Micol

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    Micol era morta da tre giorni. Fuori, il vento si dibatteva e l’oscurità premeva contro le finestre. Grumi di ombre si contorcevano agli angoli del soffitto. Tenevo il naso premuto contro il cuscino che era stato di Micol e sentivo il suo odore agre che scendeva graffiando lungo la gola.
    Il suo profumo, ecco cosa mi rimaneva. Ma anche l’intensità di quello si andava man mano attenuando. Ancora una notte, forse, poi sarebbe svanito del tutto. Mi sarei ritrovato ad andare alla ricerca di tracce inesistenti, come un uomo può andare alla caccia di mosche nel buio pesto.
    Ogni tanto mi sentivo tremare dalla testa ai piedi. Era come la danza di dita fredde proprio alla base della mia schiena… E quell’odore di agrumi mi aveva morso alla gola e mi stava trascinando al pianto.
    Fu allora che decisi che l’avrei riportata in vita. La rivelazione fu una deflagrazione silenziosa all’interno della mia anima. L’immagine di Micol che si rialzava dalla tomba e si scrollava via la terra di dosso… Per un attimo la danza gelida sulla mia nuca si fece più sfrenata, ma poi venne la speranza, e la speranza leniva il dolore.
    Da giovane avevo letto due o tre manuali di magia nera. Ne ricordavo vagamente uno soltanto: il De Vermis Mysteriis. Un librone dalla copertina verde, con delle grandi lettere dorate incise sulla superficie scabra. Ma li avevo sfogliati in maniera svogliata – quello dell’occultismo era un grande interesse di mio padre e se avevo preso in mano quei libri era solo a causa della sua spinta.
    Adesso però era il mio interesse a essere sbocciato. Non dormii quella notte. Attesi l’alba ripensando alle parole magiche che quei libri contenevano, tentando di recuperare dall’archivio della mia memoria stralci di pezzi letti oltre trent’anni addietro. E mi sembrava di riuscirci davvero. Doveva essere solo suggestione, certo… ma la mia folle speranza iniziale stava cambiando forma, e nel mio cervello era diventata un cauto convincimento.
    Il sorgere del sole spense le mie suggestioni, o almeno lo credetti. Nel corso della giornata provai a evitare che la mia mente tornasse su quell’argomento. Ma rimanevano ceneri recalcitranti all’interno del mio cervello… no, il fuoco non si era sopito.
    Ed ecco che la notte successiva tornò a sfavillare nella mia anima, più caldo e convincente di prima. Potevo riportare Micol da me. Dovevo provarci, per lo meno. E se non ci fossi riuscito…
    Fu un'altra notte insonne. Il mattino, questa volta, contribuì solo a rinforzare la mia certezza. Feci un’abbondante colazione – era da quando Micol si era ammalata che non mi rimpinzavo in quel modo – e decisi che mi sarei messo al lavoro.
    C’era tutta la biblioteca di mio padre da consultare. Alla sua morte, avevo recuperato tutti i suoi libri e li avevo accatastati in scatoloni di cartone, che avevo poi gettato in cantina. Li recuperai e sfogliai i vari titoli. Organizzai una bibliografia: divisi i libri in prioritari, secondari e ignorabili. Cominciai quel giorno stesso. Il tempo aveva accumulato polvere sulle copertine, l’umidità vi aveva creato macchie di muffa che si allargavano sui dorsi. I bordi delle pagine erano ingialliti dagli anni. Nel complesso, però, il testo era leggibile. Prendevo appunti su un taccuino senza realizzare davvero quel che stavo facendo, o quello che avrei dovuto fare. Una certezza sempre più solida mi cullava. L’impressione era quella di stare a galla mollemente sul filo del mare, con l’acqua che ti entra nelle orecchie e ti lava via i pensieri e la sicurezza che quell’oceano immenso non potrebbe mai vincerti.
    Dopo una settimana dovetti tornare a lavorare. Passavo le mattinate e le prime ore del pomeriggio a discutere di architettura con i ragazzi dell’università, ma non appena ritornavo a casa mi ripiombavo sul compito che dovevo portare a termine. Quanto più m’impratichivo nella trascrizione di appunti e di antiche formule, tanto più la mia frenesia aumentava. Ma era una frenesia placida – una fretta addolcita dalla consapevolezza che sarebbe andato tutto alla grande.
    Fu solo dopo un mese che ripescai il De Vermis Mysteriis. Era il librone che ricordavo dalla mia adolescenza. Questo, a differenza degli altri, non aveva sofferto dello scorrere del tempo. Le lettere sulla copertina rifulgevano d’oro; all’interno, le frasi erano talmente precise che pareva fossero appena state stampate. Aprii quel libro, e subito una nuova suggestione scosse il mio animo… Un gorgoglio sordo che veniva dal fondo della mia mente, il riemergere di un sapere che era sempre stato lì ma che non avevo mai conosciuto. D’un tratto, tutte quelle formule che avevo trascritto sul taccuino, fino ad allora dal significato oscuro e dubbio, parvero assumere un senso preciso, una certa struttura che richiamava a quel librone verde. Un significato sinistro, cominciai a intuire, per quanto non fossi ancora in grado di tradurre quelle formule.
    Il De Vermis Mysteriis era un manuale più impegnativo degli altri e richiedeva una grossa apertura mentale verso quei canali inesplorati dalla scienza. Alcuni passaggi oscuri, letti nei momenti di pausa dal lavoro, spesso appena prima di andare a dormire, sbiadivano nel sonno e non lasciavano tracce nella mia mente. E allora mi toccava ricominciare da capo al giorno successivo. La fatica e la grandiosità dell’opera stavano rallentando il mio lavoro, così decisi di licenziarmi. Mi parve la scelta più sensata. Se davvero avevo intenzione di rivedere Micol, allora dovevo compiere una scelta, e l’unica scelta possibile era inseguire il mio sogno. Solo l’idea di annusare ancora quell’odore di agrumi… quell’odore che, dopo quell’ultima notte in cui il fuoco della speranza aveva cominciato a sfolgorare nella mia anima, era per sempre svanito. Mi sentivo mancare, se solo ci ripensavo.
    Adesso potevo dedicare tutto il mio tempo agli studi. Giornate intere passate su quel grosso librone verde, con il carico di pagine da affrontare che via via diminuiva e momenti vaghi in cui mi pareva di poter intravedere al di là della nebbia che mi oscurava la mente…
    Finché un giorno le mie dita sfogliarono l’ultima pagina di quel libro, e i miei occhi, preda di una fattura, scorsero assetati le ultime parole del manuale. E allora tutto mi fu chiaro.
    Non dirò qui delle Forze che giacciono mute tutt’attorno a noi… Forze da cui riusciamo a scampare solo grazie alla loro indifferenza cosmica. Né descriverò il meccanismo danzante che fa stridere le catene dell’universo, o il vento infernale che spira e che avvolge le anime andate. Non potrei, se anche volessi. Sarebbe un discorso troppo impegnativo da tenere e il mio tempo potrebbe volgere al termine prima del suo compimento. E poi la testimonianza potrebbe essere inquinata dalla mia esperienza successiva. Il manuale descrive tutto. Lo fa con delle frasi così nitide che risulta facile figurarsi le immagini che quelle parole evocano. Vi basti sapere dell’esistenza di queste Forze, e della presenza di un Guardiano in grado di fare da tramite tra il nostro universo e il Loro. Era il Guardiano che dovevo evocare, perché questi spalancasse il sipario che ci divide e consentisse l’esaudimento del mio desiderio. E dovevo farlo nell’ora più buia della notte in cui il velo tra i due Universi si assottiglia, e influssi sottili possono agire su corpi ormai privi di vita.
    Mancavano quattro mesi alla notte dei Morti. È una denominazione che risale a epoca ben più antiche di quella cristiana. Dalla lettura del De Vermis Mysteriis, risulta evidente come già i latini avessero ereditato questa ricorrenza da una popolazione ancora antecedente. Si rinvengono segni di un culto parallelo anche nelle civiltà precolombiane, che non sono mai entrate in contatto con i popoli occidentali dell’antichità.
    Ma non sta a me dimostrare tali affermazioni. Il manuale rimane a disposizione di chi sia interessato a leggerlo. Lo sarà per sempre, immagino. Dovrebbero essercene altre quattro copie sparse per il mondo. Io non dirò dove ho nascosto la mia.
    Trascorsi i cinque mesi che mancavano alla notte dei quattro ripetendo mentalmente le operazioni che avrei dovuto compiere. Presto tutte quelle parole si svuotarono di significato e rimasero a rigirarsi nella mia mente come suoni vuoti, dalle articolazioni sinistre, ma privi di senso. Ero più deciso che mai. Il mio tempo sembrava correre verso la meta.
    Micol mi fu sempre accanto. Col senno di poi, potrei dire che la sua anima – se così posso chiamarla – era al mio fianco già nel momento in cui mi misi alla ricerca delle formule che l’avrebbero riportata in vita. Mi piacerebbe dire che era una sorta di angelo protettore posto sulla mia spalla. Un angelo che mi mormorava buoni consigli all’orecchio, consigli che io non fui in grado di ascoltare, troppo accecato dalla bramosia di riaverla con me. Penso però che la parte buona del suo spirito si fosse dissolta con la morte. Adesso credo che Micol fosse vicino a me perché voleva che portassi a termine il mio progetto, perché nessuno potesse convincermi che quell’idea era folle. Era lì, al mio fianco, ridente, mentre già si pregustava il risuono dei segreti dell’Altra Parte, preparandosi al momento in cui le sue labbra avrebbero riecheggiato quel vento…
    La notte dei Morti arrivò talmente in fretta da cogliermi impreparato. Certo, la mia mente aveva ripetuto centinaia di volte la successione delle operazioni da fare e ogni muscolo del mio corpo fremeva per rivedere Micol, ma… rimaneva una resistenza vaga, qualcosa di cui nemmeno mi accorgevo, ma che adesso mi lanciava brevi tremiti di paura.
    Una parte di me intuiva la follia di quell’azione, o forse si ritraeva di fronte all’idea di capovolgere le regole della natura. Anche nel peggiore degli assassini sopravvive l’animo di un bambino, un nocciolo fragile che bisogna solo mettere a nudo. Ecco cos’ho letto da qualche parte. Dev’essere accaduta la stessa cosa a me.
    Dovevo cominciare col sangue. C’è una pompa di benzina, a qualche centinaio di metri da casa mia, che la notte fa da rifugio per un branco di cani randagi. Ci andai in macchina, portando con me un secchio con del cibo, un paio di guanti e un coltello a serramanico in legno. Quando arrivai, alle nove di sera, i cani erano già lì. Aspettai che l’unica auto in fila per fare benzina fosse andata via e mi avvicinai al branco. Sparsi la carne che avevo nel secchio per terra, facendo attenzione a distribuirla per bene: i cani dovevano dividersi. Se si fossero avvicinati tutti insieme, sarebbe stato pericoloso. Un labrador magro dal pelo ingrigito si accostò a me fiutando il terreno. Gli porsi la mano e mi chinai al suo fianco. Lui leccò i miei guanti. Cominciai a carezzarlo sulla schiena, scendendo pian piano verso il costato, mentre il cane prendeva a mangiare voracemente. Tenevo il coltello a serramanico nell’altra mano. L’odore di pelo incrostato mi saliva fino alle narici e pareva attaccarsi ai miei vestiti. Quando il cane mi parve abbastanza mansueto, premetti il legno contro il suo costato e feci scattare la lama.
    I suoi muscoli sciolti si irrigidirono tra le mie mani. Ci furono un paio di guaiti distorti, quasi degli ululati. Subito feci scorrere il secchio sotto la ferita ed estrassi il coltello. Il sangue cominciò a colare a fiumi, macchiando il pelo grigio dell’animale e schizzando sui bordi del secchio. Il cane continuava a guaire, in maniera sempre più disperata. Ma nel giro di qualche secondo il suo abbaiare si placò e le gambe gli cedettero. Afferrai il secchio, che si era riempito a metà, e m’infilai in macchina. Guidai fino al cimitero e fu lì che mi appostai per il tempo che mancava a mezzanotte. Una gioia impazzita mi schizzava qua e là nel cervello come una pallina da ping pong. Potevo immaginare già le carni di Micol che premevano contro le mie, il suo respiro agre che mi faceva fremere la pelle.
    Risorgeremo, recitava una scritta a caratteri cubitali posta sul muretto che cingeva il cimitero. Guardavo la scritta e un sorriso che saliva dalla parte più profonda di me mi allargava le labbra.
    L’ora più buia della notte. Le due e mezza, in quel caso. A quell’ora avrei dovuto agire. Ma all’una ero già dentro, con la cassetta degli attrezzi in una mano e una torcia nell’altra. Ero entrato scavalcando il cancello e adesso andavo alla ricerca della tomba. Era sotto terra e non, come la maggior parte delle altre, posta in un tumulo. La cosa mi facilitò il lavoro. Diressi il fascio di luce verso il punto in cui era posta la lapide e cominciai a scavare.
    Durò un’ora intera. I crampi si arrampicavano sulla mia spalla e mi mordevano i muscoli e un velo di sudore si era posato sulla mia fronte. Poi la punta della mia pala batté sul legno della bara. Il rumore che ne venne fuori fu graffiante e assordante. Dissotterrai del tutto la cassa e mi calai nella buca. Con un cacciavite e un trapano, rimossi i chiodi che tenevano chiusa la tomba. Non la spalancai, anche se una sorta di debolezza lasciva mi prese allo stomaco, e le mie braccia tremavano dalla voglia di rivedere il suo volto.
    Ritornai in superficie e osservai la fossa che avevo scavato. Un metro di pendio all’incirca. Quando Micol si fosse rianimata…
    Ma dovevo seguire il rito. Un’ultima occhiata all’orologio. Le due e un quarto. Dovevo agire, e in fretta.
    Scavalcai per uscire dal cimitero, tornai alla macchina e presi con me il secchio pieno di sangue. Quindi tornai alla tomba. Nella cassetta degli attrezzi c’erano anche una tavoletta di legno abbastanza larga, della carbonella, fogli di giornali e un accendino. Presi un pennellino, lo intinsi nel sangue e cominciai a scrivere su un lato del pezzo di legno.

    Micol Sartri.
    27/03/2018


    Poi dipinsi una figura stilizzata di Micol, facendo attenzione a cogliere gli aspetti particolari del suo viso – l’ovale allungato della testa, la fessura stretta degli occhi, il naso lungo e regale. Poggiai il pezzo di legno a terra, aspettando che il sangue si seccasse, e intanto cominciai ad accendere il fuoco. Bastava qualche fiamma, non era necessario un falò sfolgorante. Ci impiegai qualche minuto. Nel frattempo, la scritta si era fissata sul legno. La guardai nella luce della torcia, e le lettere scure e frastagliate mi parvero contenere un segreto oscuro.
    Quindi voltai la tavoletta di legno e cominciai a scrivere anche sull’altro lato.

    Charon transitus, mihi aperi tuas immensitatis. Vitam pro vita tibi do.


    Fatto questo, contai i due minuti che mancavano alle due e mezza. Il buio era fitto e assoluto, se non per la luce giallastra della torcia e il rifulgere timido del fuoco. Tutt’attorno, la danza di un’accolta di ombre.
    Quando fu il momento, gettai la tavoletta nel fuoco e cominciai a recitare: «Charon transitus, mihi aperi tuas immensitatis. Vitam pro vita tibi do». Lo dissi a voce alta la prima volta, e quando lo ripetei stavo quasi urlando. Il fuoco consumava la tavoletta di legno in maniera repentina; trenta secondi, e non era rimasto che un mucchio di cenere.
    E allora qualcosa accadde. Il mio cervello precipitò in un oblio vaporoso, i miei sensi si addormentarono e i contorni del mondo sfumarono nell’incertezza. Era un po’ come l’effetto di una sbronza. Ma, in quello stato di incoscienza, c’erano voci… suoni che non saprei descrivere, e un grande stridio, e un rumore rombante che era come vento. Tutte sensazioni che non giungevano direttamente alle mie orecchie. I suoni parevano essere sotto di me, ma anche al di sopra della mia testa, o ai miei lati… forse erano dentro di me, come il risuonare di un universo nascosto.
    Tornai in me con l’udire di un tonfo. Una scossa elettrica attraversò la mia schiena. Il coperchio della bara si stava sollevando.
    E la vidi venir fuori. Si tirò su sulle gambe e potei sentire tutte le sue ossa scricchiolare dopo i mesi di immobilità. La felicità mi inondava il cervello; una sensazione d’amore che mai avevo provato prima mi gonfiava il cuore. La sua faccia… brandelli di pelle cascanti e terra nelle piaghe della decomposizione. Un colorito grigiastro le invadeva le guance. Si arrampicò e tese le mani verso di me. Aveva le unghie sporche di terra, i vermi le avevano mangiato il dorso della mano e s’intravedeva il reticolo delle ossa. Mi guardò negli occhi. Il suo sguardo era buio e bieco, eppure luccicante di una conoscenza che veniva da mondi insondabili…
    Mi abbracciò, e io risposi alla sua stretta. La zaffata che mi aggredì le narici sapeva di terra marcita e pelle vecchia… ma fu come il profumo di agrumi per il mio cuore. Tra i nostri corpi, i vestiti e il sudario che era rimasto appicciato alla sua camicetta, ma potevo sentire le sue carni sgretolarsi al mio tocco… la freddezza delle sue dita.
    Avvicinò la bocca al mio orecchio, emettendo un fiato roco e gelido, appena udibile.
    Mi sussurrò segreti che solo una donna morta può conoscere.
    Mai delle parole ebbero un tale potere evocativo. Suoni turpi, che si distorcevano vibrando attraverso le sue corde vocali già rotte, si trasfiguravano in immagini precise, in sensazioni che avvolgevano ogni sfera sensoriale. Vidi, e sentii.
    Le decine di occhi che si frangono sul volto del Guardiano, e il ghigno che si apre sulla sua bocca color sangue e squamata quando nuove anime si accingono alla sua fila infinita. E le Forze che danzano nel vento e lanciano suoni stridenti, e il meccanismo infernale che ruota in maniera distorta senza posa, e il Nero Assoluto che circonda quel palcoscenico di terrore…
    L'orrore montava nel mio petto come un vortice. Le mie gambe si erano fatte cera sciolta e mi ero lasciato cadere a terra; la bocca di Micol non si staccò dal mio orecchio e anche lei si accasciò, seguendomi a gattoni nella sua caduta. L’odore di terra marcita nelle mie narici era così denso che pareva aver impregnato il mondo.
    Lei pose le sue dita gelide sulle mie. Una cascata di pelle morta tra le fessure delle mie dita. O forse era solo terra.
    Poi il suono nelle mie orecchie cambiò. Non più parole, per quanto gracchianti e distorte, con quella magica facoltà di evocare immagini e sensazioni nitide… Ora la sua bocca riecheggiava i suoni infernali di quell’altro Universo. Il vento che investe le anime dannate, un suono rombante in cui i lamenti e il dolore si perdono, e divengono solo frammenti rovinati, sofferenza individuale che si mescola al flusso incurante di quell’Universo.
    Già le frasi del De Vermis Mysteriis mi avevano impressionato per la loro precisione e le parole distorte di prima si erano tramutate in immagini vive nella mia mente. Ma non era nulla rispetto a quell’eco di un Universo forse inarrivabile, eppure così prossimo…
    Micol strinse più forte la presa sulle mie dita.
    E allora il terrore mi sopraffece. Urlai e con un balzo mi tirai indietro dal rimbombo di quei suoni. Per un attimo ancora guardai i suoi occhi. L’immagine si è stampata come un fulmine al centro della mia testa; mi basta chiudere gli occhi e quello sguardo torna a perlustrare gli anfratti più segreti della mia anima.
    Occhi torvi, che apparivano senza vita, a guardarli frettolosamente. Ma più in fondo, lì dove lei voleva condurmi, c’era il riflesso di ciò che stava accadendo dall’Altra Parte.
    Scappai dal cimitero e tornai in macchina.
    Questo è accaduto tre giorni fa. Ho solo vaghi ricordi e sensazioni delle ore trascorse da quel momento ad adesso. Il terrore, soprattutto. Un fuoco che carbonizza i miei ricordi e la mia essenza. Non è svanito, ma stamattina mi ha concesso una breve tregua e mi ha permesso di tornare in me.
    Ero nel mio letto, sudato e sporco. Una bruma fitta mi oscurava la memoria. Mi sono alzato, dolorante, e quando le mie ginocchia hanno scricchiolato per la lunga dormita, ecco che alla mia mente si è presentata l’immagine delle ossa crepitanti di Micol. Allora ho ricordato tutto. Ho fatto sì che l’orrore non mi vincesse, questa volta, e sono corso al mio studio. Il De Vermis Mysteriis era ancora lì, con le sue lettere dorate più fulgenti che mai.
    Ho acceso un fuoco nel camino e, quando è diventato grande abbastanza, ci ho buttato dentro il libro. Nel giro di un minuto, il fuoco si è spento. Il manuale è rimasto integro – nemmeno il segno di una strinatura agli angoli delle pagine. Allora ho nascosto il manuale – dove, come già affermato, non lo dirò.
    E adesso sono di fronte a una decisione. Sopravvivere, con la consapevolezza del terrore che mi aspetterà una volta che il mio corpo sarà senza vita e il tormento che rosicchierà il mio cervello per gli anni che mi mancano; o porre fine a tutto già adesso, affrontando subito il mio destino.
    Le due possibilità mi paiono entrambe raccapriccianti. Ho una sola domanda che mi girovaga per la mente da quando sono sveglio.
    Cosa sono gli anni che mi restano, di fronte alla corrente infinita di quel vento?
    E la domanda non fa che riannodare ancor di più il groviglio nella mia testa.
    Se deciderò di sopravvivere, allora riprenderò questo commentario e lo aggiornerò con le mie ultime sensazioni, cosicché si mantenga memoria della mia esperienza.
    Se la mia decisione sarà diversa, queste saranno le mie ultime parole.

    Edited by Erein Uzuki - 26/10/2018, 21:47
     
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    La storia è carina, posso solo chiederti del finale? Il fatto che non si capisca cosa decide di fare è deciso o sono io che non ho capito? Della storia in sé mi piace l'idea che lui poco a poco venga risucchiato dalla speranza che questi libri di magia nera gli stavano dando, sapevo che con Micol sarebbe finita così (esperienza horror ehehe) ma ho apprezzato la descrizione sulla lenta e inesorabile entrata nella pazzia del protagonista.

    Edited by Erein Uzuki - 26/10/2018, 21:45
     
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    Certo! Allora, il protagonista si suicida, e pensavo si capisse dal fatto che lo scritto finisce con "queste saranno le mie ultime parole". Se non si fosse suicidato, avrebbe continuato a scrivere. Però magari potrei aggiungere un paio di righe alla fine, per esempio "Manoscritto trovato vicino al corpo..."
    Per quanto riguarda la punteggiatura, l'intenzione era di dare un certo ritmo alla storia e di non appiattire troppo la narrazione. Volevo un po' simulare la scrittura di un uomo che "accumula" i ricordi sulla pagina, perché questi sono poco chiari o magari perché non vuole tornare a pensarci, ma quelle "e" senza virgola mi davano l'idea di un elenco di cose poco importanti, mentre la virgola più o meno crea una certa divisione tra le immagini.
    Per il resto, ora correggo. Non mi ritrovo con la correzione di "non rimase" al posto di "non era rimasto": secondo me, per com'è scritto, prima c'è la tavoletta che si consuma, e solo dopo la specificazione del tempo impiegato perché la tavoletta bruciasse (l'ho spiegato in maniera terribile ma vabbè :D)
    Eh niente, grazie per il commento :)

    Ah, dimenticavo! Ho sostituito "tomba" con "bara", ma dopo un paio di righi avevo usato la parola "bara" e l'ho risostituita con "tomba" per non ripetermi :D Non mi è chiara esattamente la differenza, però se non va bene cerco di cambiarla
     
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    Dunque, stando a me non occorre dividere il racconto. Sì, è vero che è un po' lungo, ma trovo che sia comunque ampiamente leggibile in questa forma.
    Detto questo, passo pure al commento della storia - dal momento che la correzione è stata già fatta in maniera abbastanza puntigliosa, vertendo per fortuna più su accorgimenti ortografici e di ritmo.
    La storia si presta bene, l'elemento surreale che sta alla base di questa non risulta ridicolo. È scritta in maniera soddisfacente, è coinvolgente. L'idea alla base è carina e di sicuro è stata trattata secondo una narrazione pulita e ben immersa nella caratterizzazione del personaggio.
    Così va bene. Immagino questo vada in Horror Stories.
     
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    Ah, dimenticavo! Ho sostituito "tomba" con "bara", ma dopo un paio di righi avevo usato la parola "bara" e l'ho risostituita con "tomba" per non ripetermi :D Non mi è chiara esattamente la differenza, però se non va bene cerco di cambiarla

    La differenza è che la "tomba" è... tutto, pietra tombale e bara. La bara è solo quella chiamata "cassa da morto" o cassa mortuaria. Scrivere Tomba non è del tutto errato ma qui "Poi la punta della mia pala batté sul legno della bara", dove avevi scritto "tomba" al posto di bara era effettivamente errato ma hai sistemato :)

    Ah ora ho capito il finale, sì ci sta e per quanto riguarda le correzioni certo, i miei erano consigli, se non è del tutto una cosa errata allora può starci. Confermo HS anche io.
     
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    Storia carina, anche se con finale prevedibile (e penso che sia stata pianificata in tal senso). Unica cosa: non so se ci sia un diverso significato esoterico ma non esiste l'ora più buia della notte; da quando il sole è svanito completamente a quando comincia a riapparire la notte è buia esattamente allo stesso modo.
     
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  8. Andrea_Mariani
         
     
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    Ciao Tommaso, è un bel racconto, bravo! L'unica cosa è che rivedrei alcuni aggettivi. Ti faccio un esempio citando una parte dell'incipit: "Tenevo il naso premuto contro il cuscino che era stato di Micol e sentivo il suo odore agre che scendeva graffiando lungo la gola."
    In questo caso "agro" trasforma l'odore in qualcosa di acido e quindi è difficile associarlo ad un ricordo piacevole. Il tuo intento era quello di descrivere il profumo di agrumi che usava Micol, quindi proverei a parlare proprio di quello, in maniera più approfondita e non lo sintetizzerei con un unico aggettivo così aggressivo. Fai vivere al lettore quell'odore/ricordo così importante per il protagonista. :)
     
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    Ti seguivo con un mio vecchio account, è sempre un piacere leggerti. Ho notato giusto un paio di maiuscole al posto sbagliato ed un piccolo errore di editing (?), anche se onestamente mi dispiace sottolinearlo. Come sempre lo standard qualitativo si mantiene su livelli molto alti, hai uno stile di scrittura molto fluido e concreto, ma non per questo poco dettagliato e poco descrittivo. Trovo ingiuste le critiche al finale, sarà anche prevedibile, ma è una conclusione logica e coerente. Complimenti!
     
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