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Stava sulla porta e mi guardava, il suo sguardo congelato, con i piedi che calpestavano la terra e il fango che scrostandosi da quegli stivali imbottiti strisciava tra le insenature del pavimento perfettamente a scacchi, una tegola grigia e l'altra bluastra, e chissà se un giorno i venti sotterranei che scorrevano sotto il mio soggiorno l'avrebbero condotto, il fango, sotto ai miei, di piedi; me che la guardavo altrettanto con il collo leggermente ritorto in una posizione innaturale, il busto contro il muro e la scrivania e il laptop, mentre imperturbabile creavo un Nuovo documento di testo, tra gli altri sparsi sullo schermo, che riempivano lo schermo, forse il quarto, quel giorno, e lei rimaneva lì, un gruppo di capelli bagnati le ciondolavano dalla nuca, gravidi come impiccati da un elastico nero, i suoi capelli bluastri, e non parlava, aspettava fossi io, ma evidentemente non lo ero, e neppure ero sicuro lo fosse lei.
Non ebbe che da fare un passo e un tremore assopito venne a scuotermi, reclinai lo schermo del laptop e le ginocchia in vista di slanciarmi in avanti come una marionetta triste, lei vestiva un k-way e sotto evidentemente poco d'altro, se non la carne lisa dei suoi seni.
Piangeva freddo.
Aveva le ginocchia spezzate, le mani ruvide, un taglio verticale dal pube all'addome o viceversa, poiché non c'era un inizio o una fine, tutti i punti erano stati varcati nello stesso istante da una grande lama. Me lo ricordo.
Ma poi dopo sei mesi venne, adesso, le dissi prendiamoci un bicchiere di vino, incespicando nei cavi e nei pacchetti di sigarette greche, nei preservativi e nella vernice grigio scuro; mi affaticai verso la dispensa e non c'era nulla se non un libro del marchese de Sade e mezza bottiglia di Aglianico sventato; per racimolare dei cocci di vetro dal pavimento nella vana speranza di riesumare uno o due bicchieri mi feci un taglio sul palmo della mano.
Non parlò mai, lei. Mi disse che non poteva più parlare, non potevamo entrambi. Come me lo disse, non sono ancora riuscito a saperlo, ma era come un pensiero nato spontaneamente dentro di me, sentii che disse qualcosa del genere.
Ne avrò anch'io uno così? chiesi, anch'io sussurando, quasi non accorgendomi che le mie labbra restavano chiuse, indicando il k-way, e lei annuì, rimanendo immobile e con lo sguardo stanco, fisso sul vuoto che si intravedeva oltre la porta semiaperta della mia stanza.
Allora tracannai il vino dimenticando di offrirgliene anche un solo sorso, ma non le importava, piuttosto volle andare in camera, iniziò a sciogliersi i capelli con gesti meccanici delle braccia e poi delle dita, così rigida, pareva non sapesse come muovere i suoi stessi arti, ma sulle prime, disgustato dal vino, non ci badai.
Il collo del k-way le attraversò il cranio e la chioma bluastra, fu nuda ed io piansi dalla contentezza, un angelo spogliato della sua corazza invisibile e divenuto umano, pensai, e senza guardare attraversammo la soglia.
Il mio letto era imbrattato di sangue e feci, forse miei o del corpo che ciondolava dal lampadario, marionetta sessuale, nudo, le braccia e le gambe snodate, i lividi sul membro flaccido e lo scroto sanguinante.
Io morto vomitai uno spettro vespertino che si trascinò annaspando fin dentro l'impiccato, ed i miei due cadaveri si riebbero solo per poterla scrutare, abbacinati, da entrambe le loro prospettive, come in Cielo così in Terra, e Lei, con i piedi nel marciume, sul materasso scoperto, mi strinse forte finché non conobbi più niente.
I due protagonisti sono entrambi morti, l'uno a causa dall'altra, e sono stati destinati a rincontrarsi prima di svanire nel nulla.
Edited by Swaky - 27/2/2018, 17:49
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