L’intera stanza sapeva di fumo: adesso che se ne rendeva conto, respirare si era fatto faticoso. Forse era solo quel che aveva visto a creare quell’effetto – aveva sentito sin dall’inizio come i suoi polmoni si fossero appesantiti, ridotti a due blocchi di pietra rigidi e chiusi, no? E c’era quella sensazione di disgusto, come una mazzata nello stomaco. Ma anche suo marito che la stringeva forte…
    L’aria era calda e rarefatta. Il cuore le palpitava e i suoi battiti parevano ostruirle il respiro. Cominciò a boccheggiare.
    «Vieni, sediamoci» disse Giovanni. La sollevò e la portò verso la poltrona dello studio. Vi si accomodò per primo e si sistemò Miriana sulle gambe. «Raccontami. Che è successo?»
    Lei respirò a fondo. I contorni del mondo cominciavano a ridefinirsi. Non cessò di piangere, ma almeno i singhiozzi si erano diradati e le consentivano di parlare. «Stavo giocando con Loris a pallone nel salotto. A un certo punto il pallone si è infilato sotto una sedia. Lui si è chinato, è strisciato contro la parete per recuperarlo e io… Ho visto qualcosa che veniva fuori dalle pareti. Qualcosa di breve e ondulato… qualcosa come un verme, ma non era un verme… forse più simile a…» Un altro singhiozzo le scosse il petto. Simile a cosa? Era in grado di rivivere a memoria la scena – il riso che si tramutava in terrore fissato sul suo viso, il gelo che le bloccava il sangue – ma descriverla era un altro conto. Non ne era in grado. Non poteva dire a cosa fosse simile quel verme, perché non assomigliava a nulla di conosciuto. «Sì, una specie di verme. Solo che era metallico. O almeno il colore… l’ho visto brillare contro luce. Si è annodato intorno al polso di Loris e lui ha fatto un gemito. Poi il verme gli ha scavato la pelle e si è infilato sotto». Un altro singhiozzo. Le lacrime si stavano seccando sulle sue guance.
    «Una cimice» disse Giovanni. «Può capitare che ci siano. Si infilano sotto pelle, non lo sapevi?»
    «Non era una cimice!» gridò lei. Fu un urlo tremante, acuto. A udire il suono della sua voce, ebbe un altro tremito e si strinse forte contro il corpo di suo marito. «Le cimici non hanno quel colore metallico. E poi era più lunga. Non so cosa potesse essere…»
    «Ti stai preoccupando del nulla, tesoro» La voce di Giovanni era piatta, come se ad animarlo ci fosse una placida dolcezza. «Alcuni insetti fanno cose del genere, e uno di quelli si è infilato nella pelle di Loris. Adesso fallo entrare, così glielo…»
    «No! Quello non è Loris! Come fai a non…» Le lacrime stavano di nuovo affiorando. Non poteva piangere ancora. Forse adesso Giovanni la stava considerando una pazza per quello che stava dicendo e il suo terrore poteva apparire insensato. Doveva reggere, e spiegargli cosa era successo. Forse in due sarebbero stati in grado di affrontarlo. Ma in quel momento, da sola, si sentiva piccola piccola, coma una bimba sperduta nel folto del bosco. «Ascoltami. Non avevo finito.
    «Quando quella cosa ha scavato nel suo polso, Loris ha tremato. No, no… è stato come se una scarica elettrica l’avesse attraversato. Si agitava, tutto convulso, batteva le gambe a terra. È durato qualche secondo. Poi è tornato normale. Ed è scivolato via da lì sotto, strisciando a terra, lentamente. Molto lentamente. Poi si è rialzato e mi ha guardato per qualche secondo, e c’era qualcosa di strano nel suo sguardo…» Sentiva di nuovo che le parole gli stavano mancando. Non avrebbe saputo descrivere lo sguardo di Loris in quel momento. Era assente, come se una profonda oscurità l’avesse assorbito per succhiare via la sua vitalità. Il racconto gli stava facendo sussultare qualcosa nello stomaco. Quell’aggrovigliarsi nervoso lì giù rendeva il tutto più reale. Forse poco prima poteva ancora illudersi che fosse stata tutta una visione tremenda e immaginosa, ma adesso ogni dubbio era svanito. Continuò. «Era da qualche altra parte, in qualche modo. “Come va?” gli ho chiesto, e lui non mi ha risposto per qualche secondo. Poi ha detto “Tutto bene”, ma l’ha detto con una voce strana». Come se anche la sua voce si trovasse da qualche altra parte e a parlare fosse solo l’aria stantia che correva nella sua trachea. Ma non lo disse. «Poi mi sono resa conto di una cosa. Loris è scivolato lì sotto per recuperare il pallone, ma quando si è rialzato ha lasciato il pallone sotto la sedia».
    Calò il silenzio. Miriana ne approfittò per recuperare fiato. Se si staccava da Giovanni, si sentiva scoperta e indifesa e la sua pelle si increspava dai brividi. Era la stessa sensazione che si sente quando ci si ritrova un ragno tra i capelli, lo si scaccia schifati e poi si ha l’impressione di averne uno in ogni punto del corpo. Sì, proprio quella sensazione: un formicolio disgustoso che ti fa impazzire. Ma anche nella stretta molle di suo marito si sentiva a disagio. Provava una certa ripugnanza, uno strana voglia di fuggire di lì. Per dove? Non importava. L’importante era andarsene via, allontanarsi dalla cosa che si era presa suo figlio e dimenticare.
    «Secondo me non ti dovresti preoccupare così. Forse qualcosa si è infilato sotto la sua pelle e Loris si è spaventato. È solo un bambino».
    «No. Era qualcosa di diverso. Ho la sensazione che sia salita direttamente verso il cervello, e che adesso sia quella cosa a comandarlo. Che quel verme... quella cosa grigia si sia impossessata del nostro bambino».
    «Ma no, tesoro». La voce di Giovanni si manteneva sulla stessa tonalità – monotona come le onde del mare durante la bassa marea. La cosa la irritava. Lei era in preda al panico e lui faceva queste prediche stupide con la sua voce calma.
    «Solo perché tu non hai visto quella cosa che lo prendeva…» sussurrò Miriana. Solo dopo si accorse di averlo pronunciato ad alta voce.
    In un altro momento Giovanni si sarebbe arrabbiato e da lì sarebbe nata una furiosa lite – non era uno che soprassedeva su queste provocazioni. Ma rimase in silenzio e la strinse a sé premendo le sue dita sulla sua pancia. Aveva la mano stranamente fredda e secca.
    Scoppiò di nuovo nel pianto e vi si abbandonò. Il sole nel quadrato della finestra era una sfera bianca e la luce che gettava nella stanza era abbacinante. Gli occhi le bruciavano per il pianto e per quel bagliore accecante. Perché a lei? Si sentiva così estranea a tutto… come se un velo di ghiaccio si fosse posato sulla sua anima. Ghiaccio che le permetteva solo di essere terrorizzata, e nient’altro. Ma le lacrime rendevano più facile abbandonarsi al racconto e Miriana continuò a narrare, tra un singhiozzo e l’altro. «Dopo essersi alzato, mi ha guardato per un po’. Poi ha cominciato a camminare verso di me. Mi sono subito accorta che era cambiato. A quel punto mi sono ricordata che avevo già visto quei vermi nei giorni passati. Sì, qualcuno l’avevo visto. Vengono dalle pareti! È da lì che sbucano fuori! E vogliono noi… si vogliono impossessare delle nostre menti, e comandarci. Questo l’ho capito solo adesso. Ma li avevo già visti. Ne sono sicura. Forse ho anche pensato di parlartene».
    «Ma non l’hai fatto». La solita voce atona.
    «No…»
    «Hai detto che è cambiato. Mi sai dire in che modo?»
    «Sì. I suoi occhi… te l’ho detto, erano assenti. E poi…» Si ammutolì e pensò. Non c’era stato nulla di concreto. Un lieve irrigidimento dei muscoli, una smorfia distorta sul viso che subito era sfumata in un sorriso vuoto. E la maniera in cui aveva cominciato a camminare verso di lei: una camminata sghemba, storta eppure regolare e cadenzata. Le aveva dato l’impressione di qualcuno che cammina per la prima volta sui trampoli e si sta ancora esercitando… o di qualche essere che deve abituarsi a nuove proporzioni, a un nuovo corpo. La voce, certo, con quell’armonia cantilenante e senza vita. Ma, più di tutto, era stato lo sguardo. Sugli occhi vispi di Loris era passata un’espressione stupida, che aveva avuto pochi secondi di vita. Poi, all’improvviso, quell’orma di stupidità si era dissolta ed era accaduto qualcos’altro: tutto l’amore nello sguardo di Loris era svanito. Miriana l’aveva sentito nel petto, un ruscello strozzato che muore stillando qualche ultima goccia. Al posto dell’amore, il gelido calcolo, il buio profondo in due orbite vuote.
    Avrebbe potuto spiegarlo a Giovanni. O provarci, almeno; ma tacque. Lui non avrebbe capito. In quel momento, suo marito voleva solo sbugiardarla. Faceva male. Si sentiva sempre più sola e piccola tra le ombre scure e incalzanti.
    «Se lo fai entrare, lui prenderà anche noi» disse Miriana.
    «Devi farlo entrare. Solo così capirai che è solo una stupida paranoia». Adesso il suo tono di voce era ancora più freddo e seguiva un ritmo regolare, quasi magico.
    «Come fai a non capire che finiremo come Loris?» piagnucolò lei.
    Giovanni la sollevò, si alzò e si diresse verso la porta. Miriana si ritrasse, ma quando sentì il contatto del muro contro la sua schiena urlò e tornò verso il centro della stanza. C'erano quelle cose, lì dentro…
    «Non aprire… ti prego…» mormorò.
    Poi Giovanni girò il pomello.
    Loris era lì dietro. Aveva aspettato lì per tutto quel tempo, senza nemmeno bussare. Aveva lo sguardo chino, ma quando Giovanni aprì la porta sollevò il capo e fissò suo padre. Fu un’occhiata lunga e inespressiva.
    Giovanni avrebbe dovuto scompigliargli i capelli e sussurrargli qualche parola – lo faceva sempre. Ma non lo fece. E fu quel gesto mancato che le fece stringere il petto: sentì il cuore contorcersi e ogni muscolo vibrare di dolore. Nella luce abbacinante, per un attimo, padre e figlio parvero due auree bianche e indistinte che svolazzavano nell’aria.
    Poi si voltarono entrambi e avanzarono verso di lei, uno deviando leggermente verso destra, l’altro verso sinistra. Camminavano nella stessa maniera sbagliata: le ginocchia un po’ piegate all’interno, le spalle irrigidite e bloccate, lo sguardo su di lei come a inseguire una preda.
    Si avvicinarono ancora, e ancora, tendendo le dita verso di lei. Miriana si ritrasse per qualche metro. Il muro alle sue spalle, loro due di fronte. Ancora un passo indietro.
    Erano passati pochi secondi quando udì che qualcosa scavava nella sua pelle. Provò dolore, all’inizio, e tremò tutta. Poi il dolore – ogni dolore – cessò, e fu di nuovo con loro.

    Edited by Tommas02 - 8/5/2018, 19:37
  10. .
    È un racconto che mi ha colpito, quindi lascio un commento ^_^
    Bene... Io parto dall'idea che un racconto debba reggersi sulle sue gambe, debba dire da solo ciò che vuole dire. Anche in un caso di finale aperto, non dev'essere l'autore a suggerire come andrà avanti la storia, e in ogni caso il lettore dovrebbe capire di cosa si sia parlato almeno fino a quel momento. Qui io non ho capito cosa stesse succedendo fino a quando non ho letto il tuo spoiler. L'idea è molto ambiziosa, lo capisco, e non so come avresti potuto renderla più esplicita. Scrivi anche bene, anche se, secondo me, in alcune espressioni vai un po' troppo sul "ricercato" e tralasci il concreto. Non è un vero e proprio difetto, perché è sempre bello leggere frasi originali, d'effetto. Però, ad esempio, qui:
    [QUOTE]un taglio verticale dal pube all'addome o viceversa, poiché non c'era un inizio o una fine, tutti punti erano stati varcati nello stesso istante da una grande lama[/QUOTE
    Hai usato tutto questo giro di parole per parlare di un taglio. E, personalmente, in quel punto mi sono chiesto: "ma cosa vuol dire?" e mi sono lasciato sfuggire qualche particolare utile magari per capire il finale del racconto. I periodi lunghi poi sono sempre molto difficili da affrontare, meglio spezzare con un punto ogni tanto.
    Però, te l'ho già detto, scrivi bene. Non in maniera banale. Spero di rileggerti con un'altra storia :)
  11. .
    #6

    Scoprimmo subito che il caldo torrido aveva indurito il terreno: le pale vi affondavano solo per qualche centimetro.
    «Cazzo, non ce la faccio» mi lamentai io dopo qualche minuto. Forse ero riuscito a rimuovere una decina di centimetri di terriccio, rimanendo generosi, e qualche breve fitta mi prendeva la spalla a ogni nuovo colpo.
    Nicola non rispose. Lui andava avanti con più vigore e aveva scavato quasi il doppio di me. Il viso era una spugna rossa grondante sudore. Non distoglieva gli occhi dal terreno, quasi volesse penetrarlo con lo sguardo e raggiungere suo fratello.
    Quando le fitte alla spalla si fecero più intense, e a ogni affondo nel terreno dovevo accompagnare un ansito, cedetti il mio posto a Marco. Mi sedetti a terra e guardai i miei amici continuare nel lavoro.
    Mi sembrava ancora di avere quel velo di sangue nel cervello. Nessun pensiero logico, comunque.
    Solo il terrore che quello sotto il terreno non fosse un animale, che a causare i colpi non ci fosse qualche altra causa che noi non coglievamo. Che lì sotto ci fosse Samuele.
    Il terrore che fosse vivo… in qualche modo.
    Quando il dolore alla spalla si acquietò mi scambiai di nuovo con Marco. Io continuai a scavare nel punto in cui, fino a quel momento, aveva agito Nicola; lui si mise al lavoro dove avevano scavato io e Marco.
    «Io vado più veloce di voi» ci spiegò. «Così andiamo avanti in maniera regolare». La sua voce adesso era placida, nessuna emozione, neanche una traccia di umanità. E non era umano nemmeno il suo modo di scavare. Ruota la spalla, affonda la pala, spazza la terra, solleva il braccio. E ripeti. Così, all’infinito. Non dava segni di cedimento. Era un ragazzo basso e nell’ultimo mese doveva aver perso diversi chili, ma il movimento meccanico della sua spalla non perdeva vigore.
    Il sole ora era più basso. I cespugli intorno a noi avevano la forma di teste mostruose e deformate, nel cielo correvano striature violacee. C’era ancora tempo prima del tramonto, ma la fossa sotto i nostri piedi stava assumendo dimensioni considerevoli – un mezzo metro di profondità, adesso – e di Samuele ancora nessuna traccia.
    Da una parte era un sollievo. Sentivo ancora il cuore sfrecciare nel petto, il battito caldo e sordo nelle orecchie, e mi dicevo che era il caldo. La paura di ritrovarsi una specie di zombie che tentava di comunicare con il fratello non c’entrava niente, no.
    Ma Nicola adesso scavava reggendosi la spalla, e sul suo viso stava comparendo un’espressione sofferente. Il ritmo delle sue spalate si era fatto irregolare. Mi avrebbe spezzato il cuore vedere le sue illusioni morire.
    I muscoli della spalla ripresero a pulsare e tirare. Li sentivo già intorpiditi per metà. I miei colpi, adesso, erano squilibrati, e un paio di volte mi ero sbilanciato e avevo rischiato di rotolare nel buco. La pelle sulla schiena cominciava a spaccarsi e a cadere.
    «Marco» biascicò Nicola, rantolando. «Mi daresti il cambio? Giusto cinque minuti. Il tempo di riprendermi un attimo».
    Nessuna risposta. Solo un sospiro pesante.
    «Marco?»
    «Mi sembra una cavolata. Quanto vogliamo scavare ancora, prima di ritornarcene a casa?»
    «Avevi detto al tramonto, non puoi tirarti indietro adesso!» ringhiò Nicola, abbandonando la pala. Il muscolo della spalla destra era gonfio.
    Io continuai a scavare: non mi andava di dar retta ai loro litigi. Il velo di sangue ora era più spesso e un fastidioso ronzio cominciava a vagarmi nella testa.
    «Ma è già un…»
    «È già niente! Sei un infame se adesso vuoi…»
    «Cos’è che sono?» Questa volta fu Marco a sbraitare. Fece qualche passo verso Nicola.
    «L’hai capito, cosa sei». I loro nasi si sfiorarono, Nicola poggiò le mani sul petto nudo e sudato di Marco. «Un infame. Rimani qui se non lo sei».
    «La volete smettere o no?» urlai io. L’urlo mi rimbombò nelle orecchie, ovattato, e mi fece montare una rabbia gelida nel cervello. «Vi comportate come ba…» Feci, scagliando la pala a terra.
    Mi interruppi.
    Clamp.
    Il rumore risuonò, secco, nell’aria. Mi parve quasi di sentirne l’eco che si diffondeva per la pianura, il bisbiglio vagante che tagliava l’aria afosa.
    «Cos’è stato?» mi chiese Nicola. Si era allontanato dalla cosa per fronteggiare Marco.
    Io abbassai il capo lentamente. Una vena sul lato del collo pulsava, i peli sulle braccia e appena sopra il sedere si erano rizzati. Il ronzio violento nelle orecchie.
    «Cristo» mormorai dopo qualche secondo.

    #7

    Solo la faccia affiorava dalla terra.
    Sembrava un pesce morto che galleggia in un acquario, con il corpo capovolto che ogni tanto si affaccia fuori dall’acqua.
    Il viso era pallido e gelido. La testa, dalle orecchie fino alla nuca, era ancora sepolta nel terreno, e dei capelli si vedeva solo l’attaccatura. Erano sporchi di terra. C’era terra anche sul resto del viso, una patina polverosa che si infilava nelle pieghe della morte. Il naso, dove era caduta la pala, era mozzato, e la cartilagine bianco sporco tagliava le narici.
    «Gli occhi…» mormorai. Intorno a me, la sera pareva essere scesa all’improvviso, e io sentivo freddo alle ginocchia e alle braccia.
    Tutto il viso era slavato e bianco; le guance sembravano segnate dall’età, la pelle scavata acuiva la prominenza del mento. Ma gli occhi erano spalancati e lucidi. Sembravano scavarti nella pelle come un verme e urlarti nel cuore la loro inquieta disperazione.
    Nicola accorse subito. Guardò giù nella fossa, lasciò cadere per un attimo il mento e qualcosa nei suoi occhi si spense… poi tornò inespressivo, afferrò la sua pala e riprese a scavare.
    «Cos’è?» chiese Marco con la voce piagnucolante. Si era allontanato dalla buca.
    Nicola tacque, e anche io. Il gelo era un morbo che, dalle giunture, si stava espandendo nel resto del corpo. Il mio stomaco emetteva un gorgoglio stridulo.
    «Ra… ragazzi» disse Marco. Deglutì, aprì di nuovo la bocca, poi decise di tacere. Le labbra serrate stavano diventando bianchicce.
    Non so quanto durò. Ricordo il freddo, il pulsare nevrotico delle vene sulla fronte. Ricordo che Marco cominciò a singhiozzare e che dagli occhi di Nicola caddero due lacrime, che finirono sulle labbra di Samuele. Poi la nebbia fitta. Ci sarebbero voluti anni perché si dissolvesse del tutto.
    Poi notai che Nicola aveva dissotterrato il resto del corpo. Presi un grosso respiro e questo schiarì la bruma, almeno per un po’. Poi lo guardai.
    Non c’era sangue né lividi o tagli. La cosa prima mi stupì, poi mi instillò una goccia di angoscia nel petto. La maglietta era sporca di terra, mangiucchiata, ma asciutta, e lo stesso i pantaloni. La scarpa destra mancava, il calzino bianco era bucato in più punti. Feci scorrere il mio sguardo e quando guardai la mano destra le ginocchia mi cedettero.
    Si muoveva. Mulinava a vuoto e sollevava qualche granello di polvere, ma quelli erano i colpi che, prima, ci stavano parlando. Ne ero sicuro. La pelle del dorso era rosicchiata fino alle nocche color avorio e…
    E c’era un mare di vermi che galleggiava nel reticolo di ossa della mano. Erano giallastri ed enormi, grossi quanto un mignolo, e strisciavano ed emettevano versi acuti da bocche larghe come noccioli di ciliegia. Era una visione che dava la nausea, e il suono era anche peggio. Mi voltai, sentii una bile acida risalirmi per la gola, ma non vomitai. Solo due colpi di tosse bavosi sul terreno. Tornai a guardare. «Non sono veri» dissi ad alta voce.
    Ma erano ancora lì. Uno era avvolto sulla poca carne rimanente del pollice. Stava rosicchiando, e mi pareva di sentire il rumore delle sue fauci che ruminavano. Poi capii: erano loro che facevano muovere la mano. La agitavano dall’interno.
    Mi allontanai dalla fossa e lasciai trascorrere qualche minuto, cercando di scacciare le immagini che mi avevano infestato la mente. Mi convinsi che i vermi non erano reali. Troppo grandi e orrendi per esserlo: doveva essere qualche trasposizione dei miei incubi, un ologramma confuso nella nebbia dei miei pensieri. Però Samuele era lì sotto, forse morto da tempo, ma con gli occhi sbarrati e svegli… e questo non potei dimenticarlo.
    «È morto?» chiese Marco. Si era appena affacciato sulla fossa e le sue labbra tremavano.
    Nicola girò la testa verso di lui. Da quando avevamo scoperto il corpo, era rimasto così, inginocchiato a terra, e il suo viso era impassibile e freddo. Solo due lacrime dagli occhi.
    «Sì, stronzo» fece, alzandosi. Puntò verso Marco. «Ed è colpa tua. Ci aveva chiesto aiuto, e se tu non ci facevi perdere tempo ce l’avremmo fatta».
    Forse sono i vermi, pensai io. Sono loro che ci hanno chiesto aiuto, perché hanno fatto muovere la mano. Non lo dissi: la lingua era una striscia di lana ruvida. E poi i vermi erano un’illusione, non dovevo farmi ingannare.
    «Calv… Nicola… io non penso…» balbettò Marco. Era sbiancato.
    «Non pensavi, non pensavi…» fece Nicola, la voce atona, continuando a camminare. Anche lui era cereo, ma attorno al naso aveva venuzze rosse e pulsanti. Quando furono vicini, Nicola fece partire un pugno verso la guancia di Marco. Lui si scansò e il pugno lo colpì di striscio alla tempia, ma cadde a terra… a pochi metri dalla fossa. Un urlo di terrore mi si strozzò in gola. Forse Nicola aveva ragione, ma non volevo che quei vermi – che non esistono – divorassero anche Marco.
    Nicola si chinò su Marco e lo afferrò per i capelli. «Cazzo…» tirò verso di sé. «Di…» lo centrò con uno sputo in un occhio. «Infame!» urlò, e sbatté la sua testa contro il terreno. Poi si alzò. Marco era rimasto chinato a terra, piangente e con le mani a stringersi la testa.
    «Nicola, guarda che…» cominciai io.
    Mi fece segno di tacere con una mano. «Io vado». Montò in bicicletta e partì.
    Dopo qualche secondo mi alzai e raggiunsi Marco. «Tutto a posto?»
    Lui la smise di piangere e si tirò sulle ginocchia. Mi guardò per qualche attimo, gli occhi grandi e tremolanti, poi una nuova fitta di dolore dovette attraversargli la testa, perché cacciò un urletto e si portò una mano dietro la nuca. «Ho un bernoccolo enorme» disse, tirando su col naso.
    Io tastai sul retro della testa. C’era una leggera protuberanza, ma era passato poco tempo. Si sarebbe ingrandita velocemente. Almeno non sanguinava. «Ti riprenderai» dissi, forzando un sorriso. Sentii tutti i muscoli del viso tirare, come se non chiudessi gli occhi da giorni.
    Anche lui accennò un sorriso, poi tornò a singhiozzare. «Non è colpa mia. Io non pensavo…»
    «Non è colpa tua, non è colpa tua» gli dissi. Non ero convintissimo – avevamo sentito tutti quei colpi e ci eravamo convinti che Samuele ci stesse chiedendo aiuto, no? – ma per il momento non potevo dirgli altro.
    Parve rassicurarsi, ma continuò a singhiozzare. Io gli misi una mano sulla spalla per confortarlo, lui sorrise di nuovo. Aveva terra sulle guance e io gliele pulii, anche se le lacrime avevano creato una sorta di fanghiglia. Mi sentivo a disagio. Eravamo amici, sì, ma così… il contatto fisico era roba da ragazze.
    Dopo qualche minuto mi alzai. «Copriamolo. Potrebbe vederlo qualcuno stanotte, ed è meglio di no. Nicola sarà andato ad avvisare i carabinieri, domani lo troveranno loro».
    Marco annuì, anche se fece una smorfia quando sentì il nome di Nicola.
    «Non prendertela. Ha appena visto suo fratello morto…» Sicuro? È davvero morto? Non continuai la frase.
    Mi avvicinai alla fossa e guardai. I vermi c’erano. Il sole stava tra tramontando e diffondeva luce rossastra, sotto la quale i vermi pulsavano, pronti a saltarmi in faccia se mi fossi avvicinato. Mi limitai a stendere un velo di pochi centimetri sul corpo e mi allontanai.
    «Aspettami sulla strada» dissi a Marco. «Devo fare un bisogno».
    Finsi di andare verso i cespugli secchi, ma quando lo vidi scomparire verso la strada tornai indietro e mi accucciai sulla terra che avevo appena rimesso a posto.
    I colpi c’erano ancora.

    #8

    Raggiunsi Marco con il battito di quei colpi che ancora riecheggiava nelle mie orecchie. Il cuore sfrecciava nel petto e pulsava in gola, le ginocchia sembravano cardini di metallo arrugginiti. Una leggera emicrania mi ronzava nelle tempie.
    Montammo in bici e ci avviammo verso il paese. Marco aveva lacrime coagulate sul viso. Io conoscevo la strada a memoria e pedalavo per lo più ad occhi chiusi, solo cercando di evitare pericoli inattesi. Un universo terribile e oscuro, di cui solo poche ore prima ignoravo l’esistenza, mi danzava intorno. Lo stomaco si torceva con fatica.
    La nebbia calò all’improvviso. Non era stata la prima volta quell’estate, né fu l’ultima. Ma la velocità con cui arrivò – quella sì, credo di non averla mai vista. Il cielo, terso fino a pochi momenti prima, con solo poche nuvole rossicce e scariche a vagare nella distesa già ammantata dal tramonto, ora non si vedeva più. Anche gli alberi ai nostri lati e la strada sotto i nostri piedi si erano nascosti nella bruma. Era un po’ come se mi si fossero appannati gli occhiali, solo che all’epoca non li portavo ancora, e avrei scoperto la similitudine solamente diversi anni dopo. Marco, al mio fianco, era solo una macchia più scura e indefinita nell’oceano lattiginoso; sarebbe potuto trattarsi di un gioco di luce, o della sagoma di qualche cespuglio, se non ci fosse stato il cigolio della catena della bici.
    «Non ci vedo per niente» disse Marco dopo poco tempo. Non sapevo se fosse la sua voce o per la nebbia, ma il suono mi era giunto smorzato.
    «Continuiamo a piedi» dissi. Anche la mia voce mi parve ovattata. Il mare di nebbia mi si era infilato nelle orecchie. «Così è poco sicuro».
    Smontammo dalla bici e procedemmo a piedi, costeggiando li guardrail. Prima la nebbia era densa e accecante, ma in pochi minuti era peggiorata. Adesso, se agitavo la mano a un palmo dal mio naso, scorgevo a malapena il contorno delle dita, e solo perché la luce bianca la faceva spiccare. E sembrava anche aver preso una connotazione fisica: era appiccicosa sulla pelle, pesante per i miei passi. Mi sembrava davvero di star attraversando un mare, con le gambe che si muovevano a fatica e la morsa opalescente tutt’attorno che cominciava a sommergerci.
    Fu allora che pensai a Nicola. Si era avviato solo pochi minuti prima di noi e doveva ancora trovarsi a metà strada. Probabilmente nel bel mezzo di quella distesa candida. Poteva ritrovarsi nella traiettoria di qualche macchina, che non avrebbe fatto in tempo a scansarlo e…
    Anche se in realtà non temevo quello. Il ronzio alle tempie si era fatto più intenso.
    «Dovremmo chiamare Calv. Potrebbe essere in pericolo… in mezzo alla strada, potrebbero passare delle macchina» dissi.
    Udii il sospiro di Marco fendere la nebbia. «Sarà già arrivato. Non ho voglia di mettermi a cercarlo».
    «Si è avviato poco prima di noi, non può essere arrivato. Lascia da parte la rabbia. Potrebbe accadergli qualcosa di male».
    Marco sbuffò. «E va bene».
    Feci un breve sorriso, ma la bruma mi bagnava gli angoli della bocca. Come se mi stessi sbavando addosso. Poi urlai: «Calv!»
    «Nicola!» gridò Marco.
    Continuammo per qualche minuto, ma non ci arrivò nessuna risposta. Avevamo affrettato il passo con la bici, attenti a tenerci al margine della carreggiata. Ora il ronzio sembrava corrente elettrica che scorreva nel cervello, e qualche ipotesi stentata pulsava nella mente. Qualche ipotesi brutta, un’ipotesi a cui non volevo dare ascolto.
    «Sarà già arrivato. O forse è davanti a noi di parecchio» disse Marco.
    «Sì. Credo di sì». Ma avevo la voce atona e assente.
    A un tratto mi parve di scorgere qualcosa alla mia sinistra, dove la strada asfaltata lasciava il posto al terreno. Un movimento, forse… ma non potevo esserne sicuro. Solo qualcosa che era scappato al margine del mio sguardo.
    «Aspettami qui» dissi a Marco. «Ho sentito qualcosa».
    Mi mossi in quella direzione. Adesso che avevo abbandonato l’indicazione sicura del guardrail, procedevo del tutto alla cieca. Sapevo che non dovevo allontanarmi troppo da Marco, e anche che poteva essere stata un’illusione della mia mente confusa, ma continuai. La mia bici incontrò qualcosa – forse un sasso o un cespuglio – ed ebbe uno sbalzo. Manciate di terra secca mi frustavano le guance, i granelli graffiavano gli occhi e si infilavano le narici. Tossii, mi parai il viso con le braccia. C’era un odore strano… come di un’acqua fangosa che ristagna nel fondo di una cantina dopo un’alluvione. Qualcosa di umido e pesante.
    Continuai a camminare. Pochi metri dopo, quello che vidi – appena riconoscibile nell'aria fumosa – mi fece lampeggiare qualcosa nella testa. E contribuì ad aumentare il ronzio.
    La terra mulinava nell’aria. Sembrava un turbine scuro e compatto, ma le dimensioni erano ridotte. Era grande quanto la mia gamba, e io all’epoca ero minuto. Feci un passo indietro, sentii le ginocchia cedere e dovetti agitare le mani per tenermi in equilibrio. Ma, nel farlo, lasciai la presa dal manubrio della bici, e quella cadde a terra.
    Il turbine si richiuse dopo pochi secondi. La terra tornò al suo posto, come se non si fosse mai mossa. Io mi preparai a lanciare un urlo: aprii la bocca, riempii i polmoni d’aria… poi ingoiai saliva e polvere e tacqui.
    La nebbia si stava dissolvendo. L’ambiente intorno a me era ancora irriconoscibile, ma aveva smesso di lasciare tracce umide sul mio viso. Mi chinai, cercai a tastoni la bici, la risollevai. Il cuore galoppava nel petto. Tornando indietro, dovetti calpestare lo stesso oggetto di prima, ma questa volta sentii un crap secco. Come di qualcosa che si strappa.
    Mi avviai verso quella che credevo essere la strada. E allora la nebbia tornò a soffocarmi.
    Respiravo a malapena. Sentivo il sibilo dei miei polmoni, poi un silenzio tombale – tombale e paralizzante – che mi circondava. La lingua si era seccata, la bocca immobilizzata in un ghigno spaventato che mi pesava sul viso.
    «Marco!» feci per urlare. Ma non udii la mia stessa voce.
    Qualcosa si nascondeva nella nebbia. Qualcosa di molto vicino. E dovevo scappare prima che la cosa mi prendesse, ma le gambe erano cemento secco, le ginocchia molli come plastica sciolta.
    «Ehy! Sono qui!»
    Un volto bianco mi raggiunse nella bruma. C’era terra sui suoi capelli, terra sui suoi occhi vigili e lampeggianti. Vermi rossi percorrevano la sua bocca e lanciavano versi striduli. Il suo fiato esile ripeteva: «Salvami, salvami, salvami».
    Questa volta urlai; un grido vibrante che mi fece male alle corde vocali.
    Il volto di Samuele scomparve e al suo posto vidi quello di Marco. Avevo la fronte corrugata e gli occhi grandi e pulsanti. Forse c’era un po’ di paura, in quell’espressione, ma penso che fosse soprattutto perplessità.
    «Che hai?» disse Marco.
    «No, niente» biascicai. «Mi sembrava di aver visto qualche movimento, ma non era niente». Non parlai del fatto che avevo visto Samuele nel suo viso: significava aver paura, e non si confessava la paura agli amici. Non gli dissi nemmeno del turbine di terra, né il particolare è mai arrivato alle orecchie di qualcuno. Credevo che fosse stata un’allucinazione. La nebbia era fitta, io ero stanco e nella testa avevo quel fastidioso ronzio. Potevo essermi confuso, no?
    A volte, quando la giornata è abbastanza buona, lo credo ancora.
    Riprendemmo il cammino. La nebbia svanì così com’era arrivata: all’improvviso. Sembrò evaporarmi davanti agli occhi. Nel frattempo era calata la sera. Eravamo arrivati in paese, però, e decidemmo di tornare a casa. Io ero spossato e, anche se la mia visuale era tornata limpida, la nebbia sembrava avermi avviluppato la mente. C’era una lieve coltre lattiginosa dietro ogni mio pensiero, ogni cosa nasceva appena accennata e non si sviluppava del tutto.
    Tornai a casa e mi misi immediatamente a letto. Tutta la stanchezza del giorno mi gravava sui muscoli, la spalla destra bruciava come ghiaccio su un’ustione. Mi addormentai di sasso e sognai.
    Era tornata la nebbia e io ero ancora sulla strada che, dal paese, portava alla ferrovia. In qualche modo, però, la mia vista non era offuscata. C’era la nebbia, sì, e anche la sua bava viscida su ogni centimetro della mia pelle, ma ci vedevo bene.
    Nicola camminava a testa bassa sul terreno. Andava piano, attento ad evitare possibili ostacoli che l’avrebbero fatto inciampare.
    A un certo punto la terra si sollevava a qualche centimetro dai suoi piedi.
    Io provai a urlare, ma avevo la lingua intorpidita. La trachea era bloccata e non respiravo.
    Poi, dal buco creato nel terreno, venne fuori un verme. Era enorme, giallastro, con squame vive che si rincorrevano sulla sua pelle. Non aveva occhi. Quando aprì la bocca, scorsi diverse file di denti piccoli e aguzzi.
    Inghiottì il piedi di Nicola, ma non richiuse la bocca: continuò fino al ginocchio. Sul viso del mio amico era comparsa un’espressione stupita. Non era terrore, non ancora, ma i suoi lineamenti si distorsero presto: le guance sbiancarono, gli occhi si fecero acquosi. La bocca si aprì e lasciò uscire un urlo sordo. Durò poco: il verme richiuse la bocca.
    Prima si sentì un risucchio. Poi un verso acuto, lungo, travolgente. Mi percosse le orecchie e lacerò i timpani. Il verme tornò nella terra ondeggiando il corpo squamato e lanciò un altro dei suoi versi. La terra si levò in un altro turbine che andò a richiudere quel buco.
    È un sogno che si è ripetuto tante volte nel corso degli anni. Alle volte è la nebbia che, come un mare in tempesta, inghiotte Nicola e gli mozza il respiro. Ci sono incubi in cui è il mulinello di terra a richiudersi intorno a Nicola, attaccandosi alla sua pelle umida e trasportandolo nell’abisso. Di rado, anche i miei occhi sono appannati, e tutto ciò che avverto sono i suoni acuti di quel verme enorme.
    Ma il più delle volte il sogno si ripete così, sempre uguale. Il mio sguardo che attraversa la nebbia, quella cosa che emerge dalla terra e divora Nicola, o lo porta con sé chissà dove.
    Quando mi risvegliai al mattino mia madre mi disse che Nicola non era tornato a casa, quella notte. Io piansi e mi sentii torcere le budella e raccontai tutto ciò che ricordavo a un poliziotto. Poco, in realtà: quel mare di latte mi era rimasto dentro. Non riuscivo ad elaborare pensieri o ricordi, i pochi che nascevano morivano soffocati dall’incertezza.
    La cosa che più mi confondeva è che io sapevo già che Nicola era scomparso, prima che me lo dicesse mia madre. Me l'aveva già fatto capire il mio sogno.
    Non l’hanno mai ritrovato.

    #9

    Ricordo poco dei giorni successivi.
    La nebbia, no? Penso che avesse trovato un modo per stendere coltri pallide sui pensieri bui che mi brulicavano in testa.
    Un’emicrania fastidiosa mi ronzò nelle tempie per giorni, simile al rumore che fanno i tubi al neon nelle case vecchie. Era di notte, quando non dormivo e davanti agli occhi sbarrati scorrevano ombre nere, che quella dava il meglio di sé: allora mi sembrava di avere rovi spinosi che si dimenavano nelle pareti del cranio. Piangevo ed ero sempre meno cosciente di ciò che stava avvenendo fuori dalla mia testa.
    Ogni tanto mi pareva di avere lo stomaco rivoltato, proprio come le magliette appena lavate e lasciate a stendere alla rovescia. Qualcosa non era al suo posto, ecco, e l’alterazione si faceva sentire. Dovetti rimanere a digiuno per parecchio tempo, ma non posso dirlo con sicurezza.
    Dopo qualche giorno ritrovarono la scarpa destra di Nicola. Una Superga nera, lo stesso modello dell’unica scarpa di Samuele che la polizia aveva ritrovato il mese precedente. A volte penso che non sia una semplice coincidenza o un segno del destino – ci sono molte cose inspiegabili in questa storia – ma non posso essere sicuro nemmeno di questo.
    La scarpa era strappata al centro. La forma dello strappo, i segni lungo il resto della scarpa, suggerivano che la causa fosse il passaggio di una bici. Lo pneumatico aveva strappato la tela. Non raccontai del crap che avevo sentito quella sera, intrappolato nella nebbia, a pochi metri dal turbine di terra: la notizia aveva fatto aumentare l’emicrania, e quella mi aveva paralizzato. Voleva dire che io avevo intercettato la traiettoria di Nicola e che dovevo essergli vicino, magari abbastanza da fermarlo prima che svanisse nel nulla… o che forse era appena scomparso, inghiottito da un verme enorme che spuntava fuori dal buco nella terra.
    Avevo rischiato anch’io di fare quella fine, quindi. L’ipotesi avrebbe dovuto sconvolgermi o almeno turbarmi, ma non lo fece per niente. Nemmeno mi resi conto del pericolo che avevo corso.
    C’era solo la gelida, oscurante nebbia, e il maledetto mal di testa che mi affliggeva.
    Col tempo la nebbia si è diradata. La sicurezza sull’accaduto non ce l’ho – diavolo, come potrei averla? – ma la luce crescente mi ha aiutato a schiarire la mente.
    All’inizio provai a spiegarmi che cosa era accaduto. Nicola, in preda allo shock per ciò che aveva appena visto, era fuggito per rimanere da solo, piangere al silenzio. Poteva aver perso la scarpa inciampando su un sasso, e magari la nebbia gli aveva impedito di recuperarla; quindi aveva continuato a correre immettendosi nella schiera di alberi, consapevolmente o meno. Una volta che la nebbia si era dissolta, lui si trovava nel folto del bosco, terrorizzato dal buio incalzante, incapace di ritrovare l’orientamento. A quel punto poteva essere successo di tutto: magari si era addentrato in qualche percorso intricato e non aveva fatto altro che peggiorare la sua situazione. Poteva essere morto di freddo o di fame, oppure divorato da qualche animale. Mi sembrava sensato.
    Passarono diversi anni prima che mi decidessi a raccontarmi la verità.
    La mia ipotesi non aveva alcun senso. Certo, era ragionevole, ma non potevo crederci… non dopo aver sentito Samuele parlarci da sotto il terreno, non con la vista del suo corpo intatto sepolto e di quei vermi enormi, così nitida che mi pare di avercela ancora davanti – chiudo gli occhi e quelli ritornano a strisciare sul suo viso.
    Qualcosa di mostruoso si era preso Samuele e poi aveva deciso di fare lo stesso con Nicola. È la spiegazione che mi sono dato tanti anni fa, ed è anche quella che regge ancora. Mi sono spesso chiesto cosa potesse essere, questa cosa mostruosa. La risposta è sempre la stessa: il verme squamato ed enorme.
    Sarà perché l’immagine continua a tormentare i miei sogni, di tanto in tanto. Perché, quando li vidi per la prima volta, mi sembrarono davvero mostruosi, qualcosa che non apparteneva al mondo che io conoscevo. In realtà penso di non avere l’energia per immaginare qualcosa di altrettanto mostruoso: i vermi sono abbastanza e, anche se ci potrebbe essere altro, questo mi basta.
    Anche perché una sola cosa mostruosa è sopportabile, anche se a malapena.
    Si impara a conviverci, ecco. Esistono universi oscuri sepolti sotto il velo apparente delle cose, in cui le tenebre governano e la razionalità è solo una brace recalcitrante e ormai fredda. Esistono barriere invalicabili ed esiste il sovrannaturale.
    L’idea è ancora terrorizzante, senza dubbio. Se penso alla morte, se immagino che non diventeremo né cenere né discepoli di un Dio benevolo, ma prede inconsapevoli di chissà quale terribile realtà, sento un gelo profondo che mi prende alle vene… però questa è solo una delle ipotesi, e a volte spero che ci sarà un contrappasso. Un aldilà tanto stupendo quanto sono ripugnanti i mondi nascosti qui giù… o da qualche parte qui vicino.
    Per il resto ci sono gli impegni del mondo che tutti vediamo, le preoccupazioni quotidiane, l’amore di una moglie. Avere un corpo caldo da stringere rende le notti meno spaventose. Di solito.
    Non è tutto così malvagio, no? Basta cercare di non pensarci e sperare che la prossima volta la vittima non sarò io.
    Credo che aver capito questa cosa da piccolo sia stato un bene, e che la nebbia nella mente sia stata utile, in fondo: ha attutito il colpo, mi ha fatto assorbire la notizia poco alla volta. A dodici anni le paura irrazionali popolano ancora la mente, sebbene sia quella l’età in cui si inizia a scacciarle. Un adulto si crea dei preconcetti sull’esistenza di mondi diversi dal nostro, e temo che vedere questi preconcetti stravolti sarebbe da impazzire.
    Ma non è questo il dubbio che mi rosicchia.
    Ho recuperato le conoscenze del codice Morse solo diversi anni dopo l’accaduto, quando i ricordi si erano già schiariti. Prima è stata una lieve incertezza; poi una domanda concreta; adesso un interrogativo a cui preferirei non rispondere.
    Ero sdraiato al lato dei binari per sentire i rintocchi con cui Samuele cercava di comunicare con noi. Dopo le prime cinque lettere, c’era stato un colpo cupo, e poi avevo starnutito.
    Pensai che non c’erano stati altri colpi. Non avevo sentito altro, del resto, e la lettera m aveva si legava perfettamente alle altre lettere.
    Ma sono mesi che rileggo ogni giorno l’alfabeto Morse, sempre sperando che qualcosa cambi, con l'illusione di aver letto male le cento volte precedenti… che la mia sia solo una paranoia infondata. Ma mi convinco sempre più che non sia così. È un po’ come un muro che si sgretola, eroso dal tempo, e diventa sempre più sottile. Spero che reggerà per sempre: se davvero questo si disgregasse del tutto – questo sì, credo che mi farebbe impazzire.
    Un solo colpo cupo, una linea: lettera m.
    Ma se ci fosse stato un altro suono, dopo quello? Un altro colpo profondo, per esempio. Questo cambierebbe la situazione.
    Due colpi profondi, due linee.
    La parola che Samuele stava cercando di urlare al fratello era un’altra.
    Salvati.

    Edited by RàpsøÐy - 8/1/2018, 16:02
  12. .
    Sono appena uscito da una presentazione di uno scrittore abbastanza importante e mi ha colpito un discorso che ha fatto. La riassumo. Ilmessaggio, la denuncia sociale, in un romanzo o in un racconto può arrivare da sé. Ma uno scrittore che parte con un'idea pedagogica scriverà un pessimo romanzo, e non riuscirà a trasmettere nemmeno il messaggio. Il compito dello scrittore è quello di scrivere storie e di trovare il modo migliore per farlo, non di lanciare messaggi sociali.
  13. .
    #1

    Avevo dodici anni quando vidi per la prima volta un corpo morto. Era sepolto sotto un metro di terra, pochi chilometri fuori dal paese, sotto i binari di una ferrovia su cui passavano solo treni merci.
    Certi avvenimenti possono avere diversi effetti su un dodicenne, penso adesso. Prima ipotesi: nessuna conseguenza, almeno nell’immediato. La mente raccoglie quelle immagini, le isola in qualche angolo irraggiungibile dagli artigli della razionalità, e quelle rimangono lì, inerti… fino a quando qualcosa non le riporta in vita. Ma spesso quel qualcosa non arriva mai, e allora questa è l’ipotesi migliore che ci si possa augurare.
    Numero due: gli eventi popolano i tuoi incubi, aprono spifferi gelidi su pareti che dovrebbero rimanere chiuse. Mesi – no: anni di tormento, il timore di scovare un viso decomposto per metà nascosto tra i vestiti, l’impressione di scorgere il tremito di una mano proprio accanto al letto, quando le luci sono spente e chiudere gli occhi è la porta per un ricettacolo di pensieri bui. Poi, con il tempo, l’incubo si deteriora; le ombre sui muri smettono di somigliare al frenetico ticchettio di dita che non dovrebbero muoversi e i sogni non sono più così terrorizzanti. Ma c’è sempre un’eredità… un puzzo di foglie morte che ristagnano nel fondo dell’anima. Sepolte quanto basta per ignorare la loro esistenza, ma non abbastanza per evitare che i vapori fetidi ogni tanto risalgano e tornino a infettare la mente.
    E poi la terza opzione.
    Prima un grande senso di confusione. Le immagini si accavallano nella mente, si scompongono e assumono i contorni di un sogno, in cui tutto è sbiadito e lento e annebbiato. Dopo poco, però, la nebbia svanisce, e da questa viene fuori una domanda. Un dubbio che ti rosicchia man mano, il tarlo che si insinua nella pelle e risale fino al posto in cui giacciono i segreti inconfessabili… quelli, e i sensi di colpa.
    Credo che questo sia quello che è capitato a me. Che sta capitando a me: il tarlo è ancora vivo, e non dà segni di cedimento.
    Allora avevo dodici anni, l’anno prossimo ne compirò quaranta. Quasi trent’anni; un buon arco di tempo per dimenticare, sufficiente per acquietare le acque ribollenti della coscienza. Eppure a volte mi sembra ancora ieri.
    È che a volte non sono del tutto sicuro che fosse morto. Soprattutto quando, di notte, il suo urlo di terrore vibra ancora nei miei polpastrelli.

    Quando Nicola sbucò nel palchetto del paese, tutto trafelato ma bianco in viso, io e Marco ce ne stavamo stravaccati sotto l’ombra di una grossa quercia a torso nudo, con in mano una bottiglia di coca. Ancora di vetro, all’epoca.
    Era un pomeriggio di metà agosto. L’aria era pesante e umida, le erbacce incolte del prato non tremavano nemmeno un poco. Neanche un filo di vento. Sudavamo dalla fronte, dal naso, dal petto nudo su cui stava spuntando la prima peluria. Stavamo usando le magliette come degli asciugamani, ma in poco tempo quelle si erano inzuppate, e ora non riuscivano a detergere la pelle bollente.
    Ci stavamo annoiando. A metà degli anni Ottanta il paese era più popolato di adesso, certamente, ma rimaneva un centro di mille e cinquecento anime o poco più. C’era una buona percentuale di ragazzi – mentre adesso i giovani emigrano appena ne hanno la possibilità – ma la maggiore affluenza era a luglio. Ad agosto qualche famiglia andava via per le vacanze, e nel periodo di ferragosto c’era il picco di partenze. Restava qui solo chi non poteva permetterselo. Io e Marco, appunto. E poi Nicola, solo che il suo problema non era economico; nemmeno sognavamo di vedercelo sbucare così, apparentemente pieno di vita, nel mezzo di un pomeriggio in cui il sole prendeva a pugni sulla nuca.
    «Ragazzi» ansimò. Il collo era rosso e il cuoio capelluto pareva bruciare, ma le guance erano pallide. Riprese fiato per qualche secondo, piegato sulla bici, poi disse: «Dovete venire con me. Devo farvi vedere una cosa».
    «Cosa c’è, Calv?» disse Marco.
    Calvin era il soprannome di Nicola. Aveva i capelli che erano ispide setole bionde e la pelle lattiginosa proprio come l’eroe dei fumetti di Calvin & Hobbes.
    Nicola scosse la testa. Ora non sembrava più pallido: era cereo. «Non… non saprei spiegarvelo. Per favore, seguitemi. È importante». Notai che la voce gli tremava e che non riusciva a tenere ferme le mani.
    Io e Marco ci scambiammo uno sguardo. Nessuno dei due aveva voglia di mettersi a pedalare con quel caldo, verso chissà quale metà… ma si trattava di Calv. Dovevamo seguirlo, anche se si fosse rivelata l’idiozia peggiore del mondo. Ci scambiammo un cenno. «Andiamo» facemmo in coro. Ma a quel punto Nicola si era già avviato, e noi potevamo vedere la sua bici scintillare sotto il sole baluginante e il retro della sua maglietta inzuppato di sudore. Montammo su anche noi e lo seguimmo.
    «Dove ci porta?» mi chiese Marco.
    «Non ne ho idea». Nicola pedalava forte ed era già una cinquanta a di metri davanti a noi. Si dirigeva verso l’uscita a nord del paese, quella che porta verso le cascate.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Sfrecciavamo nell’aria immobile, e il movimento ci rinfrescava un po’ il viso. Il sudore si stava asciugando, ma sentivo il sole colare come un secchio di petrolio sulla mia schiena. Ne avrei ricavato qualche bruciatura dolorosa.
    «Sai, mi fa piacere che sia venuto. Era da tanto» dissi poi.
    «Anche a me. Forse questo vuol dire che si è ripreso… almeno un poco».
    Annuii.
    Eravamo usciti dal paese. Non c’erano macchine in giro, ed ero sicuro che non sarebbe passato nessuno: la strada era in genere poco trafficata, e quella era un’ora di quiete. La distanza tra noi e Nicola era diminuita – ora circa venti metri – e la sua pedalata si era infiacchita. Muoveva le gambe con fatica e solo allora notai come fossero secchi i suoi polpacci. Sotto l’orlo dei pinocchietti, le sue gambe erano un fusto leggero di legno morbido, e dalla pelle lattiginosa si intravedevano le vene verdi. Faceva quasi impressione.
    Poi Nicola svoltò a destra e imboccò una strada sterrata. La vegetazione ai lati era fitta, fronde verdi ci cadevano davanti agli occhi. Nell'aria, il ronzio di qualche insetto, e in lontananza si avvertiva già lo sciabordio delle cascate.
    Fu allora che capii. E anche Marco lo fece, perché mi disse: «Va alla ferrovia».

    #2

    Il fratello di Nicola era scomparso nel nulla un mese prima. Si chiamava Samuele. Era tre anni più grande di Nicola, e per il nostro amico Samuele non era solo un fratello maggiore: era un oggetto di divinazione. Quando non veniva in giro con noi, se ne andava a giocare alla campana con il fratello, o a vedere i suoi amici più grandi che succhiavano i primi tiri a qualche sigaretta spiegazzata, rubata dal pacchetto dei genitori. Quella era la prima volta, dal giorno della scomparsa, che Nicola tornava da noi. Allora pensavo fosse un buon segno. Ancora non si era ripreso, ma per quello avrebbe speso lunghe notti a sognare di ritrovare Samuele vivo in qualche angolo del mondo; però, pensavo, come inizio andava bene.
    Io e Marco ci eravamo fatti una nostra personale teoria sulla scomparsa di Samuele. Nei paesi ci si conosce un po’ tutti, e ogni gesto di rilievo si riempie di un’epicità che all’inizio non gli apparteneva. E allora il gesto si diffonde, nuovi eroi provano a replicarlo, la leggenda diventa vita. Dura qualche tempo, poi sopraggiunge la noia, ci si rende conto della banalità. Ma, per quel che dura, tutti la seguono. E quell’estate, in paese, andava forte lo scansa-treno.
    Il tutto era partito da un ragazzo più grande. Si era ritrovato, mezzo ubriaco con un gruppo di amici, a inciampare sui binari del treno proprio quando un mostro sbuffante correva a cento metri di distanza. Si era rialzato, poi era inciampato di nuovo… alla fine, con un balzo, era riuscito a scansare il treno merci di pochi metri. Era rotolato giù per un breve dirupo di terra e si era slogato una caviglia e lussato una spalla, ma giurava che quella fosse l’esperienza più esaltante mai fatta in vita sua. Allora anche gli altri ragazzi avevano cominciato con lo stesso gioco, prima saltando giù quando il treno si trovava a una decina di metri di distanza, poi azzardando sempre di più. Ancora nessuno si era fatto male, ma noi ragazzi avevamo scommesso che presto qualcuno si sarebbe procurato qualcosa in più che una semplice lussazione. Perdemmo. Il gioco durò una settimana sola: fino alla scomparsa di Samuele, appunto.
    Quello di cui ci eravamo convinti io e Marco era che Samuele fosse morto tentando questa prova. A convincerci era stata l’unica traccia lasciata da Samuele prima della sparizione: una Superga nera un po’ infangata e maciullata dalle rotaie, misura quarantatré. La polizia l’aveva ritrovata sui binari del treno. Ecco la nostra versione dei fatti: in piena notte, Samuele, sull’attenti da un lato del binario, aveva tentato di attraversare il passaggio proprio all’ultimo momento. Ma aveva calcolato male i tempi, o il suo balzo era stato goffo; fatto sta che la stringa della sua scarpa si era impigliata in una delle aste dei binari e gli si era sfilata. Allora il convoglio l’aveva travolto, trasportandolo per qualche chilometro e spappolando i suoi organi e le sue ossa sui binari.
    Ci sono alcuni dettagli che non tornano, ve lo concedo. Alcune mancanze si possono spiegare, altre sono completamente insensate. Prima di tutto: Samuele era solo quando aveva tentato il salto, perché nessuno affermava di averlo visto dopo le sei di quel pomeriggio. Ma una cosa del genere si tenta per la fama, per attirare gli sguardi persi delle ragazze. Non è un gioco da fare da soli. Ma forse Samuele si stava solo esercitando per una futura esibizione in pubblico, ci eravamo detti io e Marco. Seconda cosa: come mai nemmeno il conducente del treno merci colpevole del misfatto aveva avvisato la polizia? Avevamo dodici anni, ma già capivamo che per lui non ci sarebbe stato nessun problema dal punto di vista legale. Insomma, era stato Samuele a gettarsi sui binari all’improvviso. Quell’uomo era senz’altro innocente.
    Non avevamo considerato quanto fosse improbabile che un treno merci percorresse una ferrovia così isolata in piena notte, e nemmeno ci eravamo chiesti come potesse un corpo spappolarsi contro i binari di una ferrovia, quasi fosse fegato di vitello lasciato a marcire. E anche l’unico indizio a favore, quello della scarpa, ora mi sembra assurdo, se relazionato al resto della storia. Un treno che trascina un corpo intero non lascerà indietro solo una scarpa, no?
    Ma i dubbi non avevano scalfito la nostra convinzione. Era accaduto quello e, tralasciando il dispiacere per la scomparsa del fratello di Nicola, era divertente fantasticare su come le cose fossero andate, dettaglio per dettaglio, sempre più precisi. Pochi mesi prima avevo visto al cinema il primo Nightmare, ed era da lì che traevo le immagini per le nostre congetture. Samuele era uno dei matti del film che, sotto la spinta degli artigli di Freddy Krueger, attraversava i binari e si condannava a morte.
    Terribile, vero?
    Alle volte la realtà è peggio.
    Ovviamente non ne avevamo parlato con Nicola. Sarebbe impazzito dall’orrore, e nell’ultimo periodo la sua sanità mentale già vacillava. Anche se quel pomeriggio sembrava tutto a posto. Un po’ su di giri, eccitato forse senza motivo, ma era ammissibile. Noi due non avevamo idea di come fosse perdere un fratello.
    Arrivammo alla ferrovia e smontammo dalla bici. Nicola, che era arrivato da qualche decina di secondi, faceva ampi gesti con le mani. Grosse gocce di sudore gli imperlavano il collo e i capelli, la fronte aveva il colore del ferro rovente… ma le guance rimanevano biancastre, quasi tendenti al grigio. Lo raggiungemmo di corsa.

    #3

    Era in piedi tra i binari, ritto su una delle traversine. Guardava fisso davanti a sé, con gli occhi immobili, il sudore caldo che li faceva bruciare. Mi sembrava di vederlo ondeggiare e barcollare e pensai che sarebbe svenuto, ma probabilmente era solo l’afa che faceva tremolare l’aria.
    Marco lo affiancò, e io affiancai lui. Cominciammo a scrutare l’orizzonte, la terra secca tagliata dalla ferrovia. Procedeva dritta e scintillante, si avvertiva il calore accumulato dai binari risalire lungo le cosce. Dopo un centinaio di metri, spariva, inghiottita da una galleria, ma mi immaginavo procedesse ancora per decine e decine di chilometri, sempre riflettendo il sole alto… e anche chiudendo gli occhi i binari non scomparivano. Solo che, invece che di un bianco abbagliante, diventavano blu e freddi, appena intiepiditi da una luce violacea che premeva sulle palpebre.
    Ma non vedevamo niente oltre a quelli e alla terra arsa che continuava per chilometri.
    «Calv? Perché ci hai portati qui?» chiese Marco.
    Nicola si girò di scatto. Per un attimo, colsi nei suoi occhi lo sguardo appannato di chi si è appena svegliato. Poi cambiò, e ora c’erano solo due pupille tremolanti in un oceano vasto. Si chinò e tese l’orecchio verso la terra. «Sentite?»
    «Calv, di cosa cavolo stai…» feci io, poi mi zittii. Avevo avvertito qualcosa.
    Mi chinai e tesi le orecchie. Per qualche secondo ci fu silenzio, e un leggero rumore di terra che si sollevava. La cascata, in lontananza, continuava con lo sciabordio, ma non era che una carezza ai timpani. Poi lo sentii.
    Il terreno vibrava. Non era un tremore continuo e regolare. Qualcosa di diverso… quasi dei colpi. Ce ne furono tre, un suono deciso e secco.
    Afferrai un binario. Era bollente, e presto il calore si diffuse lungo tutto il braccio, ma non lasciai la presa. Volevo capire se quelle vibrazioni erano dovute all’arrivo di un treno, anche se a diversi chilometri di distanza. Ma il binario rimaneva immobile.
    Poi, quando il mio sforzo per cogliere qualche movimento era massimo, il suono ricominciò. Proveniva dal terreno. Mi distaccai dal binario, per lo spavento e perché il palmo della mano mi si stava arrostendo, e ascoltai la terra. Questa volta i colpi furono due: uno secco, come quelli precedenti, e un altro più cupo. Questo mi echeggiò nelle orecchie per qualche secondo.
    «Lo sentite anche voi, vero?» domandò Nicola. Si era rialzato.
    «Sì» dissi io. Solo allora mi accorsi di quanto la mia gola fosse secca, e di come i rivoli di sudore lungo il mio corpo si fossero infittiti.
    Marco annuì. «Cos’è?»
    Il viso di Nicola riprese un po’ di colore. Sulle sue labbra si disegnò un breve sorriso, ma gli occhi erano ancora sperduti e l’effetto fu sinistro. Si passò due volte la lingua sulle labbra. «Conoscete il codice Morse?»
    «Io sì!» esclamai. Ci avevo fatto una ricerca per la scuola.
    Marco era perplesso. «Di che cosa parli?»
    «È un codice di comunicazione» dissi io. «Ci sono dei punti e delle linee combinati tra di loro, e a ogni combinazione corrisponde una lettera o un numero».
    Marco reclinò il viso e corrucciò le labbra. Non aveva capito.
    «Ti faccio un esempio» disse Nicola. «La lettera a si può scrivere così». Si inginocchiò e, con un dito, disegnò sulla terra un punto e un trattino. Sotto il simbolo, incise la lettera a. Poi segnò una lineetta seguita da tre puntini. «Questa invece è la b. E così via. Ci sono le lettere, puoi comporre le parole. Di solito però non si usano questi segni, ma dei segnali acustici».
    «Ho capito. Tranne la parte sui segnali acustici».
    «Un bip più corto per il puntino, uno più lungo per la linea. La lettera a sarebbe: bip biiiip. Più o meno» spiegai io.
    Nicola ridacchiò, ma il terrore non gli scomparve dagli occhi. «Sì, più o meno».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi Marco chiese: «E questo cosa c’entra?»
    «Io e Samuele comunichiamo con questo codice» cominciò Nicola. «La sua camera è a fianco alla mia, e perciò quando dobbiamo dirci qualcosa di importante usiamo il Morse. Solo che, invece dei bip, diamo dei colpi sul muro. Con la nocca per il punto, con il palmo per la linea».
    Tacemmo. Io avevo intuito dove voleva arrivare Nicola, e pensavo l’avesse capito anche Marco.
    Infatti fu lui a parlare. «Quindi tu pensi che a fare quel suono sia stato Samuele».
    Per un attimo l’idea dovette sembrare folle anche a Nicola, perché sgranò gli occhi e tirò la testa all’indietro, come se colpito da un pugno.
    «È così, Calv?»
    Nicola annuì. In faccia aveva di nuovo quel colorito smorto.
    «Ma è una cosa folle!» disse Marco.
    «Cos’altro potrebbe essere, se no?» ringhiò Nicola.
    «Qualunque cosa!»
    «Un treno?» suggerii io. Non avevo sentito nessuna vibrazione nei binari, ma non potevo escluderlo.
    «No. Hanno chiuso la ferrovia dal giorno… da quando Samuele è scomparso. E non può essere nemmeno un treno a parecchi chilometri di distanza, perché i binari non vibrano» rispose Nicola, deciso.
    Era vero, dovetti riconoscere.
    «Allora un animale» disse Marco.
    «Un animale sotto il terreno? Che fa dei suoni del genere? Quanti ne conosci, eh, Marco?» La sua voce ora si era incrinata ed era diventata quasi femminea.
    «Ma Calv…» cominciò Marco.
    «Non chiamarmi così, cazzo!» sbraitò Nicola. Teneva le mani strette a pugno e aveva indurito la bocca.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Io e Marco facemmo un passo indietro. Ero spaventato. Nicola mi sembrava così… fuori. Un matto nel manicomio di Nightmare. Ciuffi di capelli mi ricadevano davanti agli occhi e il sudore mi velava lo sguardo. Sentii il mondo fare le giravolte attorno a me.
    «Ascoltatemi. Per favore» mormorò Nicola. Sembrava spossato e disperato. Non potevo esserne sicuro, ma assieme al sudore, dagli occhi parevano colare lacrime. «So che sembra assurdo. Ma ho passato tutta la mattina qui e sentivo questi suoni... ogni tanto. Ho pensato di essere pazzo. Ma adesso so che lo sentite anche voi, e sono sicuro che non potrebbe essere nient’altro. Samuele sta cercando di parlarmi». Rise e singhiozzò insieme, poi si passò un braccio sugli occhi. «Aiutatemi a decifrare il suo messaggio. Vi prego».
    Io e Marco ci guardammo. Il mondo smise di girarmi intorno, e all’improvviso mi sentivo solo stanco. Stanco e terribilmente convinto. Allora decidemmo, scambiandoci un cenno.

    #4

    Mettemmo su in pochi minuti un piano.
    Io avrei ascoltato il suono e riferito a Nicola. Lui avrebbe decifrato la combinazione su un foglio che aveva portato con sé. A Marco, invece, sarebbe toccato segnare le lettere sulla terra. Era un ruolo quasi inutile, ma non volevamo escludere nessuno, e Marco era quello che ne sapeva di meno di codice Morse.
    «Non metterti sui binari» mi suggerì Marco, spostandosi su un lato. «Mettiti qui, a lato. Si sente meglio. Credo… credo provenga da qui giù».
    Mi chinai nel punto che mi aveva indicato e accostai l’orecchio al suolo.
    «Stai attento a distinguere il colpo con le nocche da quello con il palmo. Quello con le nocche è secco, l’altro rimbomba di più».
    Per qualche minuto non sentii niente. Il sole si stava abbassando, ma l’aria era ancora insopportabile, e in quella posizione il sudore mi entrava nelle orecchie. Mi sembrava di avere un mare che galleggiava nel cervello.
    «Allora? Non senti niente?» chiese Nicola, la voce nervosa.
    Feci di no con il dito: non volevo spostarmi. Il suono poteva arrivare da un momento all’altro.
    E fu così. Tre tocchi secchi in serie mi esplosero nell’orecchio. «Tre punti!» esclamai.
    Nicola fece frusciare il suo foglio. «Tre punti… esse. Segna, Marco».
    Qualche secondo di silenzio. Poi un altro colpo secco e, dopo un attimo, un altro più cupo. «Un punto e un trattino».
    «Lettera a» fece subito Nicola. La sua voce tremava.
    Poi un colpo deciso, uno ovattato, altri due decisi. «Punto, trattino, punto punto».
    «Elle».
    Sorrisi, la testa nella terra, e un po’ di polvere mi entrò in bocca e nel naso. Mi fece prurito alla gola, ma continuai ad ascoltare. «Punto punto punto e trattino».
    «La vi».
    «Punto e trattino. Di nuovo la a» dissi io. Il prurito, adesso, era diventato uno sfregamento violento alla base della gola.
    Mi feci ancora più vicino alla sorgente del suono. Terra secca si appiccicava alla mia guancia bagnata. Il cuore galoppava nel petto, potevo sentire i meccanismi del mio cervello ruotare e cigolare. Ci fu un colpo sordo, rimbombante, e poi…
    E poi lo sfregamento si fece insopportabile e mi ritrovai a cacciare fuori la terra che si era infiltrata nel naso e in bocca. L’accesso di tosse durò qualche secondo, giusto in tempo per udire l’ultima combinazione. Due colpi secchi, questa volta. Questa la ricordavo: era la i.
    Nicola si era chinato su di me e mi scuoteva per le spalle. «Allora? Hai sentito altro?» Urlava, ai lati del collo spiccavano i tendini tesi.
    Io mi scrollai la terra dal viso e sfregai le mani per togliere quello che ne era rimasto appiccicato. «L’ultima era la i. Due puntini. La penultima…» Avevo sentito un suolo suono cupo, prima che il bruciore mi scoppiasse in gola. Ma non potevo essere sicuro che ci fosse stato solo quello, perché il suono della mia tosse avrebbe coperto quello proveniente dal terreno.
    «Due colpi profondi, vero?» La sua voce ora era al massimo dell’eccitazione e gli occhi scintillavano. Non erano più quelle biglie trasparenti di prima, no.
    Sì, era probabile, decisi. Non mi era parso di avvertire l’inizio di un nuovo suono rimbombante, appena prima dell’accesso di tosse? Mi pareva di sì. Non potevo esserne sicuro, ma… «Sì, due colpi profondi».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Nella concentrazione che avevo messo nell’ascolto, e poi per l’attacco di tosse, avevo dimenticato la sequenza di lettere.
    «La parola allora è...» disse Marco, scavando le ultime due lettere nella terra.
    Fu Nicola a mormorarlo. «Salvami».

    #5

    «Che si fa adesso?» chiesi dopo diversi secondi di silenzio. Mi sembrava di avere un oceano di sangue nel cranio, e quel sangue velava e confondeva ogni mio pensiero. La voce mi venne fuori esile e nessuno mi udì.
    Marco passeggiava in cerchio intorno al punto dove mi trovavo io, le spalle ciondolanti. Scalciava, sollevava manciate di terra, stringeva e apriva le mani. Biascicava qualcosa tra sé, ma riuscii a udire solo qualche parola atona. «Salvami salvami da che».
    «Allora? Che facciamo adesso?» ripetei. Avevo la voce acuta di un bambino spaventato, e, be’… adesso penso che lo fossi. Ma trent’anni fa quella voce mi parve ridicola, e mi schiarii la gola, tentando di darmi un contegno.
    Ancora nessuna risposta.
    Nicola, accucciato sui polpacci, aveva portato le mani agli occhi e ne stava massaggiando la parte inferiore, muovendo piano i polpastrelli. Respirava a fondo; un respiro irregolare e asmatico. I gomiti sembravano lance appuntite a bucare la pelle.
    Durò per qualche minuto. Il mondo sembrava assorto nello stesso monotono ritornello: Marco che camminava e scuoteva la testa e mormorava parole insensate, Nicola che si massaggiava gli occhi, come a volersi schiarire i pensieri. Io ripetei ancora due volte la stessa domanda, ma con voce sempre più flebile.
    Poi Nicola si alzò, barcollando sulle gambe secche. Alla destra dei binari, camminando verso la cascata, c’erano dei rovi secchi e folti. Fu verso quelli che Nicola cominciò a camminare. Aggirò gli arbusti e sparì dal nostro sguardo; quando vi ritornò, dopo qualche secondo, trasportava con entrambe le mani un borsone nero. Aveva la bocca contratta in un’espressione di sforzo. Lo lasciò cadere di fronte a noi, e dall’interno provenne un cozzare metallico.
    «Ch-che roba è?» chiese Marco. Si era allontanato di un passo dal borsone.
    Nicola si chinò e fece scorrere la cerniera. «Samuele è là sotto».
    Marco scosse il capo. «No… Non lo so, non lo so, cavolo. Che c’è lì dentro?»
    «Ecco» disse Nicola mentre si tirava su. Teneva in mano una pala. «Scaviamo».
    «Cosa?» chiesi io. Quasi lo urlai: ero già inquietato, e l’idea di scavare per andare alla ricerca di un morto… di qualcosa che chiedeva aiuto, là sotto, mi terrorizzava.
    «Cosa pensate di fare? Ci sta chiedendo aiuto!»
    «Sì, ma... Nicola, pensaci, potrebbe essere altro. Forse ci stiamo sbagliando» disse Marco. Aveva fatto un altro passo indietro.
    «Cosa?»
    «Non lo so. Ma, anche se fosse vero, perché dobbiamo farlo noi? Possiamo chiamare la polizia». Prese un respiro e sussurrò: «Non è per niente rassicurante».
    «E secondo te non ci ho pensato? E cosa gli diciamo? C’è mio fratello che cerca di parlarmi. È sepolto sotto terra e mi chiede aiuto. Davvero?» Nicola guardava Marco con aria torva, il naso arricciato e gli occhi come fessure.
    «E poi potrebbe essere troppo tardi…» mormorai io.
    «Come?» dissero Nicola e Marco, in coro.
    «Ho detto che potrebbe essere troppo tardi. Se Samuele fosse allo stremo…»
    «Tu ci credi?» mi chiese Marco, con gli occhi strabuzzati.
    Io scrollai le spalle. «Cos’altro potrebbe…» Mi bloccai. Un brivido mi attraversò dalla nuca alle ginocchia. All’improvviso, mi ero reso conto che non volevo immaginare cosa altro potesse essere.
    Il sole stava cominciando a scendere. Non avevamo orologi ai polsi – roba da grandi, all’epoca – ma dalle ombre che, lentamente, cominciavano a strisciarci attorno, potevo desumere che fossero circa le sei. Più o meno. Avevamo due ore abbondanti prima del tramonto.
    «Facciamolo» dissi io. Pensavo che avevamo l’occasione per salvare una vita. Saremmo diventati eroi.
    Nicola mi fece un sorriso largo. Questa volta, anche i suoi occhi sorrisero e si illuminarono, e l’effetto non era più sinistro. Solo d’incommensurabile, tenera felicità.
    «Non ha senso…» sussurrò Marco. Si passò una mano tra capelli, li scompigliò, chiuse per un attimo gli occhi.
    «Devi aiutarci, Marco» disse Nicola. «Ci sono due pale. Le ho portate qui stamattina. Potemmo alternarci… uno riposa e gli altri due scavano, sapete, e poi si fa il cambio».
    Marco sospirò. «Va bene. Ma fino al tramonto. Poi io vado, e se volete continuiamo domani». Scosse la testa, come per scacciare qualche ultimo dubbio.
    Sulla bocca di Nicola si allargò lo stesso sorriso. «Grande!»
    Facemmo la conta per chi doveva iniziare a scavare. Nicola disse che lui non si sarebbe fermato in nessun caso, e che quindi solo noi ci saremmo alternati. Venne fuori che io dovevo scavare per primo.
    E ci mettemmo all’opera.
    Per Dio, cominciammo a scavare.

    Edited by RàpsøÐy - 20/12/2017, 16:22
  14. .
    CITAZIONE (Barachiel @ 17/9/2017, 21:17) 
    Cioè stiamo parlando di stupro ed è andata all' ospedale con dei danni, non esiste lo stato menefreghista in quel caso, sei tu che guardi troppa TV, ma non credi di star giustificando troppo questa donna ? Ti faccio un esempio un po' OT, l altro serial killer che veniva preso per culo dall' infanzia e accoppava i bambini che gli facevano scherzi poiché non ce la faceva più, giustificheresti anche lui ? Come scritto nell articolo lo hanno internato dopo 20 anni di carcere a causa della pressione del popolo, un trattamento ingiusto oltre che illegale, e credo che anche tu non ci penseresti due volte a condannarlo; eppure è esattamente lo stesso discorso di questa donna. Se ti senti di giustificare anche quell'uomo, allora amen abbiamo visioni della giustizia diverse, ma se giustifichi lei e non lui ricadi nell'ipocrisia del femminismo moderno come ho detto sopra

    Non si tratta di "ipocrisia del femminismo moderno".
    In Italia, nel 1995, lo stupro era ancora ritenuto un reato contro la morale, non contro la persona. Nemmeno dieci anni prima si sarebbe potuto ricorrere al matrimonio riparatore, solo un anno dopo lo stupro sarebbe diventato reato contro la persona. E certe cose faticano a entrare nella testa della gente cresciuta con una certa mentalità, tanto che ancora oggi leggiamo commenti di cinquantenni che "se l'è cercata, la prossima volta non si veste così attillata e in minigonna". Oggi, eh, 2017. Lì stiamo parlando del 1995.
    Poi, certo, uccidere è sbagliato. Ma io lo dico seduto sul divano, distante con la testa da ciò che è accaduto a quella ragazza. Diverso è vivere quella situazione, ritrovarsi le mani di un vecchio che ti frugano ovunque e sentirsi dire "se ti pago devi lasciarti scopare". In quel caso prima penso a difendermi, poi considero se rivolgermi allo stato o meno.
  15. .
    C'era qualcosa di sbagliato in quel paese.
    Luigi se n'era accorto dal primo sguardo scambiato con un vecchietto seduto su una panchina all'ingresso del borgo. Gli era sfilato davanti in macchina e aveva notato come gli occhi del vecchio, da spenti e vaganti che erano, si fossero fissati su di lui, spalancati. Il contatto visivo era durato un secondo, ma subito dopo Luigi si era fermato di fronte al rosso di un semaforo, che aveva trovato stranamente posizionato: non c'era nessun incrocio, nei paraggi. Aveva comunque rispettato il divieto e, mentre aspettava che scattasse il verde, aveva continuato a osservare il vecchio dallo specchietto retrovisore. Il viso, da un groviglio di rughe pallide, si era disteso, e allo stesso tempo aveva preso colore. Un rosso dolce che gli aveva reso vive le guance. Gli era parso anche di vedere un bagliore istantaneo nel fondo dei suoi occhi, ma non avrebbe potuto dirlo con sicurezza: poteva essersi trattato di un abbaglio dovuto al sole, quasi basso a metà pomeriggio.
    Poi c'era stato l'incontro con il titolare di un bar, situato su un lato di un ampio piazzale che si apriva subito dopo la panchina occupata dal vecchio. Era un posto buio, che puzzava di umido e di residui di cenere e vomito. Il titolare era un uomo allungato, con una zazzera crespa che arrivava fino al collo.
    «Buongiorno» aveva detto Luigi con un sorriso.
    L'altro aveva indugiato un poco. «A lei» aveva fatto poi, anche lui sorridendo. Ma era un sorriso che si estendeva solo da un lato e Luigi l'aveva trovato vagamente spaventoso. «Come posso aiutarla?»
    «Stavo cercando un amico. Nicola Marto. Il nome le dice qualcosa?» Sperava e credeva di sì: si era informato su internet, e aveva scoperto che il paese contava poco più di cinquecento abitanti. Era probabile che il proprietario di un bar li conoscesse tutti, o quasi.
    Ancora qualche attimo di silenzio. «No. Non lo conosco. Ma se vuole può provare a descrivermelo». Il suo viso era un mare di calma piatta. Solo quel mezzo sorriso laterale sulle labbra, che sembravano di un rosso troppo splendido. Ma forse era solo il contrasto con il buio del locale.
    «Sì, certo. È robusto, di media altezza. È sulla trentina. Ha i capelli ricci e lunghi. Deve averlo visto: qui non siete poi tantissimi». Aveva cercato di strizzare l'occhio, ma il proprietario aveva mantenuto la stessa inflessibilità. Anzi, forse si era addirittura incupito, anche se nell'oscurità fitta era difficile cogliere qualche smorfia.
    «Mi dispiace, ma credo di non conoscerlo». Il sorriso si era allargato di di un po'. «C'è altro?»
    «No. Grazie mille lo stesso» aveva detto Luigi con un sorriso stentato. Era entrato lì dentro con l'intenzione di sorseggiare un buon caffè - il viaggio era stato lungo e la strada impervia -, ma adesso gli era passata la voglia. Aveva bisogno di aria.
    Aveva bisogno di uscire da quella catapecchia.
    Era rimontato in macchina e aveva imboccato una salita ripida in sampietrini. In cima, aveva trovato la chiesa. La porta era aperta, ma non era riuscito a distinguere l'interno: troppo buio. Aveva lasciato la macchina lì davanti, con le quattro frecce accese, perché di parcheggi non c'era nemmeno l'ombra.
    La chiesa era gelida rispetto all'aria esterna, che pure era frizzante. C'era odore di incenso e di qualche altra essenza che non aveva riconosciuto. Il miscuglio era nauseante, comunque.
    E allora la sensazione si era rinsaldata. C'era qualcosa di sbagliato in quel paese.
    Nella chiesa c'erano solo due persone. Luigi adesso stava osservando entrambi e proprio non riusciva a capire cosa quella vista stesse a significare, o se i suoi occhi lo stessero ingannando.
    Un prete sull'altare, con gli occhi socchiusi, che muoveva le labbra senza emettere alcun suono. O, se lo emetteva, sicuramente non arrivava in fondo alla chiesa, dove si era fermato Luigi. Muoveva le braccia con lentezza e solennità.
    Appena sotto i gradini, invece, era inginocchiata una bambina. Era minuta, dei capelli corti portati a caschetto le ricadevano sul volto chinato.
    «Scusate» riuscì a scandire, ancora stordito. Il suono gli venne fuori spezzato e flebile, ma bastò, perché il prete aprì gli occhi, smise di muovere le labbra e fece un cenno alla bambina.
    Luigi camminò nella navata centrale verso i due. «Buongiorno».
    «Buongiorno» rispose il prete. Adesso Luigi poteva guardarlo da vicino: i lineamenti erano duri, provati, e sotto la pelle s'intravedevano le vene verdi delle guance. «Le serve qualcosa?»
    «Sì». Inspirò una profonda boccata di aria gelida e nauseabonda. Sentì i polmoni che dolevano e tiravano. «Stavo cercando un amico. Ho chiesto al barista, nella piazza di sotto, ma non ha saputo aiutarmi. Scusate se vi ho interrotto».
    I due si scambiarono un'occhiata. La bimba aveva il naso piccolo e i lineamenti dolci, ma dal modo in cui teneva le spalle dritte e dalla fierezza del suo sguardo, Luigi avrebbe giurato che fosse almeno un'adolescente. Un'adolescente senza alcun accenno di seno e alta un metro e mezzo. L'idea lo fece sorridere.
    Il prete tornò a rivolgersi a lui. «Le sconsiglio di incontrare il suo amico qui. Non capisco nemmeno perché l'ha invitata, sinceramente».
    «Non mi ha invitato. È una sorpresa. E poi era anche un'occasione per visitare il paese: non ha mai voluto parlarmene». Da quei pochi minuti che ci aveva passato, però, capiva perfettamente perché Nicola non gli aveva mai parlato del paese. Se l'era già detto due volte, no?
    Qualcosa di sbagliato.
    «Non è detto nemmeno che sia qui, allora. Magari è fuori per lavoro o per altri motivi». C'era fermezza, nella voce del prete. In qualche modo, era una nota che lo rassicurava.
    «Credo che sia qui, invece. Ci ho parlato ieri e ne sono abbastanza sicuro».
    Il prete fece un respiro profondo e sibilante. Le sue labbra si erano piegate verso il basso, come in una smorfia di rassegnazione. Si piegò verso la bambina e disse qualche parola che Luigi non capì del tutto. Però forse gli parve di intuirle: Dobbiamo cacciarlo.
    «Va bene. Glielo dirò. Sta parlando di Nicola, giusto? È lui il suo amico».
    Il suo cuore ebbe un balzo. E lui come cazzo faceva a saperlo? Annuì solamente: la bocca si era seccata e, se avesse provato a parlare, gli sarebbe venuto fuori solo un verso rauco.
    «Immaginavo. Glielo dico. Però facciamo un patto: se io le do l'indirizzo, lei mi promette di andare via entro le sette di sera. Non più tardi».
    «Ma perché?» disse Luigi. Anzi: quasi lo urlò. Le parole riecheggiarono nella chiesa, per spegnersi poi dopo qualche secondo. Il suo cuore era un pesce che si dibatteva nella rete.
    «Non posso spiegarle adesso. Le dico solo che non dev'essere qui dopo quell'ora. Si fidi di me. La prego».
    «Mi dia l'indirizzo. Poi vedrò io come fare. Non ci sono locande, alberghi, nei paraggi?» Tentò di usare il suo tono più asciutto e sicuro, ma gli parve di percepire l'agitazione della sua stessa voce.
    «Niente. Nessun locale». Un altro sospiro, un altro sguardo con la bambina. «Anche se le dessi l'indirizzo, non lo troverebbe mai. Nessuno l'aiuterebbe. La accompagnerà Lucia». Per un attimo Luigi si chiese chi diavolo fosse Lucia; poi, guardando il gesto del religioso, capì. Certo, la bambina.
    «Grazie». Si sforzò di sorridere, poi si avviò verso l'uscita.
    A qualche metro dal portone, però, la voce del prete lo bloccò. «Mi ascolti, quando le dico di andare via».
    Luigi non si girò. Rabbrividì, e all'improvviso gli precipitò addosso un'altra consapevolezza.
    Non c'era solo qualcosa di sbagliato. C'era anche altro.
    Qualcosa di malvagio.

    Poi riprese a camminare. Le gambe erano sabbia sgretolata, la luce esterna gli faceva male agli occhi. Pensò di ascoltare il consiglio del prete: sarebbe andato via subito, abbandonando il suo proposito di fare la sorpresa all'amico.
    Chiuse gli occhi, respirò a fondo.
    Solo un prete. Chissà cosa c'era, nella testa di quello. Già quel modo di comportarsi quando Luigi era entrato in chiesa - gli occhi chiusi, i gesti lenti e incomprensibili - non era poi tanto normale.
    Calma, si disse. Hai incontrato due tizi strani: non è detto che siano tutti così.
    Ma il cuore nel petto non dava segno di voler cessare la sua corsa e il fatto che il prete avesse indovinato il nome del suo amico dava alle sue parole un'aria più realistica. Realistica e inquietante, anche.
    Il paese era carino. I vicoli che si incrociavano, i ciottoli invece che l'asfalto, le piccole case dai tetti spioventi al posto dei palazzi anonimi. Un altro mondo, più calmo e pulito, rispetto al caos e alla ferocia delle città.
    Il sole continuava ad abbassarsi. Ancora non si nascondeva dietro le montagne grigie che svettavano qualche chilometro oltre la città, ma mancava poco. Il cielo si era già lievemente imporporato e presto sarebbe diventato di un rosso più intenso.
    Le vie erano quasi deserte e la bambina tacque per tutto il tempo. Forse era meglio così: lui aveva lasciato l'auto di fronte alla chiesa e doveva ricordare la strada per potervi tornare.
    A un certo punto, nei pressi di una discesa ripida, due cani iniziarono a latrare verso di loro. Avevano gli occhi rossi, sangue alle estremità. Uno dei due aveva un filo di bava che colava, in equilibrio sul pelo bianco e sporco. Facevano dei salti sulle zampe e continuavano a sbraitare, ma non si avvicinavano a loro. Uno dei due - quello con la bava alla bocca - fece qualche passo in più, poi balzò all'indietro con un guaito di dolore. Nei suoi occhi ora c'era un odio profondo, che brillava e prometteva vendetta.
    Cominciarono a ululare. Era un suono profondo, duro. Luigi esitò per un momento. Non aveva paura dei cani... di solito. E nemmeno questi lo stavano spaventando, per quanto fossero grossi e inferociti. Però provo l'improvviso bisogno di voltarsi, correre su per la salita, rimettersi in macchina e scappare.
    Qualcosa di malvagio, ricordò.
    Rabbrividì. Ora arrivavano ululi da ogni parte: più attutiti quelli dei boschi che circondavano il paese come una cinta verde; forti e vicini - troppo vicini - versi che sembravano provenire dai vicoli accanto ai quelli in cui loro camminavano. La bambina però procedeva con passo deciso e sembrava non essersi nemmeno accorta dei versi che li stavano ricoprendo. Il suo atteggiamento lo tranquillizzava. Pensò che, se c'era lei al suo fianco, non poteva correre pericoli.
    L'idea che a proteggerlo dovesse pensarci una bambina nemmeno adolescente lo fece sorridere. Smettila, stupido. Non c'è nulla da cui dovrebbe proteggerti.
    Adesso erano arrivati davanti alla casa di Nicola. Non ci fu bisogno che la bambina glielo dicesse: lo capì perché quella era l'unica casa in cui ci fossero delle luci accese. Tutte le altre erano buie, con le tapparelle serrate e mucchi di foglie gialle all'esterno. Dietro le tende di quella casa, scorse un'ombra che si muoveva. Un'ombra con i capelli lunghi e ricci: Nicola. Gli scappò un sorriso. C'era arrivato, nonostante la strana reticenza degli abitanti del posto.
    «Puoi andare. Grazie. E ringrazia il parroco: è stato gentilissimo a farmi accompagnare fin qui» la congedò con un sorriso. L'altra fece un cenno breve con la mano e si voltò.
    Luigi stava già cercando il campanello quando la bambina parlò. «Signore, dia ascolto al prete». Aveva una voce ferma che stupiva, addosso a un'età così piccola. «È importante».
    Si voltò per risponderle, ma quella aveva già ripreso a camminare. O meglio: corricchiava. I suoi passi erano brevi e frequenti e Luigi pensò che assomigliasse a una lucertola.
    Diede uno sguardo al sole. Il suo orologio segnava appena le sei e trenta, ma quello era solo una macchia rossastra ormai morente, e la luminosità era calata. Adesso per guardarsi intorno doveva sforzare gli occhi. Strano: in città, adesso che ottobre era appena cominciato, il sole cominciava a scendere quando erano passate le sette. Poi notò un dettaglio particolare: nella via non c'era nessun lampione. Anzi, se ci pensava bene, non ricordava di aver visto lampioni in tutto quel paese.
    La porta non aveva campanello, quindi diede due colpi con le nocche sul legno pesante. Riecheggiarono due tonfi sordi e, dopo qualche secondo, la luce in casa si spense.
    Che cosa stava succedendo?
    Batté altre due volte sulla porta. Nessuno rispose. Eppure Nicola era lì dentro. Lo sapeva: la strada era buia, sì, ma non tanto da impedirgli di vedere il profilo dell'amico che, lentamente, strisciava nella stanza. Perché si stava nascondendo?
    «Nicola, sono Luigi. Aprimi, per favore». Ma la voce gli era venuta fuori debole e dovette schiarirsi la gola. L'ululo dei cani, ormai diventato un sottofondo inavvertito, si fece più cupo e minaccioso. «Nicola!» urlò con tutto il fiato che aveva.
    Dopo qualche secondo la porta si dischiuse. Luigi scorse il naso affilato dell'amico, appena riconoscibile nell'oscurità fitta.
    «Nicola!» Non sapeva perché, ma alla vista dell'amico si era sentito più tranquillo. «Volevo farti una sorpresa! Fammi...»
    «Vai via. Corri». Era stato solo un sibilo. Un brivido gli corse dietro la schiena.
    «Ma che cosa...»
    Luigi lo bloccò con una mano, poi guardò alle sue spalle, nella direzione del sole. «Abbiamo cinque minuti. Non di più». Un respiro profondo. «Entra, veloce». Sparì nel buio.
    Luigi lo seguì. Sentiva le gambe molli che, da un momento all'altro, sarebbero annegate nel mare nero che si apriva davanti a lui. Accelerò il passo e sperò di indovinare la direzione dei passi dell'amico.
    Fu fortunato: Nicola era entrato in una piccola cucina. Un tavolo rotondo, due sole sedie poste di fronte. Alla parete, uno a fianco all'altro, erano appesi due calendari: uno gregoriano, con immagini di santi e frasi tratte dalla Bibbia; l'altro, che consisteva in un'unica grande pagina, aveva un altro ordinamento. Non riuscì a scorgere bene di cosa si trattasse: la luce lì almeno alleviava l'oscurità, ma non abbastanza da consentire una lettura tranquilla. Non ebbe nemmeno il tempo di studiarlo: l'amico cominciò a parlargli, mentre trafficava con le mani vicino alla parete.
    «Abbiamo poco tempo, per questo non mi bloccare». Poi trovò l'interruttore della luce, che si accese singhiozzando, e si voltò verso Luigi. «E, appena te lo dico, vai via. Anche se ormai credo che sia troppo tardi».
    Luigi ebbe il modo di vedere il viso dell'amico. Gli occhi neri parevano infossati in un paio di orbite troppo grandi. Sulle guance sopravviveva la barba di qualche giorno, delle spaccature rossastre gli si erano formati sulle labbra. I capelli erano sempre ricci e lunghi, ma lucidi e sfilacciati, come annegati nell'unto. «Va bene, parla». Più che spaventato, si sentiva scoraggiato.
    «Non so se riuscirai a tornare in macchina. Immagino che, se sei arrivato fino a qui, tu l'abbia lasciata di fronte alla chiesa. Don Dante ha ordinato alla bambina di accompagnarti, giusto?»
    Luigi non sapeva cosa dire. Non conosceva il nome del prete, ma Nicola ci aveva azzeccato. Sentiva il battito del suo cuore nelle tempie.
    Perché non dovrei riuscire a tornarci?
    «"Perché non riuscirò a tornare in macchina?" ti chiederai». Guardò per un attimo nel vuoto, poi riprese. «Perché le strade cambiano. La via che dovrai prendere al ritorno sarà diversa da quella con cui sei arrivato. Certo, c'è la probabilità che la nuova combinazione abbia lasciato intatta la strada da qui alla chiesa, ma...» Fece un sorriso, ma gli occhi erano sempre annegati nelle orbite e l'effetto fu triste. Luigi capì da solo come sarebbe finita la frase.
    «Ma cosa vuoi dire? Nicola, su, sono venuto fin qui...» Aveva l'impressione che l'amico fosse mezzo ubriaco.
    «Ricordi cosa ti ho detto all'inizio? Fai parlare me. Ci è rimasto poco tempo». Chiuse gli occhi e si toccò la testa, come per riordinare i pensieri. «Succede così. Non so dirti il perché, non so quando me ne sono accorto. Lo sai, io sono nato qui, e... Non importa. Non devo divagare. Per me è una cosa normale. Succede perché in questo paese c'è...»
    «Qualcosa di sbagliato» lo interruppe Luigi. La gola gli si era seccata di nuovo.
    «Esatto» disse Nicola. La sua espressione era rimasta inflessibile, e solo un altro sorriso incavato inarcò le sue labbra. Non sembrava stupito, in ogni caso. «Esatto. Qualcosa di malvagio».
    Luigi lo sapeva. Non capiva cosa ci fosse, di così malvagio, ma intuiva la presenza di qualcosa. L'aveva percepita sin dall'inizio: ora si spiegava quel lampo rossiccio negli occhi del vecchio all'ingresso del paese. E adesso quella presenza malvagia cominciava a inquietarlo. Nicola non gli sembrava un avvinazzato, adesso.
    «Qualcosa di malvagio che vuole che tu resti qui. E se questo accade, al tramonto...» Anche qui l'allusione, insieme a quella mezza smorfia, fu sufficiente. Luigi adesso tremava. Era una follia, certo, e alle follie non bisogna dar corda... ma come mai era già la seconda persona a dirgli una cosa del genere? Il prete era stato più generico, ma il significato era lo stesso.
    «Non posso restare da te per la notte?»
    «Non puoi».
    «Ma perché?» Vuoi mandarmi in pasto a quella cosa malvagia? Non lo disse, però. Era una follia, no?
    L'altro rincorse qualche pensiero con lo sguardo nel vuoto. «Mettiamola così. Io, quando il sole scende, so come difendermi. Sono uno dei pochi ancora sani qui dentro, e devo restare in paese perché così sono attratti da me... da me, dal prete e dalla bambina. Se non ci fossimo noi ad attrarli, loro uscirebbero dal paese e porterebbe il male lì fuori». Fece un gesto vago e tacque per qualche secondo. «Se siamo in casa insieme, però, l'attrazione raddoppia. Io so come resistere a una sola tornata, non a due. E tu... nemmeno capisci di cosa sto parlando».
    L'inquietudine era diventato terrore. Terrore puro. Desiderò trovarsi nel suo letto a dormire, oppure dall'altra parte del mondo... anche annegato nel mezzo dell'oceano sarebbe andato bene.
    Ovunque, ma non lì.
    «Cosa stai dicendo?» La voce era tutta un tremore.
    «Lo so cosa stai pensando. Uno: sono pazzo, non devi darmi retta. Due: qualcosa di strano l'hai notato e le mie parole, in realtà, non sono così da pazzo». Su entrambi i punti, constatò Luigi, l'amico aveva indovinato. «Adesso però lascia stare e vai via. C'è ancora Lucia qui fuori?» chiese, alzandosi. Cominciò a camminare verso la porta, ma Luigi non ebbe la forza di seguirlo.
    Scosse solamente la testa. La bocca era ormai un pezzo di cemento lasciato a cuocere sotto il sole. Poi riuscì a dire: «L'ho mandata via quando siamo arrivati qui».
    Nicola rallentò con la sua camminata e lo guardò. Il viso era pallido, smagrito, e i capelli sembravano una corona di spine sporca di grasso. «Immaginavo. Allora fai una cosa: corri. Non importa dove, tu corri. Anche perché, te l'ho detto, le strade cambiano di continuo, e solo chi abita qui sa bene quale direzione prendere. Io però non posso uscire. Se sei fortunato e riesci a trovare la macchina, saltaci su e scappa. È l'unico modo».
    Non credergli. Non devi credergli. È impazzito, forse ubriaco.
    Ma, se ascoltava la sua parte più istintiva, sentiva che l'amico aveva ragione.
    Forse però era meglio credere il contrario. La sua salute mentale ne avrebbe giovato.
    Giunsero alla porta. «Vai, amico... e buona fortuna» disse Nicola. Poi aprì la porta, che emise un lamento. «E scusami se non ti ospito stanotte. Capire forse è impossibile, però...»
    Luigi fece un passo fuori. Non salutò l'amico e aspettò che la porta si chiudesse con un tonfo. Rabbia e paura ribollivano nel petto, i suoi occhi si erano gonfiati e si sentiva sul punto di piangere. Il sole era visibile solo per una lama sottile, appena oltre la V formata dall'incrocio tra due montagne.
    Iniziò a correre. L'ululo dei cani - o forse dei lupi?- si era fatto più vicino, più grottesco, e ogni secondo che passava la minaccia sembrava più incombente. Le strade erano deserte, il sole non era più visibile e aveva lasciato solo la sua scia rossa. Un'occhiata all'orologio, senza bloccare le gambe: le sette meno tre minuti.
    Tentò di seguire la strada dell'andata, ma in cima alla salita la chiesa non c'era più. Né quella né la macchina. Al posto di quella, una vecchia casa gialla con le finestre sbarrate. Si fermò per qualche secondo, piegato sulle ginocchia. Forse allora Nicola aveva ragione. Pensarlo adesso gli metteva addosso i brividi. Ma non aveva già creduto alle sue parole, con quella sua corsa pazza senza meta? Aria gelida gli entrava nei polmoni e glieli squarciava. Il buio ora era più fitto e del sole era scomparsa anche la scia rossa. Riprese a correre. Sbucò in un vicolo, tentò di svoltare in un altro, percorse una strada che puzzava di ammoniaca e pelo sporco. Risbucò di fronte alla stessa casa gialla. L'ululo sempre più vicino, come un cerchio che si stringeva fa ogni lato. La luna non c'era, o forse era nascosta dalle nuvole grigie sulla sua testa.
    Poi, mentre scendeva verso il basso, ancora correndo, sentì due suoni.
    Un ringhio, in basso. Riuscì a distinguere la sagoma di un uomo robusto, dalle spalle spesse, un po' piegate in avanti. Le braccia erano lunghe e ciondolavano nel vuoto. Nel buio, gli occhi brillavano ed erano rossi.
    In basso, invece, una voce. La riconobbe subito: il prete! Si girò verso quella direzione e cominciò a correre.
    Uomini simili al primo ora venivano fuori da tutti i vicoli. Le spalle larghe e pesanti, la schiena curva, gli occhi rossi e famelici. Ringhiavano, ma non era un ringhio da cane. Era qualcosa che apparteneva a qualche altra bestia, un suono più rauco e stertoroso.
    Come di un animale morente.
    Cominciarono a corrergli dietro. All'inizio i loro passi erano pesanti, i corpi grossi facevano da ostacolo alla loro corsa. Luigi continuava a correre lungo la salita, che pareva essersi fatta più ripida. Inciampò su due sampietrini sconnessi e si procurò un'abrasione a una gamba, ma si rialzò e continuò la sua corsa. Il prete era più lontano di prima. Gridava ancora, ma era un grido soffocato dai ringhi che aveva vicino.
    Poi gli uomini cominciarono a correre sostenendosi anche sulle braccia. Così parevano decisamente a loro agio e, se prima Luigi era riuscito a tenerli a distanza, ora la distanza che li separava stava diminuendo.
    Diminuendo sempre di più.
    Il prete era sparito. Forse aveva deciso di salvare almeno se stesso, pensò Luigi nella corsa. Sentiva ormai le gambe pesanti e il respiro rotto. Non sarebbe durato ancora per tanto e non aveva ancora scorto la sua macchina.
    Inciampò di nuovo, e questa volta gli uomini gli furono addosso. Sentì un dolore lancinante a una gamba e uno squarcio che si apriva nell'addome. Una delle bestie gli saltò sulla gola. Ebbe l'occasione di vederne il viso.
    Occhi rossi da demone, saliva lucida sulle labbra vermiglie. Nell'oscurità, appena prima che quello gli azzannasse il collo, Luigi scorse due incisivi appuntiti e splendenti.
    Poi il dolore cessò. Una coltre nera cominciò a oscurargli gli occhi, ma non era rilevante: era da tempo che non vedeva la luce. Diede un ultimo sguardo al suo corpo. La gamba destra non c'era più e sbucavano i tendini bianchi e qualche muscolo sanguinante. Il braccio, invece, era rimasto attaccato alla spalla. Solo che una spinta di un'altra di quelle cose glielo staccò del tutto e lui ebbe la visione del suo sangue che sgorgava come uno zampillo da una fontana. Provò ribrezzo.
    Nessun dolore, però.
    Poi il mondo divenne di un nero più profondo.

    Edited by Tommas02 - 27/10/2017, 20:11
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