Il coraggio d'esser pazzi

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    Se il diavolo avesse scelto un posto in cui rifugiarsi nella Londra della regina Vittoria, sarebbe stato certamente uno di quei palazzi costruiti o adibiti a ‘case di cura per la mente’. Edward si trovava in quello tra Orchard e River Way, il St Bethlehem’s Hospital. “Uno dei più grandi e specializzati” diceva l’agente Theodore. Ed sapeva che il buon vecchio Theo scopava con Riley, ma non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo. Quando tornava dalle sue lunghe passeggiate lungo il Tamigi, dopo essere passato dalla Beer House per una pinta, Ed guardava la moglie con aria affranta e rassegnata. “Tutto bene, caro?” chiedeva Riley con il volto paonazzo e la vestaglia che continuava a cedere da una spalluccia.

    Non era stato difficile per Theodore liberarsi dell’unico ostacolo tra lui e l’amante: bastò procurarsi il taccuino che Edward portava con sé quando usciva a fare quattro passi e portarlo al dipartimento di polizia di Greenwich (assieme a qualche fantasia incriminante e la testimonianza spudorata di Riley).

    E ora Edward si trovava lì, in un manicomio. Se aveva protestato prima di finirci dentro? No, non ne valeva la pena, avrebbe detto lui. Era talmente amareggiato che persino la sedia elettrica, talvolta, faticava a fargli male sul serio. Il poveraccio se ne stava in una cella al terzo piano dell’edificio. Tra le mani stringeva un pezzo di carta e una matita stretti che, all’occorrenza, rubava nella sala comune. Le sbarre della sua stanza erano quasi sempre spalancate, poiché le guardie erano troppo impegnate con i soggetti disturbanti. Tra le mura del St Bethlehem, infatti, vigeva costantemente il caos tipico di un luogo affollato. A differenza della Beer House che frequentava Ed, però, al manicomio parevano tutti ubriachi e in qualsiasi momento.

    Era difficile attraversare un singolo corridoio senza imbattersi in qualcuno intento a strillare, sbattere la testa contro il muro o a correre senza fermarsi da un capo all’altro del piano. E la cosa peggiore, come avrebbe sostenuto Eddie, era la musica: quei cori chiericali di Charles Villiers Stanford, riprodotti senza interruzione da uno stenografo nella sala comune. Anche le guardie, tuttavia, contribuivano all’orchestra menando rumorosamente i pazienti non intenzionati a fare il bagno o a rientrare nelle loro camere. I dottori, invece, si aggiravano qui e lì con il loro camice bianco, perennemente impegnati a maneggiare aghi abnormi e macchinari di morte. Quei medici sembravano avere un trattamento adeguato per qualsiasi forma di squilibrio mentale (ammesso che ci fosse stato davvero, uno squilibrio).

    Edward era sicuro di essere entrato sano come un pesce nel mare agitato del manicomio. Ma adesso non poteva più essere certo di star bene. Le annotazioni che scriveva sui pezzi di carta parevano più scarabocchi che parole, ormai. Era stato Malcolm a farglielo notare.
    “Che accidenti fai tutto il giorno con quei fogli?” gli aveva chiesto. Si trovava al fianco della cella di Ed, separato solo da una serie di sbarre. Non si era mai mostrato agli occhi di nessuno, da quando si trovava lì: la sua camera era immersa per gran parte nel buio ed era costantemente chiusa a chiave. Era difficile avere una concezione del tempo nell’ospedale, ma i due ogni tanto discutevano e avevano stabilito un rapporto tanto strano, quanto confortante.

    “Mi piace scrivere” rispose Ed e continuò: “Molti pensano che sia noioso, perché guardando un foglio pensano che sia solo un pezzo di carta”. Il malcapitato sosteneva che gli strumenti per scrivere fossero solo dei mezzi per creare altri mondi, magari migliori di quello in cui si trovava. Disse anche che la maggior parte della gente non era in grado di immaginarli, poiché troppo occupata con la propria realtà: “Lavorare, vedersi con gli amici e farsi una scopata. Ma che mi dici se d’un tratto tutto questo dovesse scomparire a causa di un infortunio, un litigio o…”. Malcom uscì improvvisamente dall’oscurità e aprì bocca, mostrandosi alla luce per la prima volta. “O una malattia orribile che ti trasforma in un mostro” disse.

    Il disgraziato aveva la pelle ricoperta di eruzioni cutanee, piena di papule rossastre che gli avevano deformato il volto. Eddie aveva sentito parlare della sifilide, ma non immaginava che potesse assumere dei caratteri talmente gravi e orripilanti. Malcom, però, non sembrava affatto provato: dietro le collinette raccapriccianti formatesi sul suo viso, nascondeva lo sguardo torvo e deciso di chi ci aveva fatto l’abitudine.

    Fu immediatamente chiaro ad Ed che i medici l’avevano abbandonato al suo destino, poiché non c’erano cure per uno stato così avanzato di sifilide. Gli balenò in mente quel giorno in cui, passeggiando lungo il Tamigi, si imbatté in un venditore che sosteneva di poter risolvere qualsiasi malanno con una sostanza chiamata… “Laudano! Ecco com’era. Hai provato anche con quello?” disse rivolto a Malcom. A tali parole, l’essere deforme si abbandonò ad una risatina convulsa: “Sono stronzate! Il laudano è solo oppio tritato in alcol. Con tutta la merda che c’è in giro, non mi stupirebbe se domani spuntasse un uomo che sostiene di poter curare la peste baciando i topi!”

    Edward ammutolì. Si chiese se anche terapie diffuse come salassi e clisteri fossero davvero utili, e pensò che in uno dei suoi mondi ideali avrebbe di certo bandito le malattie. L’infermo tornò nel buio e dopo qualche minuto di silenzio riprese a parlare: “Lo sai perché sono qui, Ed?” soggiunse e continuò: “Perché non ho avuto il coraggio di reagire. Sapevo che qualcosa in me andava per il verso sbagliato. Sono un fottuto idiota! Se non avessi avuto paura di ammettere la realtà dei fatti, magari sarei persino riuscito a curarmi. Invece adesso morirò. E mi sta bene così, perché sono un codardo della peggior specie”.

    Il sermone dell’uomo moribondo toccò Edward nel profondo. Presto si chiese anche per quali cause fosse giunto in un “ospedale per la mente” come il St Bethlehem. Ma immaginò che non doveva essere stato difficile far internare un tizio in quelle condizioni. Probabilmente un bambino l’aveva visto per strada e, dopo essersi preso un bello spavento, aveva raccontato il tutto ad un genitore che, con un po’ di fantasia e qualche aggancio politico, aveva reso Malcolm un feroce pazzo da rinchiudere. Di questi tempi funziona così. Giusto, Theodore? Meditò Edward fra sé e sé.

    Le parole dell’uomo malato avevano sciolto un nodo che da troppo tempo blandiva il cuore di Ed. Fu mentre un guardiano gli ordinava di denudarsi ed entrare nella vasca da bagno, che il discorso di Malcolm risuonò nella sua mente come un inno alla libertà: "Lo sai perché sono qui, Ed?" diceva quella voce gutturale da un punto indefinito nel buio del suo cervello. “Perché non ho avuto il coraggio di reagire” ed ecco che si mostrava, in tutto l’orrore della malattia degenerativa. L’agente insisteva a strepitare contro Edward di togliersi i vestiti ed entrare nella vasca. Ma quest’ultimo era come incantato, immobile davanti al lavatoio.

    Ben presto ricevette un colpo di manganello dritto nel fianco destro. Un dolore lancinante si diffuse in tutto il suo corpo, ma restò lì, con lo sguardo fisso alla parete squallida che aveva di fronte. Dalla finestra più vicina entravano i primi raggi di sole. Allo stesso modo, Eddie decise che si sarebbe fatto notare, quel giorno. Come l’universo stabilisce che il sole debba sorgere tutte le mattine, anche lui si sarebbe ripreso il posto che gli spettava di diritto nel mondo.

    Si girò con uno scatto felino e agguantò l’arma con cui era stato colpito poco prima dal guardiano. In men che non si dicesse, gli psicotici presenti nella stanza da bagno cominciarono ad urlare e a distruggere ogni cosa che gli si presentava a tiro. L’isteria collettiva si scatenò velocemente in tutto il St Bethlehem.

    Edward si diresse nella sua cella, schivando guardie e malati di mente che si scatenavano tra i corridoi. I fischi dei custodi rimbombavano come trombette nelle bocche di bambini schizofrenici. Recuperò i fogli su cui aveva scritto per il tempo che aveva trascorso in quell’inferno. Ma proprio mentre si voltava per riprendere a correre verso la libertà, un uomo in divisa gli sbarrò la strada.

    Era stranamente tranquillo. “Ciao Edward. Come butta?” annunciò appoggiandosi con la schiena alle sbarre lì di fianco. Eddie tremò quando lo riconobbe. “Te l’avevo detto che il St Bethlehem era uno dei più specializzati, no?” continuò la sentinella guardandosi le unghie. Era nientemeno che Theodore-il-bastardo, pensò Ed. Il disordine pareva regnare sovrano per tutta la struttura, tranne che in quell’angolo di cella. Dalle tenebre della stanza di fianco, tuttavia, si mosse qualcosa.

    Theodore insisteva a parlare, con un sorriso malizioso e un’espressione talmente patetica che l’intero volto sembrava una maschera di plastica: “Oh, no! Hai sentito? Niente più musica, avranno rotto il disco di Stanford. Peggio per voi, malati!”. A tale affermazione, una figura che pareva di un altro mondo, uscita direttamente da una storia di Edward, balzò dall’oscurità della cella di fianco, avventandosi sulla guardia.

    Malcolm strinse Theodore-il-bastardo con la forza delle sue mani deformi, che sporgevano dalle fessure delle sbarre. Ma non si limitò a questo: prima di andare via, Ed notò che lo stava mordendo dietro al collo. E, in quel momento, una frase ispirata ai cori chiericali gli guizzò nella mente: non stimatevi pazienti da voi stessi; la sifilide è sempre in agguato, brutti fessi.

    Il fuggitivo non mise mai più piede in un ospedale psichiatrico. Prima di uscire, tuttavia, decise di lasciare i suoi appunti al vicino di stanza. Erano raccolti in ordine numerato a formare una storia intitolata: 'Il coraggio d’esser pazzi'.

    “Gran bella storia Ed, dovresti pubblicarla” annunciò Malcom quando ebbe finito di leggere il taccuino. Ma l’amico fece cenno di no con la testa: c’era troppo di personale in quel racconto. I due stavano tornando alle rispettive case passeggiando lungo il Tamigi, dopo aver bevuto qualche pinta alla Beer House, come d’abitubine. Quando Ed giunse presso la sua abitazione salutò il compagno, che ricambiò continuando a grattarsi l’escoriazione rossastra all’altezza del polso. Rientrato in casa, Edward lanciò un’occhiata veloce alla moglie e sparì nel suo studio. Riley aveva il volto paonazzo ed era impegnata ad aggiustare la vestaglia che continuava a ricadere da una spalluccia. Bussò alla porta della stanza del marito e aggiunse: “Tutto bene, caro?”

    Edited by ;Isabel - 24/5/2019, 10:06
     
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    Ci tengo a dirlo: incipit molto funzionante per un racconto su Internet. Cattura subito l’attenzione.
     
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    Ho provato a leggerla ma, per quanto è scritta bene, non ho ben capito la storia. :wacko:
     
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    perdonatemi se sono brutalmente onesto, ma non ho capito un cazzo
     
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