Posts written by @AnthonyInBlack

  1. .

    I


    In quella stagione c’erano una dozzina di ragazzi a Klayton Lane. Si trattava di un luogo montano, immerso nei boschi di una qualche regione del Nord America. Gli abitanti erano troppo pochi per poter costituire una città e il paese era diviso in due parti: quella sud e quella nord. Tra di esse vigeva una palude nota come ‘La fossa’. “Ho sentito dire che l’anno scorso hanno avvistato un troll da quelle parti” soggiunse Henry, rivolto all'amico. I fanciulli erano poggiati al bancone della cucina, nella casa della signora Flaubert. Talvolta dirigevano lo sguardo oltre le finestre, ma subito lo ritiravano indietro. Le espressioni dei loro volti confermavano che, durante la notte, la natura poteva apparire tetra e agghiacciante a Klayton Lane. “Ho bisogno di vedere Layla. Non mi importa delle storielle che si inventano i vecchi per non farci allontanare” proseguì Al. Per quanto potesse essere assurdo ciò che si diceva in giro sulla fossa, tuttavia, si trattava davvero di un posto lugubre e inospitale. Ed Henry non poteva fare a meno di ragguardare il compagno, ogni volta che ne parlava.

    Il casolare dei Flaubert era una sorta di albergo, immerso nella campagna e contornato da un recinto. Gli alberi che si levavano al cielo lì intorno erano grandi pini dal tronco ruvido e gli aghi appuntiti. Il suolo, invece, era ricoperto da cespugli di rovi e piante selvatiche dalle forme inusuali e contorte. “Mi stai ascoltando?” riprese Alan. Il compagno annuì. “Certo, che ti sento. Quello che hai detto è… bello, in un certo senso. Adesso devi solo capire se anche lei…” “Se anche lei sente i tarli nello stomaco quando mi vede”. L’innamorato si accarezzò il mento. Parlava di tarli, anziché farfalle, perché pensava all’emozione che stava provando come a qualcosa che lo mangiava da dentro. Quegli insetti, avrebbe detto lui, stanno scavando un po' dappertutto nel mio corpo, ma specialmente nel cuore.

    “Io vado a dormire” aggiunse poco dopo Henry, scomparendo dietro l’angolo che dava al soggiorno. Il fanciullo innamorato, invece, restò davanti agli scuri. Fuori tirava una brezza non proprio leggera, che muoveva i fili di grano aldilà dello steccato. Alan immaginò di trovarsi lì, in mezzo alla natura selvaggia, e provò un brivido di freddo. Dopodiché gli tornarono in mente le parole dell’amico: ho sentito dire che hanno avvistato un troll, da quelle parti. Se normalmente avrebbe riso ad una simile affermazione, in quel momento ne fu intimorito. Così staccò lo sguardo dalla finestra, nella paura che d’un tratto spuntasse qualcuno tra l’erba e gli alberi. O peggio, proprio vicino al vetro, a pochi centimetri dalla sua faccia. In casa tutti dormivano e nessuno avrebbe potuto salvarlo da un essere piccolo, rugoso e inumano. Ciò nonostante, qualcosa che poteva liberarlo dai cattivi pensieri esisteva. Il suo nome era Layla e si trovava dall’altra parte della fossa, nella parte nord del centro abitato. Il solo pensarla, per il ragazzo, equivaleva a far scomparire ogni sorta di mostro, goblin o demone maligno dalla sua mente.

    Per quella notte, Alan non chiuse occhio. Gli tornarono alla memoria le immagini della festa di paese, avvenuta un paio di settimane prima. Un cartello appeso all’Hill Pub recitava: 'Grande festa del 1964, per residenti e turisti'. Era stato in quell’occasione che Alan aveva conosciuto Layla. I lineamenti della ragazza l’avevano colpito subito. La piccola donna era alta più o meno quanto i due amici e aveva dei capelli molto chiari, quasi bianchi. Ballava a ritmo della musica che produceva qualche vecchio del posto, con fisarmoniche e chitarre. Al, però, non ebbe il coraggio di andare a parlarle, quella sera. Solo in seguito si informò sulla sua identità e scoprì che abitava oltre la palude. Perciò il rimorso lo stava divorando, proprio come una di quelle creature mangiatrici di uomini di cui si parlava nelle leggende legate alla fossa.


    II


    “Il problema” annunciò Henry, “È che siete tutti uguali. Quindi, se per sbaglio passo la palla a Johnny, anziché a Tommy o a Bobby, iniziate a litigare come marmocchi”. I giovanotti trascorrevano il pomeriggio nel giardino dei fratelli Remington, divertendosi a lanciarsi un pallone mezzo sgonfio e tutto rattoppato. Il sole splendeva alto e forte, quel giorno. Ciò nonostante, Alan pareva sottostare ad una nuvola gigantesca, portatrice di tenebre e tristezza. “Non è vero, accidenti!” replicò uno dei Remington. “Io ho una maglietta blu, mentre John è vestito di rosso e Bob è completamente in verde”. Quei fratelli (o come a loro piaceva farsi chiamare, trimelli), potevano essere caotici e fastidiosi allo stesso modo di uno sciame d’api impazzito.

    Henry si passò una mano sulla fronte sudata e restò qualche istante con la palla stretta tra le braccia. Tentò di far smettere la discussione che avevano innescato i trimelli ma, molto presto, si rese conto che non l’avrebbero mai ascoltato. Allorché fece segno ad Alan che era arrivato il momento di tornare a casa. I due, quindi, intrapresero la via che portava ad est, verso l’abitazione dei Flaubert. Mentre passeggiavano per il sentiero, non aprirono bocca. Sembravano entrambi stanchi e annoiati. Ad un certo punto, però, qualcosa attrasse la loro attenzione. Sentirono un rumore provenire dall’alto e, alzando lo sguardo, scoprirono che un gruppo di corvi si era levato improvvisamente sulle loro teste.

    “Quegli uccelli sono un gran brutto segno, Al” cominciò Henry. Dopodiché si girò verso il compagno e notò che il suo volto comunicava un messaggio ben chiaro. Diceva: non ti sto ascoltando, oppure sì, hai ragione, ma ora lasciami stare. “Si può sapere che ti prende?” insistette il compare. Al sospirò. Stava pensando a tante cose, ma specialmente ad una. In ogni caso, continuando il percorso, gli adolescenti si imbatterono in una sorta di biforcazione. Ai loro occhi si presentò una rientranza nella boscaglia fitta e ombrosa, ad un lato del colle. A primo impatto sarebbe parsa la tana di una volpe o di un altro animale selvatico. Ma uno sguardo più attento avrebbe rivelato un passaggio: un tunnel lungo e zigzagato che conduceva a nord.

    Nel momento in cui se ne accorse, Alan si fermò. “Layla” sussurrò. E per un istante gli parve di vederla spuntare dal cunicolo. Aveva i cappelli umidi e sporchi di terriccio, ma ancora biondi. Bianchi come il latte, avrebbe detto lui. Gli occhi della ragazza erano tirati verso l’esterno, alla maniera orientale. Le sue pupille arancioni sembravano fuoco ardente, in una terra desertica. Ed ecco che la donnetta usciva completamente dal bosco, mentre il ragazzo infatuato sorrideva incredulo. “Terra chiama Alan!” gridò Henry. “Ti sei forse scordato che, per andare a trovarla, dovresti attraversare la…” Il compagno smise di sorridere e digrignò i denti. Nel frattempo, gli uccellacci avevano ripreso a gracchiare sulle cime degli alberi.


    III


    La signora Flaubert aveva cucinato uno spezzatino di cinghiale. L’intera casa profumava di quella pietanza e, come accadeva spesso nel paese, qualcuno aveva bussato alla porta per approfittarne. “Che sarà mai questa delizia?” chiese a voce alta una donna sull’uscio della porta. E ancora: “Vorrei tanto saper cucinare come la padrona di questa casa”. La proprietaria aveva già una mezza idea di chi potesse essere, ma andò comunque ad aprire. Senza troppe sorprese, scoprì che sull’uscio della porta c’era Madame Scouvartié. “Prego, si accomodi e non faccia complimenti. Ce n’è abbastanza per tutti”.

    La nuova arrivata entrò in soggiorno e si presentò alle persone sedute in tavola: “Salve, oh, ma quanti siete? A nord non mi capita mai di cenare con così tanta gente!” Quella sera, difatti, c’erano proprio tutti: i genitori di Alan, quelli di Henry e, ovviamente, i signori Flaubert. Scouvartié indossava un vestito molto largo. Quando si piegava per dare la mano agli astanti, infatti, doveva essere attenta che le maniche non finissero nei piatti. I fanciulli seduti a tavola si guardarono straniti. “Madame? Non siamo mica nell’ottocento!” sussurrò Henry. “Forse non siamo nell’ottocento, ma siamo a Klayton Lane” soggiunse il signor Flaubert al suo fianco.

    Alan era perso nei suoi pensieri e si accorse dell’ospite solo quando quest’ultima gli porse una mano. “Che bel giovanotto! La tua ragazza dev’essere proprio fortunata!” esclamò la donna. Il ragazzo si strofinò gli occhi e sbuffò spazientito. Poco dopo la signora Flaubert aggiunse una sedia e un piatto proprio vicino a lui. Scouvartié, quindi, importunò Alan con discorsi da adolescente per la durata intera della cena. Il compare, dall’altro lato del tavolo, rideva come un folle. E i fatti si svolsero in tal modo sino a che, al momento del dessert, il giovane tormentato trovò il coraggio di chiedere al padre se potesse alzarsi dalla tavola. L’amico fece lo stesso con i propri genitori e, una volta ottenuto il permesso, i due si allontanarono verso la cucina. Non avrebbero saputo dire neppure loro perché adorassero quella stanza. I migliori dialoghi, in ogni caso, avvenivano sempre lì dentro: tra i fornelli ancora profumanti e il paesaggio notturno, immobile e oscuro oltre le finestre. “Tipa strana, eh?” disse Henry. L’amico annuì. “Madame Scouvartié..."

    “Già, che nome! Quelli di fuori sono tutti strani come i trimelli!” Alan, a tale affermazione, corrugò la fronte. “Non hai sentito?” continuò il compagno. “La donna ha detto che abita a nord”. Distratto com’era, Alan non aveva udito quel particolare, mentre stava cenando. Adesso, però, gli era tutto più chiaro. Madame Scovaurtié, infatti, aveva ammesso di abitare nella parte opposta di Klayton Lane, oltre la fossa. “Questo significa…” Henry emise un verso di stupore, come se anche lui avesse compreso solo in quel momento la realtà della situazione. “Abbiamo fatto bingo! Non ci resta che seguirla, appena uscirà di casa”.

    L’entusiasmo, tuttavia, scomparì dopo poco tempo. Alan, infatti, assunse presto un’espressione titubante. E l’amico, qualche secondo più tardi, fece lo stesso. Era pur sempre notte, ormai. Se la palude appariva terrificante di giorno, in quel momento sarebbe stata degna de 'Il passo di Djatlov'. Tuttavia, quando mai si sarebbe ripetuta un’occasione del genere? Henry disse che, se poteva farcela quella signora svitata, per loro due sarebbe stato ancora più facile. Così facendo, fece ritrovare al compare un tantino di coraggio. Dopodiché aggiunse: “Non ti riconosco più, Al. Perciò ti aiuterò, ma non chiedermi di farlo mai più. Promesso?” L’amico, dunque, annuì con foga e avvertì i battiti del suo cuore aumentare.


    IV


    Madame Scouvartié andò via dalla casa dei Flaubert quando l’orologio stava per scoccare la mezzanotte. Si era intrattenuta per un sigaro davanti al focolare. Guardandola nell’attività, i presenti avevano provato una sensazione di disgusto. La donna che fumava, infatti, svolgeva l’attività in questione come un uomo della specie più rozza. I capelli lunghi e corvini le scendevano quasi sino ai fianchi e lasciavano intravedere solo una misera parte del viso. Il suo naso era particolarmente lungo e l’epiglottide, dalla forma appuntita, pareva muoversi continuamente. Quando aspirava il fumo, lo tratteneva per un lungo tempo e, infine, lo faceva fuoriuscire dalle narici.

    Nel momento di relax, tutti gli adulti erano seduti sui divani del soggiorno. Essi discutevano di argomenti poco importanti per Alan ed Henry. Questi ultimi, tuttavia, erano rimasti abbastanza vicini (ma comunque nascosti) per udire l’occasione in cui, finalmente, Scouvartié sarebbe tornata alla sua abitazione. Ad un certo punto, le signore si alzarono per sparecchiare la tavola. E i loro mariti restarono davanti al caminetto, con la mente un tantino ottenebrata dal whiskey. I ragazzi, quindi, capirono che era arrivato il momento giusto per andare. Madame salutò e ringraziò per il pasto, con fare dolce e generoso. I fanciulli aspettarono ancora un po' e approfittarono del momento buono per uscire dal casolare senza farsi notare.

    “Ci siamo. Manteniamoci a distanza di sicurezza, ma non perdiamola di vista” annunciò Alan. Henry annuì. “E comunque… ci basta vedere come si fa ad attraversarla e se non ci sono… problemi” continuò quest’ultimo. Il compagno disse che andava bene e che, difatti, non si sarebbe mai sognato di presentarsi a casa di Layla a quell’orario della notte. Quindi la donna del nord superò il cancelletto dei Flaubert e si inoltrò fuori dal sentiero, nella natura selvaggia. Fu ben chiaro sin da subito che, in quelle condizioni, i fanciulli non sarebbero mai stati in grado di seguirla. “Miseria! Ci serve una torcia!” esclamò Henry a bassa voce. Dopodiché chiese ad Al di trovarne una e di raggiungerlo il prima possibile. “Appena ce l’hai, devi solo seguire quella direzione” soggiunse. “Dai, sbrigati, ci incontreremo strada facendo”.

    Il compagno scattò come una lepre verso il capanno. Tirò la catenella che pendeva dal soffitto e accese la luce. I raggi lunari penetravano vividi dalle fessure della baracca e c’era abbastanza luce per guardarsi intorno. Se solo non dovessimo entrare in quel maledetto bosco, pensò Al, sono sicuro che non ci sarebbe bisogno di una torcia. Tuttavia, la necessità esisteva e il giovane iniziò a cercare tra una serie di oggetti sparsi lì intorno. Provò a fare in fretta, mantenendosi comunque silenzioso. Se qualcuno tra gli adulti l’avesse sorpreso nel capanno, probabilmente non sarebbe più potuto tornare indietro. Come se non bastasse, inoltre, avrebbe dovuto giustificare l’assenza dell’amico. Alan, quindi, avvertì una sensazione particolare nello stomaco: un mix di paura e adrenalina, tanto piacevole, quanto ambigua e allarmante.

    Nel momento in cui si sentì pronto, il giovane iniziò a farsi strada tra ragnatele e spigoli arrugginiti. Ogni cosa, lì dentro, era ricoperta di polvere e l’odore asfissiante della muffa penetrava nei polmoni del ragazzo. Non ci volle molto tempo, di conseguenza, affinché Alan starnutisse e facesse cadere un paio di scatole piene di cianfrusaglie. Henry, nel frattempo, era impegnato a seguire la signora strampalata. Si stava giusto chiedendo che razza di vista dovesse avere la suddetta, poiché si muoveva nel buio con un’agilità impressionante. Nonostante avesse un passo zoppicante, la signora sapeva esattamente dove andare. Lui, al contrario, faceva fatica a compiere più di due o tre passi senza inciampare o pungersi con qualche pianta spinosa. In più d’una occasione, tra l’altro, era capitato che Scouvartié si fosse fermata per guardarsi intorno. E stava succedendo proprio adesso, per l’ennesima volta.

    Il fanciullo non poté fare a meno di chiudere gli occhi e sperare di trovarsi in un brutto sogno. Un vento leggero spostava la capigliatura della donna, mettendo in mostra la sua faccia al riflesso della luna. Il bagliore pallido del satellite conferiva alla signora un aspetto deplorevole: aveva delle ossa dure e sporgenti, che davano vita a stralci di ombre subito sotto di loro. Era come una faccia anoressica, intagliata in un ciocco di legno. E quando Henry la notò, fu vicinissimo all’idea di smettere l’inseguimento. Tuttavia, sapeva bene quanto fosse importante per l’amico. Decise perciò di farsi coraggio e di non abbandonare la missione.

    La dama continuava ad avanzare. Ormai non doveva mancare molto alla zona misteriosa. Il giovanotto compì qualche altro passo, muovendosi dietro i cespugli. Presto iniziò a mancargli l’aria e avvertì un gran giramento di testa. Per un attimo, ebbe persino l’impressione di sentire qualcuno che gridava il suo nome ad alta voce. Man mano che andava avanti, tra l’altro, la flora intorno a lui diveniva sempre più scialba. La fauna, invece, sembrava persino essere sparita. Quindi gli tornarono in mente i corvi che aveva avvistato col compagno, durante la mattinata. Quello è un gran brutto segno, Al, aveva detto. Credeva davvero a quelle parole? O le aveva pronunciate solo per distrarre il compagno dai suoi tormenti? In ogni caso, adesso, quell’affermazione sembrava molto potente, quasi distruttiva. In mezzo al bosco, nella bizzarria di quel paese noto come Klayton Lane, era facile credere a qualsiasi cosa. Ed il motivo non era poi così complesso: la paura l’aveva reso schiavo. Il ragazzo, perciò, arrivò a convincersi che sarebbe presto accaduto qualcosa di orribile.


    V


    “Henryyyy! Henryyyyy!” urlava una voce femminile in lontananza. Il fanciullo impegnato a seguire Madame Scouvartiè si voltò. Ora Henry si trovava dietro un cespuglio di bacche, non molto folto e con qualche ramo sporgente che somigliava ad un artiglio. Si stava giusto chiedendo chi stesse urlando il suo nome in quel modo, ma il suono pareva provenire da est: la zona di casa Flaubert. Scouvartié, intanto, stava studiando l’ambiente intorno a lei. Henry provava a non guardarla, restando il quanto più possibile immobile, con la schiena poggiata al tronchetto dell’arbusto dietro cui si riparava. Ciò nonostante, la tentazione era troppo forte. Il collo del giovane, dunque, si girò come un magnete verso la donna. Anche se, in quel momento, la signora misteriosa sarebbe somigliata ad una moltitudine di cose diverse, fuorché una donna.

    Henry difatti si accorse che, guardandola, stava tremando. Forse perché non aveva mai visto una ‘donna’ così magra e pallida, rischiarata dalla rifrazione lunare, a quell’ora della notte, in un bosco. E non era ancora tutto: ad incrementare il fattore bizzarria si aggiunse presto un’altra componente. Madame, infatti, si era rimboccata le maniche abnormi del vestito. Le braccia e le gambe erano molto più smilze di come le aveva immaginate il ragazzo. Tant’è che, quest’ultimo, provò un conato di vomito al solo pensiero di come sarebbe parso il resto del corpo. È una sorta di scheletro, ricoperto di pelle, e con una testa stranamente grande e ripiena rispetto al resto, pensò. In ogni caso, la creatura insisteva a muoversi, avanzando con un passo sgangherato e annusando l’aria allo stesso modo di un segugio.

    Henry non ne poté più e, cautamente, decise di tornare indietro. Prima, però, aspettò che la donna riprendesse ad avanzare verso nord e che avesse abbandonato ogni eventuale sospetto sul suo inseguimento. La voce misteriosa, intanto, continuava ad intonare il suo nome. “Che sarà successo?” si chiedeva il giovanotto tra sé e sé. Mentre se lo domandava, però, notò un paio di scarpe. Erano zoccoli in legno, dalla forma decisamente inconsueta. Henry si fermò a raccoglierne uno e lo portò fino all’abitazione dei Flaubert.


    VI



    Il sole stava per sorgere e la signora Flaubert era davanti al suo casolare. Al fianco dell’anziana c’era Alan, con le braccia conserte e una smorfia triste e rassegnata stampata in volto. “Finalmente!” annunciò la donna, quando vide Henry sbucare dalla sterpaglia. “Ho già fatto un discorso al tuo amichetto”. Al guardò il compare, sporco di terriccio dalla testa ai piedi. Da alcuni graffi sulle gambe gli colavano rivoli di sangue, che si andavano dipanando verso il basso. Mentre entravano in casa, Henry sentì il compagno che si scusava con lui bisbigliando. Dopodiché, la vecchia li condusse in cucina.

    “È qui che state di solito, eh?” I ragazzi annuirono. “Sedetevi al tavolo. E tu, Henry, dammi l’oggetto che stai nascondendo dietro la schiena”. Il giovane interpellato strabuzzò gli occhi. La Flaubert prese lo zoccolo e lo poggiò sul bancone lì vicino. Non sembrava per nulla meravigliata, nonostante le fattezze di quella scarpa bizzarra. “Arriva un momento, nella vita di tutti quelli che hanno a che fare con questo paese, in cui le cose iniziano a farsi strane sul serio” disse. Alan fissava lo zoccolo incredulo, ma non osava interrompere la signora. Henry, invece, era visibilmente dolorante, ma restò in ascolto.

    L’anziana era in piedi davanti a loro, con le mani in continuo gesticolamento. “Visto che Henry è stato tanto gentile da portarci questo souvenir, lo utilizzeremo per rendere il discorso più interessante. Insomma, a voi che sembra questo scarponcino?” Le labbra di Al tremavano. Era sul punto di parlare, tuttavia c’era qualcosa che lo tratteneva. Nella sua mente balenò l’immagine dei fratelli Remington. Passeggiavano per i sentieri di Klayton Lane, attentissimi ad evitare i vecchi, per non rischiare d’esser spaventati a morte dai loro racconti. Lui, invece, li spiava da lontano e rideva della loro sensibilità. Ad un tratto, però, anche lui iniziò ad essere terrorizzato. Quello zoccolo, infatti, sembrava racchiudere un significato nascosto e profondo: che le storie e le leggende sulla fossa, in realtà, non avevano nulla di inventato.

    “È una specie di ciabatta in legno… diciamo… deformata” disse Henry. “D'accordo, ma lasciate che sia io a spiegare. Se ci mettete così tanto tempo per rispondere, non finiremo mai”. “Questa scarpa appartiene a Madame Scouvartié. Cos’è quella faccia, Alan?”. Il fanciullo chiamato in causa sembrava confuso, smarrito in un bosco più oscuro di quello che aveva visitato l’amico poco prima. “È la verità, razza di idioti. Stavate inseguendo un mostro”. “Quindi ci stai dicendo” replicò Henry, “Che oltre la fossa abitano dei… mostri?”. La nonna di Alan confermò. “Non so chi siano e da dove provengano, ma fareste bene a tenervi lontani da quel posto”. Al, immobile sulla sedia accanto al compare, si coprì il volto con le mani. Eppure, c’era da aspettarselo. Il compare gli aveva detto tante volte che, dietro le storielle degli anziani, si celava sempre un velo di verità.

    Il discorso in casa Flaubert andava avanti da un po', ormai. La vegetazione intorno alla casa non appariva più tanto minacciosa, ora che era rischiarata dal lucore dell’alba. Alan ed Henry avevano le bocche semi aperte, indecisi se richiuderle o abbandonarle ad una risata fragorosa, che avrebbe svegliato tutto il vicinato. L’unica cosa certa era che la vecchia aveva attirato la loro attenzione e ogni cosa inspiegabile sembrava aver acquisito un senso. Quando la notte si tramutò in giorno, la signora Flaubert andò via dal cucinino. Henry non disse una parola e si alzò dal tavolo, dopodiché andò nel bagno a sciacquarsi le ferite. L’amico, invece, restò immobile dove si trovava. I raggi solari lo colpivano dritto in volto, eppure non accennò alla minima sensazione di fastidio.

    L’adolescente insisteva a scrutare la scarpa bizzarra, poggiata sul bancone della cucina. Era uno zoccolo di legno, probabilmente di acacia, con una pianta troppo lunga e sottile rispetto alla norma. La parte anteriore della stessa, inoltre, era smussata verso il basso. La lavorazione in questione avrebbe permesso, a chi l’avesse indossata, di far fuoriuscire le proprie dita. O almeno, così avrebbero suggerito le forme scavate su quel lato: calchi di arti simili a quelli umani, ma decisamente più prolungati e smilzi. “Che accidenti sta succedendo?” si chiedeva Alan. “Non può essere vero…” E mentre tali pensieri gli affollavano la mente, poggiò il capo sul tavolo. Pian piano abbassò le palpebre e iniziò a dormire.

    Ad un certo punto, Henry uscì dal bagno e fece per chiamarlo. Alla non risposta si diresse in cucina e notò che il compagno stava riposando. A giudicare da come si stava muovendo, tuttavia, non stava facendo sogni tranquilli. Poco dopo, anche lui decise di fare un pisolino. Quel giorno, però, non si lanciò sul divano, come faceva di solito. Piuttosto, si stese sulla branda in modo lento e accurato, attento a non raschiare i graffi accumulati su braccia e gambe. Prima di abbandonarsi al sonno pensò a quanto dovesse essere assurdo e terribile scoprire che, la propria ragazza dei sogni, fosse una sorta di megera dalle attitudini mostruose: uno di quegli esseri capaci di alimentare l’immaginazione dell’essere umano e spronare i bambini a non uscire di casa quando è buio.


    VII

    Nei giorni seguenti il cielo di Klayton Lane assunse un colorito grigiastro. Gruppi di nuvole viandanti facevano a gara per oscurare la stella solare e talvolta si alleavano, dando vita ad ammassi di materia particolarmente grandi. Ogni tanto, invece, esplodevano in acquazzoni abnormi, che dilagavano su tutto il paese. L’aria che si respirava era più fredda del solito, ma non aveva perso la sua umidità estiva. Il suolo delle campagne e dei boschi limitrofi si colorò di un marrone scuro, sinonimo di terra umettata.

    “Lo senti questo odore?”
    “Sì, mi piace molto”.
    “Significa che l’estate sta per finire”.
    “Non so, è troppo presto. Forse qualcosa sta andando per il verso sbagliato”.

    I fratelli Remington camminavano su per il sentiero che conduceva a ovest. Avevano indosso delle mantelline di plastica dai colori sgargianti, che li avrebbero protetti in caso di pioggia. “Torna a raccogliere lumache, Johnny. Non sopporto il tuo pessimismo” annunciò Tommy. In quel momento, John non aveva voglia di discutere, perciò obbedì. Dopodiché si chinò a raccogliere una chiocciola e la poggiò nel secchio che trasportava Bobby. “Ho l’acquolina in bocca solo a guardarle!” disse quest’ultimo. I trimelli, come adoravano farsi chiamare loro, proseguirono il cammino per un altro miglio. Solo quando la scorta di insetti fu abbastanza consistente, decisero di tornare indietro. Sulla strada del ritorno, tuttavia, notarono il vecchio Sir Williams.

    L’uomo aveva un impermeabile scuro, con un cappuccio che gli copriva quasi interamente il volto. Il suo bastone da passeggio, però, l’avrebbe reso riconoscibile a chiunque. Bobby fu il primo a parlare: “Accidenti! E ora che facciamo?” Gli altri due furono d’accordo nell’affermare che avrebbero dovuto evitarlo, a tutti i costi. “Questo è ovvio! Non ho intenzione di sentire qualche storia del terrore. Con questo tempo, la pioggia, le nuvole… sarebbe tutto più pauroso! Non credo che riuscirei a sopportarlo!”. Tommy spronò i fratelli ad osservare la direzione che stava seguendo Sir Williams. Così, si nascosero dietro un cespuglio e attesero.

    “Sta andando dritto al centro di Klayton, ci basterà essere pazienti” sentenziò il più diligente dei ragazzi. Però non fece in tempo a terminare la frase che, qualcuno, sbucò dalla sponda opposta della via. I fratelli dovettero abbandonare il loro piano poiché, il rischio di essere avvistati, adesso era cresciuto sensibilmente. L’altro uomo era Bennet il contadino, col solito paio di stivali ai piedi. “Passiamo dal bosco” riprese Tom. Bobby protestò a bassa voce. John, al contrario, fu d’accordo con la proposta: “Forse possiamo riuscire a stringerci dietro il cespuglio, ma sicuramente ci noterebbero per i colori delle mantelle”. Quindi i tre si allontanarono dal sentiero ed entrarono nel bosco. Tommy era sicuro di poter arrivare alla loro casa aggirando il percorso pedonale. Ciò nonostante, mantenere un passo rapido e costante in mezzo a tutta quella vegetazione non si rivelò per nulla facile.

    Ad un certo punto, Bob si fermò. Guardandosi intorno provò un senso di mancanza e dovette sedersi, prima di riacquisire le forze. Era circondato da erba, tronchi, steli, fiori, arbusti d’ogni tipo e foglie ancora ricolme di rugiada. L’odore della pioggia passata adesso lo inquietava: percepiva come estraneo tutto ciò che avvertiva con i suoi sensi. E non riusciva a vedere nulla, fuorché l’essenza verdeggiante e selvaggia del luogo, illuminata qui e lì da sprazzi di luce grigio cenere. Non riusciva più neppure a stabilire l’orario della giornata, dal momento in cui aveva abbandonato il sentiero principale. Maledetto Sir William!, pensò. Proprio in quel momento, doveva passare! Le sue riflessioni, però, non cambiarono la situazione. Nel momento in cui Johnny e Tommy si accorsero che il fratello era rimasto alle loro spalle, decisero di andargli incontro.

    Che i trimelli Remington non avessero ancora litigato, quel giorno, pareva troppo inconsueto. Ben presto, infatti, tornarono ad onorare la tradizione di famiglia. “Alzati, è tardi e tra poco sarà buio”. “Come fai a saperlo?” replicò Bob. Johnny, al contrario, colse l’occasione per aggiungere: “Sei proprio sicuro di sapere dove ci stai portando? Ho visto questa venere acchiappamosche almeno tre volte”. Ed indicò il vegetale non troppo distante dai suoi piedi. “Oh, accidenti! Non dovevo seguirvi!” riprese il ragazzo accasciato al suolo. Dopodiché, a sorpresa degli altri, Bobby si alzò e tirò un calcio al secchio pieno di chiocciole. Imprecò contro i fratelli e cominciò a correre verso il punto da cui erano entrati nella boscaglia. “Fa come vuoi, idiota. Comunque eravamo quasi arrivati”.

    John e Tommy giunsero a destinazione al calar delle tenebre. Di Bob, invece, non si vide più neanche l’ombra. “Dove sono le lumache?” chiese il signor Remington, vedendoli entrare. “Bobby ha lanciato via il secchio. Credo che a molte si sia rotto il guscio e altre siano scappate”. Dopodiché i ragazzi raccontarono l’accaduto ai genitori. Essi parvero subito preoccupati e sospirarono affranti. Avevano l’atteggiamento di chi è sul punto di piangere, ma sa che non avrebbe senso farlo. Allorché il papà prese i figli in disparte e continuò: “Bob tornerà, ragazzi. Si è solo perduto nel bosco. Se non dovesse farlo da solo, andremo a cercarlo noi stessi”.


    VIII

    Alan aveva gli occhi lucidi e surclassati da capillari rosso sangue. Il suo sguardo era pieno di malinconia. “Che vuoi fare?” annunciò Henry. Il compagno non rispose e continuò ad osservare la pioggia aldilà della finestra. Goccioline d’acqua si poggiavano sul vetro a rintocchi regolari e scivolavano in basso, scomparendo. Al mosse le spalle verso l’alto. Non aveva idea di quale fosse la cosa giusta da fare. “Tu ci credi veramente?” disse poi rivolto al compagno. Henry rispose positivamente. La signora Flaubert, secondo lui, non aveva motivo per mentirgli. Ospitava le loro famiglie ogni estate a Klayton Lane e, oltre a ciò, si era sempre mostrata gentile e disponibile. “In ogni caso, come spiegheresti la forma dello zoccolo?” aggiunse.

    Al, comunque, non riusciva ad accettare l’idea che Layla fosse una sottospecie di arpia. L’amico disse che non poteva biasimarlo. Poi annunciò che, nella giornata odierna, sarebbe dovuto andare a visitare sua nonna. “Ci andrò con i miei genitori, la nonna abita ad ovest. Vuol dire che tornerò solo stasera. Non fare stupidaggini, Al. Non mentre manco, almeno”. Il compare annuì e gli tirò una pacca sulla spalla. Alan, quel giorno, pranzò con aria annoiata. Si sforzò di mangiare, solo per dare l’idea che andasse tutto bene. E quando alzava il capo dal piatto, spesso sorprendeva la Flaubert a studiarlo attentamente.

    “Tra non molto ripartiamo. Perciò goditi questi altri due o tre giorni, figliolo” fece il padre. Il giovane, allora, chiese di poter andare via subito, per raggiungere i Remington. “Sono insopportabili, ma mi piacerebbe stare con loro un altro po', prima che andiamo via”. Il papà, con sorpresa generale, acconsentì alla richiesta del figlio. Mentre Alan si preparava ad uscire di casa, origliò le conversazioni degli adulti. “Perché l’hai fatto?” diceva la mamma rivolta al papà. L'uomo, però, pareva avere una spiegazione logica e precisa. Rispose, infatti, che Alan non avrebbe rivisto i trimelli fino all’anno prossimo, quindi valeva la pena lasciarlo andare. “E poi” aggiunse, “Mi sembra strano, ultimamente. Forse ha trovato una ragazza”.

    Il fanciullo non aveva intenzione di andare davvero dai Remington. Uscì dalla porta del casolare e fece un grande respiro. Allorché iniziò a camminare verso il centro di Klayton Lane, senza una meta ben precisa. Gli balenò in mente l’idea di andare all’Hill Pub, ma non aveva un solo spicciolo in tasca. Avanzò per circa mezzo miglio, fischiettando una melodia triste che aveva sentito nella canzone di un vecchio film. Fortunatamente aveva smesso di piovere e qualche uccello stava ricominciando a cantare. La natura ai fianchi della via era bagnata ed emanava un profumo fresco e ristagnante. Alan stava pensando al suo sogno più grande: Layla, chissà com’è nella sua vera forma… si domandava. Quindi provò ad immaginarla, tuttavia non ci riuscì. Nella sua memoria regnava l’immagine di una ragazza perfetta e diversa rispetto a tutte le altre. Era sempre stato convinto che, quella donnetta, avesse qualcosa in più a confronto delle altre. Ciò nonostante, non avrebbe mai creduto che la sua particolarità fosse sinonimo di qualche deformità.

    Ancora qualche passo e il fanciullo arrivò ad un bivio. La biforcazione di destra conduceva a nord, dalla sua amata. Quella di sinistra portava invece alla parte più frequentata del paese, dov’era presente qualche negozietto e un pub. “Ci risiamo” disse Alan tra sé e sé. Lo stormo di corvi che aveva visto con Henry un paio di giorni prima sorvolò un pino poco distante. Do solo un’occhiata. Manca ancora tanto fino al crepuscolo, pensò. E così si incamminò tra le erbacce, in quella sorta di tunnel naturale che conduceva alla palude. Quando si trovò di fronte alla fossa, spalancò la bocca e restò immobile per qualche istante. Non sapeva tanto bene neppure lui il motivo per cui ciò accadde, ma una cosa era certa: si sarebbe aspettato di più.

    Alan sapeva che si trattava di una palude, un luogo umido e pieno di acquitrini in cui rane, rospi e altri animali talvolta emergevano dall’acqua furtivamente. Tuttavia, dopo aver udito le storie che circolavano a Klayton Lane su quel posto, credeva che non fosse poi una semplice palude. Ma forse era davvero così, poiché era ancora troppo lontano per giudicare. Mentre procedeva in avanti, la sua fronte si imperlò di sudore. L’aria che filtrava col naso era calda e lasciava in gola un retrogusto dolciastro. Il fanciullo trovò l’odore nauseante, ma continuò imperterrito nell’avanzare. Piante di tifa mosse dal vento si succedevano davanti ai suoi occhi, conferendo al paesaggio l’aria di una landa desolata.

    La vegetazione era particolarmente… biancastra, avrebbe detto lui. Difatti, persino il terreno pareva cambiar colore, lì intorno. Sul sentiero che conduceva fino a quel punto la terra era marrone, ma pian piano sfumava in un giallo cadaverico. Gli arbusti, invece, erano fini e secchi come il corpo di Madame Scouvartié. Alan infilò un piede nell’acqua torbida. Ai suoi lati la palude si estendeva nella vegetazione fitta e imperscrutabile del bosco. Di fronte, al contrario, si poteva notare il tetto di qualche casolare che spuntava aldilà della collinetta. La chiamano fossa proprio per questo, rifletté. Perché quell’ammasso di terra rialzato fa sembrare la palude scavata nel suolo. Il ragazzo andò avanti con cautela, facendo un passo dopo l’altro e assicurandosi di non sprofondare.

    Ormai era bagnato fino alle ginocchia, ma il fondale non accennava a divenire più profondo. E così fu, difatti, sino a che non l’ebbe superato. Quando ciò accadde, Al si fermò davanti alla collina. Ben presto, cominciò a ridere da solo. Sarebbe parso un folle persino al suo amico Henry, ma aveva buone ragioni per farlo. Aveva appena attraversato la fossa.


    IX

    Nell’euforia del momento, però, il fanciullo non si accorse che qualcosa gli si era attaccato ai pantaloni. Improvvisamente avvertì dolore all’altezza di una coscia e urlò. Nel momento in cui guardò verso la fonte del malore, si accorse che qualche animaletto era impegnato a scavargli nella pelle. Immediatamente portò le mani verso gli insetti e prese a staccarli con furia. La sua faccia era contratta in un’espressione nauseata e, senza accorgersene, emise anche qualche gemito d’orrore. Le creaturine erano viscide, mollicce e rossastre, ma avevano dei denti in grado di perforare la carne. “Sanguisughe” sussurrò Al. Finalmente riuscì a liberarsi di ogni singola succhia sangue attaccata alle sue braghe. Tuttavia, il presentimento che ce ne fossero altre, nascoste tra i suoi indumenti, lo tormentò ancora per un po' di tempo a venire.

    Il giovane riuscì a distrarsi solo quando salì sul tumulo. La scalata si rivelò un tantino difficile, poiché l’altura era decisamente ripida. In ogni caso, si trattava di terreno morbido e umido, come tutto ciò che si trovava nei paraggi. Perciò, tranne che sporcarsi fin quasi alla testa, Alan non rimediò altri danni. E la vista che lo aspettava alla cima, comunque, avrebbe ripagato qualsiasi sforzo. La parte nord di Klayton Lane, infatti, era molto più graziosa dell’altra. Casette costruite con legno e pietra erano disposte regolarmente sulla superficie di un prato verde e ben curato. Le abitazioni erano inscritte nel perimetro di un cerchio, ai cui bordi si innalzavano grandi alberi che segnavano il confine con la natura selvaggia.

    Dal punto in cui si trovava, il fanciullo riusciva a vedere tutta la zona abitata. E, lì per lì, fu di nuovo sul punto di ridere. “Non può essere così bello, dev’essere uno scherzo. Oppure…” Gli balenò in mente la possibilità che ogni cosa, in quella parte del paese, fosse una sorta di ‘maschera’: un costume delizioso che, in realtà, celava qualcosa di orrendo. Comunque sia, mentre insisteva a studiare il paesaggio, Al notò qualcuno che passeggiava ai confini del bosco. Erano presenti una dozzina di persone, ma quell’individuo aveva un’aria familiare. Sembrava un ragazzo, più o meno della sua età, e indossava una mantellina colorata di un giallo sgargiante. Al suo fianco camminava una fanciulla ma, dal punto in cui si trovava, non riusciva a distinguerla in modo appropriato.


    X

    Henry fece ritorno al tramontar del sole. Casa Flaubert era stranamente silenziosa ed oscura. “Dov’è Alan?” domandò ai padroni dell’abitazione. “È uscito oggi pomeriggio presto, ha detto che andava dai Remington”. Il ragazzo sorrise, con l’aria di uno che sa di essere stato appena ingannato. Allorché ribadì il quesito. I signori, tuttavia, ripeterono le stesse parole con cui avevano risposto poco prima. Henry, quindi, si fece serio. Si recò in cucina e restò lì ad aspettare. Mentre contemplava la vegetazione oltre i vetri della finestra, continuava a ripetersi che qualcosa stesse andando per il verso sbagliato. Inoltre, sulla via del ritorno, si era imbattuto in Johnny e Tommy Remington, che gli avevano annunciato una notizia inquietante. “Bob è sparito” gli avevano detto. “Stavamo andando a casa passando per il bosco, ma abbiamo litigato e lui è andato via”.

    Il fanciullo, di conseguenza, non poté che associare l’assenza di Al con i fatti verificatisi nella famiglia dei trimelli. Ciò nonostante, proprio mentre stava pensando di parlarne con i genitori, qualcuno bussò alla porta. “Vado io!” esclamò Henry ad alta voce. E quando spalancò l’accesso, vide qualcosa che per poco non lo fece urlare. Era un essere umano sporco di humus dalla testa ai piedi, con gli abiti lacerati in vari punti. Ciò che fece sobbalzare il giovane, tuttavia, non fu la situazione fisica del nuovo arrivato, bensì quella emotiva. Il capo dell’individuo, infatti, era chino verso il basso e qualche lacrima gli scendeva dagli occhi fino agli zigomi, rischiarando la tonalità marrone-giallastra della sporcizia. “Alan?” soggiunse Henry. L’amico alzò la testa e lo guardò: “Sì, sono io. Ma vorrei tanto non esserlo”.

    Al disse che stava per raccontargli la storia più strana che avrebbe mai udito nella sua vita. I due si appollaiarono sul bancone della cucina, come facevano di solito. Durante il breve tragitto, il ragazzo sporco macchiò il pavimento. E quando l’amico glielo fece notare, sembrò non curarsene. “La signora Flaubert non merita rispetto” continuò Al. Il compare era sempre più impaurito e si chiedeva cosa mai potesse essere successo per far sì che il compagno ragionasse in quel modo. Quando arrivarono nella loro stanza preferita, Alan spalancò i vetri delle finestre e cominciò a parlare. “Che cosa vedi là fuori?” chiese all’amico. Henry mosse le spalle, come a dire non lo so. “Ti sbagli. Se guardassi meglio, sapresti dirmelo con certezza”.

    Il compare, quindi, allungò lo sguardo oltre gli scuri. Oltre alla solita vegetazione macabra ed immersa nel buio, però, non c’era null’altro. “Non c’è niente, Henry. Non c’è proprio un bel niente!”. Il compagno strabuzzò gli occhi e iniziò a credere che Alan avesse perso il senno. “Sono andato alla fossa, oggi. L’ho superata, in realtà. Sì, ho visto la parte nord di Klayton Lane. Forse è persino più normale della nostra. Comunque, non è questo il punto. Quando sono entrato nel paese, ho chiesto dove potevo trovare Layla. Mi è stato detto che, a quell’ora, era sicuramente in giro ai confini col bosco. Dunque ho camminato e camminato all’estremità della zona abitata, sino a che non l’ho trovata”.

    Henry non si lasciava sfuggire neppure una virgola, del discorso del compare. Mentre lo ascoltava, perciò, gli parve che la sua voce, talvolta, cambiasse tonalità. Assumeva un carattere basso e rauco, tipico di chi è sul punto di piangere. “Iniziai a spiarla da lontano. Era bellissima, quei capelli bianchi e lunghi... Ciò nonostante, non potei fare a meno di ripensare alle parole della signora Flaubert. Iniziai perciò a scavare con gli occhi oltre ai suoi vestiti e ad immaginare quali aberrazioni potesse nascondere al di sotto.

    Tra l’altro, mi sembrò che tutte le donne, lì intorno, avessero i capelli lunghi. Quindi credetti che, persino questo, fosse un modo per non rivelare la loro vera natura. Chissà, forse hanno persino le orecchie appuntite, pensai. Ero un agnello nella tana del lupo, ma non potevo smettere di guardarla. Mio malgrado, infatti, non lo feci. Anzi, allargai l’inquadratura della mia vista e notai l’unica, vera, cosa orrenda, che avessi mai potuto vedere. Al fianco della ragazza, infatti, c’era qualcuno. Indossava una mantella gialla fluorescente ed era alto all’incirca quanto me. Ben presto si avvicinò a Layla e si strinsero le mani. Passeggiarono così per un po', sino a che non si fermarono. E fu allora, che il mio cuore si spezzò per davvero, poiché i due si baciarono appassionatamente. Le labbra di entrambi si muovevano e producevano rumori simili al cinguettio degli uccelli che svolazzano qui intorno.

    Ma il peggio doveva ancora venire. Difatti, quando decisi di andare via, feci poca attenzione all’ambiente intorno a me. Così calpestai una chiocciola ed il guscio si ruppe rumorosamente. Gli amanti si girarono verso il sottoscritto e, prima di scappare con tutte le mie forze, feci caso al volto del ragazzo con la mantella. Era il più stupido e piagnucoloso di tutti i trimelli: quell’idiota di Bobby Remington!” Non appena Henry fu abbastanza calmo, chiese all’amico se sapesse che, qualche giorno fa, Bob era sparito e la famiglia lo stava cercando. “Non m’importa. Il punto non è questo” riprese Alan. “Se non avessi creduto a tutte quelle dicerie sulla fossa, sarei arrivato per primo”. Il compare annuì.

    Nel frattempo, a qualche miglio da casa Flaubert, Bob e Layla continuavano a passeggiare come due innamorati. "Si è fatto tardi, forse dovrei tornare a casa" annunciò il fanciullo. "Ancora con questa storia!" continuò Layla, fermandosi e cercando di fissarlo negli occhi. Il ragazzo incrociò lo sguardo della donnetta solo per qualche istante, dopodiché lo riabbassò timorosamente. Gli zigomi di Bob si rigarono di lacrime. Intorno a lui regnava il buio quasi assoluto e l'unica sensazione di familiarità dell'ambiente era data dal verso di qualche uccello notturno. Anche quello, tuttavia, aveva qualcosa di inconsueto. In apparenza sembrava solo il bubolare di una civetta ma, concentrandosi ad ascoltarlo meglio, sarebbe parso un suono simile ad un lamento umano. "Tu non tornerai più, a casa!" riprese la giovanotta, con una voce roca e profonda.

    Il trimello singhiozzò un paio di parole incomprensibili. "Che cosa hai detto?" urlò con un verso gutturale la fanciulla dai capelli bianchi. "Il ragazzo che abbiamo incontrato prima... Alan. Anche lui ha attraversato la fossa. Perchè non è qui con noi, adesso?" Layla rise come un uomo affetto dal mal di gola. Le sue pupille luccicavano nell'oscurità. Poi allungò una mano al collo di Bob e aggiunse: "Ogni cosa a suo tempo, caro". Le fauci della ragazza si spalancarono, e inghiottirono gran parte del corpo di Bob in un sol boccone.

    Edited by Emily Elise Brown - 4/11/2019, 20:09
  2. .
    Heyla, quindi non saranno validi i voti dati prima del 26 (lo chiedo perché chi l’ha fatto possa rendersene conto)?
  3. .
    Se il diavolo avesse scelto un posto in cui rifugiarsi nella Londra della regina Vittoria, sarebbe stato certamente uno di quei palazzi costruiti o adibiti a ‘case di cura per la mente’. Edward si trovava in quello tra Orchard e River Way, il St Bethlehem’s Hospital. “Uno dei più grandi e specializzati” diceva l’agente Theodore. Ed sapeva che il buon vecchio Theo scopava con Riley, ma non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo. Quando tornava dalle sue lunghe passeggiate lungo il Tamigi, dopo essere passato dalla Beer House per una pinta, Ed guardava la moglie con aria affranta e rassegnata. “Tutto bene, caro?” chiedeva Riley con il volto paonazzo e la vestaglia che continuava a cedere da una spalluccia.

    Non era stato difficile per Theodore liberarsi dell’unico ostacolo tra lui e l’amante: bastò procurarsi il taccuino che Edward portava con sé quando usciva a fare quattro passi e portarlo al dipartimento di polizia di Greenwich (assieme a qualche fantasia incriminante e la testimonianza spudorata di Riley).

    E ora Edward si trovava lì, in un manicomio. Se aveva protestato prima di finirci dentro? No, non ne valeva la pena, avrebbe detto lui. Era talmente amareggiato che persino la sedia elettrica, talvolta, faticava a fargli male sul serio. Il poveraccio se ne stava in una cella al terzo piano dell’edificio. Tra le mani stringeva un pezzo di carta e una matita stretti che, all’occorrenza, rubava nella sala comune. Le sbarre della sua stanza erano quasi sempre spalancate, poiché le guardie erano troppo impegnate con i soggetti disturbanti. Tra le mura del St Bethlehem, infatti, vigeva costantemente il caos tipico di un luogo affollato. A differenza della Beer House che frequentava Ed, però, al manicomio parevano tutti ubriachi e in qualsiasi momento.

    Era difficile attraversare un singolo corridoio senza imbattersi in qualcuno intento a strillare, sbattere la testa contro il muro o a correre senza fermarsi da un capo all’altro del piano. E la cosa peggiore, come avrebbe sostenuto Eddie, era la musica: quei cori chiericali di Charles Villiers Stanford, riprodotti senza interruzione da uno stenografo nella sala comune. Anche le guardie, tuttavia, contribuivano all’orchestra menando rumorosamente i pazienti non intenzionati a fare il bagno o a rientrare nelle loro camere. I dottori, invece, si aggiravano qui e lì con il loro camice bianco, perennemente impegnati a maneggiare aghi abnormi e macchinari di morte. Quei medici sembravano avere un trattamento adeguato per qualsiasi forma di squilibrio mentale (ammesso che ci fosse stato davvero, uno squilibrio).

    Edward era sicuro di essere entrato sano come un pesce nel mare agitato del manicomio. Ma adesso non poteva più essere certo di star bene. Le annotazioni che scriveva sui pezzi di carta parevano più scarabocchi che parole, ormai. Era stato Malcolm a farglielo notare.
    “Che accidenti fai tutto il giorno con quei fogli?” gli aveva chiesto. Si trovava al fianco della cella di Ed, separato solo da una serie di sbarre. Non si era mai mostrato agli occhi di nessuno, da quando si trovava lì: la sua camera era immersa per gran parte nel buio ed era costantemente chiusa a chiave. Era difficile avere una concezione del tempo nell’ospedale, ma i due ogni tanto discutevano e avevano stabilito un rapporto tanto strano, quanto confortante.

    “Mi piace scrivere” rispose Ed e continuò: “Molti pensano che sia noioso, perché guardando un foglio pensano che sia solo un pezzo di carta”. Il malcapitato sosteneva che gli strumenti per scrivere fossero solo dei mezzi per creare altri mondi, magari migliori di quello in cui si trovava. Disse anche che la maggior parte della gente non era in grado di immaginarli, poiché troppo occupata con la propria realtà: “Lavorare, vedersi con gli amici e farsi una scopata. Ma che mi dici se d’un tratto tutto questo dovesse scomparire a causa di un infortunio, un litigio o…”. Malcom uscì improvvisamente dall’oscurità e aprì bocca, mostrandosi alla luce per la prima volta. “O una malattia orribile che ti trasforma in un mostro” disse.

    Il disgraziato aveva la pelle ricoperta di eruzioni cutanee, piena di papule rossastre che gli avevano deformato il volto. Eddie aveva sentito parlare della sifilide, ma non immaginava che potesse assumere dei caratteri talmente gravi e orripilanti. Malcom, però, non sembrava affatto provato: dietro le collinette raccapriccianti formatesi sul suo viso, nascondeva lo sguardo torvo e deciso di chi ci aveva fatto l’abitudine.

    Fu immediatamente chiaro ad Ed che i medici l’avevano abbandonato al suo destino, poiché non c’erano cure per uno stato così avanzato di sifilide. Gli balenò in mente quel giorno in cui, passeggiando lungo il Tamigi, si imbatté in un venditore che sosteneva di poter risolvere qualsiasi malanno con una sostanza chiamata… “Laudano! Ecco com’era. Hai provato anche con quello?” disse rivolto a Malcom. A tali parole, l’essere deforme si abbandonò ad una risatina convulsa: “Sono stronzate! Il laudano è solo oppio tritato in alcol. Con tutta la merda che c’è in giro, non mi stupirebbe se domani spuntasse un uomo che sostiene di poter curare la peste baciando i topi!”

    Edward ammutolì. Si chiese se anche terapie diffuse come salassi e clisteri fossero davvero utili, e pensò che in uno dei suoi mondi ideali avrebbe di certo bandito le malattie. L’infermo tornò nel buio e dopo qualche minuto di silenzio riprese a parlare: “Lo sai perché sono qui, Ed?” soggiunse e continuò: “Perché non ho avuto il coraggio di reagire. Sapevo che qualcosa in me andava per il verso sbagliato. Sono un fottuto idiota! Se non avessi avuto paura di ammettere la realtà dei fatti, magari sarei persino riuscito a curarmi. Invece adesso morirò. E mi sta bene così, perché sono un codardo della peggior specie”.

    Il sermone dell’uomo moribondo toccò Edward nel profondo. Presto si chiese anche per quali cause fosse giunto in un “ospedale per la mente” come il St Bethlehem. Ma immaginò che non doveva essere stato difficile far internare un tizio in quelle condizioni. Probabilmente un bambino l’aveva visto per strada e, dopo essersi preso un bello spavento, aveva raccontato il tutto ad un genitore che, con un po’ di fantasia e qualche aggancio politico, aveva reso Malcolm un feroce pazzo da rinchiudere. Di questi tempi funziona così. Giusto, Theodore? Meditò Edward fra sé e sé.

    Le parole dell’uomo malato avevano sciolto un nodo che da troppo tempo blandiva il cuore di Ed. Fu mentre un guardiano gli ordinava di denudarsi ed entrare nella vasca da bagno, che il discorso di Malcolm risuonò nella sua mente come un inno alla libertà: "Lo sai perché sono qui, Ed?" diceva quella voce gutturale da un punto indefinito nel buio del suo cervello. “Perché non ho avuto il coraggio di reagire” ed ecco che si mostrava, in tutto l’orrore della malattia degenerativa. L’agente insisteva a strepitare contro Edward di togliersi i vestiti ed entrare nella vasca. Ma quest’ultimo era come incantato, immobile davanti al lavatoio.

    Ben presto ricevette un colpo di manganello dritto nel fianco destro. Un dolore lancinante si diffuse in tutto il suo corpo, ma restò lì, con lo sguardo fisso alla parete squallida che aveva di fronte. Dalla finestra più vicina entravano i primi raggi di sole. Allo stesso modo, Eddie decise che si sarebbe fatto notare, quel giorno. Come l’universo stabilisce che il sole debba sorgere tutte le mattine, anche lui si sarebbe ripreso il posto che gli spettava di diritto nel mondo.

    Si girò con uno scatto felino e agguantò l’arma con cui era stato colpito poco prima dal guardiano. In men che non si dicesse, gli psicotici presenti nella stanza da bagno cominciarono ad urlare e a distruggere ogni cosa che gli si presentava a tiro. L’isteria collettiva si scatenò velocemente in tutto il St Bethlehem.

    Edward si diresse nella sua cella, schivando guardie e malati di mente che si scatenavano tra i corridoi. I fischi dei custodi rimbombavano come trombette nelle bocche di bambini schizofrenici. Recuperò i fogli su cui aveva scritto per il tempo che aveva trascorso in quell’inferno. Ma proprio mentre si voltava per riprendere a correre verso la libertà, un uomo in divisa gli sbarrò la strada.

    Era stranamente tranquillo. “Ciao Edward. Come butta?” annunciò appoggiandosi con la schiena alle sbarre lì di fianco. Eddie tremò quando lo riconobbe. “Te l’avevo detto che il St Bethlehem era uno dei più specializzati, no?” continuò la sentinella guardandosi le unghie. Era nientemeno che Theodore-il-bastardo, pensò Ed. Il disordine pareva regnare sovrano per tutta la struttura, tranne che in quell’angolo di cella. Dalle tenebre della stanza di fianco, tuttavia, si mosse qualcosa.

    Theodore insisteva a parlare, con un sorriso malizioso e un’espressione talmente patetica che l’intero volto sembrava una maschera di plastica: “Oh, no! Hai sentito? Niente più musica, avranno rotto il disco di Stanford. Peggio per voi, malati!”. A tale affermazione, una figura che pareva di un altro mondo, uscita direttamente da una storia di Edward, balzò dall’oscurità della cella di fianco, avventandosi sulla guardia.

    Malcolm strinse Theodore-il-bastardo con la forza delle sue mani deformi, che sporgevano dalle fessure delle sbarre. Ma non si limitò a questo: prima di andare via, Ed notò che lo stava mordendo dietro al collo. E, in quel momento, una frase ispirata ai cori chiericali gli guizzò nella mente: non stimatevi pazienti da voi stessi; la sifilide è sempre in agguato, brutti fessi.

    Il fuggitivo non mise mai più piede in un ospedale psichiatrico. Prima di uscire, tuttavia, decise di lasciare i suoi appunti al vicino di stanza. Erano raccolti in ordine numerato a formare una storia intitolata: 'Il coraggio d’esser pazzi'.

    “Gran bella storia Ed, dovresti pubblicarla” annunciò Malcom quando ebbe finito di leggere il taccuino. Ma l’amico fece cenno di no con la testa: c’era troppo di personale in quel racconto. I due stavano tornando alle rispettive case passeggiando lungo il Tamigi, dopo aver bevuto qualche pinta alla Beer House, come d’abitubine. Quando Ed giunse presso la sua abitazione salutò il compagno, che ricambiò continuando a grattarsi l’escoriazione rossastra all’altezza del polso. Rientrato in casa, Edward lanciò un’occhiata veloce alla moglie e sparì nel suo studio. Riley aveva il volto paonazzo ed era impegnata ad aggiustare la vestaglia che continuava a ricadere da una spalluccia. Bussò alla porta della stanza del marito e aggiunse: “Tutto bene, caro?”

    Edited by ;Isabel - 24/5/2019, 10:06
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    Io la consegno il 19 :patkill:
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    Partecipo :siga:
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    Camminava per le vie della città con passo fiacco e distaccato. Non guardava nulla in particolare. L’istinto, o la noia, come avrebbe detto lui, lo guidava nella notte. La sua mente aveva smesso di pensare: se ne rifiutava, ormai. E continuava ad avanzare oltre i marciapiedi, le strade, i palazzi.

    Tra le mani stringeva una copia di Racconti Neri, di Guy de Moupassant. L’aveva terminato il giorno prima ma aveva colto, in quell'opera, qualcosa di tremendamente familiare. Personale, avrebbe detto lui. Era accaduto specialmente nelle prime pagine, in un racconto che si intitolava “Come suicidarsi”. La trama non riservava sorprese e i fatti si svolgevano esattamente come indicato dal titolo.

    Era al confine di Providence, dove le strade iniziavano ad affacciarsi sulle colline rischiarate dalla luna. Ad un tratto, una scintilla gli fece battere le palpebre. Guardò in basso. La luce fredda di qualche lampione faceva luccicare le punte dei suoi stivali. Portava degli anfibi Louis Vuitton, numero 44, dal costo di centosessantanove dollari e novantanove centesimi.

    Quando li aveva comprati aveva provato piacere e si era sentito… degno, avrebbe detto lui: un uomo che poteva permettersi di spendere una tale cifra in scarpe sarebbe potuto andare in giro a vantarsene con gli amici. Solo che l’uomo non aveva amici. E l’ebrezza era svanita nell'esatto momento in cui era uscito dal negozio di scarpe.

    In realtà, anche se avesse avuto dei compagni non sarebbe cambiato nulla. Odiava le persone: era un misantropo della peggior specie. Aveva illuso tutti quelli che erano stati tanto sfortunati da cercargli un approccio. Ci era uscito con quella gente. Aveva scherzato, giocato, mangiato e persino dormito. Tuttavia, il demone della ragione gli impediva di fidarsi e di rivelarsi in tutta la sua personalità.

    E così era stato. Sino a che non aveva perso tutti. Poiché persino l’essere umano più stupido, prima o poi si rende conto di non essere un oggetto di svago per qualcun altro. Perciò l’uomo passeggiava sull'asfalto che aveva calpestato centinaia, forse migliaia di volte, in solitudine. Stanco di interrogarsi sui misteri della vita, su cosa fosse giusto o sbagliato, e su quale fosse davvero il senso delle cose. Perché un senso non c’è, avrebbe detto lui.

    Era giunto in Clover Street e si accingeva ad osservare Providence dalla prospettiva di un’altura recintata. In quel posto la sua lingua aveva incontrato quella di una ragazza, tanto tempo prima. Si trattava dell’unica che avesse mai veramente amato. “Coco” sussurrò a sé stesso. Di fronte all’amore anche l’odio poteva chinarsi. Ricominciò a pensare.

    Si chiese se in quel momento si trovasse lì, senza nessuno, immerso nell’oscurità, con quella copia di Racconti Neri e il fascino che aveva esercitato su di lui, a causa di quella storia amorosa. Non poteva escluderlo. Ma credette anche che, in un modo o nell’altro, avrebbe comunque compreso quanto fosse ripugnante la razza umana.

    Nonostante ciò, rimpiangeva quel nodo che gli si formava in gola ogni volta che guardava Coco. Quel senso di soffocamento e stretta al cuore che, paradossalmente, lo faceva sentire vivo. Non ricordava altri momenti in cui avesse mai avuto tanta certezza d’esistere. Per quanto illusorio, era stato bello. Alienatico, avrebbe detto lui.

    L’uomo tornò nel suo appartamento in Phillips Avenue. I raggi lunari attraversavano le grandi vetrate della stanza da letto, che si accinse presto a spalancare. Folate di vento gelide ebbero il permesso di entrare. Dopodiché si diresse verso l’armadio e indossò una vestaglia da notte, indeciso tra la Sergio Valentino da duecentosessantadue dollari e la Versace, più cara di cinquanta centesimi.

    Dalle colline verdognole che potevano notarsi nel paesaggio continuavano a sprigionarsi raffiche d’aria, che terminavano nella casa dell’eremita, ora impegnato a sistemare un cinturino di stoffa attorno ai fianchi. Presto, tuttavia, notò qualcosa che si muoveva sull'anta del guardaroba: un’ombra dalla forma circolare che strepitava come una fiamma ardente. Si voltò e ricordò che aveva appeso lui quella corda al lampadario, prima di andare a dormire.

    Il cappio pendeva dal supporto e pareva muoversi di vita propria, impaziente di mietere la vittima. L’uomo restò immobile per qualche attimo ad osservarlo. La vista della stanza, talmente sproporzionata per un solo inquilino, gli bloccò le vie respiratorie: che ci faceva lì, in possesso di tutto e in assenza di tutti?

    Dalle finestre, la città lo spiava costantemente. A volte, tentava persino di chiamarlo, di reintrodurlo nella comunità, e l’uomo poteva sentirla. Ma restava indifferente.

    Quando si svegliò restò per un attimo fermo a guardarsi intorno. “Mamma, guarda la barba di quell’uomo!” annunciò una bambina che passeggiava in Angel street nella mano di una donna. I raggi solari lo picchiavano duramente e infierivano sull’odore insopportabile che fuoriusciva dalla sua borsa. Ad una certa ora si sedette all’angolo della chiesa di San Patrizio e finse di riflettere se fosse meglio il suo cappotto Armani o i suoi jeans Dior. Avvertiva una fitta alla schiena, a causa del marmo su cui aveva dormito. Davanti a lui si ergeva il solito edificio adibito a libreria, nella cui vetrina si poteva scorgere una copia di Racconti Neri, di Guy de Moupassant.

    A mezzogiorno mimò persino il momento dei pasti, sedendosi con uno sgabello improvvisato all’ombra di qualche albero del parco comunale di Providence. I pedoni lo guardavano come si fa con un barbone. Ignoranti, avrebbe detto lui. Il loro giudizio non importava più ormai. Poteva essere chi desiderava.

    Nel pomeriggio si allontanò dalla zona urbana, immergendosi tra le colline verdeggianti che tanto amava. La luminosità della giornata, il calore, i petali dei fiori colorati e l’erbetta che cresceva florida e rigogliosa gli ricordarono una parte del sogno. Quella più intima e realistica, Coco.

    Le loro lingue si erano incontrate davvero nella notte più splendente dei tempi. Lui teneva le mani sulla testa di lei, sino che l’aveva avvicinata delicatamente a sé. Dopodiché, le loro labbra si erano toccate, contraendosi in un impeto furioso di passione grottesca.

    L’uomo stava stringendo il capo della compagna con tutte le sue forze. Aveva i pugni chiusi e stretti nei suoi capelli insanguinati e avvinghiava quella testa immobile, privata del corpo, con fare elegante e impassibile.

    Ci siamo innamorati al chiaro di luna su una collina del New England, io indossavo uno smoking Prada e lei un abito Gucci da cinquecento dollari e cinquanta centesimi, avrebbe detto lui.

    Edited by @AnthonyInBlack - 13/10/2020, 19:49
  7. .
    Interessante, niente male
  8. .
    A volte vorrei poter entrare nella mia serie tv preferita. È un misto tra horror, thriller, drammatico, erotico e persino comico. Mi capita di percepire un senso di familiarità con quest’ultima. Sono arrivato alla conclusione che un programma televisivo non si possa definire meno concreto della realtà che vivo ogni giorno. Non ricordo chi è stato a dirlo, ma penso che l’affermazione secondo cui “Si può definire realtà tutto ciò che è in grado di farci provare emozioni”, sia corretta.

    Ed effettivamente, la serie tv di cui parlo potrebbe essere il riflesso della vita di qualcun altro. Le opere migliori, che siano letterarie, artistiche, cinematografiche o teatrali, sono quelle in cui il creatore riversa se stesso: spesso quella parte più recondita e bizzarra del suo animo. E difatti, la fiction in questione è decisamente assurda e mi chiedo spesso da quale mente malata possa essere scaturita. È qualcosa che non si può spiegare a parole, ma che si coglie come il momento ambiguo e singolare in cui si prova un deja vu. Non so perché questo sia possibile, e neppure a cosa possa attribuirsi la causa. Sarà forse effetto di un qualche principio metafisico?

    Non saprei. Ho una mentalità molto aperta e sono propenso a mettere in discussione l’esistenza di tutte le cose che mi circondano. Tuttavia... fantasmi, mostri, oggetti volanti non identificati e universi paralleli: ho deciso di non credere nel soprannaturale. Se c’è qualcosa su cui posso essere sicuro, invece, è che dietro le leggende si cela sempre un velo di verità. Non può essere tutto frutto dell’immaginazione di qualcuno.

    Credo che adesso tornerò a guardare la mia serie tv preferita.

    Ricordo bene l'episodio in cui un uomo di Plainfield uccide donne senza pietà, per poi fabbricare utensili e accessori vari per la casa con parti del loro corpo. O ancora, quello in cui un presidente, pur di essere rieletto, compromette l'esito delle votazioni in modo illegale. Per non parlare di quella vecchia puntata nella quale orde di soldati piombano in una terra mai vista prima e cominciano a spodestare gli abitanti locali per appropriarsi delle loro terre.

    Insomma, narra di un luogo in cui non esistono più principi morali e i personaggi sono in continua lotta tra di loro. Farebbero qualsiasi cosa per accaparrarsi ciò che desiderano, anziché quello di cui hanno bisogno.

    Adesso sto guardando la stagione 2019. I protagonisti si stanno impegnando a distruggere addirittura il loro stesso pianeta. Ogni residente ci mette del suo, attraverso piccoli gesti quotidiani. Ad esempio, sporcano le strade lanciando via i mozziconi delle “sigarette”, involucri di carta con del tabacco all’interno. Fumano queste sostanze per puro piacere, pur consapevoli che siano la causa del novanta percento del cancro ai polmoni.

    Infatti, l’elemento stimolante del programma, quello che ha fatto sì che lo guardassi fino a questo punto, è proprio che gli uomini sono consapevoli dei disastri da loro causati, eppure continuano. Sanno che il riscaldamento globale sta provocando il disgelo di enormi masse di ghiaccio e avrà conseguenze sempre più catastrofiche sull’ambiente. Per non parlare della povertà in cui riversano certi paesi, specialmente nell’Africa meridionale; mentre in una nazione chiamata America il problema dell’obesità è quasi una questione di stato.

    A questo punto c’è da chiedersi il motivo per cui vorrei entrare a far parte di tale mondo apocalittico. Credo che non ci sia una ragione vera e propria, è lo stesso tipo d’attrazione che si prova guardando un film horror o guidando un’auto superveloce, ma terribilmente inquinante. A volte si vogliono fare delle cose diverse da ciò che si ritiene normale, forse per evadere dalla monotonia della realtà mondana.

    Soprattutto, però, mi piacerebbe osservare da vicino il comportamento di quegli oranghi terrestri.
    Amo il concetto del regista secondo cui, ad un certo punto dell’evoluzione, si inizi a ritornare indietro: si regredisca.

    Edited by @AnthonyInBlack - 13/3/2019, 00:25
  9. .
    CITAZIONE (Rory @ 16/2/2019, 00:09) 
    Antò, sei un genio. Ti dirò: dal primo racconto, quello del contest, già avevo capito che ci sapevi fare. Qui mi hai decisamente spettinato.

    Volevo farti i miei più sinceri complimenti. La narrazione è, a parer mio, eccellente: riesci ad esprimere tutto il turbamento e il senso di soffocamento del protagonista, non solo attraverso le espressioni utilizzate, ma anche nella forma delle frasi. Il fatto che tu così spesso abbia messo un punto, anziché una virgola, ha dato un che di importanza ad ogni sua minima azione. Forse, all'inizio la ritenevo una cosa un pochino pesante, perché da romanticona quale io sono non potevo che chiedermi perché questo ciccio fosse così negativo di fronte alla vita (al di là della madre che sbraita ogni cinque minuti, ma dettagli). Ma poi ne ho capito il senso leggendo. Alla fine ognuno vive i momenti attraverso il "proprio" velo. E il protagonista, giustamente, si chiede: quale sia il modo giusto di vedere. Cos'è che ci spinge a dire "ok, questa per me è la vera normalità"? In fondo è un concetto talmente importante che è difficile dare una sola spiegazione. Ma comunque tu ne hai dato una bella rappresentazione.

    Chapeau.

    Ci sono solo due "errori" (che non sono così tanto errori, solo delle opinioni personali):

    all’interno del mio pigiama <---questa qui è più un'espressione inglese, in italiano non usiamo aggettivi dimostrativi in questo senso qui. Potresti scrivere tranquillamente "dentro il pigiama"

    lo porto alla bocca. Il liquido tocca le labbra e un male lancinante si diffonde nella bocca. <--- fai che se lo porta alle labbra. Altrimenti ripeti due volte bocca.

    Ti ringrazio, in questo racconto ho riversato tutto il mio malessere
  10. .
    Molto interessante
  11. .
    “Purtroppo rubiamo sempre più spazi alla natura e questo provoca una rottura dell'equilibrio, scatenando una serie di conseguenze”.
    - Domenico Otranto, conferenza faunistica all’Università degli studi di Bari, 2015.


    Prologo
    Librino, luglio 2014



    “Ho visto una donnola mentre tornavo da scuola”. Abdul rise di gusto alle parole di sua figlia. E non fu l’unico: la ragazza venne derisa dai compagni di scuola e da tutti coloro i quali venivano a conoscenza dell’accaduto. Nessuno immaginava che un animale del genere potesse spingersi tra i palazzi del paese, in pieno giorno. Fu in tal modo che iniziarono a chiamarla Donnola. E in un paese come Librino, la voce si diffuse in un batter di ciglia. Magdalene non riuscì a sopportarlo e prima che potesse immaginare era già affogata in un lago di eroina e pastiglie colorate.

    Le droghe erano sempre state a portata di mano nella città. I Signori del palazzo di cemento ne controllavano il traffico e procurarsene qualche dose era facile quanto imbattersi in un gabbiano sulle spiagge sterili dei paesi vicini. Mag lasciò la scuola qualche mese più tardi e iniziò a guadagnare qualche soldo aiutando Bruno con lo spaccio: tutti soldi che finivano nello stesso lago in cui sguazzava. La ragazza abbandonò la dimora familiare durante la notte del suo diciottesimo compleanno. Abdul era troppo ubriaco per evitarlo e Raya si reggeva in piedi a stento, in preda alla disperazione.

    Poco tempo più tardi anche lei avrebbe lasciato la casa per non tornarci mai più: i ricordi di un passato distrutto aleggiavano come spettri tra le mura fatiscenti dell’abitazione. Mag si abbandonò agli istinti più rozzi e animali, lasciando che gli aghi penetrassero sempre più spesso le vene delle sue braccia. Come un animale selvatico, comprese che era giunto il momento di abbandonare la famiglia per cavarsela da sola.


    Librino, agosto 2015



    Dal finestrino le campagne siciliane scorrevano come cascate poliedriche. Anthony In Black aveva ricevuto un incarico da Domenico Otranto, il responsabile dell’ala veterinaria dell’Università di Bari. L’autista del taxi lasciò il reporter in Via del Tarocco e sparì subito dopo aver ricevuto il compenso. La vettura scappò via come un’antilope inseguita da un branco di leoni: la carrozzeria luccicava sotto i raggi solari e le gomme frinivano sull’asfalto, impazienti di allontanarsi al più presto dal borgo più malfamato di Catania.

    Tra le vie del paese crescevano erbacce di un verde malsano. Nonostante tutto, però, erano presenti farmacie, supermercati e luoghi di aggregazione. Il principale era una vera e propria centrale dello spaccio, detto ‘Palazzo di Cemento’. Il giornalista si ripromise che non avrebbe curiosato nell’edificio: aveva un compito preciso da svolgere. Documentare la trasformazione artificiale dell’ambiente naturale richiedeva sforzo e concentrazione.

    Estrasse un taccuino dallo zaino e cominciò con i confini. Le campagne adiacenti al borgo si estendevano per chilometri nella parte sud. A nord si trovava un prato slavato e gli altri lati erano contornati da strade asfaltate.

    Quando il calore dell’isola iniziò a diventare insopportabile, Anthony si diresse verso il centro. Talvolta scriveva qualche appunto. E traeva un respiro di sollievo imbattendosi in alcuni vicoli in cui il sole non poteva battere. Nemmeno Domenico Otranto al termine di una conferenza sudava come lui, in quel momento.

    Nelle strade non c’erano persone. Le case erano poste come un secchiello di costruzioni svuotato da un bambino: si trattava di stabili semplici e disordinati, che soprastavano ad un asfalto consunto. Gli alloggi erano spesso troppo vecchi per essere a norma. L’errante notò qualche uomo schivo sui balconi e nient’altro. Gli parve strano non vedere nemmeno un cane o un gatto aggirarsi per le vie labirintiche del centro abitato e annotò immediatamente il particolare sul taccuino.

    Ad una certa ora lo stomaco del reporter iniziò a lamentarsi. Ormai doveva essere il momento del pranzo. Perdersi nel luogo, tuttavia, era facile quanto morirci per un carabiniere. L’uomo accaldato si fermò all’ombra di una viuzza e decise che si sarebbe accontentato di mangiare il panino conservato nello zaino.

    Provò a scrollarselo di dosso, ma fu come se le radiazioni ardenti del sole lo colpissero tutte insieme, per ferirlo a morte. La borsa cadde per terra. Il giornalista, con lo sguardo appannato, si piegò per coglierla e avvertì un giramento di testa. Si fermò con la spalla inarcata e un braccio penzolante rivolto all’oggetto.

    Davanti ai suoi occhi comparvero dei puntini in movimento e comprese di aver contratto un colpo di calore. Prima di svenire, però, notò che sulla terra asfaltata erano presenti delle macchie scarlatte. E quelle non erano il frutto di un disagio fisico. Esistevano davvero, a qualche centimetro di distanza dallo zaino. Dei grumi di liquido rosso che sporcavano la terra asfaltata in modo folle e inarticolato. Sangue.

    “O luna bedda mia diccillu tu
    diccillu luna mia,
    quant'è ca soffri lu me cori,
    dicci ca forsi cca non tornu cchiù”.

    Il canto proveniva dalle corde vocali di un uomo, accompagnate dalle note malinconiche di una chitarra. Il componimento era talmente delizioso che Anthony credette di trovarsi in paradiso. Ma guardandosi meglio intorno comprese di trovarsi in una di quelle dimore fatiscenti tra cui aveva perso l’orientamento.

    Il desiderio di scoprire l’orario del giorno lo fece destare dal divano ferroso su cui si trovava. Le ossa della sua schiena scricchiolarono, interrompendo la melodia della canzone. Intorno a lui erano presenti mobili invasati dai tarli e l’aria aveva un retrogusto antiquato. La casa aveva solo tre stanze, in cui predominava un colore marrone invecchiato. Affacciato a nord c’era un balcone che mostrava il cielo, in punto di tramontare. La musica sembrava provenire esattamente da lì: dal collasso del sole rossastro.

    Il giornalista notò un orologio a cucù sulla parete a destra. Aveva il quadrante piccolo e non fece in tempo ad avvicinarsi per leggerlo che un uomo spuntò dalla veranda. Era alto e corpulento, aveva una carnagione abbronzata e una testa pelata. “Mìenu mali” annunciò. Anthony arricciò il naso. “Stavu giusto per andare a seppellirti”. Comprendere il dialetto locale non era impossibile, ma passarono una dozzina di minuti affinché i due riuscirono a presentarsi e a chiarire la situazione.

    Il siciliano si chiamava Luigi. Aveva rinvenuto il disgraziato privo di sensi in Via del Bergamotto, il giorno prima. Quando Anthony lo scoprì, chiarì il motivo della sua presenza a Librino e si affrettò a richiamare il taxi. Luigi preferì non riguardare il giornalista dai pericoli che un uomo come lui poteva correre nel paese. Tuttavia, non c’erano taxi disponibili per quella notte e decise che gliene avrebbe parlato più tardi. Il reporter tirò un respiro a pieni polmoni e si preparò a trascorrere la serata con il cantante.

    La cena fu servita alle ventuno. Il padrone di casa portò in tavola un piatto che descrisse come “Busiati con agghio pistata”. Mentre conversavano l’ospite imparò ad amare la pietanza e le tradizioni di quella terra. Sotto il manto oscuro della malavita si celava un luogo antico e puro come il cuore di un bambino. Canti, arance profumate, vendemmie e dialettica sarda non erano che una goccia minuscola nel mare siciliano.

    Terminato il pasto raggiunsero la balconata e restarono a guardare le stelle per qualche minuto. Soffiava una brezza leggera, che penetrava nei vestiti con dolcezza e veniva alla pelle quasi accarezzandola. La luna chiaroscurava i palazzi e li rendeva ancor più declassati di come apparivano. L’incantamento dell’ospite si sfatò solamente quando Luigi gli rivolse la parola: “U vidi?”

    Anthony chiese a cosa si riferisse. “Lì, quello spaziu verde” rispose l’uomo, indicando un prato in un punto nascosto dalle case. Per vederlo bisognava spostarsi, rivolgendosi ad est. Distava almeno un chilometro dall’abitazione in cui si trovavano e brillava come una pietra preziosa. Il vento soffiò con impeto e arruffò i capelli degli osservatori. Il reporter annuì, ipnotizzato dall’erba luccicante. Dai lineamenti sembrava un falco alpino alle prese con la caccia invernale. Le sue piume erano spettinate da una corrente ventosa, ma l’accettava senza riguardo: era la natura. Implacabile. Invincibile. Spietata.

    “Chiddu è l’unico spaziu di natura che si vede. Ti rendesti conto?” disse il siciliano. Anthony recepì il messaggio, ma non si mosse. Luigi lo guardò in modo preoccupato e decise di poggiargli un braccio sulle spalle. Tuttavia, il falco si ritrasse, disgustato da tutte quelle abitazioni che occultavano il prato. La terra che gli aveva descritto il siciliano stava morendo. Probabilmente, in un futuro prossimo, non sarebbe più stato possibile nemmeno mangiare un piatto di busiati con agghio pistata.

    L’ospite si allontanò senza rivolgere sguardi all’interlocutore. Prese lo zaino dal divano e si incamminò verso la porta. “Ho bisogno di prendere aria, aria vera” annunciò prima di andarsene. Il cantante lo seguì, ma non riuscì a fermarlo. Quando il giornalista era già in cammino verso la periferia di Librino, sentì la voce del suo salvatore in lontananza. Stavolta, però, non cantava. Gracchiava come un passero finito tra le grinfie di un predatore. “Nun t'haju rittu 'na cùosa!”. In preda all’agitazione, il dialetto si era fatto più stretto e incomprensibile: “U sancu ri quannu si svenuto nun era to'!”.

    Il giornalista si voltò a osservarlo un’ultima volta e tornò per la sua strada. Luigi continuava a gridare e ad agitare le braccia sul terrazzino, illuminato dalla luna e circondato dal silenzio innaturale che aleggiava tra i palazzi. “C'è 'na bestia chi uccide l'animali rintra a città!”. Infrangeva l’assenza di rumori senza riguardi e insisteva a strepitare: “Accura a chidda bestia! Accura a chidda bestia!”.

    La mezzanotte era scoccata da qualche minuto. Su un’altura a sud di Librino, il giornalista osservava la campagna che si estendeva per qualche chilometro di fronte a lui. Il soffio di Eolo si era placato e i riflessi della notte elargivano la loro luminosità sui ciuffi d’erba. I rami degli alberi apparivano come ossa scheletriche di un corpo malato e formavano un dipinto dalle sembianze Goyane. Ora c’erano soltanto lui e la natura.

    Anthony tastò la terra su cui era poggiato: granelli di materia ridotti ad uno stato infertile. Pensò a quali rifiuti aveva dovuto assorbire il terriccio della Casa segreta della mafia e sospirò. L’articolo di giornale sull’antropizzazione del luogo iniziava a prendere forma nella sua mente. Immaginava già il titolo: “Un fascio di luce su Librino”, oppure: “Sorprese nella Casa segreta della mafia”, o ancora: “Verità scomode per poteri scomodi”.

    La notte illuminava la distesa di terra più che la parte urbanizzata della città: quando la luce del satellite terrestre incontrava gli edifici, dava origine ad ombre giganti. Ad un tratto, il giornalista vide qualcosa spostarsi nella campagna, di fronte a lui: probabilmente un animale, il primo che gli capitava di avvistare nel paese. Decise di alzarsi in piedi e tentare di riconoscerlo. Si portò una mano sulla fronte e aguzzò la vista: era distante qualche centinaio di metri e bazzicava nell’erbetta con aria intelligente ed intimidatoria.

    Pensò che si trattasse di un cane, viste le dimensioni, ma non ne aveva le caratteristiche. Piuttosto, era sicuro che fosse un animale selvatico: il temperamento cauto e circospetto non lasciava dubbi. Una volpe? Poteva essere, solo che non aveva molta pelliccia e, soprattutto, il muso non era allungato. Il colore della bestia era scuro, pressoché marrone, e si muoveva a quattro zampe. Gli arti inferiori, ripiegati quasi a metà per muoversi, non sembravano progettati da madre natura per l’utilizzo che ne stava facendo. Cambiò idea e credette che potesse somigliare ad una scimmia. Poi si distrasse per un attimo e, divagando tra i pensieri, ebbe un lampo di genio: “Librino. Natura o spazzatura?” urlò con aria entusiasta. Adesso aveva il titolo per il suo articolo. Tuttavia, qualcuno gli si avventò alle spalle, coprendogli la bocca.

    Aveva delle dita possenti, che emanavano odore di alcol. “Sta’ zitto!” esclamò l’estraneo con aria minacciosa. Possedeva una voce roca, che dava fiato ad un alito pesante. Anthony iniziò a dimenarsi. In lontananza, la bestia selvatica si drizzò su due zampe: doveva aver udito il grido. L’animale cominciò a dirigersi verso i due lottatori, con una velocità impressionante. Avvicinandosi, la creatura assumeva le parvenze di un mostro, uno scherzo della natura degno di alimentare storie e leggende nell’immaginario collettivo. Emanava un odore svenevole e quando il giornalista osservò che somigliava più ad un essere umano che ad un animale, il sangue gli strillò nelle vene e morse le dita che gli premevano contro la bocca. L’assalitore fremette e scappò nel buio.

    Il reporter, non avendo altra scelta, lo seguì. Talvolta si guardava intorno, come impazzito: non aveva familiarità con le vie di Librino e gli pareva di trovarsi in un incubo. Un tunnel senza fine, illuminato solo in alcuni tratti e incorniciato da casette in rovina che mostravano un’espressione diabolica. L’inseguimento durò un paio di minuti. I due uomini correvano all’impazzata verso il centro della città, mentre un animale bizzarro li seguiva ansimando. Anthony si fermò in Via del Cedro, affaticato. Accasciandosi a terra, le sue ginocchia toccarono il bitume della superficie con violenza e vennero fuori dai pantaloni. Il vento era tornato a soffiare con foga e riempiva gli strappi, gelandolo fino alle ossa. Pensò che avrebbe presto subito un esaurimento nervoso. E la bestia era sempre più vicina.

    Non sarebbe riuscito a reagire neppure se l’aggressore fosse tornato per infliggergli il colpo di grazia con la penna che utilizzava per i suoi appunti. Probabilmente non ci sarebbe stato più nessun articolo firmato Anthony In Black. Il moribondo portò lo sguardo al cielo, per osservare le stelle un’ultima volta. Associò i punti luminescenti nell’oceano nerastro alle fasi della sua vita: nascita, adolescenza, età adulta e… morte. Tutte scandite dall’amore incontrovertibile per la natura. Una passione che l’aveva condotto nel borgo di Librino, dove nessun’altro aveva mai osato spingersi, per incontrare il sonno eterno.

    I rantolii della bestia erano sempre più vicini. Anthony chiuse gli occhi e si preparò al peggio. Ma mentre cercava di abbandonarsi alla verità ignota che l’aspettava, gli sembrò di sentire la voce di Luigi.

    “O luna, luna chi manni chiaria,
    supra tuttu lu munnu e 'ntra lu mari".

    Il canto era soave, ma stavolta non era accompagnato da nessuno strumento.

    “E cca lassu la me gioventù
    luntanu di iddi moriri mi sentu accussi”.

    Ed ecco che, improvvisamente, la poesia si interruppe. Seguirono alcuni gemiti, degni di un film dell’orrore. Il reporter riaprì gli occhi. Era ancora vivo. E l’uomo misterioso che l’aveva zittito gli stava porgendo una delle sue mani giganti. Gli disse che non era al sicuro e lo scortò traballando verso un condominio non molto distante. Sull’asfalto erano presenti macchie cremisi in modo numeroso.

    Già debilitato per il colpo di calore del giorno prima, Anthony si addormentò tra le braccia del tale che lo trasportava. Si chiamava Abdul e lo stava portando in casa Sholem, dove avrebbe potuto riposare al sicuro.

    Nell’appartamento non si riusciva a distinguere alcun odore, se non quello opprimente della muffa. Abdul sorseggiava una bottiglia di Whiskey e fissava il giornalista assonnato dritto negli occhi. Si trovavano seduti ad un tavolo, pieno di focacce rinsecchite e bottiglie di alcolici. Sparsa sul pavimento c’era la carcassa di una torta, un liquido rosaceo intriso di candeline da compleanno. Il reporter le contò: erano diciotto. L’unico rumore che si udiva nell’abitacolo era il movimento continuo dell’epiglottite, da parte del padrone di casa.

    La mattina stava per sorgere ed Anthony non aveva intenzione di restare un minuto di più in quella tana di predatori. Allungò le mani nelle tasche, cercando il telefono. L’uomo dai lineamenti arabi continuava a guardarlo. Nei pantaloni non c’era traccia del cellulare. Doveva essere nello zaino. “Sei stato fortunato, ieri” continuò l’ubriaco. Ridacchio e si portò la bottiglia alle labbra screpolate.

    Aveva in tutto e per tutto l’aspetto di un barbone, ma c’era qualcosa nei suoi occhi che lo tradiva: in quelle pupille distrutte Anthony notò scintille di un tormento senza fine. Dava l’idea di aver oltrepassato l’inferno e aver ucciso il diavolo in persona, ma doveva presto essere sorto qualcosa di peggiore e non aveva potuto fare altro che restare a guardare. Una vista che gli aveva provocato lo scoppio di alcuni capillari nelle cornee, ma soprattutto nel cuore.

    Abdul restò immobile per qualche attimo ancora, mentre Anthony si guardava intorno disgustato. Ragni e altri insetti correvano liberi sulle pareti e le travi del soffitto. La porta d’ingresso presentava un’apertura enorme nella parte inferiore. “Avevo una figlia, si chiamava Magdalene” disse l’arabo con un accenno di pianto. L’ospite smise di preoccuparsi dell’ambiente e si concentrò sul racconto della voce malinconica. Talvolta, pareva assurdo. Ma la convinzione dell’uomo era inequivocabile.

    “Quindi la creatura che ci ha inseguito ieri…” il reporter si passò una mano sulla fronte sudata. Abdul annuì. Il dibattito durò fino a mezzogiorno. Secondo quest’ultimo, Mag aveva mischiato troppe dosi di eroina ed era arrivata al punto di credere d’essere diventata un animale. Disse anche che era venuto a scoprirlo tramite Bruno, l’unico ragazzo con cui sua figlia scambiava qualche parola: quando era scappata di casa, Abdul aveva pestato il ragazzo finché tutta la verità non era venuta fuori.

    Inoltre, era convinto che la figlia avesse dato segni di problematiche mentali sin da bambina, quando disse d’aver visto una donnola tra i palazzi della città, in pieno giorno. Anthony ripensò alle parole del suo datore di lavoro: “Lupi, cinghiali, volpi, faine e falchi. Negli ultimi anni si sta verificando un cambiamento nelle attitudini di varie specie…”.

    L’intervista continuò e, dopo aver rinvenuto la borsa, il giornalista annotò qualche appunto sul taccuino.
    Tutto pareva scaturire dall’incontro fatidico con l’animale, avvenuto molti anni prima. Il reporter sapeva che non era affatto assurdo, come immaginavano i librinesi. Magdalene, o Donnola, come l’avevano soprannominata dopo l’avvenimento, doveva aver assimilato l’evento come qualcosa di straordinario. E l’utilizzo delle droghe aveva contribuito a renderlo ancor più profondo e speciale. Ma poteva davvero, l’incontro con un animale selvatico, portare un essere umano a diventare un mostro?

    Anthony non avrebbe mai immaginato che gli effetti dell’antropizzazione sull’ambiente naturale, potessero spingersi fino a tal punto. Alzò lo sguardo al soffitto e imprecò. L’articolo di giornale sarebbe stato un successo, anche se nessun compenso l’avrebbe mai ripagato dalla verità orribile che aveva avuto modo di scoprire: persino la natura, che aveva amato e difeso sino a quel momento, poteva essere spietata quanto l’essere umano.

    L’avventura stava ormai volgendo al termine. L’ospite ringraziò il padrone di casa per averlo salvato e raccattò le sue cose. Compose il numero del taxi per l’ennesima volta e si avviò verso l’uscio demolito. Mentre apriva l’anta della porta, tuttavia, si sentì afferrare all’altezza del collo. Erano mani enormi, veterane, e puzzolenti di alcol. “Se credi di poter denunciare tutto questo, ti sbagli di grosso” disse Abdul. Anthony scosse le spalle per liberarsi e l’uomo continuò: “I Signori del Palazzo di cemento non te lo permetteranno. Attirare le autorità nella Casa segreta della mafia è un suicidio”.

    Difatti, tale era la ragione per cui l’arabo non aveva richiesto aiuti esterni. Ed era costretto a ripulire le oscenità che compiva sua figlia ogni notte, come un avvoltoio solitario, ripudiato persino da sua moglie. E così, vagava per la città, nel tentativo di sventare predazioni di persone inconsapevoli, come il giornalista. Gli abitanti di Librino sapevano già del mostro e avevano cominciato a tenere gli animali domestici nelle case, se non avevano già incontrato Donnola. Anche loro stessi, però, si tenevano il più possibile all’interno delle abitazioni, specialmente durante la notte. Nessuno avrebbe mai voluto incontrare Chidda Bestia.


    Università degli studi di Bari, settembre 2015



    Anthony fece ritorno all’agriturismo Pigno d’Oro e recuperò i suoi averi. Si fece scortare fino al porto di Messina e prese il primo battello disponibile per uscire dall’isola. Non chiuse occhio finché non giunse all’Università degli studi di Bari. Talvolta, durante il tragitto, aveva la sensazione di essere seguito o osservato. E aveva interiorizzato l’orrore vissuto al punto di avvertire continuamente un odore amaro e dolciastro.

    Tirò un sospiro di sollievo solo quando arrivò davanti all’edificio universitario. Il palazzo era un parallelepipedo enorme e lattiginoso, composto da tre piani e sviluppato intorno a cinque cortili. Il sole batteva sulla facciata principale e donava riflessi di luce all’acqua presente nella fontana frontale. Tutt’intorno all’università, si estendevano giardini che emanavano freschezza e regalavano ombra al clima afoso. L’orologio presente sul piano più alto del palazzo segnava quasi le undici: Domenico Otranto avrebbe potuto ricevere il giornalista tra qualche altro giro della lancetta dei minuti.

    Il reporter aspirò l’aria fresca e chiuse gli occhi. Il suono della fontana era rilassante quasi quanto i canti di Luigi. Si godette il momento ancora per qualche istante e si riavvicinò al taxi che l’aveva condotto sino a lì. Chiese all’autista di sbloccare il cofano e venne accontentato in un men che non si dicesse. Aveva qualcosa di strano quell’uomo. Era vestito in modo troppo elegante per sembrare un tassista e aveva un tatuaggio sbiadito sulla fronte, come quelli che venivano fatti in carcere.

    Anthony allungò una mano per aprire il cofano, ma qualcosa, dall’interno, lo spalancò per primo con furia e violenza. Il giornalista restò a guardare la creatura presente nel portabagagli per un tempo che parve infinito: un essere umano regredito, con qualche straccio di vestito indosso e un pelame leggero, sulla superficie della pelle marroncina. Il fisico presentava graffi, squarci e punti neri in cui il sangue non era ancora coagulato. Si trovava in posizione da rana, con il volto immobile e contratto in un’espressione rabbiosa e nostalgica. E mostrava i denti giallastri in segno di vittoria.

    Il muso dell’animale era stuprato dalle intemperie e ricordava solo vagamente la faccia una ragazza giovane, dai lineamenti orientali. Sul capo era presente qualche capello che arrivava a toccare le spalle. E il collo pareva innaturalmente allungato.

    La donnola sa essere molto paziente durante la caccia, sino a che non arriva il momento giusto per attaccare. E solo a quel punto, si avventa sulla preda con la determinazione di un ghepardo e la blandisce con un morso alla gola.

    Prima di avventarsi contro il reporter, Anthony la guardò negli occhi e non poté resistere al conato di vomito più forte che avesse mai provato nella sua vita: dai meandri di quell’espressione malata e dalla sostanza dell’odore indicibile che emanava, poteva notare la forza corrotta della natura. Ancora una volta, l'essere umano era riuscito a sottometterla.


    -L'antropizzazione, ovvero l'intervento umano sull'ambiente naturale atto a modificarlo in base alle proprie esigenze, è un fenomeno che continua a provocare effetti gravi sul clima e sull'ambiente terrestre;
    -La conferenza di Domenico Otranto all'Università degli Studi di Bari è avvenuta realmente, nel 2015;
    -Librino è un paese reale in provincia di Catania, anche detto: "La casa segreta della mafia".


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    Edited by @AnthonyInBlack - 21/12/2019, 13:02
  12. .
    Drammatico
    Il demone rosso
    Weird bird
    Un lori per Layla
    Reality
    Chidda Bestia

    Horror stories
    Il concetto artistico di un essere armonico
    Il mostro di Glasgow
    Starman
    Succubus

    Creepypasta
    Il confine del sogno
    Amorth

    Fantascienza
    La costellazione

    Altri racconti
    Un posto felice
    La forma della paura
    Regressione
    La Fossa

    Edited by @AnthonyInBlack - 13/10/2020, 19:47
  13. .
    Una perla del maestro di Providence
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    Sono stanco dei luoghi comuni su Halloween. Vorrei capire una volta per tutte il senso della festa e immergermi fino in fondo nello spirito che essa dovrebbe trasmettere, come accade per il Natale e la Pasqua. Sento che non avrò pace finché non accadrà; il problema è che Halloween non è mai uguale e non faccio fatica ad associarla alla situazione della mia abitazione in questo momento: tra gli ospiti invitati dai miei genitori riesco a riconoscere solo i parenti più prossimi. I restanti hanno facce misteriose e atteggiamenti arcaici, ma sono sicuro che conoscendoli si riveleranno affabili e simpatici. E tutto ciò mi comporta un gran dispiacere, vorrei tornare a credere che la festività racchiuda davvero un senso di mistero irrisolvibile e una realtà ricca di emozioni.

    Quando siamo bambini percepiamo Halloween esclusivamente attraverso il suo lato essoterico: ci limitiamo a preparare addobbi a forma di scheletro, a svuotare zucche e ad ascoltare la leggenda di Jack O’ Lantern. Col tempo, tuttavia, ci spingiamo un po' oltre e veniamo a sapere le origini celtiche della ricorrenza, la celebrazione dell’ultimo raccolto dell’anno e il suo vero nome: Samhain.
    Tale nominativo spinge alcuni di noi su una via ancor meno visibile e occulta, ed è così che il timore irrazionale degli spiriti in grado di varcare la soglia del nostro mondo nel giorno interdetto svanisce, lasciando libero passaggio ad una verità più concreta e impressionante: quella delle streghe. Il solo pensiero che possano essere esistite ed esistano delle donne dedite alla magia sviscera alcuni principi morali reconditi e stabili, arrecandoci dubbi e perplessità sulla natura dell’universo.

    Per Magia si intende la capacità di influenzare o dominare le forze della natura e, se si riflette sul fatto che un simile potere possa essere di radice malefica o utilizzato per agire a scopi malvagi, non possiamo fare a meno che rabbrividire.
    È in tal modo che comprendiamo la reticenza che ripone la chiesa cristiana nei confronti della celebrazione del 31 ottobre e cominciamo a interrogarci su vari punti. Solitamente gli atei iniziano a porsi le prime domande sulla presunta esistenza del soprannaturale, e i cristiani, che per loro natura già la ammettono, si chiedono se Halloween sia davvero una festa innocua.

    Se si approfondisce la questione legata alle streghe si scopre che una forma moderna della vecchia religione è ancora in voga nel mondo moderno e sarò lieto di soffermarmi su questo punto poiché l’ho studiato a fondo nella biblioteca comunale, proprio all’angolo dell’appartamento in cui abito. Nonostante prediligessi recarmi nel luogo in tarda serata, talvolta non ero solo mentre sfogliavo i libri che sceglievo di leggere e, per un motivo che va oltre la mia comprensione, spesso capitava che i presenti andassero via all'improvviso e io non potevo che sorridere di fronte all’irrazionalità di certe menti umane.

    In ogni caso, mi sono dedicato anima e corpo a tali argomenti: il mio obbiettivo era quello di sentire Halloween, aspirarla come fumo da una sigaretta e inspirarla in modo soddisfatto solo dopo che fosse entrata nel mio corpo e mi avesse fatto sentire il calore e le emozioni che ogni festività dovrebbe trasmettere. Volevo Fumare Halloween.

    Nella stregoneria, oggi chiamata Wicca, si celebra il 31 ottobre come il momento in cui muore il Dio: il principio maschile venerato in tale religione. Samhain rappresenta, oltre al capodanno celtico, una delle otto festività stregonesche che si celebrano in diversi momenti dell’anno, solitamente durante gli equinozi, i solstizi e in particolari momenti legati alla posizione della luna. Essi formano la Ruota dell’anno, che a sua volta, rappresenta un ciclo continuo di morte e rinascita. Ogni Wiccan che si rispetti dovrebbe eseguire dei rituali in questi giorni, specialmente durante Halloween.

    I riti avvengono rispettando vari punti descritti nel Libro delle Ombre, un volume, talvolta manoscritto, che ogni congrega o praticante solitario utilizza come esempio e varia in base alla tradizione Wiccan che si sceglie di seguire. I rituali sono delle celebrazioni in cui si entra a contatto con il Dio, anche detto Cornuto, e la Dea; ma anche con gli spiriti degli elementi e attraverso il loro potere si instaura un cerchio protettivo, solitamente fatto col sale, per tenere alla larga gli spiriti maligni. Durante il rito si cerca di generare energia attraverso il proprio corpo, talvolta con l’aiuto di alcune tecniche orientali, come quella dell’apertura dei chakra, e di tenerla all’interno del cerchio, cercando di immaginare quest’ultimo come una cupola semisferica di vetro trasparente.

    Qualche tempo fa provai ad eseguirne uno nella mia camera, ma l’ambiente era troppo buio per riuscirci e non ero fornito degli strumenti necessari. Ricordo solo che iniziai a consacrare lo spazio sacro dove avrei creato il cerchio, spazzai con una scopa sul pavimento e portai la polvere e la muffa in un angolo della stanza. Non avendo a disposizione le piante adatte ad essere bruciate per consacrare lo spazio col fumo, decisi di accendere un fuocherello con qualche pezzo di stoffa e della carta; tuttavia, fu una pessima idea: iniziò a mancarmi il fiato e svenni, mi torna difficile ricordare il resto di ciò che successe.

    Quando l’energia è abbastanza, ci si concentra per stabilire dove o a cosa indirizzarla: ad esempio, ad un parente malato o in fin di vita, e in tal caso si tratterà di un rito di guarigione. Se non si hanno richieste specifiche o si vuole semplicemente effettuare la pratica in onore degli Dei, tutta la forza creata verrà inviata alla natura: nella Wicca si dà molta importanza a quest’utima, poiché è la prova vivente del ciclo di morte e rinascita che rappresenta la Ruota dell’anno.
    Ho deciso che stanotte non indosserò il mio lenzuolo bucato per raggiungere i miei compagni di classe e bussare alle porte di Angel street per ottenere qualche dolcetto, come è avvenuto negli anni precedenti. Piuttosto, vorrei provare nuovamente ad essere una strega o ad effettuare una seduta spiritica.

    Tuttavia, l’uomo barbuto con la bombetta in testa pensa che sia inutile. Continua ad aggirarsi per l’abitazione con un bastone da passeggio e talvolta si avvicina dicendomi che dovrei sfruttare l’occasione per spingermi lontano. Si chiama Arthur Machen ed è anziano, ma sembra ancora in grado di ragionare. Forse è venuto a sapere che sono un tipo solitario dai miei genitori e vuole che colga l’occasione per uscire un po’. Dice che Halloween non ha un senso preciso, è solo un giorno in cui eventi strani e particolari bizzarri decidono di togliersi il mantello e mostrarsi al riflesso lunare per ricordare agli uomini che nonostante il tempo continui a scorrere, le superstizioni spariscano e le scienze progrediscano, avvicinandosi alla verità dell’origine del tutto, non saranno mai in grado di governare e tenere sotto controllo tutto ciò che esiste.

    “Vorresti provare delle emozioni come quando eri bambino e credevi davvero nei mostri. È il desiderio represso che non ti permette di essere cosciente” annuncia Arthur, sforzandosi di non tossire. Probabilmente è malato, ma riesce comunque a stupirmi. Gli chiedo come fa a sapere ciò che sto provando e mi risponde dicendo che può soddisfare il mio sogno se sono sicuro di espormi al rischio e di non proferirne il segreto.

    Accetto senza rifletterci e mi conduce con destrezza nella stanza più appartata, pare conoscerla. Gli dico di rallentare il passo, poiché gli abitanti del piano di sotto sono soliti entrare nell’appartamento della mia famiglia senza preavviso e mettersi a scrutare in ogni stanza per trovare la fonte del rumore. “Fa un tiro dal mio sigaro” continua poi. Non riesco ad evitare che un risolino isterico s’impossessi delle mie labbra. “Stai offrendo da fumare ad un bambino?” domando. “Tra le cose che scoprirai stasera c’è quella che il tempo non conta nulla. È solo un’illusione. Avanti, prendilo”. Ci penso su e raccolgo l’invito: nel peggiore dei casi mi sarei potuto vantare d’aver fumato per la prima volta, quella notte.

    Mentre il prodotto della combustione del tabacco inizia a fluire nella mia bocca sono sempre più euforico all’idea di ciò che sto facendo e non riesco a fare a meno di pensare al valore simbolico purificatore del fumo. E chiamatela coincidenza, associazione mentale illusoria, automatica o come vi pare, ma ora avverto un senso di liberazione. Sono più rilassato e in grado di scovare alcuni particolari esoterici nascosti tutt’intorno a me. L’anziano sta osservando la mia espressione pensierosa e rompe il silenzio: “è questo ciò che succede quando quelli come noi rivivono l’esperienza più intensa della loro vita”. Quelli come noi, rifletto. Che vuole dire? Avverto l’esigenza di uscire dalla stanza per esplorare i confini della zona e pensando che, seppur di grado lontano, siamo parenti.

    Esco dalla porta di casa e mentre la sbatto per richiuderla passa un gruppo di ragazzi che sobbalza per lo spavento. È come se il fiato gelido dell’inverno trapassi il mio corpo senza che io possa sentirlo e non riconosco neppure uno dei loro costumi: tra loro c’è una ragazza vestita da suora, con degli occhi gialli e delle zanne spropositate; un clown con i capelli rossi e dei palloncini ad elio stretti in una mano e un ragazzo snello, vestito in modo elegante e con una maschera bianca e senza lineamenti che gli copre tutto il volto. Dove sono finiti i vampiri, le streghe o i fantasmi? Concentrandomi meglio noto che anche la strada, nel complesso, è diversa da come sono abituato a vederla di solito: ci sono degli aggeggi elettronici che emanano luci verdi, rosse o gialle e delle auto volgari che obbediscono ai segnali. L’asfalto è più liscio e i marciapiedi più alti. Cerco di rincorrere i mostri per chiedere cosa stia succedendo, ma ogni volta che urlo paiono sempre più terrorizzati. Mi chiedo se l’unico mostro non sia io, poiché non riesco più a comprendere la situazione.

    Scelgo di tornare indietro per estorcere qualche informazione in più ad Arthur, ma mi soffermo su un manifesto appeso alla facciata frontale del condominio in cui abito. “Sei pronto ad affrontare la notte delle streghe? Vivi un’esperienza terrificante tra cocktail e musica a tema nella masseria Barney’s” Cocktail? Non avevo mai letto o sentito quella parola prima di questo momento. In alto ad un altro cartello pubblicitario noto quella che pare essere una data: 31/10/2018. Inizio ad avere paura e mi avvicino allo specchietto di un’auto parcheggiata poco più in là: avverto il bisogno di guardarmi, non lo faccio da troppo tempo, e mentre lo raggiungo una folla confusa di domande e deduzioni assurde balena alla mia mente: qual è la mia immagine? Cos’è successo al mondo in cui abito? Perché nella mia casa non ci sono specchi?

    Vi siete mai chiesti quale fosse la vera causa dei rumori che avvertite durante la notte, delle case cigolanti e dei fenomeni bizzarri che si mascherano sotto quello che pare un costume per Halloween? Questa notte ho imparato che non si deve mai escludere a priori la possibilità dell’esistenza del soprannaturale; perché potrebbe rivelarsi improvvisamente e soffocarvi mentre state dormendo, provocarvi un infarto quando guidate la vostra auto o prendere possesso del vostro animale domestico, conducendovi alla disperazione e all’infermità mentale. Tuttavia, potrebbe anche convincervi della sua esistenza rivelandosi senza mostrarsi, come la figura della mia immagine che ero sicuro di notare nel riflesso del finestrino dell’auto.

    “Sei morto aspirando del fumo e solo rivivendo quel momento potevi esserne cosciente” Aggiunge una voce roca alle mie spalle. Sono sconvolto, ma la mia capacità di provare emozioni è limitata. Il ciclo di morte e rinascita wiccan è compiuto e non è piacevole come pensavo. “Su, va a farti un giro o dovrai aspettare un altro anno per spingerti lontano”. E dopo qualche colpo di tosse Arthur torna a dirigersi verso la casa: “Io sono morto vecchio e stanco; perciò l’unica cosa che posso fare è tornare alla festa organizzata dai tuoi genitori, con quelli come noi”.

    Edited by @AnthonyInBlack - 19/11/2018, 21:28
  15. .
    “Penso che un’opera possa definirsi artistica quando supera il confine materiale di cui è composta e arriva dritta nell’inconscio, scuotendo l’anima dell’osservatore sino a far vacillare pericolosamente ogni nervo del corpo e tutti i neuroni del suo cervello”.

    Il professore allungò una mano all’altezza della bocca e si accarezzò il mento. Aveva una barba rade e corta che lo faceva sembrare più giovane di quanto non fosse in realtà e si trovava all’università da non più di tre giorni. Ogni ragazza presente nell’aula, come tutte le altre della Winslow University, avrebbe ucciso per tastare con le proprie mani quell’agglomerato di peli facciali e assaggiare il sapore delle sue labbra.

    “Tale metodo di giudizio, tuttavia, non può essere valido per le persone affette dalla sindrome di Stendhal, in quanto esse sono sensibili a qualsiasi forma artistica più dell’ordinario e, di conseguenza, rischiano che un capolavoro in grado di smuovere le membra più intime di un uomo normale possa arrecarle danni non trascurabili”.

    Zoey mi colpì con un buffetto sul braccio. “E poi hai la faccia tosta di criticarci? Sembra che tu abbia visto una delle sette meraviglie del mondo” annunciò sorridendo. Le feci cenno di star zitta e le chiesi di smetterla con tali assurdità. Anche se eravamo iscritti alla facoltà di lettere, talvolta il suo modo di parlare risultava irritante. In ogni caso, quel giorno, il discorso era confluito nell’arte. E Joe, l’insegnante, non pareva affatto dispiaciuto all’idea. Sembrava che si fosse accesa, dentro di lui, la lampadina che è solita ridestare dalla noia una persona che improvvisamente fiuta l’odore di un argomento appetitoso.

    “Anche se l’arte è soggettiva, voglio rivelarvi che talvolta ci troviamo di fronte a componimenti raffinati dal potere di trasmettere a chiunque dei messaggi di natura spirituale. Ma sapete qual è il bello? Che tali opere non vengono definite artistiche da nessuno. Ci si limita ad annusare l’odore di putrefazione di cui sono intrise e ad osservarle come il figlio di Saturno guardava suo padre prima che gli divorasse la testa”.

    Avevo sentito parlare dell’opera di Goya. Il riferimento era chiaro, ma che motivo c’era di fare un paragone talmente macabro? Non ebbi il tempo di ragionarci a fondo, che subito continuò e stavolta fu palese a tutti gli spettatori che aveva una concezione tutta sua dell’arte e che fremeva dalla voglia di esprimerla, incurante del programma scolastico che avrebbe dovuto seguire.

    “Per comprendere simili capolavori bisognerebbe abbandonare la concezione di uomo come figlio di Dio, essere vivente che ha stabilito delle regole e delle leggi per vivere pacificamente accanto al prossimo e creatura intelligente dalla facoltà di catalogare e spiegare i fenomeni della natura”.

    Le ragazze presenti nella stanza, quindici o forse venti, dilatarono le pupille. Quell’uomo aveva un fascino irresistibile e sentire il suo pensiero personale lo rendeva ancora più attraente. Nemmeno Anya Major in quel nuovo spot che pubblicizzava il Personal Computer poteva ritenersi all’altezza.

    “Pensate per un attimo all’essere umano come una bestia, una scimmia che ha preso il sentiero sbagliato dell’evoluzione e che adesso non può limitarsi a sopravvivere poiché è affetta dalla maledizione dell’intelligenza: io credo che sia possibile risvegliare alcuni istinti, quelli che oggi definiremmo tra i più malvagi e primordiali della nostra specie, attraverso l’osservazione approfondita di ciò che sto per mostrarvi e che io qualifico come arte, nel senso più puro del termine”.

    Joe Carroll mosse le labbra, lucide e sporgenti come lo strepitio convulso delle fiamme dell’inferno, ed emise un ghigno. Non l’avevo mai visto sorridere. In quel momento l’aula parve rabbuiarsi, non sentivo e non vedevo più niente se non le scintille di luce che emettevano i suoi incisivi. Wow, pensai. Quest’uomo deve essere passato dalla Central Saint Marins per sembrare così affascinante.

    “Però credo sia meglio riguardarvi: tutti coloro che trovano interessanti certe sensazioni di paura, terrore e sgomento probabilmente riusciranno ad addentrarsi in tali capolavori come Fussli nel suo Incubo; ma gli altri farebbero meglio a tenersi alla larga. Gli stuzzicati alzino una mano, prometto che non rimarranno delusi”.

    Ovviamente neppure uno dei circa cinquanta ragazzi seduti nei banchi a scrutare quell’angelo caduto esitò a rivolgere un braccio al cielo in segno di conferma. Tuttavia, ciò che seguì fu davvero singolare. Il professore cominciò a camminare per la stanza e non si fermò finché non la esplorò da cima a fondo, osservando gli studenti uno a uno, guardandoli negli occhi, come se cercasse qualcosa o tentasse di comunicare un messaggio. Tutti rimanevano ammaliati al suo passaggio e, francamente, io non fui da meno: quando fu il mio turno sembrò che un fulmine avesse illuminato la scena e brillava tutto così intensamente che mi fu impossibile non perdere la concentrazione.
    Al termine della bizzarria Joe era sparito e nell’aula regnava un vociare confuso. Zoey si girò verso di me e chiese cosa fosse successo, ma non fui in grado di risponderle e decisi che sarei tornato al dormitorio.

    Mi alzai e mentre richiudevo la borsa lanciai uno sguardo alla vetrina alla mia destra: al lato di un calendario con un segnalino posto sul ventidue Maggio c’era il riflesso di un ragazzo alto un metro e ottanta o giù di lì, indossava l’uniforme della Winslow e non aveva niente da invidiare a nessun’altro degli studenti presenti in aula. Tuttavia, pareva che non avesse più un volto: il suo viso ricordava un uovo bianco smaltato, corroso di putrescenza all’altezza degli occhi e in altri punti dove spuntavano i lineamenti più visibili. Il cartellino della giacca recitava Tom Wiseau: ero pallido in modo innaturale e per un attimo credetti di essere morto. Quell’evento doveva avermi sconvolto. Uscii dalla stanza a passo svelto e senza salutare.

    Dopo qualche passo nel cortile avvertii una fitta di dolore al fondo degli occhi, forse a causa dell’esposizione improvvisa alla luce del sole. Pizzicai le palpebre con pollice e indice della mano destra e strabuzzai le pupille per mettere a fuoco il prato appena fuori dalla struttura. Tutti gli insetti dello spazio naturale donato all’università degli Allen Centenial Gardens, un parco pubblico poco distante, erano ignari delle assurdità avvenute all’interno della sezione di Letteratura inglese poco prima e volevano solo godersi il caldo della primavera nei fiori scarlatti che contornavano la statua di Lincoln. Tornando in me, nacque l’esigenza di sapere che ore fossero; Joe Carroll era entrato in aula dopo la lezione di latino, quindi tra le nove e le dieci di quella mattina. Quando ricordai di avere un orologio al polso risi come un depravato e, per un istante, mi fu impossibile riconoscere persino il luogo in cui mi trovavo: le lancette segnavano le tredici.

    Sulla via per tornare al dormitorio notai Seth Roger, frequentava l’università ed era al mio stesso anno nel 1982; poi aveva cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti ed era stato assalito dall’illusione del piacere. Ora si trovava al bordo della parete di un edificio in costruzione e portava un cappello di lana da cui spuntava qualche ciuffo di capelli ridotti ad uno giallo ocra marcio e putrescente. Una volta era famoso per la sua forza, mentre adesso non aveva più neppure il volto di un giovane.

    Nel pomeriggio invitai Zoey nella mia stanza, avevo bisogno di sapere cosa stava accadendo e quale fosse il suo punto di vista a riguardo. Preferii non cominciare a parlare direttamente dell’accaduto e attaccai il nuovo singolo di Van Halen al mio quarantacinque giri. “Caspita, che esplosione! La Bomba Zar dei sovietici è nulla a confonto!” esclamò e ridemmo entrambi. Continuammo a seguire il ritmo e quando alzai il volume cominciammo a muoverci come idioti. Zoey era goffa, ma aveva un bel viso. Pensai che se solo non avesse dedicato tutto il suo tempo allo studio sarebbe stata più che carina, ne ero certo.

    Quando il disco smise di girare le chiesi cosa pensava di ciò che era successo durante la mattinata. “So che non puoi capirmi Tom, ma… credo di essere innamorata di Joe e oggi, quando ha fatto quel discorso, ero come assuefatta dalle sue parole”. Le risposi che non potevo biasimarla e che tutti, in quell’aula, avevano provato una sensazione simile. “Non hai notato il modo in cui lo guardavano?” Le dissi. “Persino io non riuscivo a resistergli. Quell’uomo ha qualcosa di speciale, o non saprei come altro definirlo” Zoey arricciò le sopracciglia. Una folata di vento spostò il tendino davanti all’unica finestra della stanza: il sole non era ancora scomparso dal cielo, ma il freddo della notte cominciava ad avanzare nel dormitorio.

    “Domattina potresti fargli qualche domanda, sarà di nuovo da noi intorno alle dieci. In fondo, se sai quant’è bello ciò che aspetti, è bella anche la sua attesa”. La squadrai, portai un dito al lato sinistro del capo e cominciai a rotearlo: ormai era fuori di testa. Zoey parve divertita dal gesto e, in fondo, non era così tanto lontano dalla realtà dei fatti.

    Trascorsi il resto della serata a studiare latino. I miei occhi protestavano per il loro diritto di riposo, ma dovevo ancora memorizzare qualche paragrafo tratto da un poema di Charles Baudelaire e tradurlo nella suddetta lingua: il professore della materia non avrebbe tollerato errori o dimenticanze. Forse ogni insegnante aveva qualche rotella mancante, come quella che si era bloccata nella testa di Zoey dopo aver conosciuto Joe, e tutti i complessi che mi tormentavano attorno a quest’ultimo non erano che fantasticherie di uno studente troppo curioso. Già immaginavo gli sguardi straniti che mi avrebbero rivolto i ragazzi presenti in aula l’indomani, dopo aver chiesto a Carroll cosa fosse successo il giorno prima. Probabilmente avrei fatto meglio a star zitto.

    Tuttavia, fu mentre ero immerso in tali pensieri che le cose iniziarono a farsi decisamente strane. La tenda sventolava senza tregua nella mia stanza e decisi di alzarmi per fermare il flusso d’aria. Quando tastai la maniglia degli infissi mi chiesi come avessi fatto a resistere in quelle condizioni sino a quel momento: il manico di ottone era gelido, una spina di ghiaccio che in men che non si dica penetrò nel braccio dal metacarpo della mia mano, e raggelai.

    Prima di bloccare gli infissi mi affacciai oltre la soglia, il dormitorio si trovava qualche centinaio di metri a ovest dell’edificio universitario e la mia camera era collocata al quarto piano, perciò godevo di una panoramica niente male: la luna era alta nel cielo e, anche se emetteva poca luce, si riusciva a distinguere il giardino vermiglio davanti alla struttura, al cui centro troneggiava Abramo Lincoln e, più avanti, il campo di football in cui si allenava la squadra della scuola. L’università aveva un forma rettangolare e al centro di uno dei due lati lunghi sporgeva la struttura d’entrata, costituita da un portico ad archi in pietra sormontato da una costruzione che dava l’idea di un tempio greco antico: una serie di colonne dai capitelli all’echino a forma di spirale reggevano un tetto spiovente, lucente e fresco come fosse stato dipinto quella mattina stessa, mentre perdevo coscienza nell’aula di letteratura inglese.

    D’un tratto, mentre tiravo verso di me l’anta della finestra un sussurro si fece strada nelle mie orecchie e balzai per lo spavento: “Tom” diceva. A volte può capitare di udire una voce inesistente che richiama il proprio nome ma, mio malgrado, non era questo il caso. Chiusi gli occhi e sperai d’essermi sbagliato. “Ho fatto una promessa e intendo mantenerla, Tom” continuò il sussurro spettrale.

    Trovai il coraggio di voltarmi, ma non fu abbastanza per impedire al mio cuore di salire a farsi un giro fino in gola e tornare giù: sulla sedia della scrivania si trovava un uomo elegante, dallo sguardo vivace e una barbetta grigio cenere che gli dava un’aria gioviale. Il mio sistema nervoso si incespicò più volte prima che riuscissi ad aprire bocca: “Che ci fa lei qui?”, domandai. Joe sorrise, i suoi denti erano più bianchi di come avevo immaginato: “Seguimi” annunciò, e si diresse verso la porta d’uscita. Ero incredulo, ma nonostante ciò la mia curiosità era aumentata. Indossai un cappotto e lo raggiunsi.

    Joe pareva indisposto a qualsiasi a domanda. Camminavamo in Observatory road, quando decise di svoltare a destra per entrare negli Allen Centennial Gardens. Di solito i coniugi Dean chiudevano i cancelli del parco prima che calasse il sole, perché ovviamente non amavano l’idea che qualcuno potesse entrare nella loro proprietà. Tuttavia, il cancello che oltrepassammo era aperto e una catena malridotta penzolava da una delle sbarre più vicine alla serratura.

    Superammo il primo prato ad est della casa, Joe procedeva a passo svelto e non era affatto preoccupato di calpestare le aiuole piene di fiori; nell’oscurità della notte mi sembrò quasi che passasse oltre i recinti attraversandoli come un fantasma.

    Quando arrivammo al centro del parco l’uomo si fermò. Finalmente potei avvicinarmi e osservarlo meglio: senza dubbio era ancora Joe Carroll, ma la sua cute aveva una lucentezza peculiare. Brillava quasi quanto l’Orsa Maggiore vista dalla Terra e fu solo nel momento in cui tale pensiero balzò alla mia mente che rivolsi lo sguardo in alto, per la prima volta da quando avevo attraversato la soglia d’uscita del dormitorio. Notai che il cielo era malato, infetto da un morbo che nessun abitante del pianeta poteva curare: una nube corvina assaliva lentamente i corpi celesti da nord e li inghiottiva nella sua morsa incolore, facendoli sparire. Pareva che il professore assorbisse lo scintillio delle stelle, poiché nonostante esse continuassero a sparire lui era come un faro sempre più potente nel bel mezzo dell’oceano, su un’isola sperduta piena di piante esotiche.

    Mancava ancora poco e la luna sarebbe sparita. Il demone dell’isterismo si dimenava nel mio corpo e cercava una via di fuga da quell’orrore che presto avrebbe reso indistinguibile ogni singolo frammento dei giardini circostanti. Man mano che l’alone di morte si spandeva sul prato, un odore acre e pungente si levava dal terriccio sottostante, eliminando il profumo dei fiori per cui erano tanto famosi gli Allen Centennial Gardens. Le Blue Sage perdevano il loro colorito vivace e appassivano come giovani ragazzi alle prese con droghe pesanti. Tra loro c’era Seth Roger, che chiedeva qualche dollaro in più dalla paghetta settimanale ai suoi genitori. Il giorno dopo aveva già terminato i risparmi e si trovava disteso nel punto più ombroso di un grande parcheggio, mentre una corrente estranea confluiva nel lago scarlatto del suo sangue: la morfina stava entrando in circolo e non avrebbe mai più smesso di inquinare le acque vitali di Mike, almeno finché non si fossero prosciugate. Rabbrividii.

    Anche le Calamint e le Tatarian stavano seccando, insieme a tutti gli esseri vegetali contenuti nelle aiuole. Dalla casa dei Dean si levò un urlo. L’aria si faceva sempre più rarefatta e gelida e della luna non era rimasto che un granello di sale. Cercai lo sguardo di Joe e non fu difficile trovarlo, contrariamente al mio coraggio per riuscire a sputare fuori qualche parola: “E ora?” domandai. “Ora possiamo cominciare” disse Joe. “Vedi, per certe cose è necessario il buio. Le piante, gli animali e persino noi umani non potremmo vivere senza la luce. Ma esiste qualcos’altro che non può fare a meno dell’oscurità”.

    Ero succube di ciò che diceva, dal momento che tutto il resto era sparito. E inoltre era stato chiaro fin dal primo momento di quell’assurdità che Carroll fosse una specie di guida, ed era l’unico bagliore nel buio perché probabilmente dovevo seguirlo, altrimenti come avrebbe fatto a mantenere la promessa?

    In ogni caso, non c’era più tempo per speculare, poiché il faro umano si stava dirigendo verso la casa dei Dean. “La purezza fa un lavoro davvero estenuante: assorbe ogni rumore della realtà, e lo restituisce in vibrazioni luminose. Il mondo è pieno di questi esseri armonici che quasi nessuno vede” disse l’uomo aprendo la porta dell’abitazione. “Puoi considerarlo un dono che la natura concede alle creature più splendide della Terra, Tom. Tuttavia, siamo liberi di utilizzare tale potere spirituale a nostro piacimento, e io lo farò per mostrarti alcune cose che cambieranno per sempre il tuo modo di vedere il mondo” Joe continuava ad avanzare nell’abitazione e talvolta aggiungeva delle spiegazioni al suo discorso, tra le quali il fatto che mi avesse condotto negli Allen Centennial Gardens e nella casa al loro interno solo perché per sfruttare la sua capacità aveva bisogno di una grande quantità di elementi naturali.

    Il resto di ciò che accadde fu un mistero. Ci trovavamo in quello che poteva essere un soggiorno e il professore mi chiese di sedermi sul sofà e abbassare le palpebre. L’abitazione era umida e la pelle del divano gelida quanto il pomello della finestra della mia stanza. Iniziai a chiedermi se l’avrei più rivista, poiché dei tentacoli invisibili accalappiarono le mie gambe all’altezza dei polpacci e cominciai ad urlare in preda ad una crisi isterica, che divenne panico allo stato puro quando scoprii che non riuscivo più ad aprire i miei occhi.

    Cercai di scappare, ma ogni volta che ci provavo i miei arti si bloccavano, come comandati da qualcun altro all’infuori di me e fremevo gemendo, posseduto dalle convulsioni. Nella mia mente si succedevano immagini confuse e astratte, linee e punti dalle più innumerevoli forme che avevano come unico segno riconoscibile un colore. “Il colore della purezza, il mio colore” disse una voce dall’abisso più recondito della mia anima. “Hai una vaga idea di quante persone siano morte, per riuscire a trasformare il negativo in positivo, il male in bene, lo sporco in pulito, il piombo in oro?” Era Joe, senza dubbio. E stava associando il colore della sua luminescenza a quello della purezza, alludendo alla filosofia alchimista. Non mi fu difficile comprendere che, in qualche modo, adesso si trovava dentro di me e poteva modificare il mio stato mentale, facendomi avere visioni d’ogni tipo.

    Difatti persi la cognizione del luogo in cui mi trovavo e immagini caotiche e orrende si succedevano davanti ai miei occhi spenti. Descrivere a parole ciò che provai in quei momenti sfugge persino alle mie capacità, quelle di uno studente di letteratura, e non posso che limitarmi a pensare che quel giorno, se mai esistessero un tempo e uno spazio definito in ciò che provai, ebbi la maledizione di conoscere cosa fosse davvero l’orrore, nella sua forma più scabra: monumenti innalzati al male, sciamani intenti a disegnare cosa avevano visto durante il viaggio nell’oltretomba, muse ibride che si contorcevano all’ombra del sole, canzoni e balli tribali in onore di Belzebù, ragazze petulanti che rivolgevano preghiere agli elementi naturali, cercando di invocare creature immonde. Mentre spiriti divoratori di carne si affaticavano per farsi notare una voce sconosciuta iniziò a recitare una sorta di poesia che avvalorava la mia tesi secondo cui mi trovassi in un luogo non fisico, in cui tutto era possibile, a seconda della volontà di quelli che Joe chiamava “esseri armonici”.

    Quando il caos si placò comparve un uomo triste e misterioso, in procinto di dipingere con tutta la forza che gli restava e affannato dalla determinatezza con cui tentava di riportare su tela le sue emozioni inconsce, i suoi istinti più repressi e le sue voglie prive di pudore, e cominciò la litania:

    “Rembrandt. Triste ospedale pieno di mormorii,
    ed ornato solo di un grande crocifisso,
    dove fra singulti e orrori si eleva una preghiera
    nel raggio invernale che brusco l'attraversa”

    Il pittore si trovava nell’unico punto illuminato di quel vuoto informe e contorto, un buco nero senza via di fuga governato da leggi soprannaturali o psichiche, sconosciute per la razza umana sprovvista del dono della purezza. La fonte di luce, pallida come quella lunare, era in grado di riflettere anche le sensazioni dell’artista ed io ne ero assuefatto. Era come se fossi ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo, impotente di agire e costretto a guardare e vivere quelle scene per volere del professore di letteratura. Talvolta l’uomo intento a dipingere lasciava posto ad un altro individuo, che si succedeva a sua volta con un altro.

    “Delacroix, lago di sangue frequentato da angeli malvagi,
    all'ombra di un bosco di abeti sempreverdi,
    in cui, sotto un cielo triste, delle bande strane
    passano, come un sospiro soffocato di Weber;

    Goya, incubo pieno di mistero,
    di feti che si fanno cuocere nel mezzo dei sabba,
    di vecchi allo specchio e di bambini nudi,
    per tentare i demoni sistemandosi le calze”

    E quando credetti che l’orrore stesse per finire arrivarono persino Leonardo da Vinci e Michelangelo.

    “Leonardo da Vinci, specchio profondo e cupo,
    in cui degli angeli incantevoli, dal dolce sorriso
    carico di mistero, appaiono all'ombra
    di pini e ghiacciai che cingono il loro paese!

    Michelangelo, luogo indefinibile in cui si vedono degli Ercoli
    mischiarsi a dei Cristi, e dei fantasmi
    dritti e possenti che nell'ora del crepuscolo
    trascinano il loro sudario con le dita tese;

    Infine, dalle tenebre sbucò un uomo di mezza età, elegante e con un principio di calvizie sul capo. Non faticai a riconoscerlo: era Baudelaire, che alzò le mani verso l’alto e continuò il discorso:

    “Queste maledizioni, queste bestemmie, questi lamenti
    queste estasi, queste grida, queste lacrime, questi Te Deum!
    Sono un'eco ripetuta da mille labirinti;
    sono un oppio divino per i cuori mortali!

    Perché è veramente, Signore, la migliore testimonianza
    che noi possiamo dare della nostra dignità
    che questo ardente singhiozzo che passa di era in era
    e viene a morire sull'orlo della vostra eternità!”

    Il poeta stava inneggiando al divino la capacità artistica degli uomini, ma lo faceva attraverso opere macabre, capaci di entrare nell’animo umano in un solo sguardo e di scuoterlo sino a capovolgerlo, stravolgendo la concezione di bellezza. Ricordai le parole che aveva pronunciato Carroll durante la mattinata e fui finalmente in grado di comprenderle: dovevano essere quelle le opere di cui parlava.
    Il luogo si svuotò e avvertii un senso di rilassamento: la commedia era finita e la promessa era stata mantenuta, era ora di tornare alla normalità, pensai. Tuttavia, mi sbagliavo: “Pensi che sia tutto qui?” annunciò la voce di Joe. “Oh no, questi sono capolavori con una certa energia, ma non sono nulla a confronto di ciò che definisco Arte” continuò. E fu così che cominciò il vero giro nella casa stregata.

    La volontà perversa di Carroll mi mostrò un’abitazione in legno, gelida e dalla piantina contorta. Man mano che ci si avvicinava diventava più tenebrosa e dall’interno pareva provenire un urlo simile al verso blasfemo della strige. Ovviamente non potevo fermarmi ed entrai. A primo impatto non c’era nulla di strano, ma bastò soffermarmi alla teiera poggiata sulla cucina per notare che era composta di un rivestimento peculiare: liscio al tatto, marroncino e rattrappito. Nonostante non avessi il pieno controllo delle mie azioni riuscii a levare un urlo che per poco non risvegliò le anime dannate presenti nella casa. Osservando meglio notai che attorno a me ogni oggetto era rivestito in pelle umana, se non addirittura costruito con ossa e frammenti di corpo. E quando visitai la cantina il terrore raggiunse il parossismo: donne squartate, busti, braccia e gambe putrescenti, illuminate da candele fioche e giallastre.

    Cercando di liberarmi dall’olezzo che si respirava lì dentro lanciai un altro urlo, acuto quanto quello di una strige, e mi accorsi che il grido sentito in precedenza doveva essere proprio quello: il mio. Potevo confermare che il tempo fosse un’illusione. E sperai che lo fosse anche tutto il resto, ma Joe parlò ancora: ”Ed Gein, il macellaio di Plainfield. Mai sentito nominare, Tom? Era un tuttofare con un hobby molto particolare. Questa è la sua casa. Oh sì, senti!” Le pareti e il soffitto dell’abitazione si riempirono di capillari umani che pulsavano, si poteva avvertire un mix di sensazioni letali che avrebbero portato alla pazzia qualsiasi essere umano e condotto all’estasi ogni creatura armonica. Io ero come un ibrido in quel momento e fortunatamente non persi il senno.

    “Le persone pensano che Ed sia un mostro, mentre non è altro che un artista. E questa casa è un’opera d’arte!” disse Joe. Mi fu chiaro cosa volesse intendere e non feci in tempo ad esitare che venni scaraventato in un turbine di sangue e oscenità, in cui passato, presente e futuro si confondevano. Tra i soggetti c’era Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwakee, che si dilettava a cuocere carne umana, mentre disegnava la struttura del tempio che avrebbe voluto creare con i teschi delle sue vittime; Anatoly Moscovin, intento a dissotterrare l’ennesimo cadavere da un cimitero per portarlo nella sua casa e trasformarlo in una bambola dalle parvenze umane; John Wayne Gacy, che si divertiva a disegnare il suo alter ego Pogo, l’uccisore di una miriade di adolescenti e persino la mente alterata di Charles Manson che, pur non avendo ucciso nessuno, bramava più energia negativa di molti altri e imbrattava delle tele astratte che sarebbero diventate dei must per la murderabilia.

    All’improvviso sembrò che tutti quegli assassini mi assalissero, sfuggendo al controllo di Carroll, per colpirmi fino a uccidermi, farmi a pezzi, impagliarmi, scuoiarmi o mangiarmi.

    Quando mi ridestai, pronto a combattere contro quella sottospecie di faro umano nel salotto dei Dean, non mi trovavo negli Allen Centennial Gardens, bensì nella stanza del mio dormitorio. Feci un respiro profondo e mi alzai dalla scrivania. La finestrella indicava che era notte. Richiusi il libro di latino e chiamai Zoey al telefono. Le dita delle mie mani si muovevano assecondate da un tic nervoso. “Tom?” rispose con accento femminile. La mia mascella era atrofizzata e non riuscii a proferire alcuna parola. “Che ti prende? Non dirmi che sei diventato muto come Nosferatu nel suo primo film”.

    Il suo caratteristico modo di parlare fece riaffiorare un senso di familiarità e speranza, una campanula nel bel mezzo degli Allen Centenniall Gardens. Tuttavia, ogni spora del polline benevolo tornò nell’abisso del terrore quando pronunciò la frase seguente: “Joe ha detto che può spiegarci tutto, sta tranquillo. Noi siamo già nell’aula di lettere, ti stiamo aspettando”. Stanco dei dubbi e della confusione che avevo in mente, non esitai ad incamminarmi verso l’università, evitando il bagliore lunare che, a causa dell’incubo, non potevo che associare alla radiazione luminosa del demonio.

    Il paesaggio era tranquillo e non c’erano nebbie ostili. Lincoln troneggiava impassibile nella sua ghirlanda di rose, che talvolta venivano spostate da un venticello primaverile.

    Nel momento in cui entrai nella sala di letteratura, buia e impermeata di un odore simile a quello dell’ammoniaca, distinsi le sagome dei miei compagni di corso, seduti nei loro banchi, immobili e in silenzio assoluto. Guardandomi meglio attorno notai che mantenevano una posizione perfettamente eretta della schiena, persino quella che pareva essere Zoey, al fondo dell’aula: un dettaglio che mi fece strabuzzare il naso, poiché non era solita curarsi dell’aspetto o dell’atteggiamento fisico corretto.

    Mi avvicinai di soppiatto e le tirai un buffetto sulla schiena, come aveva fatto lei la mattina prima; però non rispose e le poggiai una mano all’altezza della clavicola, chiamandola. La sua pelle era liscia, ma odorava di qualcosa che non riuscii a definire e d’un tratto si accese il lampadario, che diede atto ad una rivelazione sconvolgente: la sua cute era nera, intrisa di un liquame simile al petrolio.

    La gente pensa che in simili momenti si urla, ma non è così. Si resta immobili, sconcertati e affogati in un oceano di smarrimento. Ogni alunno si trovava in quello stato, erano diventati delle statue di cemento in procinto di asciugare e restare per sempre dei vegetali, come le Calamint e le Tatarian che venivano prosciugate della loro forza vitale con l’avanzare della nebbia oscura. Lanciai un’ultima occhiata a quella che era stata la compagna di università e iniziai a singhiozzare per la disperazione. Dietro le mie spalle si alzò la voce inconfondibile di Carroll: “Sigillante Poliuretanico” annunciò. “Una botta sulla testa e nel giro di qualche minuto anche tu avrai l’onore di entrare nella mia opera d’arte”. Un pugno mi colpì sulla fronte e mi ritrovai svenuto sul pavimento della classe.

    La voce di Zoey risuonava nella mia testa. Non potevo sopportare l’idea che fosse morta in quel modo e continuavo a sentirla mentre chiamava il mio nome ed emetteva dei sussurri per attirare la mia attenzione. “Tom, se non ti svegli sarò costretta ad attaccare il nuovo singolo dei Van Halen. Dovresti ascoltarlo, è una bomba” Quando spalancai gli occhi mi ritrovai nello stesso posto, ma i miei compagni potevano muoversi e non erano imbrattati di nessun tipo di sostanza tossica. La stanza era ben illuminata e fuori sembrava essere giorno, il calendario sulla vetrina alla destra del mio banco aveva un segnalino sul ventidue maggio. Mi voltai e corsi da Zoey per abbracciarla, incurante di tutto il resto. Lei si alzò dalla sedia e dopo una smorfia stranita acconsentì.

    Mentre la stringevo notai Seth Roger che passava nel giardino di Lincoln, con un Blue Sage sull’orecchio. “Allora Tom” disse il professore dal fondo della cattedra. “Hai capito qual è il mio concetto artistico?”.

    Edited by @AnthonyInBlack - 30/11/2018, 16:53
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