Il Cosmonauta del Diavolo (parte 6)

Due giorni

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    Jedi lumberjack from Dagobah

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    Quando mi svegliai stringevo ancora in mano il flacone delle pillole. Ce l’avevo stretto contro il petto nel bozzolo caldo del mio sacco a pelo. C’era un lieve ronzio proveniente dal tubo al neon sul soffitto che non avevo mai notato prima. Non era proprio un disagio, solo un fastidio, soprattutto perché mi ero appena svegliato. Lo studiai con attenzione, finché le mie retine furono segnate dalle bruciature blu della luce abbagliante. Chiusi gli occhi, cercando di liberarne il fondo da quell’impressione.

    Il sudore mi aveva impiastricciato il corpo, come succedeva sempre quando mi svegliavo; non vedevo l’ora di togliermi di dosso gli indumenti per dormire e farmi una doccia. Faceva sempre troppo caldo nel sacco a pelo.

    Sentii un rumore proveniente dall’esterno del piccolo box del mio compartimento. Un tonfo riecheggiante. Solo una reazione termica, mi dicevo, solo il metallo che si espande e si contrae all’esterno. Niente di più. Eppure me ne stavo immobilizzato al mio posto, pronto a captare qualsiasi altro rumore, nonostante mi dicessi che non c’era da aver paura.

    E arrivò un altro tonfo. Un altro profondo tonfo riecheggiante. La mia faccia deve essere impallidita, perché tutto il corpo si raggelò quando lo udii. Mi sembrò quasi di sentire il sangue schizzare via dalle mie vene.

    Iniziai a contorcermi nel mio sacco a pelo, cercando di liberarmi le braccia così da liberare gli agganci che mi impedivano di fluttuare per il compartimento durante il sonno. Mi stavo facendo male nel tentativo di uscirne, mentre i suoni all’esterno all’improvviso mi rendevano molto agitato.

    E arrivò il terzo tonfo. Questo non poteva essere solo un fatto casuale, non poteva essere dovuto solo alle espansioni termiche. Smisi di agitarmi per un secondo e ascoltai.

    Tunf. Eccone un altro. Era regolare, un qualche tipo di battimento ripetitivo. Veniva dal lato opposto della stazione, vicino al ponte di volo.

    Il successivo, però, suonava leggermente più vicino. E quello seguente anche di più. Gli intervalli tra i colpi iniziarono a diminuire, rendendoli ogni volta più vicini.

    Erano passi.

    Ero ancora allacciato nel sacco a pelo quando arrivai a realizzare questo; qualunque gelo potessi aver sentito correre lungo il mio corpo, in precedenza, impallidiva a paragone di questo. Era come se fossi caduto dal mio caldo compartimento per il sonno alle lande buie della Siberia, rotolando follemente nella caduta. La paura mi consumava e l’ansia mi faceva girare la testa.

    I passi si facevano più vicini. Sentii una leggera pausa quando raggiunsero lo scalino che faceva da transizione tra il ponte di volo e l’area abitativa. Avevo il corpo scosso dai brividi mentre armeggiavo con gli allacci, cercando di venirne fuori prima che la fonte dei passi, qualunque essa fosse, riuscisse a raggiungermi.

    La mente vacillava, incapace di superare il pensiero dei passi incombenti. Non poteva essere reale. Non poteva essere reale!

    Le cinghie si allentarono e strisciai fuori dal sacco, mentre i passi scuotevano l’intera stazione avvicinandosi, grandi colpi che si schiantavano sul pavimento, a pochi decimetri di distanza ormai. Stavo singhiozzando mentre mi avvicinavo alla maniglia della porta, tenendola serrata in un vano tentativo di impedire qualunque cosa ci fosse dall’altra parte, di entrare.

    Ci fu un ultimo passo e la fonte del rumore arrivò faccia a faccia con la porta del mio compartimento personale. Poi, silenzio. Potevo sentire il mio respiro pesante, mentre premevo l’orecchio contro la plastica della porta, cercando di sentire cosa ci fosse là fuori. Nulla, solo silenzio.

    Tunf.

    Qualcosa di pesante si abbatté contro la porta e io feci un salto all’indietro in preda al terrore, sbattendo testa e corpo contro la parete posteriore. L’impatto riecheggiò lontano e la stazione cadde nel silenzio, ancora una volta.

    Passarono diversi minuti prima che raccogliessi il coraggio di muovermi. Nemmeno un rumore aveva disturbato il silenzio fino ad allora e io ero stato costretto a sentire, terrorizzato, il suono del mio respiro leggero e disperato. Afferrai cautamente la maniglia e ascoltai. Ancora niente. Tutto sembrava tranquillo là fuori.

    Con un unico movimento inghiottii e aprii di scatto la porta scorrevole. Trasalii allo scricchiolio del suo meccanismo di scorrimento. La stazione mi si espandeva davanti agli occhi, apparentemente enorme e vuota. L’intero spazio era statico e quieto. Nulla là fuori. Rimasi lì per alcuni secondi, osservando come fa una gazzella allarmata con una pozza d’acqua, preoccupata dei predatori in agguato nell’erba alta.

    Lentamente mi trassi fuori. Mi sentivo come se fossi stato crivellato da centinaia di sguardi, tutti fissi su di me. La mia pelle mi diede d’improvviso la sensazione di una totale vulnerabilità. Qualunque cosa ci fosse là fuori, mi terrorizzava al di là di quanto immaginassi possibile. Mostrava quanto ingannasse l’apparenza.

    Lentamente iniziai a muovermi verso la cucina, lasciando scorrere la vista su ogni superficie, mentre sentivo il corpo debole e tremante. L’aria era calda, immobile, e il mio respiro si fece più regolare. Continuavo a lanciare occhiate tutto intorno, convinto che qualcosa mi stesse aspettando, appena fuori del mio campo visivo.

    “Penso ci sia qualcuno qui.” sibilai nella radio, mentre mi guardavo oltre la spalla. “Soyuz mi ricevete? Penso ci sia qualcuno qui.”

    La risposta che arrivò attraverso gli altoparlanti era crepitante e distorta, interrotta da occasionali stridii elettronici o dal ronzio dello statico, ma era riconoscibile. Si trattava del Concerto per Pianoforte numero 1 in si bemolle minore di Tchovisky, il ricordo proveniva da tanto tempo prima, da un tempo diverso. Nessuna parola, solo musica.

    “Soyuz-21, mi ricevete?” ripetei, mentre la musica si interrompeva e la trasmissione si dissolveva.

    “Comandante! Rispondimi!”

    Non c’era altro, eccetto una rapida raffica di note, di nuovo. Durò alcuni secondi, prima di fermarsi di nuovo. Piegandomi in avanti, esaminai il quadrante; come mi aspettavo, ero sulla frequenza corretta.

    “Per favore!” implorai, gli occhi pieni di pianto per la paura, la paura che il mio unico legame con il mondo esterno laggiù fosse stato reciso

    Nulla oltre la musica. Non si interruppe questa volta, continuò a suonare. Durò un intero minuto, prima che il suono si concludesse, prima che rimanessi un’altra volta immerso in un silenzio sconcertante.

    Intorpidito fin nel profondo, misi il microfono sul suo sostegno e mi tirai via dalla poltrona. Ero solo lassù. O forse no, anzi, eravamo soli, io e chiunque altro fosse lì.

    Non aveva senso, come avrebbe potuto esserci qualcun altro? Come avrebbe potuto esserci qualcuno sulla stazione senza che io lo sapessi? Non c’era alcun posto per nascondersi. Controllavo ogni centimetro dello spazio pressurizzato della nave ogni singolo giorno...

    Fu allora che mi colpì. C’era un solo posto dove non ero andato. Il compartimento notturno dell’Ingegnere di Volo Zholobov. Era rimasto indisturbato dal giorno in cui era partito. Mi girai rivolto in quella direzione, guardando la porta con un’intensità nuova e crescente di cui non ero stato capace in precedenza.

    Quando provai ad aprirla, era chiusa a chiave. Non riuscivo a ricordare se fossi stato io o Zholobov a chiuderla quel giorno, sebbene fossi certo di non sapere dove fosse la chiave, anche se comunque era ancora sulla stazione. Il buco della serratura era minuscolo. Non era largo abbastanza da guardarci attraverso e, anche in caso contrario, sarebbe stato troppo buio dall’altra parte per vedere qualcosa. Dovevo trovare un modo per aprire la porta.

    Per prima cosa mi fermai in cucina. Trovai il coltello. Era una lama di metallo con il manico di plastica piatto, lungo circa 20 centimetri, e luccicava allettante sotto le forti luci della stazione. Sfilai il fodero di plastica che copriva la lama e mi diressi verso la porta.

    Colpii la porta con il coltello con tutta la mia furia e la mia paura. La lama affondò forse due o tre centimetri, prima che la estraessi di nuovo per dare un’altra forte pugnalata alla plastica. Questa volta la lama penetrò meglio, entrando fino al manico, e quando lo tirai fuori la luce inondò il compartimento buio. Facendo scorrere la mano attorno alla cornice della porta per mantenermi in posizione, diedi un calcio violento e la plastica cedette, scheggiandosi. Era spessa soltanto un centimetro circa, perciò il mio piede riuscì a trapassare abbastanza facilmente tutto il materiale che il coltello aveva inciso prima, raccogliendo diverse schegge di plastica nell’operazione.

    Dopo aver ritirato il piede ormai crivellato di schegge e averle estratte, sfondai la porta che rimase precariamente appesa al sistema di scorrimento. L’interno del compartimento era un sepolcro buio, quasi identico al mio. Ma la puzza era terribile, odore di sangue rappreso e sudore e altre sostanze biologiche. Immaginai che il sangue, ormai non più che una chiazza coperta di ruggine sul sacco a pelo appeso a una parete, era uscito la notte che Zholobov aveva passato lì mentre aspettavamo che un Soyuz venisse a prenderlo. Gli avevo fasciato la mano abbastanza male e si erano riversati fluidi di un cremisi scuro e di un giallo traslucido per tutta la notte. Soffriva talmente tanto che potevo quasi sentirlo dall’esterno del compartimento, mentre sussurrava tra sé e di tanto in tanto singhiozzava.

    Ero stato io a dovermi assumere il macabro incarico di raschiar via le sue dita dall’interno del portello della camera di compensazione.

    Tutto questo mi tornò alla mente mentre mi attardavo nervosamente all’entrata del suo compartimento. Girai l’interruttore e una piacevole luce arancione si riversò sulla scena accompagnato da un ronzio rassicurante. La prima cosa che notai furono i flaconi delle pillole. Ce n’erano almeno dieci che fluttuavano in prossimità del pavimento, con le loro etichette brillanti che riflettevano bagliori. Ne raccolsi uno e guardai la carta lucida. Antidolorifici Generici.

    Mi uscì un basso fischio; c’erano abbastanza antidolorifici da stordire un elefante, o meglio, avrebbero potuto esserci, se le boccette non fossero state tutte vuote. Li aveva presi tutti Zholobov? Ne era dipendente?

    Mi si formò un’altra possibilità in testa. Li aveva presi tutti in un’unica volta? Si era preparato per un incidente? Si era deliberatamente mozzato le dita? Con quel quantitativo di antidolorifici, non avrebbe sentito alcun dolore quando quel portello gli fosse piombato sulla mano.

    Cominciai a frugare l’ambiente, preoccupato di cos’altro avrei potuto trovare. Il fetore di odori corporei era intenso, immagino avessero fermentato lì per un pezzo. Poi trovai il blocco per appunti. Era avvolto in carta marrone e, quando lo trovai, rimasi un po’ perplesso. Era piccolo, all’incirca della misura del mio palmo, e aveva una copertina nera.

    Aprendolo ad una pagina a caso, scoprii che recava i tipici scarabocchi che Zholobov chiamava calligrafia. C’era scritto:

    17 luglio

    Boris si è svegliato alle 5:45 ALMT. Alle 5:49 ALMT si è fatto la doccia per 12 minuti. Quando ha finito, si è rasato per 5 minuti ca. Ha trascurato diversi punti. Ha lasciato il compartimento doccia alle 6:05 ALMT, diretto all’area abitativa. Ha bevuto 200 ml ca. di acqua, ha fatto colazione.

    E via di seguito. Mi venne da vomitare. Riguardava me. Si trattava di una relazione dettagliata delle mie attività quel giorno, fino alla trascrizione delle nostre conversazioni. Girai alla pagina successiva e, come prevedevo, c’era una descrizione delle mie azioni del 18 luglio. Erano descritte con agghiacciante precisione, dalla durata del tempo che passavo in bagno a come mangiavo e bevevo. Era quasi clinico. Scorrendo le pagine del blocco, c’era un’annotazione al giorno, da quando eravamo partiti da Baikonur fino a tre giorni prima dell’incidente. Sentivo un groppo alla gola, tutta la simpatia che avevo provato per il mio Ingegnere di Volo si stava esaurendo rapidamente. Qualunque cosa fosse, era qualcosa di disgustoso e invadente.

    Lentamente, freddamente, avvolsi di nuovo il blocco nella carta, lo rimisi sullo scaffale e indietreggiai verso l’area abitativa. Qualunque cosa stesse succedendo lì, Zholobov era coinvolto. La vera domanda era perché avesse smesso. Sicuramente piantare il tutto appena due giorni prima dell’incidente non poteva essere una coincidenza.

    “Ops-3, mi ricevi? Prego, conferma. Ops-3?” la radio stava latrando dietro di me. La ignorai, restando a guardare il compartimento, a bocca spalancata. Quanto a lungo era andata così? Non lo sapevo. Tuttavia, non mi affrettai a rispondere alla trasmissione del Comandante Zudov. Mi mossi lentamente, senza uno scopo definito, tenendo gli occhi fissi al compartimento per dormire.

    “Che cazzo!” imprecai con forza nel microfono “Dove siete stati?”

    “Puoi ripetere, Ops-3? Non ho capito.”

    “Perché avete ignorato le mie trasmissioni, Soyuz?” La rabbia gorgogliava nella mia voce, ma cercai di mantenerla sotto controllo al pensiero di chiunque avrebbe potuto ascoltare, al ritorno sulla Terra.

    “Ops-3, non abbiamo ricevuto alcuna tua trasmissione da ieri…?”

    “È una menzogna. Stavate trasmettendo quella musica.”

    “Ascolta, Ops-3, ho parlato con l’Ingegnere di Volo Rozhdestvensky. Siamo entrambi molto preoccupati per te. Pensiamo che forse potresti avere avuto una forma di esaurimento.”

    “Esaurimento?” mormorai lentamente. “No. Non ho avuto...”

    “È perfettamente comprensibile nella tua situazione, Boris. Perfettamente normale.” disse Zudov con fare suadente, la sua voce era lenta e gentile. “Nessuno dà la colpa a te. È tutto lo stress al quale sei stato sottoposto.”

    “Un esaurimento.” ripetei un’altra volta. Era possibile? Stavo forse diventando matto?

    “Sì, sei stato lassù da solo troppo a lungo. Hai iniziato a immaginare cose. Hai iniziato a vedere cose.”

    “Ne sei sicuro?”

    “Forse dovresti tornare prima, Boris. Forse dovremmo venire noi ad aiutarti.” Qualcosa nella voce di Zudov suggeriva una malignità nascosta nelle sue parole, non più nascosta dalla sua cordialità forzata, una farsa che egli stava mantenendo in piedi con grande sforzo. Mi fece venire i brividi lungo la schiena.

    “No, non sarà necessario.”

    “Penso di sì, invece, Boris. Penso che dobbiamo impostare la rotta della Salyut-5, subito.”

    “No! Voglio dire, non intendo compromettere la missione.” Emisi un sogghigno nervoso. “La missione, è questa la cosa importante.”

    Zudov restò in silenzio per un secondo, soppesando i miei commenti. La stazione riecheggiava del suono dello statico. Pregai che fosse d’accordo a restare da parte per altri due giorni. C’era qualcosa riguardo a Zudov, qualcosa che avevo notato solo in quel momento, che mi terrorizzava; più gli stavo lontano, meglio era.

    “Sì. Naturalmente ce la puoi fare per due giorni. Dovresti farti un po’ di riposo, però. Prendi i sonniferi. Sembri stanco.”

    “Lo farò. Ci vediamo tra due giorni, allora.”

    “Riposati, Boris. Ci saremo di nuovo prima che tu te ne renda conto.” Per quanto si era rivolto a me usando il mio nome? Era contro il protocollo. “Andrà tutto bene.”

    Rimisi il microfono sul sostegno e inghiottii nervosamente. Due giorni, bloccato qui. Al momento non ero sicuro di quale fosse l’opzione peggiore, tra l’essere intrappolato qui, o essere intrappolato sulla Soyuz, con il mellifluo Zudov.

    Rimuginai su ciò che aveva detto. Mi sembrava del tutto possibile che stessi avendo un esaurimento. Le cose che avevo visto, le cose che avevo sentito. Non poteva essere reale, non potevano esserlo. Dei passi non sono possibili in microgravità. Questo è ciò che mi dissi.

    Ma l’implicazione che fosse tutta un’allucinazione era ugualmente sinistra. Stavo impazzendo? Tutto era sembrato così reale quando era accaduto. Il blocco per appunti sembrava reale. I passi non potevano essere soltanto nella mia immaginazione, no? E il filtro a carbone? Si era davvero sfilato dalla sua conduttura, dopo tutto?

    Questo avrebbe spiegato perché il computer non aveva identificato alcun guasto. Erano tutti nella mia testa.

    C’era un solo modo a prova di bomba per provare tutto, naturalmente. Potevo tornare al compartimento di Zholobov. Potevo scartare il pacchetto marrone e guardare il blocco note. Se non fosse stato tutto un’allucinazione alimentata dalla paranoia, le scritte ci sarebbero state ancora. Se fosse stato tutto nella mia testa, sarebbero sparite, o meglio ancora, sarebbe stato il blocco note a non esserci affatto.

    Naturalmente non è mai così semplice. Strappai la carta marrone ed eccolo lì. Con una reticenza nauseata aprii la prima pagina e fui sicuro che le annotazioni erano ancora lì. Il mio stomaco crollò. In un impeto di rabbia lanciai il libercolo attraverso la stanza. Sbatté contro la parete più lontana, poi galleggiò via.

    Non c’era altro che potessi fare allora. Era stato lì, tra le mie mani. Solido e reale. Il che significava che mi rimanevano due opzioni. O non ero allucinato e il libello era reale, oppure ero sceso lungo la tana del coniglio nella mia testa, più a fondo di quanto pensassi. Sfortunatamente, entrambe le possibilità erano terrificanti.

    Mi decisi, avevo bisogno di altro tempo per capire cosa fare. Avevo bisogno di dipanare la matassa nella mia testa. Dovevo fare qualcosa al riguardo. Non potevo più restare paralizzato dall’inattività, non avrei potuto sopportarlo.

    Lentamente attraversai di nuovo l’ambiente, diretto verso la cucina, le mani che tremavano mentre spingevo il mio corpo attraverso l’aria. Per tutto il tempo sentii martellarmi in testa il pulsare del sangue. Non ero più sicuro di cosa fosse reale. Poi mi ricordai. Le pillole. Zudov mi aveva detto di prendere le pillole. Forse ero stanco. Zudov non mi aveva mai mentito prima, considerai. Non mi avrebbe mai detto qualcosa che potesse mettermi in pericolo, sicuramente. Il comandante Zudov aveva a cuore ciò che era meglio per me. Era inutile. Non potevo bermi ancora quella stronzata di scusa riguardo al “meglio per me”. Sapevo di non potermi più fidare di quell’uomo. Non avrei prestato fiducia ad altre parole di velluto prodotte da quella bocca distante, né ad altre istruzioni ripetute attraverso il vuoto. Avevo chiuso, non l’avrei più ascoltato.

    Il dibattimento interiore era finito, tornai a respirare regolarmente e decisi di guardare il mio problema in maniera logica. Cercai di lasciar fuori il ricordo dei passi, del blocco note e del filtro, provando a guardare la questione da un punto di vista obiettivo. Praticamente era tutto ciò che potevo fare a quel punto.

    Potevo prendere le pillole.

    O potevo starmene seduto in preda al terrore e alla confusione per due giorni.

    Sapevo che, volente o nolente, avrei dovuto prendere le pillole a un certo punto. Non avrei potuto restare sveglio per altri due giorni, ma non riuscivo a dormire. Sapevo che il sonno naturale non era una possibilità. Non dopo tutto ciò che era successo.

    Così presi le pillole. Le inghiottii con un sorso d’acqua e in breve mi sentii andare alla deriva in un oceano di catrame nero e appiccicoso. Mi ci volle tutto il mio impegno anche solo per spingermi di nuovo verso il mio compartimento per dormire ed arrampicarmi nel sacco a pelo prima di affondare nel vischioso liquido nero della mia mente, prima di sentirlo impregnarmi la pelle e riempirmi i polmoni.

    Parte 7 >



    Edited by Rory - 28/10/2016, 17:56
     
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