Colui che sussurrava nelle Tenebre - HP Lovecraft

Pt. VII

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  1. Cavagar
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    Rifiutando di abbandonarmi ad allarmi irragionevoli, aprii la porta alla mia sinistra secondo le istruzioni di Noyes. Lo studio era buio, come mi era stato detto. Nel momento in cui entrai, notai che l'odore strano diventava più forte e mi sembrò di udire nell'aria una specie di vibrazione. Per un attimo non distinsi nulla, poi un tossicchiare soffocato attrasse la mia attenzione verso una grande poltrona nell'angolo più buio e lontano della stanza. Scorsi nelle sue profondità le macchie chiare del viso e delle mani di un uomo. Mi affrettai verso di lui e riconobbi il mio ospite: avendo osservato la sua fotografia parecchie volte, non potevo sbagliarmi sull'identità di quel viso franco e aperto, dalla corta barba grigia. Nel momento in cui lo riconobbi provai comunque una fitta d'ansia: era evidente che mi trovavo in presenza di un malato grave. L'asma non era sufficiente a spiegare quell'espressione tesa, quegli occhi vitrei dallo sguardo fisso. D'altro canto, un'esperienza come quella che aveva vissuto non avrebbe spezzato la tempra anche di un uomo più giovane di quell'intrepido esploratore dell'ignoto? Mi resi conto che la sua terrificante avventura doveva averlo ridotto in un misero stato, e temetti che la sua strana e improvvisa liberazione fosse giunta troppo tardi per salvarlo da una grave e permanente depressione nervosa. C'era qualcosa di pietoso nelle sue mani magre e inerti, abbandonate mollemente sulle ginocchia. Indossava una veste da camera molto ampia e una sciarpa di lana gialla gli avvolgeva la testa e il collo. Mi accorsi che cercava di parlarmi, ma la sua voce era così bassa che la udii a malapena e i folti baffi grigi nascondevano i movimenti delle labbra. Qualcosa nel timbro mi turbò profondamente. Comunque, concentrando tutta la mia attenzione, riuscii a distinguere le sue parole. Aveva un accento particolarmente raffinato e la sua lingua era più scelta di quanto le lettere mi avessero lasciato immaginare.
    «Il signor Wilmarth, non è così? Mi scusi se resto seduto. Come Noyesle avrà detto, sono ridotto piuttosto male... Sì, sono molto malandato... Ma non ho potuto resistere al grande desiderio di vederla e parlarle. Ciò che le ho scritto nella mia ultima lettera non è nulla in confronto a ciò che debbo ancora dirle... e che le dirò domani, quando starò meglio... Non so come esprimere il piacere che provo nel vederla in persona, dopo la nostra lunga corrispondenza. Ha portato tutte le mie lettere, come pure il rullo e le fotografie, vero? Benissimo. Noyes ha messo la sua valigia in anticamera, come avrà visto... Per stasera, temo che sarà costretto a servirsi da solo. La sua camera è al primo piano, proprio sopra a questa. Il bagno è di fronte, sul pianerottolo. Una colazione fredda la aspetta nella stanza da pranzo: la porta che vede, alla sua destra. Domani sarò un ospite meno deplorevole, spero... Ma adesso sono davvero troppo giù... Faccia come se fosse a casa sua. «Prima di salire, potrebbe mettere qui sulla tavola le lettere, le fotografie e il rullo. È qui nel mio studio che discuteremo: il dittafono è su quel tavolino all'altro capo della stanza...» «No» aggiunse, quando gli chiesi se potessi aiutarlo in qualche modo. «Non può fare nulla per me. È da molto che vado soggetto a queste crisi. Torni a trovarmi prima di sera, poi andrà a coricarsi quando vorrà. Io resterò a riposare qui: è probabile che mi addormenti, come mi succede spesso. Domattina, sarò in grado di esaminare con lei ciò che dobbiamo esaminare. Si rende conto, naturalmente, del carattere meraviglioso della nostra impresa. Davanti a noi e a pochi altri uomini di questo mondo si spalancano le immensità dello spazio, del tempo e della conoscenza ben al di là dei limiti concepiti dalla scienza e dalla filosofia. Lo sapeva che ,contrariamente a quanto ha detto Einstein, esistono cose e forze in grado di viaggiare a una velocità superiore a quella della luce? Per ora voglio dirle soltanto che io mi preparo a viaggiare non solo nello spazio, come le ho scritto, ma nel tempo: a vedere e a toccare la Terra delle epoche passate e future... Non può immaginare quali vette Quelli-di-Fuori abbiano raggiunto nel campo scientifico. Non vi è nulla che non possano fare con lo spirito e il corpo degli organismi viventi. Conto di visitare altri pianeti, forse anche altre stelle e altre galassie. Prima di tutto andrò a Yuggoth, il mondo più vicino popolato da Quelli-di-Fuori. È un pianeta al limite del nostro sistema solare, ancora sconosciuto agli astronomi. Devo avergliene già parlato nelle mie lettere. A tempo debito quegli esseri ci trasmetteranno le loro correnti di pensiero e ci mostreranno tutto... oppure autorizzerannouno degli alleati umani a fornire qualche indizio agli scienziati.«Ci sono grandissime città, su Yuggoth, immense torri a gradoni costruite in una varietà di pietra nera simile a quella che ho cercato di mandarle. La luce del sole vi arriva appena, ma Quelli-di-Fuori non hanno bisogno di luce. Possiedono sensi più acuti e i loro templi e le loro case sono sprovvisti di finestre. La luce li infastidisce: perché nel nero cosmo al di là dello spazio e del tempo da cui in origine sono arrivati essa non esiste. Il viaggio a Yuggoth farebbe impazzire un uomo debole... eppure io ci andrò.

    «I fiumi di pece nera che scorrono sotto ponti giganteschi costruiti da una razza estinta e dimenticata molto tempo prima che dai confini del nulla questi esseri raggiunsero Yuggoth, sono uno spettacolo tale che chiunque li vedesse e riuscisse a conservare la ragione per poter raccontare l'esperienza diventerebbe un novello Dante o Poe. «Si ricordi: quel mondo tenebroso di giardini fungosi e città prive di finestre non è un posto orribile. Soltanto a noi sembra tale. Forse parve tale anche agli esseri che per primi esplorarono il pianeta, in età arcaica. Quelli-di-Fuori arrivarono sulla Terra prima che finisse l'epoca del grande Cthulhu e si ricordano della mostruosa città di R'lyeh, che allora non era sommersa... Essi conoscono aperture ignorate dagli uomini, ma che si trovano qui, nelle colline del Vermont, e che conducono a immensi universi brulicanti di vita: K'N-yan dalla luce blu, Yoth dalla luce rossa, N'Kai dove regnano le tenebre. È da N'Kai che è venuto il temibile Tsathoggua, il dio simile a un rospo ricordato nei Manoscritti pnakotici, nel Necronomicon e nel libro custodito dal gran sacerdote Klarkash-Ton...«Ma di questo parleremo ancora più tardi... Ora mi porti il rullo, le fotografie e le lettere, la prego, poi vada a ristorarsi. Stasera parleremo ancora un po'...»Uscii dalla stanza per eseguire le istruzioni del mio ospite. Tornai con gli oggetti desiderati, che deposi sul tavolo, e quindi salii in fretta la scala che conduceva alla mia camera. Le parole sussurratemi da Akeley mi avevano turbato profondamente perché era ancora vivido il ricordo delle impronte sulla strada. I suoi accenni a contatti con il mondo sconosciuto dove proliferavano quelle forme di vita - il proibito Yuggoth - mi spaventavano più di quanto ne fossi io stesso consapevole. La malattia di Akeley mi addolorava molto, ma confesso che il suo rauco sussurro mi ispirava avversione, non solo pietà. Se almeno non avesse mostrato tanto entusiasmo per Yuggoth e i suoi tenebrosi segreti! La mia camera era confortevole e non vi notai quell'odore curioso né mi sembrò di avvertire vibrazioni come nello studio. Dopo aver depositato la valigia tornai di sotto, entrai nello studio, salutai il mio ospite e passai nella stanza da pranzo che dava direttamente su una piccola cucina. Sul tavolo c'erano pane e carne fredda, del formaggio e una torta; un thermos con una tazza vicina indicava che non era stato dimenticato il tè. Mangiai di buon appetito. Poi riempii la tazza col liquido bollente, ma ne inghiottii una sola sorsata, perché trovai che aveva un gusto amarognolo e sgradevole. Durante tutto il pasto non smisi di pensare ad Akeley, solitario e silenzioso nella stanza attigua. A un certo punto andai a trovarlo per pregarlo di mangiare con me, ma lui mormorò che non poteva assumere cibo solido per tutta la durata della crisi. Prima di dormire, avrebbe bevuto un po' di latte: non poteva prendere altro. Quando ebbi finito sparecchiai la tavola, lavai le stoviglie nell'acquaio della cucina e buttai via il tè. Poi tornai nello studio, avvicinai una poltrona all'angolo in cui si trovava il mio ospite e attesi che riprendesse a parlare. Le lettere, le fotografie e il rullo erano ancora sul tavolo, ma non li utilizzammo. Dopo un po', dimenticai tanto l'odore curioso quanto la vibrazione dell'aria. Ho già detto che nelle lettere di Akeley (soprattutto nella seconda) c'erano cose che non oso ripetere. Ciò vale, e in misura anche maggiore, per ciò che sentii quella sera, nello studio buio, tra le colline infestate. Non posso accennare nemmeno minimamente alla successione di orrori del cosmo che la voce sussurrante rivelò. Se il mio ospite conosceva fatti abbastanza terrificanti già prima di concludere il patto coi mostri, ciò che aveva appreso in seguito era insopportabile da un cervello normale. Anche allora mi rifiutai categoricamente di ammettere le sue teorie sulla natura dell' "infinito supremo", la contiguità delle dimensioni, la terrificante posizione del nostro cosmo spazio temporale in una catena senza fine diatomi cosmici, comunicanti tra loro in modo da formare il super-cosmo infinito delle curve, degli angoli, dell'organizzazione elettronica materiale e semimateriale. Mai un uomo sano di mente si era tanto pericolosamente avvicinato ai misteri dell'entità originale; mai un cervello organico aveva sfiorato così da vicino l'annientamento totale del caos che trascende la forma, la forza e le simmetrie. Appresi da dove il grande Cthulhu era venuto per la prima volta, appresi il segreto nascosto dietro le nubi di detriti stellari e le nebulose globulari, e la terribile verità che nasconde l'immemorabile allegoria del Tao. La natura dei Doe mi fu chiaramente rivelata, così come l'essenza (se non l'origine) dei segugi di Tindalos. La leggenda di Yig, padre dei serpenti, cessò di essere un simbolo; fremetti di orrore ascoltando la descrizione del mostruoso caos nucleare al di là dello spazio, che il Necronomicon vela misericordiosamente sotto il nome di Azathoth. I segreti dei miti più agghiaccianti mi vennero rivelati in termini chiari, concreti, mille volte più detestabili delle oscure allusioni contenute nei testi magici dell'antichità e del medioevo. Arrivai all'inevitabile conclusione che i primi divulgatori di quei racconti maledetti dovevano essersi intrattenuti con Quelli-di-Fuori e forse avevano visitato i regni extra-cosmici, come si proponeva di fare Akeley. Il mio ospite mi parlò della pietra nera e del suo significato. Mi rallegrai di non averla mai ricevuta, poiché le mie congetture a proposito dei geroglifici erano state anche troppo caute! E adesso Akeley sembrava riconciliato con l'universo infernale che aveva scoperto. Non basta: desiderava scandagliare il mostruoso abisso fino in fondo. Mi chiesi con quali esseri avesse potuto parlare dopo l'ultima lettera, e se una parte di loro erano stati "umani" come il primo emissario... La mia tensione diventò intollerabile: cominciai a elaborare ogni specie di teoria sullo strano odore e sulle insidiose vibrazioni che persistevano nella stanza oscurata.

    Annottava. Ricordando certe lettere di Akeley, rabbrividii al pensiero che sarebbe stata una notte senza luna. Non mi piaceva affatto la posizione della fattoria ai piedi dell'enorme pendio boscoso che conduceva alla cima inviolata della Montagna Nera. Col permesso del mio ospite accesi una piccola lampada a petrolio, ne abbassai la fiamma e la posai su uno scaffale abbastanza lontano, vicino al busto di Milton. Tuttavia non tardai a rimpiangere la mia iniziativa, perché la debole luce dava un aspetto ancor più cadaverico al viso immobile e alle mani inerti del mio interlocutore, che sembrava quasi del tutto incapace di muoversi. Dopo quanto mi aveva esposto, non immaginavo proprio che cosa potesse riservarmi per l'indomani; ma, a un certo punto, mi fece capire che il prossimo tema di conversazione sarebbe stato il suo viaggio a Yuggoth e "la mia eventuale partecipazione a quel viaggio"...! Il sussulto di orrore che non potei reprimere quando mi propose di intraprendere con lui l'escursione cosmica dovette divertirlo molto, giacché scosse con forza la testa. In seguito mi spiegò in tono benevolo che gli esseri umani potevano compiere - e molte volte avevano compiuto - il tragitto all'apparenza impossibile attraverso il vuoto stellare. Tuttavia, "non erano i corpi completi quelli che si spostavano"; Quelli-di-Fuori avevano trovato il modo per ridurre al minimo il supporto materiale delle facoltà psichiche di un individuo, che potevano venire riattivate mediante il contatto con speciali strutture che si trovavano su ognuno dei mondi da essi abitati. Era altrettanto semplice, disse Akeley, che trasportare un rullo da un dittafono all'altro. Quanto all'operazione chirurgica di "riduzione del supporto materiale", essa non implicava nessun pericolo per l'individuo che viveniva sottoposto, il quale ritrovava intatto il "supporto normale" al ritorno dal viaggio. Si trattava, aggiunse il mio ospite con terrificante freddezza, di un "semplice prelevamento di materia cerebrale", che veniva immessa in un piccolo contenitore cilindrico. Per la prima volta una delle mani inerti si sollevò lentamente per indicare un'alta scansia all'altra estremità della stanza. Vi si trovavano allineati in bell'ordine più di dodici cilindri di metallo opaco. Misuravano circa trenta centimetri di altezza, e ciascuno aveva tre curiosi alveoli disposti in modo da formare un triangolo isoscele. Uno dei cilindri era collegato attraverso due alveoli a una coppia di apparecchi posti su un altroripiano della scansia. Compresi immediatamente il loro significato, e rabbrividii come sotto l'effetto di uno shock violento. Poi vidi la mano indicare un angolo più vicino a me, dove erano disposti altri apparecchi simili a quelli connessi col cilindro.«Vede, Wilmarth» bisbigliò la voce «vi sono lì quattro specie di apparecchi; ogni specie rappresenta tre facoltà, il che fa dodici pezzi in tutto. Debbo avvertirla che i cilindri dello scaffale rinchiudono i cervelli di quattro differenti tipi di esseri: tre uomini, sei creature fungoidi che non possono attraversare lo spazio corporalmente, due abitanti di Nettuno e alcune entità originarie di un'altra galassia. Nel principale avamposto terrestre di Quelli-di-Fuori, all'interno della Round Hill, si trovano altri cilindri e altre macchine: i cilindri contengono cervelli extra-cosmici provvisti di sensi diversi da quelli che noi conosciamo, appartenenti ad alleati o esploratori venuti dalle regioni più remote dello "Spazio di fuori". Le macchine sono concepite in modo tale da fornire a chi ne usufruisce diversi tipi d'impressioni e sensazioni, e sono adattate alle facoltà di molte razze diverse. Round Hill, come la maggior parte degli avamposti di Quelli-di-Fuori, è un luogo senz'altro cosmopolita! A me, naturalmente, hanno prestato solo degli esemplari piuttosto comuni. «Prenda i primi tre apparecchi da sinistra, là nell'angolo, e li metta sulla tavola: il più grande, con due lenti anteriori, e i due più piccoli. Ecco. Adesso prenda il cilindro segnato B-67. Salga su quella sedia per arrivare allo scaffale. Cerchi di non sbagliare: prenda proprio il B-67. Badi a non urtare quel cilindro nuovo collegato ai due apparecchi sull'altro ripiano, e che porta il mio nome. Posi il B-67 sulla tavola, poi verifichi che l'ago del quadrante principale, in tutte e tre le macchine, sia all'estrema sinistra. «Adesso, colleghi il filo dell'apparecchio con le due lenti all'alveolo superiore del cilindro... così, benissimo! Colleghi ora il primo degli altri due apparecchi, quello con i tubi di vetro, all'alveolo di sinistra, e il secondo all'alveolo di destra... Ora sposti l'ago di tutti i quadranti all'estrema destra: prima l'apparecchio con le due lenti... poi gli altri...Perfetto! Ho il piacere di dirle che adesso siamo in presenza di un essere umano come lei e me. Domani le farò sentire qualche altro esemplare.» Ancora oggi non so dire perché eseguissi docilmente quegli ordini, e se pensassi che Akeley fosse pazzo. Dopo tutto ciò che avevo ascoltato, avrei dovuto aspettarmi qualsiasi cosa; ma quella messa in scena era tanto in carattere con le divagazioni caratteristiche degli inventori usciti di senno da farmi nascere dei dubbi che neppure il discorso precedente aveva suscitato. Il sussurro faceva pensare a realtà che trascendevano i limiti della comprensione umana... eppure tutto quello a cui avevo assistito non apparteneva a regioni ancora più remote rispetto alla comune esperienza? Apparivano meno assurde soltanto perché erano sottratte alla possibilità di essere provate in modo concreto e tangibile. Mentre la mia mente si perdeva in quel caos, percepii un ronzio stridulo proveniente dagli apparecchi, seguito subito da un silenzio quasi assoluto. Cosa sarebbe successo? Avrei sentito una voce? E in tal caso che prova avrei avuto che non si trattasse, in sostanza, di un qualsiasi apparecchio fonografico?Quest'ultima prova, comunque, la ebbi subito: perché la voce che finalmente si udì mi apostrofò in modo da non lasciarmi dubitare che il suo possessore mi stesse osservando. Era una voce stridula, metallica, artificiale: incapace di inflessioni o di sfumature, pronunciava le parole con una lentezza e una precisione inesorabili.«Signor Wilmarth, prego, si rimetta a sedere... Ecco, sì... Non c'è ragione che si spaventi... Sono un essere umano esattamente come lei, ma il mio corpo è a più di cinque chilometri da qui, all'interno della Round Hill. Io sono qui con voi: il mio cervello è in questo cilindro, e io vedo, sento e parlo come voi. Fra una settimana accompagnerò Akeley nel suo primo viaggio, e sarei felicissimo se lei acconsentisse a unirsi a noi; la conosco di vista e di fama, e ho seguito molto da vicino la corrispondenza col nostro amico. Naturalmente, sono uno degli uomini che hanno concluso un patto d'alleanza con i nostri visitatori dello "spazio esterno", che ho incontrato per la prima volta sull'Himalaya. «Riuscirà a capire il senso della mia affermazione quando le dirò di essere stato su trentasette corpi celesti - pianeti, stelle buie, oggetti dello spazio che è impossibile definire con precisione - otto dei quali si trovano al di fuori della nostra galassia e due oltre i confini spaziotemporali del nostro cosmo spazio-temporale. Non ne ho riportato alcun danno. Il cervello mi è stato asportato dal corpo con tanta destrezza che sarebbe rozzo definire l'intervento una operazione chirurgica. Esistono metodi per estrarre il cervello in modo facile, quasi naturale; il corpo, finché ne è privo, non invecchia. Le facoltà del cervello sono potenzialmente immortali, e basta poco nutrimento fornito mediante il ricambio periodico del liquido conservante. Per questo mi auguro di tutto cuore che lei accetterà di unirsi al signor Akeley per accompagnarmi. I nostri visitatori hanno un vivo desiderio di conoscere uomini di scienza come lei, e mostrare loro i grandi abissi che la maggior parte di noi ha dovuto accontentarsi di sognare. Il primo contatto con quelle creature può apparire strano, ma so che lei non se ne preoccuperà eccessivamente. Forse verrà anche Noyes, che credo conosca. Non è lui che l'ha condotta qui con la sua macchina? Sono anni che è dei nostri: suppongo che abbia riconosciuto la sua voce nel rullo di Akeley.» Sussultai così violentemente che la voce tacque per un momento, poi concluse: «Signor Wilmarth, è lei che deve decidere. Tuttavia, mi permetta di aggiungere che un uomo di scienza del suo calibro non dovrebbe perdere una simile occasione. Ed ora, buona notte. Riprenderemo questa conversazione domani. Riporti l'ago di tutti i quadranti a sinistra, non importa in quale ordine. Buona notte, Akeley. Allora, signor Wilmarth? Stacchi i fili».Obbedii meccanicamente, benché il mio cervello si rifiutasse di ammettere ciò che era avvenuto. La testa mi girava ancora quando udii Akeley chiedermi di lasciare tutti gli apparecchi sulla tavola. Senza fare il minimo commento sui discorsi che avevo ascoltato, si limitò ad aggiungere che potevo portare la lampada in camera mia, dal che conclusi che desiderava riposare da solo al buio. Era ora, infatti, che si riposasse un po', poiché i suoi discorsi del pomeriggio e della serata avrebbero esaurito anche un uomo robusto. Ancora del tutto intontito, augurai la buona notte al mio ospite e salii la scala con la lampada in mano, malgrado avessi conme una eccellente torcia elettrica. Giunto in camera mia provai un certo sollievo, se non altro per aver lasciato la torbida atmosfera dello studio, lo stranissimo odore e quella continua, misteriosa vibrazione. Ma presto sentii rinnovarsi il mio terrore, pensando al luogo in cui mi trovavo e alle forze che mi circondavano. La regione solitaria e selvaggia, il dirupo coperto di boschi neri che si ergeva dietro la casa, le impronte sulla strada, il malato che bisbigliava nelle tenebre, le macchine e i cilindri infernali, l'invito a subire un'inconcepibile operazione chirurgica per intraprendere un viaggio ancora più inconcepibile: tutto ciò si accavallava confusamente nel mio cervello con una violenza che indeboliva la mia volontà e la mia forza fisica. Il fatto che la mia guida, Noyes, fosse l'officiante umano del rito registrato sul rullo, mi sconvolgeva in modo particolare. D'altra parte, non ero meno turbato dal mio atteggiamento nei riguardi del mio ospite: durante il nostro scambio di lettere avevo provato una simpatia istintiva per Akeley, ma adesso mi ispirava una vera repulsione. La sua malattia, anziché muovermi a pietà, mi faceva fremere di disgusto. Era rigido come un cadavere e la sua voce sussurrante aveva veramente qualcosa di disumano...
    Pensai che quel terribile sussurro era diverso da tutto ciò che avevo sentito in vita mia: malgrado la singolare immobilità delle labbra sotto i baffi grigi, esprimeva una forza e una vigoria notevoli per un asmatico. Avevo sentito bene il mio ospite quando mi trovavo all'altra estremità della stanza, e, a due riprese, mi era sembrato che la debolezza della sua voce fosse "voluta". In principio il suo timbro mi era parso inquietante, perché strano; ma adesso, a rifletterci, mi pareva che il mio disagio fosse dovuto a un'impressione di sinistra familiarità della quale non riuscivo assolutamente a determinare l'origine. Una cosa era certa: non avrei passato una seconda notte sotto quel tetto. La mia curiosità era ormai superata dal disgusto. Non rimaneva in me altro desiderio che di fuggire quel focolaio di mostruose presenze e di rivelazioni aberranti. Ne sapevo abbastanza, ormai. Deve esser vero che è possibile stabilire contatti cosmici con altre entità: ma non sono esperienze per un essere umano normale, nessun dubbio in merito. Empie influenze mi avvolgevano da ogni parte, sottoponendomi a una pressione soffocante. Avevo sonno, ma sapevo che non mi sarebbe riuscito di dormire neanche se avessi voluto. E naturalmente non volevo affatto. Spensi la lampada e mi gettai sul letto vestito, tenendo a portata di mano la torcia elettrica e la rivoltella che avevo con me. Nessun rumore veniva dal pianterreno, dove immaginavo che il mio ospite fosse seduto, rigido e inerte, nelle tenebre dello studio. Un orologio batté le ore da qualche parte, e quel suono normale mi riempì di un vago sentimento di gratitudine. Ma rese più pesante, quando cessò, l'assoluto silenzio che regnava nella fattoria e che sembrava dominare anche le campagne circostanti: come se non soltanto gli uomini, ma anche tutti gli animali avessero abbandonato la zona. All'infuori di un sinistro mormorio di acque lontane, il silenzio era assoluto...interplanetario. Chi poteva dire quale presenza malefica, intangibile, di origine stellare si librasse sopra la regione? Mi venne in mente, ricordando antiche leggende, che i cani e gli altri animali avevano sempre odiato Quelli-di-Fuori; pensai al possibile significato di quelle tracce sulla strada.

    Parte 8 >

    Edited by & . - 24/6/2020, 20:26
     
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