Lungo i binari

Parti 6-9 (Finale)

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    #6

    Scoprimmo subito che il caldo torrido aveva indurito il terreno: le pale vi affondavano solo per qualche centimetro.
    «Cazzo, non ce la faccio» mi lamentai io dopo qualche minuto. Forse ero riuscito a rimuovere una decina di centimetri di terriccio, rimanendo generosi, e qualche breve fitta mi prendeva la spalla a ogni nuovo colpo.
    Nicola non rispose. Lui andava avanti con più vigore e aveva scavato quasi il doppio di me. Il viso era una spugna rossa grondante sudore. Non distoglieva gli occhi dal terreno, quasi volesse penetrarlo con lo sguardo e raggiungere suo fratello.
    Quando le fitte alla spalla si fecero più intense, e a ogni affondo nel terreno dovevo accompagnare un ansito, cedetti il mio posto a Marco. Mi sedetti a terra e guardai i miei amici continuare nel lavoro.
    Mi sembrava ancora di avere quel velo di sangue nel cervello. Nessun pensiero logico, comunque.
    Solo il terrore che quello sotto il terreno non fosse un animale, che a causare i colpi non ci fosse qualche altra causa che noi non coglievamo. Che lì sotto ci fosse Samuele.
    Il terrore che fosse vivo… in qualche modo.
    Quando il dolore alla spalla si acquietò mi scambiai di nuovo con Marco. Io continuai a scavare nel punto in cui, fino a quel momento, aveva agito Nicola; lui si mise al lavoro dove avevano scavato io e Marco.
    «Io vado più veloce di voi» ci spiegò. «Così andiamo avanti in maniera regolare». La sua voce adesso era placida, nessuna emozione, neanche una traccia di umanità. E non era umano nemmeno il suo modo di scavare. Ruota la spalla, affonda la pala, spazza la terra, solleva il braccio. E ripeti. Così, all’infinito. Non dava segni di cedimento. Era un ragazzo basso e nell’ultimo mese doveva aver perso diversi chili, ma il movimento meccanico della sua spalla non perdeva vigore.
    Il sole ora era più basso. I cespugli intorno a noi avevano la forma di teste mostruose e deformate, nel cielo correvano striature violacee. C’era ancora tempo prima del tramonto, ma la fossa sotto i nostri piedi stava assumendo dimensioni considerevoli – un mezzo metro di profondità, adesso – e di Samuele ancora nessuna traccia.
    Da una parte era un sollievo. Sentivo ancora il cuore sfrecciare nel petto, il battito caldo e sordo nelle orecchie, e mi dicevo che era il caldo. La paura di ritrovarsi una specie di zombie che tentava di comunicare con il fratello non c’entrava niente, no.
    Ma Nicola adesso scavava reggendosi la spalla, e sul suo viso stava comparendo un’espressione sofferente. Il ritmo delle sue spalate si era fatto irregolare. Mi avrebbe spezzato il cuore vedere le sue illusioni morire.
    I muscoli della spalla ripresero a pulsare e tirare. Li sentivo già intorpiditi per metà. I miei colpi, adesso, erano squilibrati, e un paio di volte mi ero sbilanciato e avevo rischiato di rotolare nel buco. La pelle sulla schiena cominciava a spaccarsi e a cadere.
    «Marco» biascicò Nicola, rantolando. «Mi daresti il cambio? Giusto cinque minuti. Il tempo di riprendermi un attimo».
    Nessuna risposta. Solo un sospiro pesante.
    «Marco?»
    «Mi sembra una cavolata. Quanto vogliamo scavare ancora, prima di ritornarcene a casa?»
    «Avevi detto al tramonto, non puoi tirarti indietro adesso!» ringhiò Nicola, abbandonando la pala. Il muscolo della spalla destra era gonfio.
    Io continuai a scavare: non mi andava di dar retta ai loro litigi. Il velo di sangue ora era più spesso e un fastidioso ronzio cominciava a vagarmi nella testa.
    «Ma è già un…»
    «È già niente! Sei un infame se adesso vuoi…»
    «Cos’è che sono?» Questa volta fu Marco a sbraitare. Fece qualche passo verso Nicola.
    «L’hai capito, cosa sei». I loro nasi si sfiorarono, Nicola poggiò le mani sul petto nudo e sudato di Marco. «Un infame. Rimani qui se non lo sei».
    «La volete smettere o no?» urlai io. L’urlo mi rimbombò nelle orecchie, ovattato, e mi fece montare una rabbia gelida nel cervello. «Vi comportate come ba…» Feci, scagliando la pala a terra.
    Mi interruppi.
    Clamp.
    Il rumore risuonò, secco, nell’aria. Mi parve quasi di sentirne l’eco che si diffondeva per la pianura, il bisbiglio vagante che tagliava l’aria afosa.
    «Cos’è stato?» mi chiese Nicola. Si era allontanato dalla cosa per fronteggiare Marco.
    Io abbassai il capo lentamente. Una vena sul lato del collo pulsava, i peli sulle braccia e appena sopra il sedere si erano rizzati. Il ronzio violento nelle orecchie.
    «Cristo» mormorai dopo qualche secondo.

    #7

    Solo la faccia affiorava dalla terra.
    Sembrava un pesce morto che galleggia in un acquario, con il corpo capovolto che ogni tanto si affaccia fuori dall’acqua.
    Il viso era pallido e gelido. La testa, dalle orecchie fino alla nuca, era ancora sepolta nel terreno, e dei capelli si vedeva solo l’attaccatura. Erano sporchi di terra. C’era terra anche sul resto del viso, una patina polverosa che si infilava nelle pieghe della morte. Il naso, dove era caduta la pala, era mozzato, e la cartilagine bianco sporco tagliava le narici.
    «Gli occhi…» mormorai. Intorno a me, la sera pareva essere scesa all’improvviso, e io sentivo freddo alle ginocchia e alle braccia.
    Tutto il viso era slavato e bianco; le guance sembravano segnate dall’età, la pelle scavata acuiva la prominenza del mento. Ma gli occhi erano spalancati e lucidi. Sembravano scavarti nella pelle come un verme e urlarti nel cuore la loro inquieta disperazione.
    Nicola accorse subito. Guardò giù nella fossa, lasciò cadere per un attimo il mento e qualcosa nei suoi occhi si spense… poi tornò inespressivo, afferrò la sua pala e riprese a scavare.
    «Cos’è?» chiese Marco con la voce piagnucolante. Si era allontanato dalla buca.
    Nicola tacque, e anche io. Il gelo era un morbo che, dalle giunture, si stava espandendo nel resto del corpo. Il mio stomaco emetteva un gorgoglio stridulo.
    «Ra… ragazzi» disse Marco. Deglutì, aprì di nuovo la bocca, poi decise di tacere. Le labbra serrate stavano diventando bianchicce.
    Non so quanto durò. Ricordo il freddo, il pulsare nevrotico delle vene sulla fronte. Ricordo che Marco cominciò a singhiozzare e che dagli occhi di Nicola caddero due lacrime, che finirono sulle labbra di Samuele. Poi la nebbia fitta. Ci sarebbero voluti anni perché si dissolvesse del tutto.
    Poi notai che Nicola aveva dissotterrato il resto del corpo. Presi un grosso respiro e questo schiarì la bruma, almeno per un po’. Poi lo guardai.
    Non c’era sangue né lividi o tagli. La cosa prima mi stupì, poi mi instillò una goccia di angoscia nel petto. La maglietta era sporca di terra, mangiucchiata, ma asciutta, e lo stesso i pantaloni. La scarpa destra mancava, il calzino bianco era bucato in più punti. Feci scorrere il mio sguardo e quando guardai la mano destra le ginocchia mi cedettero.
    Si muoveva. Mulinava a vuoto e sollevava qualche granello di polvere, ma quelli erano i colpi che, prima, ci stavano parlando. Ne ero sicuro. La pelle del dorso era rosicchiata fino alle nocche color avorio e…
    E c’era un mare di vermi che galleggiava nel reticolo di ossa della mano. Erano giallastri ed enormi, grossi quanto un mignolo, e strisciavano ed emettevano versi acuti da bocche larghe come noccioli di ciliegia. Era una visione che dava la nausea, e il suono era anche peggio. Mi voltai, sentii una bile acida risalirmi per la gola, ma non vomitai. Solo due colpi di tosse bavosi sul terreno. Tornai a guardare. «Non sono veri» dissi ad alta voce.
    Ma erano ancora lì. Uno era avvolto sulla poca carne rimanente del pollice. Stava rosicchiando, e mi pareva di sentire il rumore delle sue fauci che ruminavano. Poi capii: erano loro che facevano muovere la mano. La agitavano dall’interno.
    Mi allontanai dalla fossa e lasciai trascorrere qualche minuto, cercando di scacciare le immagini che mi avevano infestato la mente. Mi convinsi che i vermi non erano reali. Troppo grandi e orrendi per esserlo: doveva essere qualche trasposizione dei miei incubi, un ologramma confuso nella nebbia dei miei pensieri. Però Samuele era lì sotto, forse morto da tempo, ma con gli occhi sbarrati e svegli… e questo non potei dimenticarlo.
    «È morto?» chiese Marco. Si era appena affacciato sulla fossa e le sue labbra tremavano.
    Nicola girò la testa verso di lui. Da quando avevamo scoperto il corpo, era rimasto così, inginocchiato a terra, e il suo viso era impassibile e freddo. Solo due lacrime dagli occhi.
    «Sì, stronzo» fece, alzandosi. Puntò verso Marco. «Ed è colpa tua. Ci aveva chiesto aiuto, e se tu non ci facevi perdere tempo ce l’avremmo fatta».
    Forse sono i vermi, pensai io. Sono loro che ci hanno chiesto aiuto, perché hanno fatto muovere la mano. Non lo dissi: la lingua era una striscia di lana ruvida. E poi i vermi erano un’illusione, non dovevo farmi ingannare.
    «Calv… Nicola… io non penso…» balbettò Marco. Era sbiancato.
    «Non pensavi, non pensavi…» fece Nicola, la voce atona, continuando a camminare. Anche lui era cereo, ma attorno al naso aveva venuzze rosse e pulsanti. Quando furono vicini, Nicola fece partire un pugno verso la guancia di Marco. Lui si scansò e il pugno lo colpì di striscio alla tempia, ma cadde a terra… a pochi metri dalla fossa. Un urlo di terrore mi si strozzò in gola. Forse Nicola aveva ragione, ma non volevo che quei vermi – che non esistono – divorassero anche Marco.
    Nicola si chinò su Marco e lo afferrò per i capelli. «Cazzo…» tirò verso di sé. «Di…» lo centrò con uno sputo in un occhio. «Infame!» urlò, e sbatté la sua testa contro il terreno. Poi si alzò. Marco era rimasto chinato a terra, piangente e con le mani a stringersi la testa.
    «Nicola, guarda che…» cominciai io.
    Mi fece segno di tacere con una mano. «Io vado». Montò in bicicletta e partì.
    Dopo qualche secondo mi alzai e raggiunsi Marco. «Tutto a posto?»
    Lui la smise di piangere e si tirò sulle ginocchia. Mi guardò per qualche attimo, gli occhi grandi e tremolanti, poi una nuova fitta di dolore dovette attraversargli la testa, perché cacciò un urletto e si portò una mano dietro la nuca. «Ho un bernoccolo enorme» disse, tirando su col naso.
    Io tastai sul retro della testa. C’era una leggera protuberanza, ma era passato poco tempo. Si sarebbe ingrandita velocemente. Almeno non sanguinava. «Ti riprenderai» dissi, forzando un sorriso. Sentii tutti i muscoli del viso tirare, come se non chiudessi gli occhi da giorni.
    Anche lui accennò un sorriso, poi tornò a singhiozzare. «Non è colpa mia. Io non pensavo…»
    «Non è colpa tua, non è colpa tua» gli dissi. Non ero convintissimo – avevamo sentito tutti quei colpi e ci eravamo convinti che Samuele ci stesse chiedendo aiuto, no? – ma per il momento non potevo dirgli altro.
    Parve rassicurarsi, ma continuò a singhiozzare. Io gli misi una mano sulla spalla per confortarlo, lui sorrise di nuovo. Aveva terra sulle guance e io gliele pulii, anche se le lacrime avevano creato una sorta di fanghiglia. Mi sentivo a disagio. Eravamo amici, sì, ma così… il contatto fisico era roba da ragazze.
    Dopo qualche minuto mi alzai. «Copriamolo. Potrebbe vederlo qualcuno stanotte, ed è meglio di no. Nicola sarà andato ad avvisare i carabinieri, domani lo troveranno loro».
    Marco annuì, anche se fece una smorfia quando sentì il nome di Nicola.
    «Non prendertela. Ha appena visto suo fratello morto…» Sicuro? È davvero morto? Non continuai la frase.
    Mi avvicinai alla fossa e guardai. I vermi c’erano. Il sole stava tra tramontando e diffondeva luce rossastra, sotto la quale i vermi pulsavano, pronti a saltarmi in faccia se mi fossi avvicinato. Mi limitai a stendere un velo di pochi centimetri sul corpo e mi allontanai.
    «Aspettami sulla strada» dissi a Marco. «Devo fare un bisogno».
    Finsi di andare verso i cespugli secchi, ma quando lo vidi scomparire verso la strada tornai indietro e mi accucciai sulla terra che avevo appena rimesso a posto.
    I colpi c’erano ancora.

    #8

    Raggiunsi Marco con il battito di quei colpi che ancora riecheggiava nelle mie orecchie. Il cuore sfrecciava nel petto e pulsava in gola, le ginocchia sembravano cardini di metallo arrugginiti. Una leggera emicrania mi ronzava nelle tempie.
    Montammo in bici e ci avviammo verso il paese. Marco aveva lacrime coagulate sul viso. Io conoscevo la strada a memoria e pedalavo per lo più ad occhi chiusi, solo cercando di evitare pericoli inattesi. Un universo terribile e oscuro, di cui solo poche ore prima ignoravo l’esistenza, mi danzava intorno. Lo stomaco si torceva con fatica.
    La nebbia calò all’improvviso. Non era stata la prima volta quell’estate, né fu l’ultima. Ma la velocità con cui arrivò – quella sì, credo di non averla mai vista. Il cielo, terso fino a pochi momenti prima, con solo poche nuvole rossicce e scariche a vagare nella distesa già ammantata dal tramonto, ora non si vedeva più. Anche gli alberi ai nostri lati e la strada sotto i nostri piedi si erano nascosti nella bruma. Era un po’ come se mi si fossero appannati gli occhiali, solo che all’epoca non li portavo ancora, e avrei scoperto la similitudine solamente diversi anni dopo. Marco, al mio fianco, era solo una macchia più scura e indefinita nell’oceano lattiginoso; sarebbe potuto trattarsi di un gioco di luce, o della sagoma di qualche cespuglio, se non ci fosse stato il cigolio della catena della bici.
    «Non ci vedo per niente» disse Marco dopo poco tempo. Non sapevo se fosse la sua voce o per la nebbia, ma il suono mi era giunto smorzato.
    «Continuiamo a piedi» dissi. Anche la mia voce mi parve ovattata. Il mare di nebbia mi si era infilato nelle orecchie. «Così è poco sicuro».
    Smontammo dalla bici e procedemmo a piedi, costeggiando li guardrail. Prima la nebbia era densa e accecante, ma in pochi minuti era peggiorata. Adesso, se agitavo la mano a un palmo dal mio naso, scorgevo a malapena il contorno delle dita, e solo perché la luce bianca la faceva spiccare. E sembrava anche aver preso una connotazione fisica: era appiccicosa sulla pelle, pesante per i miei passi. Mi sembrava davvero di star attraversando un mare, con le gambe che si muovevano a fatica e la morsa opalescente tutt’attorno che cominciava a sommergerci.
    Fu allora che pensai a Nicola. Si era avviato solo pochi minuti prima di noi e doveva ancora trovarsi a metà strada. Probabilmente nel bel mezzo di quella distesa candida. Poteva ritrovarsi nella traiettoria di qualche macchina, che non avrebbe fatto in tempo a scansarlo e…
    Anche se in realtà non temevo quello. Il ronzio alle tempie si era fatto più intenso.
    «Dovremmo chiamare Calv. Potrebbe essere in pericolo… in mezzo alla strada, potrebbero passare delle macchina» dissi.
    Udii il sospiro di Marco fendere la nebbia. «Sarà già arrivato. Non ho voglia di mettermi a cercarlo».
    «Si è avviato poco prima di noi, non può essere arrivato. Lascia da parte la rabbia. Potrebbe accadergli qualcosa di male».
    Marco sbuffò. «E va bene».
    Feci un breve sorriso, ma la bruma mi bagnava gli angoli della bocca. Come se mi stessi sbavando addosso. Poi urlai: «Calv!»
    «Nicola!» gridò Marco.
    Continuammo per qualche minuto, ma non ci arrivò nessuna risposta. Avevamo affrettato il passo con la bici, attenti a tenerci al margine della carreggiata. Ora il ronzio sembrava corrente elettrica che scorreva nel cervello, e qualche ipotesi stentata pulsava nella mente. Qualche ipotesi brutta, un’ipotesi a cui non volevo dare ascolto.
    «Sarà già arrivato. O forse è davanti a noi di parecchio» disse Marco.
    «Sì. Credo di sì». Ma avevo la voce atona e assente.
    A un tratto mi parve di scorgere qualcosa alla mia sinistra, dove la strada asfaltata lasciava il posto al terreno. Un movimento, forse… ma non potevo esserne sicuro. Solo qualcosa che era scappato al margine del mio sguardo.
    «Aspettami qui» dissi a Marco. «Ho sentito qualcosa».
    Mi mossi in quella direzione. Adesso che avevo abbandonato l’indicazione sicura del guardrail, procedevo del tutto alla cieca. Sapevo che non dovevo allontanarmi troppo da Marco, e anche che poteva essere stata un’illusione della mia mente confusa, ma continuai. La mia bici incontrò qualcosa – forse un sasso o un cespuglio – ed ebbe uno sbalzo. Manciate di terra secca mi frustavano le guance, i granelli graffiavano gli occhi e si infilavano le narici. Tossii, mi parai il viso con le braccia. C’era un odore strano… come di un’acqua fangosa che ristagna nel fondo di una cantina dopo un’alluvione. Qualcosa di umido e pesante.
    Continuai a camminare. Pochi metri dopo, quello che vidi – appena riconoscibile nell'aria fumosa – mi fece lampeggiare qualcosa nella testa. E contribuì ad aumentare il ronzio.
    La terra mulinava nell’aria. Sembrava un turbine scuro e compatto, ma le dimensioni erano ridotte. Era grande quanto la mia gamba, e io all’epoca ero minuto. Feci un passo indietro, sentii le ginocchia cedere e dovetti agitare le mani per tenermi in equilibrio. Ma, nel farlo, lasciai la presa dal manubrio della bici, e quella cadde a terra.
    Il turbine si richiuse dopo pochi secondi. La terra tornò al suo posto, come se non si fosse mai mossa. Io mi preparai a lanciare un urlo: aprii la bocca, riempii i polmoni d’aria… poi ingoiai saliva e polvere e tacqui.
    La nebbia si stava dissolvendo. L’ambiente intorno a me era ancora irriconoscibile, ma aveva smesso di lasciare tracce umide sul mio viso. Mi chinai, cercai a tastoni la bici, la risollevai. Il cuore galoppava nel petto. Tornando indietro, dovetti calpestare lo stesso oggetto di prima, ma questa volta sentii un crap secco. Come di qualcosa che si strappa.
    Mi avviai verso quella che credevo essere la strada. E allora la nebbia tornò a soffocarmi.
    Respiravo a malapena. Sentivo il sibilo dei miei polmoni, poi un silenzio tombale – tombale e paralizzante – che mi circondava. La lingua si era seccata, la bocca immobilizzata in un ghigno spaventato che mi pesava sul viso.
    «Marco!» feci per urlare. Ma non udii la mia stessa voce.
    Qualcosa si nascondeva nella nebbia. Qualcosa di molto vicino. E dovevo scappare prima che la cosa mi prendesse, ma le gambe erano cemento secco, le ginocchia molli come plastica sciolta.
    «Ehy! Sono qui!»
    Un volto bianco mi raggiunse nella bruma. C’era terra sui suoi capelli, terra sui suoi occhi vigili e lampeggianti. Vermi rossi percorrevano la sua bocca e lanciavano versi striduli. Il suo fiato esile ripeteva: «Salvami, salvami, salvami».
    Questa volta urlai; un grido vibrante che mi fece male alle corde vocali.
    Il volto di Samuele scomparve e al suo posto vidi quello di Marco. Avevo la fronte corrugata e gli occhi grandi e pulsanti. Forse c’era un po’ di paura, in quell’espressione, ma penso che fosse soprattutto perplessità.
    «Che hai?» disse Marco.
    «No, niente» biascicai. «Mi sembrava di aver visto qualche movimento, ma non era niente». Non parlai del fatto che avevo visto Samuele nel suo viso: significava aver paura, e non si confessava la paura agli amici. Non gli dissi nemmeno del turbine di terra, né il particolare è mai arrivato alle orecchie di qualcuno. Credevo che fosse stata un’allucinazione. La nebbia era fitta, io ero stanco e nella testa avevo quel fastidioso ronzio. Potevo essermi confuso, no?
    A volte, quando la giornata è abbastanza buona, lo credo ancora.
    Riprendemmo il cammino. La nebbia svanì così com’era arrivata: all’improvviso. Sembrò evaporarmi davanti agli occhi. Nel frattempo era calata la sera. Eravamo arrivati in paese, però, e decidemmo di tornare a casa. Io ero spossato e, anche se la mia visuale era tornata limpida, la nebbia sembrava avermi avviluppato la mente. C’era una lieve coltre lattiginosa dietro ogni mio pensiero, ogni cosa nasceva appena accennata e non si sviluppava del tutto.
    Tornai a casa e mi misi immediatamente a letto. Tutta la stanchezza del giorno mi gravava sui muscoli, la spalla destra bruciava come ghiaccio su un’ustione. Mi addormentai di sasso e sognai.
    Era tornata la nebbia e io ero ancora sulla strada che, dal paese, portava alla ferrovia. In qualche modo, però, la mia vista non era offuscata. C’era la nebbia, sì, e anche la sua bava viscida su ogni centimetro della mia pelle, ma ci vedevo bene.
    Nicola camminava a testa bassa sul terreno. Andava piano, attento ad evitare possibili ostacoli che l’avrebbero fatto inciampare.
    A un certo punto la terra si sollevava a qualche centimetro dai suoi piedi.
    Io provai a urlare, ma avevo la lingua intorpidita. La trachea era bloccata e non respiravo.
    Poi, dal buco creato nel terreno, venne fuori un verme. Era enorme, giallastro, con squame vive che si rincorrevano sulla sua pelle. Non aveva occhi. Quando aprì la bocca, scorsi diverse file di denti piccoli e aguzzi.
    Inghiottì il piedi di Nicola, ma non richiuse la bocca: continuò fino al ginocchio. Sul viso del mio amico era comparsa un’espressione stupita. Non era terrore, non ancora, ma i suoi lineamenti si distorsero presto: le guance sbiancarono, gli occhi si fecero acquosi. La bocca si aprì e lasciò uscire un urlo sordo. Durò poco: il verme richiuse la bocca.
    Prima si sentì un risucchio. Poi un verso acuto, lungo, travolgente. Mi percosse le orecchie e lacerò i timpani. Il verme tornò nella terra ondeggiando il corpo squamato e lanciò un altro dei suoi versi. La terra si levò in un altro turbine che andò a richiudere quel buco.
    È un sogno che si è ripetuto tante volte nel corso degli anni. Alle volte è la nebbia che, come un mare in tempesta, inghiotte Nicola e gli mozza il respiro. Ci sono incubi in cui è il mulinello di terra a richiudersi intorno a Nicola, attaccandosi alla sua pelle umida e trasportandolo nell’abisso. Di rado, anche i miei occhi sono appannati, e tutto ciò che avverto sono i suoni acuti di quel verme enorme.
    Ma il più delle volte il sogno si ripete così, sempre uguale. Il mio sguardo che attraversa la nebbia, quella cosa che emerge dalla terra e divora Nicola, o lo porta con sé chissà dove.
    Quando mi risvegliai al mattino mia madre mi disse che Nicola non era tornato a casa, quella notte. Io piansi e mi sentii torcere le budella e raccontai tutto ciò che ricordavo a un poliziotto. Poco, in realtà: quel mare di latte mi era rimasto dentro. Non riuscivo ad elaborare pensieri o ricordi, i pochi che nascevano morivano soffocati dall’incertezza.
    La cosa che più mi confondeva è che io sapevo già che Nicola era scomparso, prima che me lo dicesse mia madre. Me l'aveva già fatto capire il mio sogno.
    Non l’hanno mai ritrovato.

    #9

    Ricordo poco dei giorni successivi.
    La nebbia, no? Penso che avesse trovato un modo per stendere coltri pallide sui pensieri bui che mi brulicavano in testa.
    Un’emicrania fastidiosa mi ronzò nelle tempie per giorni, simile al rumore che fanno i tubi al neon nelle case vecchie. Era di notte, quando non dormivo e davanti agli occhi sbarrati scorrevano ombre nere, che quella dava il meglio di sé: allora mi sembrava di avere rovi spinosi che si dimenavano nelle pareti del cranio. Piangevo ed ero sempre meno cosciente di ciò che stava avvenendo fuori dalla mia testa.
    Ogni tanto mi pareva di avere lo stomaco rivoltato, proprio come le magliette appena lavate e lasciate a stendere alla rovescia. Qualcosa non era al suo posto, ecco, e l’alterazione si faceva sentire. Dovetti rimanere a digiuno per parecchio tempo, ma non posso dirlo con sicurezza.
    Dopo qualche giorno ritrovarono la scarpa destra di Nicola. Una Superga nera, lo stesso modello dell’unica scarpa di Samuele che la polizia aveva ritrovato il mese precedente. A volte penso che non sia una semplice coincidenza o un segno del destino – ci sono molte cose inspiegabili in questa storia – ma non posso essere sicuro nemmeno di questo.
    La scarpa era strappata al centro. La forma dello strappo, i segni lungo il resto della scarpa, suggerivano che la causa fosse il passaggio di una bici. Lo pneumatico aveva strappato la tela. Non raccontai del crap che avevo sentito quella sera, intrappolato nella nebbia, a pochi metri dal turbine di terra: la notizia aveva fatto aumentare l’emicrania, e quella mi aveva paralizzato. Voleva dire che io avevo intercettato la traiettoria di Nicola e che dovevo essergli vicino, magari abbastanza da fermarlo prima che svanisse nel nulla… o che forse era appena scomparso, inghiottito da un verme enorme che spuntava fuori dal buco nella terra.
    Avevo rischiato anch’io di fare quella fine, quindi. L’ipotesi avrebbe dovuto sconvolgermi o almeno turbarmi, ma non lo fece per niente. Nemmeno mi resi conto del pericolo che avevo corso.
    C’era solo la gelida, oscurante nebbia, e il maledetto mal di testa che mi affliggeva.
    Col tempo la nebbia si è diradata. La sicurezza sull’accaduto non ce l’ho – diavolo, come potrei averla? – ma la luce crescente mi ha aiutato a schiarire la mente.
    All’inizio provai a spiegarmi che cosa era accaduto. Nicola, in preda allo shock per ciò che aveva appena visto, era fuggito per rimanere da solo, piangere al silenzio. Poteva aver perso la scarpa inciampando su un sasso, e magari la nebbia gli aveva impedito di recuperarla; quindi aveva continuato a correre immettendosi nella schiera di alberi, consapevolmente o meno. Una volta che la nebbia si era dissolta, lui si trovava nel folto del bosco, terrorizzato dal buio incalzante, incapace di ritrovare l’orientamento. A quel punto poteva essere successo di tutto: magari si era addentrato in qualche percorso intricato e non aveva fatto altro che peggiorare la sua situazione. Poteva essere morto di freddo o di fame, oppure divorato da qualche animale. Mi sembrava sensato.
    Passarono diversi anni prima che mi decidessi a raccontarmi la verità.
    La mia ipotesi non aveva alcun senso. Certo, era ragionevole, ma non potevo crederci… non dopo aver sentito Samuele parlarci da sotto il terreno, non con la vista del suo corpo intatto sepolto e di quei vermi enormi, così nitida che mi pare di avercela ancora davanti – chiudo gli occhi e quelli ritornano a strisciare sul suo viso.
    Qualcosa di mostruoso si era preso Samuele e poi aveva deciso di fare lo stesso con Nicola. È la spiegazione che mi sono dato tanti anni fa, ed è anche quella che regge ancora. Mi sono spesso chiesto cosa potesse essere, questa cosa mostruosa. La risposta è sempre la stessa: il verme squamato ed enorme.
    Sarà perché l’immagine continua a tormentare i miei sogni, di tanto in tanto. Perché, quando li vidi per la prima volta, mi sembrarono davvero mostruosi, qualcosa che non apparteneva al mondo che io conoscevo. In realtà penso di non avere l’energia per immaginare qualcosa di altrettanto mostruoso: i vermi sono abbastanza e, anche se ci potrebbe essere altro, questo mi basta.
    Anche perché una sola cosa mostruosa è sopportabile, anche se a malapena.
    Si impara a conviverci, ecco. Esistono universi oscuri sepolti sotto il velo apparente delle cose, in cui le tenebre governano e la razionalità è solo una brace recalcitrante e ormai fredda. Esistono barriere invalicabili ed esiste il sovrannaturale.
    L’idea è ancora terrorizzante, senza dubbio. Se penso alla morte, se immagino che non diventeremo né cenere né discepoli di un Dio benevolo, ma prede inconsapevoli di chissà quale terribile realtà, sento un gelo profondo che mi prende alle vene… però questa è solo una delle ipotesi, e a volte spero che ci sarà un contrappasso. Un aldilà tanto stupendo quanto sono ripugnanti i mondi nascosti qui giù… o da qualche parte qui vicino.
    Per il resto ci sono gli impegni del mondo che tutti vediamo, le preoccupazioni quotidiane, l’amore di una moglie. Avere un corpo caldo da stringere rende le notti meno spaventose. Di solito.
    Non è tutto così malvagio, no? Basta cercare di non pensarci e sperare che la prossima volta la vittima non sarò io.
    Credo che aver capito questa cosa da piccolo sia stato un bene, e che la nebbia nella mente sia stata utile, in fondo: ha attutito il colpo, mi ha fatto assorbire la notizia poco alla volta. A dodici anni le paura irrazionali popolano ancora la mente, sebbene sia quella l’età in cui si inizia a scacciarle. Un adulto si crea dei preconcetti sull’esistenza di mondi diversi dal nostro, e temo che vedere questi preconcetti stravolti sarebbe da impazzire.
    Ma non è questo il dubbio che mi rosicchia.
    Ho recuperato le conoscenze del codice Morse solo diversi anni dopo l’accaduto, quando i ricordi si erano già schiariti. Prima è stata una lieve incertezza; poi una domanda concreta; adesso un interrogativo a cui preferirei non rispondere.
    Ero sdraiato al lato dei binari per sentire i rintocchi con cui Samuele cercava di comunicare con noi. Dopo le prime cinque lettere, c’era stato un colpo cupo, e poi avevo starnutito.
    Pensai che non c’erano stati altri colpi. Non avevo sentito altro, del resto, e la lettera m aveva si legava perfettamente alle altre lettere.
    Ma sono mesi che rileggo ogni giorno l’alfabeto Morse, sempre sperando che qualcosa cambi, con l'illusione di aver letto male le cento volte precedenti… che la mia sia solo una paranoia infondata. Ma mi convinco sempre più che non sia così. È un po’ come un muro che si sgretola, eroso dal tempo, e diventa sempre più sottile. Spero che reggerà per sempre: se davvero questo si disgregasse del tutto – questo sì, credo che mi farebbe impazzire.
    Un solo colpo cupo, una linea: lettera m.
    Ma se ci fosse stato un altro suono, dopo quello? Un altro colpo profondo, per esempio. Questo cambierebbe la situazione.
    Due colpi profondi, due linee.
    La parola che Samuele stava cercando di urlare al fratello era un’altra.
    Salvati.

    Edited by RàpsøÐy - 8/1/2018, 16:02
     
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  3. IanEmerson
         
     
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    Aggiunta la settima parte!
     
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    La storia si conclude signori!
     
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    Degna conclusione. Notevoli le influenze Lovecraftiane nel finale (e a Robert Bloch), mi aspettavo quasi che spuntasse fuori il "De Vermis Mysteriis" e che il protagonista dovesse imparare suo malgrado i misteri del verme.
    Varie le influenze, quindi, ma indubbia la personalizzazione e la qualità del lavoro finito. Hai senz'altro reso tue tutte le ispirazioni letterarie presenti nel racconto.
    Vai avanti così, in caso si presentasse un qualche tipo di contest (dentro e fuori questo forum) sarà sicuramente mia premura votare la tua opera.
     
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    Allora, innanzitutto grazie per aver seguito la storia e per i commenti! :)
    La cosa curiosa è che ho letto per la prima volta a riguardo del De Vermis Mysteriis quando avevo già finito il racconto. Sull'influenza di Lovecraft hai ragione, ma non conoscevo Bloch, e grazie a te adesso ho un altro autore da scoprire. :D
     
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    CITAZIONE (Tommas02 @ 11/1/2018, 15:02) 
    Sull'influenza di Lovecraft hai ragione, ma non conoscevo Bloch, e grazie a te adesso ho un altro autore da scoprire. :D

    Si, ti puoi divertire, ti consiglio di leggere "L'orrore dalle stelle" e poi "L'abitatore del buio" se già non lo hai fatto; dopo averli letti capirai che i due scrittori erano buoni amici
     
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