LA FOSSA

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    I


    In quella stagione c’erano una dozzina di ragazzi a Klayton Lane. Si trattava di un luogo montano, immerso nei boschi di una qualche regione del Nord America. Gli abitanti erano troppo pochi per poter costituire una città e il paese era diviso in due parti: quella sud e quella nord. Tra di esse vigeva una palude nota come ‘La fossa’. “Ho sentito dire che l’anno scorso hanno avvistato un troll da quelle parti” soggiunse Henry, rivolto all'amico. I fanciulli erano poggiati al bancone della cucina, nella casa della signora Flaubert. Talvolta dirigevano lo sguardo oltre le finestre, ma subito lo ritiravano indietro. Le espressioni dei loro volti confermavano che, durante la notte, la natura poteva apparire tetra e agghiacciante a Klayton Lane. “Ho bisogno di vedere Layla. Non mi importa delle storielle che si inventano i vecchi per non farci allontanare” proseguì Al. Per quanto potesse essere assurdo ciò che si diceva in giro sulla fossa, tuttavia, si trattava davvero di un posto lugubre e inospitale. Ed Henry non poteva fare a meno di ragguardare il compagno, ogni volta che ne parlava.

    Il casolare dei Flaubert era una sorta di albergo, immerso nella campagna e contornato da un recinto. Gli alberi che si levavano al cielo lì intorno erano grandi pini dal tronco ruvido e gli aghi appuntiti. Il suolo, invece, era ricoperto da cespugli di rovi e piante selvatiche dalle forme inusuali e contorte. “Mi stai ascoltando?” riprese Alan. Il compagno annuì. “Certo, che ti sento. Quello che hai detto è… bello, in un certo senso. Adesso devi solo capire se anche lei…” “Se anche lei sente i tarli nello stomaco quando mi vede”. L’innamorato si accarezzò il mento. Parlava di tarli, anziché farfalle, perché pensava all’emozione che stava provando come a qualcosa che lo mangiava da dentro. Quegli insetti, avrebbe detto lui, stanno scavando un po' dappertutto nel mio corpo, ma specialmente nel cuore.

    “Io vado a dormire” aggiunse poco dopo Henry, scomparendo dietro l’angolo che dava al soggiorno. Il fanciullo innamorato, invece, restò davanti agli scuri. Fuori tirava una brezza non proprio leggera, che muoveva i fili di grano aldilà dello steccato. Alan immaginò di trovarsi lì, in mezzo alla natura selvaggia, e provò un brivido di freddo. Dopodiché gli tornarono in mente le parole dell’amico: ho sentito dire che hanno avvistato un troll, da quelle parti. Se normalmente avrebbe riso ad una simile affermazione, in quel momento ne fu intimorito. Così staccò lo sguardo dalla finestra, nella paura che d’un tratto spuntasse qualcuno tra l’erba e gli alberi. O peggio, proprio vicino al vetro, a pochi centimetri dalla sua faccia. In casa tutti dormivano e nessuno avrebbe potuto salvarlo da un essere piccolo, rugoso e inumano. Ciò nonostante, qualcosa che poteva liberarlo dai cattivi pensieri esisteva. Il suo nome era Layla e si trovava dall’altra parte della fossa, nella parte nord del centro abitato. Il solo pensarla, per il ragazzo, equivaleva a far scomparire ogni sorta di mostro, goblin o demone maligno dalla sua mente.

    Per quella notte, Alan non chiuse occhio. Gli tornarono alla memoria le immagini della festa di paese, avvenuta un paio di settimane prima. Un cartello appeso all’Hill Pub recitava: 'Grande festa del 1964, per residenti e turisti'. Era stato in quell’occasione che Alan aveva conosciuto Layla. I lineamenti della ragazza l’avevano colpito subito. La piccola donna era alta più o meno quanto i due amici e aveva dei capelli molto chiari, quasi bianchi. Ballava a ritmo della musica che produceva qualche vecchio del posto, con fisarmoniche e chitarre. Al, però, non ebbe il coraggio di andare a parlarle, quella sera. Solo in seguito si informò sulla sua identità e scoprì che abitava oltre la palude. Perciò il rimorso lo stava divorando, proprio come una di quelle creature mangiatrici di uomini di cui si parlava nelle leggende legate alla fossa.


    II


    “Il problema” annunciò Henry, “È che siete tutti uguali. Quindi, se per sbaglio passo la palla a Johnny, anziché a Tommy o a Bobby, iniziate a litigare come marmocchi”. I giovanotti trascorrevano il pomeriggio nel giardino dei fratelli Remington, divertendosi a lanciarsi un pallone mezzo sgonfio e tutto rattoppato. Il sole splendeva alto e forte, quel giorno. Ciò nonostante, Alan pareva sottostare ad una nuvola gigantesca, portatrice di tenebre e tristezza. “Non è vero, accidenti!” replicò uno dei Remington. “Io ho una maglietta blu, mentre John è vestito di rosso e Bob è completamente in verde”. Quei fratelli (o come a loro piaceva farsi chiamare, trimelli), potevano essere caotici e fastidiosi allo stesso modo di uno sciame d’api impazzito.

    Henry si passò una mano sulla fronte sudata e restò qualche istante con la palla stretta tra le braccia. Tentò di far smettere la discussione che avevano innescato i trimelli ma, molto presto, si rese conto che non l’avrebbero mai ascoltato. Allorché fece segno ad Alan che era arrivato il momento di tornare a casa. I due, quindi, intrapresero la via che portava ad est, verso l’abitazione dei Flaubert. Mentre passeggiavano per il sentiero, non aprirono bocca. Sembravano entrambi stanchi e annoiati. Ad un certo punto, però, qualcosa attrasse la loro attenzione. Sentirono un rumore provenire dall’alto e, alzando lo sguardo, scoprirono che un gruppo di corvi si era levato improvvisamente sulle loro teste.

    “Quegli uccelli sono un gran brutto segno, Al” cominciò Henry. Dopodiché si girò verso il compagno e notò che il suo volto comunicava un messaggio ben chiaro. Diceva: non ti sto ascoltando, oppure sì, hai ragione, ma ora lasciami stare. “Si può sapere che ti prende?” insistette il compare. Al sospirò. Stava pensando a tante cose, ma specialmente ad una. In ogni caso, continuando il percorso, gli adolescenti si imbatterono in una sorta di biforcazione. Ai loro occhi si presentò una rientranza nella boscaglia fitta e ombrosa, ad un lato del colle. A primo impatto sarebbe parsa la tana di una volpe o di un altro animale selvatico. Ma uno sguardo più attento avrebbe rivelato un passaggio: un tunnel lungo e zigzagato che conduceva a nord.

    Nel momento in cui se ne accorse, Alan si fermò. “Layla” sussurrò. E per un istante gli parve di vederla spuntare dal cunicolo. Aveva i cappelli umidi e sporchi di terriccio, ma ancora biondi. Bianchi come il latte, avrebbe detto lui. Gli occhi della ragazza erano tirati verso l’esterno, alla maniera orientale. Le sue pupille arancioni sembravano fuoco ardente, in una terra desertica. Ed ecco che la donnetta usciva completamente dal bosco, mentre il ragazzo infatuato sorrideva incredulo. “Terra chiama Alan!” gridò Henry. “Ti sei forse scordato che, per andare a trovarla, dovresti attraversare la…” Il compagno smise di sorridere e digrignò i denti. Nel frattempo, gli uccellacci avevano ripreso a gracchiare sulle cime degli alberi.


    III


    La signora Flaubert aveva cucinato uno spezzatino di cinghiale. L’intera casa profumava di quella pietanza e, come accadeva spesso nel paese, qualcuno aveva bussato alla porta per approfittarne. “Che sarà mai questa delizia?” chiese a voce alta una donna sull’uscio della porta. E ancora: “Vorrei tanto saper cucinare come la padrona di questa casa”. La proprietaria aveva già una mezza idea di chi potesse essere, ma andò comunque ad aprire. Senza troppe sorprese, scoprì che sull’uscio della porta c’era Madame Scouvartié. “Prego, si accomodi e non faccia complimenti. Ce n’è abbastanza per tutti”.

    La nuova arrivata entrò in soggiorno e si presentò alle persone sedute in tavola: “Salve, oh, ma quanti siete? A nord non mi capita mai di cenare con così tanta gente!” Quella sera, difatti, c’erano proprio tutti: i genitori di Alan, quelli di Henry e, ovviamente, i signori Flaubert. Scouvartié indossava un vestito molto largo. Quando si piegava per dare la mano agli astanti, infatti, doveva essere attenta che le maniche non finissero nei piatti. I fanciulli seduti a tavola si guardarono straniti. “Madame? Non siamo mica nell’ottocento!” sussurrò Henry. “Forse non siamo nell’ottocento, ma siamo a Klayton Lane” soggiunse il signor Flaubert al suo fianco.

    Alan era perso nei suoi pensieri e si accorse dell’ospite solo quando quest’ultima gli porse una mano. “Che bel giovanotto! La tua ragazza dev’essere proprio fortunata!” esclamò la donna. Il ragazzo si strofinò gli occhi e sbuffò spazientito. Poco dopo la signora Flaubert aggiunse una sedia e un piatto proprio vicino a lui. Scouvartié, quindi, importunò Alan con discorsi da adolescente per la durata intera della cena. Il compare, dall’altro lato del tavolo, rideva come un folle. E i fatti si svolsero in tal modo sino a che, al momento del dessert, il giovane tormentato trovò il coraggio di chiedere al padre se potesse alzarsi dalla tavola. L’amico fece lo stesso con i propri genitori e, una volta ottenuto il permesso, i due si allontanarono verso la cucina. Non avrebbero saputo dire neppure loro perché adorassero quella stanza. I migliori dialoghi, in ogni caso, avvenivano sempre lì dentro: tra i fornelli ancora profumanti e il paesaggio notturno, immobile e oscuro oltre le finestre. “Tipa strana, eh?” disse Henry. L’amico annuì. “Madame Scouvartié..."

    “Già, che nome! Quelli di fuori sono tutti strani come i trimelli!” Alan, a tale affermazione, corrugò la fronte. “Non hai sentito?” continuò il compagno. “La donna ha detto che abita a nord”. Distratto com’era, Alan non aveva udito quel particolare, mentre stava cenando. Adesso, però, gli era tutto più chiaro. Madame Scovaurtié, infatti, aveva ammesso di abitare nella parte opposta di Klayton Lane, oltre la fossa. “Questo significa…” Henry emise un verso di stupore, come se anche lui avesse compreso solo in quel momento la realtà della situazione. “Abbiamo fatto bingo! Non ci resta che seguirla, appena uscirà di casa”.

    L’entusiasmo, tuttavia, scomparì dopo poco tempo. Alan, infatti, assunse presto un’espressione titubante. E l’amico, qualche secondo più tardi, fece lo stesso. Era pur sempre notte, ormai. Se la palude appariva terrificante di giorno, in quel momento sarebbe stata degna de 'Il passo di Djatlov'. Tuttavia, quando mai si sarebbe ripetuta un’occasione del genere? Henry disse che, se poteva farcela quella signora svitata, per loro due sarebbe stato ancora più facile. Così facendo, fece ritrovare al compare un tantino di coraggio. Dopodiché aggiunse: “Non ti riconosco più, Al. Perciò ti aiuterò, ma non chiedermi di farlo mai più. Promesso?” L’amico, dunque, annuì con foga e avvertì i battiti del suo cuore aumentare.


    IV


    Madame Scouvartié andò via dalla casa dei Flaubert quando l’orologio stava per scoccare la mezzanotte. Si era intrattenuta per un sigaro davanti al focolare. Guardandola nell’attività, i presenti avevano provato una sensazione di disgusto. La donna che fumava, infatti, svolgeva l’attività in questione come un uomo della specie più rozza. I capelli lunghi e corvini le scendevano quasi sino ai fianchi e lasciavano intravedere solo una misera parte del viso. Il suo naso era particolarmente lungo e l’epiglottide, dalla forma appuntita, pareva muoversi continuamente. Quando aspirava il fumo, lo tratteneva per un lungo tempo e, infine, lo faceva fuoriuscire dalle narici.

    Nel momento di relax, tutti gli adulti erano seduti sui divani del soggiorno. Essi discutevano di argomenti poco importanti per Alan ed Henry. Questi ultimi, tuttavia, erano rimasti abbastanza vicini (ma comunque nascosti) per udire l’occasione in cui, finalmente, Scouvartié sarebbe tornata alla sua abitazione. Ad un certo punto, le signore si alzarono per sparecchiare la tavola. E i loro mariti restarono davanti al caminetto, con la mente un tantino ottenebrata dal whiskey. I ragazzi, quindi, capirono che era arrivato il momento giusto per andare. Madame salutò e ringraziò per il pasto, con fare dolce e generoso. I fanciulli aspettarono ancora un po' e approfittarono del momento buono per uscire dal casolare senza farsi notare.

    “Ci siamo. Manteniamoci a distanza di sicurezza, ma non perdiamola di vista” annunciò Alan. Henry annuì. “E comunque… ci basta vedere come si fa ad attraversarla e se non ci sono… problemi” continuò quest’ultimo. Il compagno disse che andava bene e che, difatti, non si sarebbe mai sognato di presentarsi a casa di Layla a quell’orario della notte. Quindi la donna del nord superò il cancelletto dei Flaubert e si inoltrò fuori dal sentiero, nella natura selvaggia. Fu ben chiaro sin da subito che, in quelle condizioni, i fanciulli non sarebbero mai stati in grado di seguirla. “Miseria! Ci serve una torcia!” esclamò Henry a bassa voce. Dopodiché chiese ad Al di trovarne una e di raggiungerlo il prima possibile. “Appena ce l’hai, devi solo seguire quella direzione” soggiunse. “Dai, sbrigati, ci incontreremo strada facendo”.

    Il compagno scattò come una lepre verso il capanno. Tirò la catenella che pendeva dal soffitto e accese la luce. I raggi lunari penetravano vividi dalle fessure della baracca e c’era abbastanza luce per guardarsi intorno. Se solo non dovessimo entrare in quel maledetto bosco, pensò Al, sono sicuro che non ci sarebbe bisogno di una torcia. Tuttavia, la necessità esisteva e il giovane iniziò a cercare tra una serie di oggetti sparsi lì intorno. Provò a fare in fretta, mantenendosi comunque silenzioso. Se qualcuno tra gli adulti l’avesse sorpreso nel capanno, probabilmente non sarebbe più potuto tornare indietro. Come se non bastasse, inoltre, avrebbe dovuto giustificare l’assenza dell’amico. Alan, quindi, avvertì una sensazione particolare nello stomaco: un mix di paura e adrenalina, tanto piacevole, quanto ambigua e allarmante.

    Nel momento in cui si sentì pronto, il giovane iniziò a farsi strada tra ragnatele e spigoli arrugginiti. Ogni cosa, lì dentro, era ricoperta di polvere e l’odore asfissiante della muffa penetrava nei polmoni del ragazzo. Non ci volle molto tempo, di conseguenza, affinché Alan starnutisse e facesse cadere un paio di scatole piene di cianfrusaglie. Henry, nel frattempo, era impegnato a seguire la signora strampalata. Si stava giusto chiedendo che razza di vista dovesse avere la suddetta, poiché si muoveva nel buio con un’agilità impressionante. Nonostante avesse un passo zoppicante, la signora sapeva esattamente dove andare. Lui, al contrario, faceva fatica a compiere più di due o tre passi senza inciampare o pungersi con qualche pianta spinosa. In più d’una occasione, tra l’altro, era capitato che Scouvartié si fosse fermata per guardarsi intorno. E stava succedendo proprio adesso, per l’ennesima volta.

    Il fanciullo non poté fare a meno di chiudere gli occhi e sperare di trovarsi in un brutto sogno. Un vento leggero spostava la capigliatura della donna, mettendo in mostra la sua faccia al riflesso della luna. Il bagliore pallido del satellite conferiva alla signora un aspetto deplorevole: aveva delle ossa dure e sporgenti, che davano vita a stralci di ombre subito sotto di loro. Era come una faccia anoressica, intagliata in un ciocco di legno. E quando Henry la notò, fu vicinissimo all’idea di smettere l’inseguimento. Tuttavia, sapeva bene quanto fosse importante per l’amico. Decise perciò di farsi coraggio e di non abbandonare la missione.

    La dama continuava ad avanzare. Ormai non doveva mancare molto alla zona misteriosa. Il giovanotto compì qualche altro passo, muovendosi dietro i cespugli. Presto iniziò a mancargli l’aria e avvertì un gran giramento di testa. Per un attimo, ebbe persino l’impressione di sentire qualcuno che gridava il suo nome ad alta voce. Man mano che andava avanti, tra l’altro, la flora intorno a lui diveniva sempre più scialba. La fauna, invece, sembrava persino essere sparita. Quindi gli tornarono in mente i corvi che aveva avvistato col compagno, durante la mattinata. Quello è un gran brutto segno, Al, aveva detto. Credeva davvero a quelle parole? O le aveva pronunciate solo per distrarre il compagno dai suoi tormenti? In ogni caso, adesso, quell’affermazione sembrava molto potente, quasi distruttiva. In mezzo al bosco, nella bizzarria di quel paese noto come Klayton Lane, era facile credere a qualsiasi cosa. Ed il motivo non era poi così complesso: la paura l’aveva reso schiavo. Il ragazzo, perciò, arrivò a convincersi che sarebbe presto accaduto qualcosa di orribile.


    V


    “Henryyyy! Henryyyyy!” urlava una voce femminile in lontananza. Il fanciullo impegnato a seguire Madame Scouvartiè si voltò. Ora Henry si trovava dietro un cespuglio di bacche, non molto folto e con qualche ramo sporgente che somigliava ad un artiglio. Si stava giusto chiedendo chi stesse urlando il suo nome in quel modo, ma il suono pareva provenire da est: la zona di casa Flaubert. Scouvartié, intanto, stava studiando l’ambiente intorno a lei. Henry provava a non guardarla, restando il quanto più possibile immobile, con la schiena poggiata al tronchetto dell’arbusto dietro cui si riparava. Ciò nonostante, la tentazione era troppo forte. Il collo del giovane, dunque, si girò come un magnete verso la donna. Anche se, in quel momento, la signora misteriosa sarebbe somigliata ad una moltitudine di cose diverse, fuorché una donna.

    Henry difatti si accorse che, guardandola, stava tremando. Forse perché non aveva mai visto una ‘donna’ così magra e pallida, rischiarata dalla rifrazione lunare, a quell’ora della notte, in un bosco. E non era ancora tutto: ad incrementare il fattore bizzarria si aggiunse presto un’altra componente. Madame, infatti, si era rimboccata le maniche abnormi del vestito. Le braccia e le gambe erano molto più smilze di come le aveva immaginate il ragazzo. Tant’è che, quest’ultimo, provò un conato di vomito al solo pensiero di come sarebbe parso il resto del corpo. È una sorta di scheletro, ricoperto di pelle, e con una testa stranamente grande e ripiena rispetto al resto, pensò. In ogni caso, la creatura insisteva a muoversi, avanzando con un passo sgangherato e annusando l’aria allo stesso modo di un segugio.

    Henry non ne poté più e, cautamente, decise di tornare indietro. Prima, però, aspettò che la donna riprendesse ad avanzare verso nord e che avesse abbandonato ogni eventuale sospetto sul suo inseguimento. La voce misteriosa, intanto, continuava ad intonare il suo nome. “Che sarà successo?” si chiedeva il giovanotto tra sé e sé. Mentre se lo domandava, però, notò un paio di scarpe. Erano zoccoli in legno, dalla forma decisamente inconsueta. Henry si fermò a raccoglierne uno e lo portò fino all’abitazione dei Flaubert.


    VI



    Il sole stava per sorgere e la signora Flaubert era davanti al suo casolare. Al fianco dell’anziana c’era Alan, con le braccia conserte e una smorfia triste e rassegnata stampata in volto. “Finalmente!” annunciò la donna, quando vide Henry sbucare dalla sterpaglia. “Ho già fatto un discorso al tuo amichetto”. Al guardò il compare, sporco di terriccio dalla testa ai piedi. Da alcuni graffi sulle gambe gli colavano rivoli di sangue, che si andavano dipanando verso il basso. Mentre entravano in casa, Henry sentì il compagno che si scusava con lui bisbigliando. Dopodiché, la vecchia li condusse in cucina.

    “È qui che state di solito, eh?” I ragazzi annuirono. “Sedetevi al tavolo. E tu, Henry, dammi l’oggetto che stai nascondendo dietro la schiena”. Il giovane interpellato strabuzzò gli occhi. La Flaubert prese lo zoccolo e lo poggiò sul bancone lì vicino. Non sembrava per nulla meravigliata, nonostante le fattezze di quella scarpa bizzarra. “Arriva un momento, nella vita di tutti quelli che hanno a che fare con questo paese, in cui le cose iniziano a farsi strane sul serio” disse. Alan fissava lo zoccolo incredulo, ma non osava interrompere la signora. Henry, invece, era visibilmente dolorante, ma restò in ascolto.

    L’anziana era in piedi davanti a loro, con le mani in continuo gesticolamento. “Visto che Henry è stato tanto gentile da portarci questo souvenir, lo utilizzeremo per rendere il discorso più interessante. Insomma, a voi che sembra questo scarponcino?” Le labbra di Al tremavano. Era sul punto di parlare, tuttavia c’era qualcosa che lo tratteneva. Nella sua mente balenò l’immagine dei fratelli Remington. Passeggiavano per i sentieri di Klayton Lane, attentissimi ad evitare i vecchi, per non rischiare d’esser spaventati a morte dai loro racconti. Lui, invece, li spiava da lontano e rideva della loro sensibilità. Ad un tratto, però, anche lui iniziò ad essere terrorizzato. Quello zoccolo, infatti, sembrava racchiudere un significato nascosto e profondo: che le storie e le leggende sulla fossa, in realtà, non avevano nulla di inventato.

    “È una specie di ciabatta in legno… diciamo… deformata” disse Henry. “D'accordo, ma lasciate che sia io a spiegare. Se ci mettete così tanto tempo per rispondere, non finiremo mai”. “Questa scarpa appartiene a Madame Scouvartié. Cos’è quella faccia, Alan?”. Il fanciullo chiamato in causa sembrava confuso, smarrito in un bosco più oscuro di quello che aveva visitato l’amico poco prima. “È la verità, razza di idioti. Stavate inseguendo un mostro”. “Quindi ci stai dicendo” replicò Henry, “Che oltre la fossa abitano dei… mostri?”. La nonna di Alan confermò. “Non so chi siano e da dove provengano, ma fareste bene a tenervi lontani da quel posto”. Al, immobile sulla sedia accanto al compare, si coprì il volto con le mani. Eppure, c’era da aspettarselo. Il compare gli aveva detto tante volte che, dietro le storielle degli anziani, si celava sempre un velo di verità.

    Il discorso in casa Flaubert andava avanti da un po', ormai. La vegetazione intorno alla casa non appariva più tanto minacciosa, ora che era rischiarata dal lucore dell’alba. Alan ed Henry avevano le bocche semi aperte, indecisi se richiuderle o abbandonarle ad una risata fragorosa, che avrebbe svegliato tutto il vicinato. L’unica cosa certa era che la vecchia aveva attirato la loro attenzione e ogni cosa inspiegabile sembrava aver acquisito un senso. Quando la notte si tramutò in giorno, la signora Flaubert andò via dal cucinino. Henry non disse una parola e si alzò dal tavolo, dopodiché andò nel bagno a sciacquarsi le ferite. L’amico, invece, restò immobile dove si trovava. I raggi solari lo colpivano dritto in volto, eppure non accennò alla minima sensazione di fastidio.

    L’adolescente insisteva a scrutare la scarpa bizzarra, poggiata sul bancone della cucina. Era uno zoccolo di legno, probabilmente di acacia, con una pianta troppo lunga e sottile rispetto alla norma. La parte anteriore della stessa, inoltre, era smussata verso il basso. La lavorazione in questione avrebbe permesso, a chi l’avesse indossata, di far fuoriuscire le proprie dita. O almeno, così avrebbero suggerito le forme scavate su quel lato: calchi di arti simili a quelli umani, ma decisamente più prolungati e smilzi. “Che accidenti sta succedendo?” si chiedeva Alan. “Non può essere vero…” E mentre tali pensieri gli affollavano la mente, poggiò il capo sul tavolo. Pian piano abbassò le palpebre e iniziò a dormire.

    Ad un certo punto, Henry uscì dal bagno e fece per chiamarlo. Alla non risposta si diresse in cucina e notò che il compagno stava riposando. A giudicare da come si stava muovendo, tuttavia, non stava facendo sogni tranquilli. Poco dopo, anche lui decise di fare un pisolino. Quel giorno, però, non si lanciò sul divano, come faceva di solito. Piuttosto, si stese sulla branda in modo lento e accurato, attento a non raschiare i graffi accumulati su braccia e gambe. Prima di abbandonarsi al sonno pensò a quanto dovesse essere assurdo e terribile scoprire che, la propria ragazza dei sogni, fosse una sorta di megera dalle attitudini mostruose: uno di quegli esseri capaci di alimentare l’immaginazione dell’essere umano e spronare i bambini a non uscire di casa quando è buio.


    VII

    Nei giorni seguenti il cielo di Klayton Lane assunse un colorito grigiastro. Gruppi di nuvole viandanti facevano a gara per oscurare la stella solare e talvolta si alleavano, dando vita ad ammassi di materia particolarmente grandi. Ogni tanto, invece, esplodevano in acquazzoni abnormi, che dilagavano su tutto il paese. L’aria che si respirava era più fredda del solito, ma non aveva perso la sua umidità estiva. Il suolo delle campagne e dei boschi limitrofi si colorò di un marrone scuro, sinonimo di terra umettata.

    “Lo senti questo odore?”
    “Sì, mi piace molto”.
    “Significa che l’estate sta per finire”.
    “Non so, è troppo presto. Forse qualcosa sta andando per il verso sbagliato”.

    I fratelli Remington camminavano su per il sentiero che conduceva a ovest. Avevano indosso delle mantelline di plastica dai colori sgargianti, che li avrebbero protetti in caso di pioggia. “Torna a raccogliere lumache, Johnny. Non sopporto il tuo pessimismo” annunciò Tommy. In quel momento, John non aveva voglia di discutere, perciò obbedì. Dopodiché si chinò a raccogliere una chiocciola e la poggiò nel secchio che trasportava Bobby. “Ho l’acquolina in bocca solo a guardarle!” disse quest’ultimo. I trimelli, come adoravano farsi chiamare loro, proseguirono il cammino per un altro miglio. Solo quando la scorta di insetti fu abbastanza consistente, decisero di tornare indietro. Sulla strada del ritorno, tuttavia, notarono il vecchio Sir Williams.

    L’uomo aveva un impermeabile scuro, con un cappuccio che gli copriva quasi interamente il volto. Il suo bastone da passeggio, però, l’avrebbe reso riconoscibile a chiunque. Bobby fu il primo a parlare: “Accidenti! E ora che facciamo?” Gli altri due furono d’accordo nell’affermare che avrebbero dovuto evitarlo, a tutti i costi. “Questo è ovvio! Non ho intenzione di sentire qualche storia del terrore. Con questo tempo, la pioggia, le nuvole… sarebbe tutto più pauroso! Non credo che riuscirei a sopportarlo!”. Tommy spronò i fratelli ad osservare la direzione che stava seguendo Sir Williams. Così, si nascosero dietro un cespuglio e attesero.

    “Sta andando dritto al centro di Klayton, ci basterà essere pazienti” sentenziò il più diligente dei ragazzi. Però non fece in tempo a terminare la frase che, qualcuno, sbucò dalla sponda opposta della via. I fratelli dovettero abbandonare il loro piano poiché, il rischio di essere avvistati, adesso era cresciuto sensibilmente. L’altro uomo era Bennet il contadino, col solito paio di stivali ai piedi. “Passiamo dal bosco” riprese Tom. Bobby protestò a bassa voce. John, al contrario, fu d’accordo con la proposta: “Forse possiamo riuscire a stringerci dietro il cespuglio, ma sicuramente ci noterebbero per i colori delle mantelle”. Quindi i tre si allontanarono dal sentiero ed entrarono nel bosco. Tommy era sicuro di poter arrivare alla loro casa aggirando il percorso pedonale. Ciò nonostante, mantenere un passo rapido e costante in mezzo a tutta quella vegetazione non si rivelò per nulla facile.

    Ad un certo punto, Bob si fermò. Guardandosi intorno provò un senso di mancanza e dovette sedersi, prima di riacquisire le forze. Era circondato da erba, tronchi, steli, fiori, arbusti d’ogni tipo e foglie ancora ricolme di rugiada. L’odore della pioggia passata adesso lo inquietava: percepiva come estraneo tutto ciò che avvertiva con i suoi sensi. E non riusciva a vedere nulla, fuorché l’essenza verdeggiante e selvaggia del luogo, illuminata qui e lì da sprazzi di luce grigio cenere. Non riusciva più neppure a stabilire l’orario della giornata, dal momento in cui aveva abbandonato il sentiero principale. Maledetto Sir William!, pensò. Proprio in quel momento, doveva passare! Le sue riflessioni, però, non cambiarono la situazione. Nel momento in cui Johnny e Tommy si accorsero che il fratello era rimasto alle loro spalle, decisero di andargli incontro.

    Che i trimelli Remington non avessero ancora litigato, quel giorno, pareva troppo inconsueto. Ben presto, infatti, tornarono ad onorare la tradizione di famiglia. “Alzati, è tardi e tra poco sarà buio”. “Come fai a saperlo?” replicò Bob. Johnny, al contrario, colse l’occasione per aggiungere: “Sei proprio sicuro di sapere dove ci stai portando? Ho visto questa venere acchiappamosche almeno tre volte”. Ed indicò il vegetale non troppo distante dai suoi piedi. “Oh, accidenti! Non dovevo seguirvi!” riprese il ragazzo accasciato al suolo. Dopodiché, a sorpresa degli altri, Bobby si alzò e tirò un calcio al secchio pieno di chiocciole. Imprecò contro i fratelli e cominciò a correre verso il punto da cui erano entrati nella boscaglia. “Fa come vuoi, idiota. Comunque eravamo quasi arrivati”.

    John e Tommy giunsero a destinazione al calar delle tenebre. Di Bob, invece, non si vide più neanche l’ombra. “Dove sono le lumache?” chiese il signor Remington, vedendoli entrare. “Bobby ha lanciato via il secchio. Credo che a molte si sia rotto il guscio e altre siano scappate”. Dopodiché i ragazzi raccontarono l’accaduto ai genitori. Essi parvero subito preoccupati e sospirarono affranti. Avevano l’atteggiamento di chi è sul punto di piangere, ma sa che non avrebbe senso farlo. Allorché il papà prese i figli in disparte e continuò: “Bob tornerà, ragazzi. Si è solo perduto nel bosco. Se non dovesse farlo da solo, andremo a cercarlo noi stessi”.


    VIII

    Alan aveva gli occhi lucidi e surclassati da capillari rosso sangue. Il suo sguardo era pieno di malinconia. “Che vuoi fare?” annunciò Henry. Il compagno non rispose e continuò ad osservare la pioggia aldilà della finestra. Goccioline d’acqua si poggiavano sul vetro a rintocchi regolari e scivolavano in basso, scomparendo. Al mosse le spalle verso l’alto. Non aveva idea di quale fosse la cosa giusta da fare. “Tu ci credi veramente?” disse poi rivolto al compagno. Henry rispose positivamente. La signora Flaubert, secondo lui, non aveva motivo per mentirgli. Ospitava le loro famiglie ogni estate a Klayton Lane e, oltre a ciò, si era sempre mostrata gentile e disponibile. “In ogni caso, come spiegheresti la forma dello zoccolo?” aggiunse.

    Al, comunque, non riusciva ad accettare l’idea che Layla fosse una sottospecie di arpia. L’amico disse che non poteva biasimarlo. Poi annunciò che, nella giornata odierna, sarebbe dovuto andare a visitare sua nonna. “Ci andrò con i miei genitori, la nonna abita ad ovest. Vuol dire che tornerò solo stasera. Non fare stupidaggini, Al. Non mentre manco, almeno”. Il compare annuì e gli tirò una pacca sulla spalla. Alan, quel giorno, pranzò con aria annoiata. Si sforzò di mangiare, solo per dare l’idea che andasse tutto bene. E quando alzava il capo dal piatto, spesso sorprendeva la Flaubert a studiarlo attentamente.

    “Tra non molto ripartiamo. Perciò goditi questi altri due o tre giorni, figliolo” fece il padre. Il giovane, allora, chiese di poter andare via subito, per raggiungere i Remington. “Sono insopportabili, ma mi piacerebbe stare con loro un altro po', prima che andiamo via”. Il papà, con sorpresa generale, acconsentì alla richiesta del figlio. Mentre Alan si preparava ad uscire di casa, origliò le conversazioni degli adulti. “Perché l’hai fatto?” diceva la mamma rivolta al papà. L'uomo, però, pareva avere una spiegazione logica e precisa. Rispose, infatti, che Alan non avrebbe rivisto i trimelli fino all’anno prossimo, quindi valeva la pena lasciarlo andare. “E poi” aggiunse, “Mi sembra strano, ultimamente. Forse ha trovato una ragazza”.

    Il fanciullo non aveva intenzione di andare davvero dai Remington. Uscì dalla porta del casolare e fece un grande respiro. Allorché iniziò a camminare verso il centro di Klayton Lane, senza una meta ben precisa. Gli balenò in mente l’idea di andare all’Hill Pub, ma non aveva un solo spicciolo in tasca. Avanzò per circa mezzo miglio, fischiettando una melodia triste che aveva sentito nella canzone di un vecchio film. Fortunatamente aveva smesso di piovere e qualche uccello stava ricominciando a cantare. La natura ai fianchi della via era bagnata ed emanava un profumo fresco e ristagnante. Alan stava pensando al suo sogno più grande: Layla, chissà com’è nella sua vera forma… si domandava. Quindi provò ad immaginarla, tuttavia non ci riuscì. Nella sua memoria regnava l’immagine di una ragazza perfetta e diversa rispetto a tutte le altre. Era sempre stato convinto che, quella donnetta, avesse qualcosa in più a confronto delle altre. Ciò nonostante, non avrebbe mai creduto che la sua particolarità fosse sinonimo di qualche deformità.

    Ancora qualche passo e il fanciullo arrivò ad un bivio. La biforcazione di destra conduceva a nord, dalla sua amata. Quella di sinistra portava invece alla parte più frequentata del paese, dov’era presente qualche negozietto e un pub. “Ci risiamo” disse Alan tra sé e sé. Lo stormo di corvi che aveva visto con Henry un paio di giorni prima sorvolò un pino poco distante. Do solo un’occhiata. Manca ancora tanto fino al crepuscolo, pensò. E così si incamminò tra le erbacce, in quella sorta di tunnel naturale che conduceva alla palude. Quando si trovò di fronte alla fossa, spalancò la bocca e restò immobile per qualche istante. Non sapeva tanto bene neppure lui il motivo per cui ciò accadde, ma una cosa era certa: si sarebbe aspettato di più.

    Alan sapeva che si trattava di una palude, un luogo umido e pieno di acquitrini in cui rane, rospi e altri animali talvolta emergevano dall’acqua furtivamente. Tuttavia, dopo aver udito le storie che circolavano a Klayton Lane su quel posto, credeva che non fosse poi una semplice palude. Ma forse era davvero così, poiché era ancora troppo lontano per giudicare. Mentre procedeva in avanti, la sua fronte si imperlò di sudore. L’aria che filtrava col naso era calda e lasciava in gola un retrogusto dolciastro. Il fanciullo trovò l’odore nauseante, ma continuò imperterrito nell’avanzare. Piante di tifa mosse dal vento si succedevano davanti ai suoi occhi, conferendo al paesaggio l’aria di una landa desolata.

    La vegetazione era particolarmente… biancastra, avrebbe detto lui. Difatti, persino il terreno pareva cambiar colore, lì intorno. Sul sentiero che conduceva fino a quel punto la terra era marrone, ma pian piano sfumava in un giallo cadaverico. Gli arbusti, invece, erano fini e secchi come il corpo di Madame Scouvartié. Alan infilò un piede nell’acqua torbida. Ai suoi lati la palude si estendeva nella vegetazione fitta e imperscrutabile del bosco. Di fronte, al contrario, si poteva notare il tetto di qualche casolare che spuntava aldilà della collinetta. La chiamano fossa proprio per questo, rifletté. Perché quell’ammasso di terra rialzato fa sembrare la palude scavata nel suolo. Il ragazzo andò avanti con cautela, facendo un passo dopo l’altro e assicurandosi di non sprofondare.

    Ormai era bagnato fino alle ginocchia, ma il fondale non accennava a divenire più profondo. E così fu, difatti, sino a che non l’ebbe superato. Quando ciò accadde, Al si fermò davanti alla collina. Ben presto, cominciò a ridere da solo. Sarebbe parso un folle persino al suo amico Henry, ma aveva buone ragioni per farlo. Aveva appena attraversato la fossa.


    IX

    Nell’euforia del momento, però, il fanciullo non si accorse che qualcosa gli si era attaccato ai pantaloni. Improvvisamente avvertì dolore all’altezza di una coscia e urlò. Nel momento in cui guardò verso la fonte del malore, si accorse che qualche animaletto era impegnato a scavargli nella pelle. Immediatamente portò le mani verso gli insetti e prese a staccarli con furia. La sua faccia era contratta in un’espressione nauseata e, senza accorgersene, emise anche qualche gemito d’orrore. Le creaturine erano viscide, mollicce e rossastre, ma avevano dei denti in grado di perforare la carne. “Sanguisughe” sussurrò Al. Finalmente riuscì a liberarsi di ogni singola succhia sangue attaccata alle sue braghe. Tuttavia, il presentimento che ce ne fossero altre, nascoste tra i suoi indumenti, lo tormentò ancora per un po' di tempo a venire.

    Il giovane riuscì a distrarsi solo quando salì sul tumulo. La scalata si rivelò un tantino difficile, poiché l’altura era decisamente ripida. In ogni caso, si trattava di terreno morbido e umido, come tutto ciò che si trovava nei paraggi. Perciò, tranne che sporcarsi fin quasi alla testa, Alan non rimediò altri danni. E la vista che lo aspettava alla cima, comunque, avrebbe ripagato qualsiasi sforzo. La parte nord di Klayton Lane, infatti, era molto più graziosa dell’altra. Casette costruite con legno e pietra erano disposte regolarmente sulla superficie di un prato verde e ben curato. Le abitazioni erano inscritte nel perimetro di un cerchio, ai cui bordi si innalzavano grandi alberi che segnavano il confine con la natura selvaggia.

    Dal punto in cui si trovava, il fanciullo riusciva a vedere tutta la zona abitata. E, lì per lì, fu di nuovo sul punto di ridere. “Non può essere così bello, dev’essere uno scherzo. Oppure…” Gli balenò in mente la possibilità che ogni cosa, in quella parte del paese, fosse una sorta di ‘maschera’: un costume delizioso che, in realtà, celava qualcosa di orrendo. Comunque sia, mentre insisteva a studiare il paesaggio, Al notò qualcuno che passeggiava ai confini del bosco. Erano presenti una dozzina di persone, ma quell’individuo aveva un’aria familiare. Sembrava un ragazzo, più o meno della sua età, e indossava una mantellina colorata di un giallo sgargiante. Al suo fianco camminava una fanciulla ma, dal punto in cui si trovava, non riusciva a distinguerla in modo appropriato.


    X

    Henry fece ritorno al tramontar del sole. Casa Flaubert era stranamente silenziosa ed oscura. “Dov’è Alan?” domandò ai padroni dell’abitazione. “È uscito oggi pomeriggio presto, ha detto che andava dai Remington”. Il ragazzo sorrise, con l’aria di uno che sa di essere stato appena ingannato. Allorché ribadì il quesito. I signori, tuttavia, ripeterono le stesse parole con cui avevano risposto poco prima. Henry, quindi, si fece serio. Si recò in cucina e restò lì ad aspettare. Mentre contemplava la vegetazione oltre i vetri della finestra, continuava a ripetersi che qualcosa stesse andando per il verso sbagliato. Inoltre, sulla via del ritorno, si era imbattuto in Johnny e Tommy Remington, che gli avevano annunciato una notizia inquietante. “Bob è sparito” gli avevano detto. “Stavamo andando a casa passando per il bosco, ma abbiamo litigato e lui è andato via”.

    Il fanciullo, di conseguenza, non poté che associare l’assenza di Al con i fatti verificatisi nella famiglia dei trimelli. Ciò nonostante, proprio mentre stava pensando di parlarne con i genitori, qualcuno bussò alla porta. “Vado io!” esclamò Henry ad alta voce. E quando spalancò l’accesso, vide qualcosa che per poco non lo fece urlare. Era un essere umano sporco di humus dalla testa ai piedi, con gli abiti lacerati in vari punti. Ciò che fece sobbalzare il giovane, tuttavia, non fu la situazione fisica del nuovo arrivato, bensì quella emotiva. Il capo dell’individuo, infatti, era chino verso il basso e qualche lacrima gli scendeva dagli occhi fino agli zigomi, rischiarando la tonalità marrone-giallastra della sporcizia. “Alan?” soggiunse Henry. L’amico alzò la testa e lo guardò: “Sì, sono io. Ma vorrei tanto non esserlo”.

    Al disse che stava per raccontargli la storia più strana che avrebbe mai udito nella sua vita. I due si appollaiarono sul bancone della cucina, come facevano di solito. Durante il breve tragitto, il ragazzo sporco macchiò il pavimento. E quando l’amico glielo fece notare, sembrò non curarsene. “La signora Flaubert non merita rispetto” continuò Al. Il compare era sempre più impaurito e si chiedeva cosa mai potesse essere successo per far sì che il compagno ragionasse in quel modo. Quando arrivarono nella loro stanza preferita, Alan spalancò i vetri delle finestre e cominciò a parlare. “Che cosa vedi là fuori?” chiese all’amico. Henry mosse le spalle, come a dire non lo so. “Ti sbagli. Se guardassi meglio, sapresti dirmelo con certezza”.

    Il compare, quindi, allungò lo sguardo oltre gli scuri. Oltre alla solita vegetazione macabra ed immersa nel buio, però, non c’era null’altro. “Non c’è niente, Henry. Non c’è proprio un bel niente!”. Il compagno strabuzzò gli occhi e iniziò a credere che Alan avesse perso il senno. “Sono andato alla fossa, oggi. L’ho superata, in realtà. Sì, ho visto la parte nord di Klayton Lane. Forse è persino più normale della nostra. Comunque, non è questo il punto. Quando sono entrato nel paese, ho chiesto dove potevo trovare Layla. Mi è stato detto che, a quell’ora, era sicuramente in giro ai confini col bosco. Dunque ho camminato e camminato all’estremità della zona abitata, sino a che non l’ho trovata”.

    Henry non si lasciava sfuggire neppure una virgola, del discorso del compare. Mentre lo ascoltava, perciò, gli parve che la sua voce, talvolta, cambiasse tonalità. Assumeva un carattere basso e rauco, tipico di chi è sul punto di piangere. “Iniziai a spiarla da lontano. Era bellissima, quei capelli bianchi e lunghi... Ciò nonostante, non potei fare a meno di ripensare alle parole della signora Flaubert. Iniziai perciò a scavare con gli occhi oltre ai suoi vestiti e ad immaginare quali aberrazioni potesse nascondere al di sotto.

    Tra l’altro, mi sembrò che tutte le donne, lì intorno, avessero i capelli lunghi. Quindi credetti che, persino questo, fosse un modo per non rivelare la loro vera natura. Chissà, forse hanno persino le orecchie appuntite, pensai. Ero un agnello nella tana del lupo, ma non potevo smettere di guardarla. Mio malgrado, infatti, non lo feci. Anzi, allargai l’inquadratura della mia vista e notai l’unica, vera, cosa orrenda, che avessi mai potuto vedere. Al fianco della ragazza, infatti, c’era qualcuno. Indossava una mantella gialla fluorescente ed era alto all’incirca quanto me. Ben presto si avvicinò a Layla e si strinsero le mani. Passeggiarono così per un po', sino a che non si fermarono. E fu allora, che il mio cuore si spezzò per davvero, poiché i due si baciarono appassionatamente. Le labbra di entrambi si muovevano e producevano rumori simili al cinguettio degli uccelli che svolazzano qui intorno.

    Ma il peggio doveva ancora venire. Difatti, quando decisi di andare via, feci poca attenzione all’ambiente intorno a me. Così calpestai una chiocciola ed il guscio si ruppe rumorosamente. Gli amanti si girarono verso il sottoscritto e, prima di scappare con tutte le mie forze, feci caso al volto del ragazzo con la mantella. Era il più stupido e piagnucoloso di tutti i trimelli: quell’idiota di Bobby Remington!” Non appena Henry fu abbastanza calmo, chiese all’amico se sapesse che, qualche giorno fa, Bob era sparito e la famiglia lo stava cercando. “Non m’importa. Il punto non è questo” riprese Alan. “Se non avessi creduto a tutte quelle dicerie sulla fossa, sarei arrivato per primo”. Il compare annuì.

    Nel frattempo, a qualche miglio da casa Flaubert, Bob e Layla continuavano a passeggiare come due innamorati. "Si è fatto tardi, forse dovrei tornare a casa" annunciò il fanciullo. "Ancora con questa storia!" continuò Layla, fermandosi e cercando di fissarlo negli occhi. Il ragazzo incrociò lo sguardo della donnetta solo per qualche istante, dopodiché lo riabbassò timorosamente. Gli zigomi di Bob si rigarono di lacrime. Intorno a lui regnava il buio quasi assoluto e l'unica sensazione di familiarità dell'ambiente era data dal verso di qualche uccello notturno. Anche quello, tuttavia, aveva qualcosa di inconsueto. In apparenza sembrava solo il bubolare di una civetta ma, concentrandosi ad ascoltarlo meglio, sarebbe parso un suono simile ad un lamento umano. "Tu non tornerai più, a casa!" riprese la giovanotta, con una voce roca e profonda.

    Il trimello singhiozzò un paio di parole incomprensibili. "Che cosa hai detto?" urlò con un verso gutturale la fanciulla dai capelli bianchi. "Il ragazzo che abbiamo incontrato prima... Alan. Anche lui ha attraversato la fossa. Perchè non è qui con noi, adesso?" Layla rise come un uomo affetto dal mal di gola. Le sue pupille luccicavano nell'oscurità. Poi allungò una mano al collo di Bob e aggiunse: "Ogni cosa a suo tempo, caro". Le fauci della ragazza si spalancarono, e inghiottirono gran parte del corpo di Bob in un sol boccone.

    Edited by Emily Elise Brown - 4/11/2019, 20:09
     
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    Emily, ma sei bisessuale? ( ͡° ͜ʖ ͡° )

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    Smisto.

    Storia affascinante e coinvolgente. Le descrizioni delle atmosfere sono rese bene e ti immergono completamente nel vivo della storia.
     
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    Un posto brutto, molto brutto!

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    Lunghetta ma decisamente coinvolgente!
    Le descrizioni sono ben dettagliate ma senza risultare troppo pesanti.

    Non vedo l'ora di leggere la seconda parte e sapere come va a finire!
     
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  4. CreepyLucas
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    Davvero una bella storia, senza dubbio.
    Affascinante la storia tra i due paesi così vicini ma allo stesso tempo così lontani. Belle le descrizioni e le sensazioni che suscitano.
    Attendo la seconda parte per scoprire il finale
     
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    Mi piace, aspetto il seguito!


    Ti consiglio soltanto di evitare espressioni stereotipate, del tipo "scattò come una lepre", perché la descrizione perde di efficacia :)
     
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    Aggiunta la seconda parte!
     
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