Colui che sussurrava nelle Tenebre - HP Lovecraft

Pt. VIII

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  1. Cavagar
         
     
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    Non domandatemi se e per quanto tempo dormii, né quanta parte di ciò che segue tu un sogno. Se dicessi che mi svegliai a una data ora, che vidi e udii certe cose, mi rispondereste che in realtà non mi svegliai affatto; rispondereste che fu tutto un sogno fino al momento in cui mi precipitai fuori, raggiunsi barcollando la rimessa dov'era la vecchia Ford e iniziai una corsa pazza, cieca, attraverso le colline infestate, per arrivare finalmente, dopo aver corso due ore in un labirinto di foreste, a un villaggio che risultò essere Townshend.

    Naturalmente, potreste dare un'interpretazione diversa a tutto quello che ho raccontato: le fotografie, le impronte sulla strada, i cilindri, le macchine... Potreste insinuare che Henry Akeley si fosse messo d'accordo con un originale per architettare un imbroglio assurdo e complicato, che per esempio fece rubare lui stesso la cassa contenente la pietra nera, e che chiese a Noyes di incidere quel rullo al dittafono... Tuttavia, è strano che non si sia mai riusciti a identificare Noyes; che nessuno lo conoscesse nei villaggi vicini, mentre doveva esservi andato molto spesso. Mi dispiace di non ricordare il numero di targa della macchina... D'altra parte, è forse meglio che la mia memoria non l'abbia registrata. Perché, malgrado ciò che voi potrete dire, malgrado ciò che io stesso cerco di dirmi, vivo ormai nel terrore che forze spaventevoli si nascondano nelle colline inesplorate, e so che potrebbero raggiungermi attraverso le loro spie e i loro emissari del mondo degli uomini.

    Quando ebbi raccontato la mia incredibile storia allo sceriffo di Townshend, questi partì per la fattoria con una pattuglia di uomini armati; ma arrivando constatò che Henry Akeley non era più lì. La sua veste da camera, la sciarpa gialla, le bende, giacevano sul pavimento dello studio, vicino alla poltrona, e non si poté accertare se altri indumenti fossero spariti con lui. Non c'erano effettivamente cani, bestiame o volatili, e si vedevano fori di pallottole all'esterno come all'interno della casa. A parte questo, non si scoprì nulla di straordinario: niente cilindri, niente macchine, nessuno dei documenti che avevo portato nella mia valigia, niente odore strano né vibrazioni, nessuna impronta sulla strada.

    Rimasi un certo tempo a Brattleboro per condurre un'indagine presso tutte le persone che avevano conosciuto Akeley e potei concludere che la faccenda, almeno nella sua parte verificabile, non era il frutto di fantasticherie o di deliberate invenzioni da parte dello stesso Akeley. Tutti sapevano dei suoi acquisti di cani e di munizioni; tutti sapevano che la sua linea telefonica era stata tagliata a più riprese. La maggior parte delle persone da me interrogate - compreso suo figlio in California - affermarono che gli accenni da lui fatti alle strane cose che accadevano nella zona, e specialmente nella sua fattoria, erano perfettamente coerenti. E sebbene non mancasse chi lo giudicava un po' matto e affermava senza esitazione che le cosiddette prove erano burle escogitate con perversa astuzia e forse perpetrate con l'aiuto di complici, potei accertare che i più vecchi abitanti del posto avevano preso molto sul serio i suoi racconti. Akeley aveva mostrato loro le fotografie e la pietra nera, e fatto ascoltare la registrazione sul rullo. Essi giurarono che le impronte e le voci ronzanti corrispondevano esattamente alle descrizioni delle leggende locali.

    Secondo loro, i rumori sospetti si erano moltiplicati nei dintorni della fattoria di Akeley in seguito alla sua scoperta della pietra. La Round Hill e la Montagna Nera, d'altra parte, avevano fama di essere infestate da tempo immemorabile, e non potei trovare nessuno che le avesse esplorate. Diversi abitanti della zona erano effettivamente scomparsi negli ultimi anni, e a questi s'era aggiunto recentemente Walter Brown, l'uomo menzionato nelle lettere di Akeley. Incontrai anche un vecchio fattore che assicurava di aver scorto un mostro nelle acque del West River, l'indomani dell'inondazione, ma il suo racconto era troppo incoerente perché potessi cavarne qualcosa di preciso.

    Partendo da Brattleboro giurai di non ritornare mai più nel Vermont, e sono sicuro che manterrò la mia decisione. Quelle colline selvagge sono l'avamposto di una terrificante razza cosmica, è certo: ne ho più che mai la sicurezza da quando, in conformità con le predizioni dei mostri, è stato scoperto un nuovo pianeta al di là di Nettuno. Gli astronomi l'hanno battezzato Plutone senza rendersi conto quanto gli si adatti quel nome! Sono profondamente convinto che altro non è che Yuggoth, e rabbrividisco chiedendomi perché, in base a quale piano, i mostri ne abbiano consentito la scoperta.

    Ma mi resta ancora da riferire - quale che sia il giudizio che se ne darà - la fine di quella terribile notte nella fattoria di Akeley. Come ho detto, caddi senza accorgermene in un sonno agitato, popolato di visioni confuse in cui ritornavano senza tregua paesaggi mostruosi. Ancora oggi non so che cosa mi svegliò: sono comunque certo di essermi svegliato a un dato momento. Da principio mi parve di sentire scricchiolare l'impiantito del corridoio davanti alla mia porta, e mi sembrò che una mano maneggiasse maldestramente la maniglia. Ma fu la vaga impressione di un attimo: le sensazioni veramente precise cominciarono con un rumore di voci che percepii nello studio sotto di me. Sembrava che ci fossero parecchi interlocutori, impegnati in una discussione molto vivace.

    Dopo aver ascoltato per qualche secondo, mi resi conto di essere sveglio del tutto, giacché il tipo di voci scacciava definitivamente ogni possibOità di sonno. I timbri erano molti e variati e, per me che avevo ascoltato l'orribile registrazione sul rullo, non poteva sussistere il minimo dubbio sulla natura di almeno due di esse: erano gli immondi ronzii usati da Quelli-diFuori per comunicare con gli uomini. Differivano rispetto all'altra per tono, ritmo e accento, ma avevano entrambe la stessa qualità disumana.

    La terza proveniva evidentemente da una macchina parlante collegata a uno dei cilindri: dopo ciò che avevo ascoltato poche ore prima non potevo sbagliarmi sulla natura di quella voce metallica, stridente, incapace di inflessioni o di sfumature.

    Per un attimo, non dubitai che l'intelligenza che emetteva i suoni fosse la stessa che mi aveva parlato qualche ora prima; poi mi dissi che qualsiasi cervello doveva esprimersi negli stessi toni, una volta collegato alla medesima macchina. Altre due voci, umane, prendevano parte al colloquio: una era una voce rozza, da contadino, l'altra era quella di Noyes.

    Sforzandomi di distinguere le parole, percepii nello studio una certa agitazione, come se la stanza fosse stata piena di gente che scalpicciava tutt'intorno. Ma era come se i nuovi venuti fossero calzati in modo strano, perché non riesco a definire il fruscio che facevano. Certo erano esseri consapevoli, ma il suono dei passi assomigliava a uno scalpiccio prodotto da una superficie larga e dura, come se si scontrassero superfici di corno e gomma rigida. Per usare un paragone concreto, sebbene non troppo preciso, pareva che sul pavimento di legno lucido strusciassero e scalpicciassero persone con i piedi calzati in larghi zoccoli di legno scheggiati. Non tardai a figurarmi l'aspetto e la natura delle entità che producevano quei rumori.

    Mi resi conto che sarebbe stato impossibile afferrare appieno il senso dei discorsi. Parole isolate (fra cui il mio nome e quello di Akeley) arrivavano tuttavia al mio orecchio, soprattutto quando erano pronunciate dalla macchina parlante, ma non riuscivo a coglierne il senso in mancanza di un contesto coerente. Oggi mi rifiuto di formulare una teoria sulla base di tali dati; avevo la sensazione che quei suoni suggerissero, non rivelassero.

    Sotto di me si svolgeva un incontro terribile e anomalo, di questo ero certo, ma di che cosa si discutesse non avrei saputo dire. Era strano: sebbene Akeley mi avesse rassicurato sulle intenzioni pacifiche di quegli esseri, mi sembrava di percepire una presenza malvagia, empia. A poco a poco potei cogliere delle intonazioni caratteristiche: per esempio, una delle voci ronzanti era piena di autorità; la voce meccanica, malgrado la sua regolarità artificiale, sembrava implorare umilmente; il tono di Noyes rivelava un vivo desiderio di conciliazione. Non udivo più il sussurro familiare di Akeley, ma mi rendevo conto che un simile suono non avrebbe potuto attraversare il pavimento della mia camera.
    Cercherò di mettere sulla carta alcune di quelle parole e alcuni dei suoni che mi giunsero, individuando per quanto possibile i differenti interlocutori.

    (La macchina parlante.)
    “...l'ho portato io stesso... rinviato le lettere e il rullo... fine di questo affare... ingannato... visto né inteso... forza impersonale... nuovo cilindro, gran Dio!...”
    (Prima voce ronzante.)
    “...tempo di mettere fine... piccolo e umano... Akeley... cervello... ha detto...”
    (Seconda voce ronzante.)
    “...Nyarlathotep... Wilmarth... il rullo e le lettere... menzogna penosa...” (Noyes.)
    “(parola o nome impronunciabile, forse N'gah-Kthun)... inoffensivo... in pace... due settimane... messa in scena... ve l'ho già detto...”
    (Prima voce ronzante.)
    “...nessuna ragione... progetto primitivo... Noyes può sorvegliare...
    Round Hill... nuovo cilindro... macchina di Noyes...”
    (Noyes.)
    “...parola mia... completamente a voi... qui... riposare...”
    (Parecchie voci pronunciavano contemporaneamente parole indecifrabili... Rumore di passi, compreso lo strano fracasso di ciabatte e zoccoli... Una specie di battito d'ali... Rumore di un motore avviato e di un'automobile che si allontana... Silenzio.)

    Ecco l'essenziale di ciò che udii, sdraiato sul letto nella fattoria infestata, fra le colline infernali, stringendo una rivoltella nella mano destra e una torcia elettrica nella sinistra. L'ho già detto, ero sveglissimo; ma una specie di paralisi mi costrinse a rimanere immobile per parecchio tempo dopo che gli ultimi echi di quella conversazione si furono spenti. Sentivo il tic-tac della vecchia pendola al pianterreno, e, a un certo punto, riuscii a distinguere il russare di un dormiente: Akeley, supposi.
    Non sapevo assolutamente cosa pensare né cosa fare. Dopotutto quel colloquio non avrebbe dovuto sorprendermi, date le informazioni precedenti. Se Quelli-di-Fuori entravano liberamente nella fattoria, non dovevo stupirmi che il mio ospite avesse ricevuto, per quanto inaspettatamente, la visita di alcuni di loro... Eppure ciò che avevo udito mi aveva sconvolto, suscitando in me i più agghiaccianti sospetti. Il mio subcosciente doveva aver percepito una cosa che coscientemente non avevo ancora identificato.
    Ma quale parte Akeley aveva in tutta questa storia? Non era mio amico? Non avrebbe protestato se gli altri avessero tramato qualcosa contro di me? Il tranquillo russare che saliva dallo studio era senz'altro in contrasto con le mie paure.

    Ma non era possibile che il mio ospite fosse stato ingannato, e che fosse servito da esca per attirarmi sulle colline con le lettere, le fotografie e il rullo? Quei mostri avevano forse progettato di eliminarci entrambi perché ne sapevamo troppo? Pensai di nuovo al brusco cambiamento di situazione che pareva essersi verificato fra la penultima e l'ultima lettera di Akeley, e mi convinsi che quest'ultimo era stato ingannato. Pensai al gusto amarognolo del tè che avevo trovato nel termos, preparato probabilmente da Noyes, e che mi rallegrai di non aver bevuto. Era necessario che parlassi subito col mio ospite, per riportarlo alla ragione. I suoi visitatori l'avevano affascinato con le loro promesse di rivelazioni cosmiche, ma egli adesso doveva ascoltarmi e lasciare quei luoghi con me prima che fosse troppo tardi. Se poi non fossi riuscito a convincerlo, me ne sarei andato da solo. Mi avrebbe certamente permesso di prendere la sua Ford, che avrei lasciato in un garage a Brattleboro. Avevo notato che la porta della rimessa era aperta, e speravo che la vecchia vettura funzionasse. La mia passeggera antipatia per Akeley era scomparsa. Eravamo tutti e due nella stessa situazione: dovevamo sostenerci a vicenda. Mi dispiaceva svegliarlo, date le sue condizioni di salute, ma non potevo fare altrimenti. Mi era impossibile restare inattivo un momento di più.

    Mi stirai per riprendere il controllo dei muscoli e mi alzai senza far rumore. Presi la valigia e discesi la scala alla luce della lampada. La tenevo con la mano sinistra insieme alla valigia e stringevo la rivoltella nella mano destra, ma ero convinto che gli altri fossero andati via e che l'unico occupante della casa, oltre me, fosse Akeley.

    Arrivato in anticamera sentii russare più distintamente e constatai che il dormiente doveva trovarsi nella stanza alla mia sinistra, la sala in cui non ero ancora mai entrato. Alla mia destra si apriva lo studio immerso nelle tenebre. Spinsi la porta della sala e diressi il fascio luminoso della lampada in direzione di chi russava e infine lo proiettai sul viso del dormiente. Ma lo distolsi quasi subito, poi battei prudentemente in ritirata verso il corridoio, perché era Noyes, non Akeley, la persona che riposava sul divano.

    Non avrei saputo dire quale fosse la situazione reale: il buon senso mi consigliava di scoprire tutto il possibile prima di metter gli altri sull'avviso. Allora, dopo aver richiuso la porta della sala, entrai piano nello studio, dove mi aspettavo di trovare il mio ospite nella sua gran poltrona, sveglio o addormentato. Mentre avanzavo, il fascio della mia lampada si posò sulla tavola, illuminando uno dei cilindri infernali ancora collegato a due degli apparecchi che conoscevo: quello per vedere e quello per ascoltare; quello per parlare, invece, era staccato. Doveva trattarsi dell'"uomo ridotto" che avevo sentito partecipare alla conversazione, e per un momento ebbi la tentazione di innestare il terzo apparecchio per farlo parlare. Doveva essere consapevole della mia presenza; impossibile, infatti, che gli apparecchi sensori della vista e dell'udito non avessero captato il fascio di luce della torcia e il lieve scricchiolio del pavimento sotto i miei passi. Poi notai che il cilindro era quello col nome di Akeley, che avevo già visto sulla scansia e che il mio ospite mi aveva chiesto di non toccare. (Adesso non so se debba rammaricarmi della mia esitazione, o se debba invece rendere grazie al cielo di non aver ceduto a quell'impulso!) Dio solo sa quali misteri, quali dubbi orribili, quali problemi di identità sarebbero stati chiariti. Chissà? Forse è stato provvidenziale non farne nulla.

    Proiettai quindi la luce verso l'angolo in cui credevo di trovare Akeley, ma constatai con sorpresa che la poltrona era vuota. La vestaglia era stesa metà sulla poltrona, metà sul pavimento; vicino c'erano la sciarpa gialla e le bende che mi avevano fatto un così curioso effetto. Mentre mi domandavo dove potesse essere il mio ospite e perché avesse abbandonato i suoi indumenti da malato, mi accorsi di non sentire più nella stanza né odore né vibrazioni. Che cosa le aveva provocate? Mi colpì la curiosa costatazione che si producevano soltanto se Akeley era vicino. Fortissime dove se ne stava seduto, scomparivano ovunque tranne che nella stanza dove si trovava lui e subito fuori della soglia. Mi fermai facendo girare la torcia nello studio tenebroso, mentre mi lambiccavo il cervello nel tentativo di capire la piega che avevano preso gli avvenimenti.
    Ah, perché non abbandonai la stanza senza far rumore, prima di rivolgere di nuovo la luce sulla poltrona vuota? Non lasciai la stanza senza rumore, ma con un urlo soffocato, e fu quello l'ultimo suono che udii nella sinistra fattoria ai piedi della montagna infestata, in quel covo di orrori cosmici circondato da nere colline.
    Non so per quale miracolo non lasciai cadere la valigia, la lampada e la rivoltella durante la mia fuga precipitosa. Riuscii ad andarmene da quella stanza e da quella casa senza fare altro rumore, a raggiungere sano e salvo insieme alle mie cose la vecchia Ford nel garage e ad avviarla verso la salvezza nella notte nera e senza stelle. La corsa fu un'esperienza da incubo, degna di essere descritta dalla penna di un Poe, di un Rimbaud o di essere tracciata dalla mano di Doré, ma alla fine arrivai a Townshend. Ecco tutto. Sono fortunato di non aver perso la ragione. Talvolta pavento quanto ci porteranno gli anni futuri, soprattutto da quando è stato scoperto il nuovo pianeta, Plutone.

    Prima di essere colto dal panico e dall'orrore, come ho detto, diressi di nuovo la luce della mia lampada sulla poltrona. Fu allora che notai per la prima volta, fra le pieghe dell'ampia vestaglia, tre oggetti che gli incaricati dell'inchiesta non trovarono durante la perquisizione dei luoghi. Non avevano, in se stessi, niente di particolarmente orribile, ma dalla loro presenza trassi una terrificante conclusione. Ancora oggi ho dei momenti di dubbio, dei momenti in cui mi sembra di poter sodalizzare con lo scetticismo di coloro che riducono la mia avventura a un sogno o a un'allucinazione.

    Quei tre oggetti, eseguiti con estrema abilità, erano provvisti di ingegnosi attacchi di metallo destinati a fissarli su strutture organiche circa le quali non oso formulare alcuna ipotesi. Vorrei credere anch'io di averli sognati, quegli oggetti di cera! Ma so che non è così.

    Gran Dio! L'essere che sussurrava nelle tenebre, circondato da un'aura di vibrazioni e quell'odore di muffa!... L'orrendo ronzìo... E durante tutto il tempo, all'interno del cilindro nuovo, sullo scaffale Akeley... Akeley, già "ridotto"!.
    Poiché, chiunque fosse l'essere mostruoso che m'aveva parlato dalla poltrona, quegli oggetti non erano altro che una riproduzione in cera delle mani e la faccia di Henry Wentworth Akeley.

    Edited by & . - 24/6/2020, 20:27
     
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