Il Cosmonauta del Diavolo (parte 7)

Un giorno

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    Jedi lumberjack from Dagobah

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    Il sonno fu silenzioso e tetro, come al solito. Ancora una volta la notte trascorse senza sogni. Ancora una volta fui svegliato dal mormorio del tubo al neon. Tutto ciò mi dava l’inquietudine di un qualche orribile déjà-vu. Mi rodeva la bocca dello stomaco, tutta la consapevolezza, il ricordo, e la paura che potesse succedere ancora.

    Ma c’era anche qualcos’altro. Il pensiero che forse non ero solo lassù. Chiaramente qualcosa davvero non andava, riflettei, e fino a quel punto avevo fallito così male nella mia politica di ignorare la questione, che quasi mi sentivo male. Avevo bisogno di affrontarla, di scoprire la verità che si nascondeva dietro gli eventi occorsi lì, qualunque essa fosse.

    Mi tirai fuori del compartimento per dormire e mi guardai intorno. Mi occorsero uno o due secondi per vedere la scritta. Quando la vidi, tuttavia, mi si fermò il cuore. Era ovunque, lungo tutti i muri. Grossa e nera, era stata fatta spalmando una qualche sostanza nera, usando la punta di un pollice.

    Cristo.

    Rabbrividii a quello spettacolo, osservando qualcosa di completamente innaturale e completamente sconosciuto, era una raccapricciante conferma di qualcosa che era rimasto in agguato dentro di me per giorni. Era stato facile non aver paura dell’ignoto, quando l’ignoto era stato stipato in un posto sicuro nel fondo della mia mente, ora con l’ignoto in piena vista davanti a me in tutta la sua spaventosa gloria era impossibile negare il mio terrore.

    Le parole non avevano alcun significato, no, era la loro stessa esistenza che mi spaventava. Erano solo numeri o frasi sconnesse in russo, ma il fatto che ci fossero...

    Non poteva essere reale, decisi. Non poteva esserlo. Lentamente mi girai e mi trascinai di nuovo nel mio compartimento per il sonno. Feci scorrere la porta, richiudendola, e feci un respiro profondo. Era solo nella mia testa, non era reale. Lo stavo soltanto immaginando, le cose nella mia testa si stavano riversando sui muri della stazione.

    Quando avessi riaperto la porta, sarebbe sparito tutto, decisi. Le scritte sarebbero sparite. Era nella mia mente e avevo il controllo della mia mente. Avevo il controllo. Con un altro respiro, aprii la porta e guardai fuori, pregando che se ne fossero andate.

    Se n’erano andate. Le pareti erano spoglie. Era stato tutto nella mia testa. Cosa non andava in me? Lentamente, lasciando scorrere lo sguardo su ogni superficie per una qualsiasi traccia di segni neri, mi spinsi verso il ponte di volo e la trasmittente radio. Non potevo più farcela, dovevo chiamare la Soyuz. Dovevo andarmene. Se non l’avessi fatto, temevo, il danno sarebbe stato irreparabile e sarei rimasto intrappolato nel mondo delle mie allucinazioni, sospeso tra reale e irreale, per sempre.

    Quando attivai l’interruttore della trasmittente radio, tuttavia, qualcosa stava già venendo trasmesso dall’altra parte. Le luci verdi lampeggiarono, confermando che l’impianto era attivo, e appena lo fecero sollevai il microfono. Prima che potessi parlare, tuttavia, gli altoparlanti eruttarono una voce ruvida.

    “...avendo allucinazioni visive e uditive, insieme a paranoia e perdita di appetito.”

    Era Zudov. La sua voce mi rilassò. Nonostante le mie perplessità su di lui, sapevo che era lo stesso uomo con cui avevo parlato per tutto quel tempo. Le sue parole, d’altra parte, mi turbarono a dir poco. Chiaramente non erano rivolte a me. Con chi stava parlando? Non ero stato informato che le comunicazioni con il controllo a terra fossero state ripristinate e avevo specificamente detto al Comandante di farlo.

    “Continua a osservarlo.” Un’altra voce ora, non quella di Zudov, né quella dell’Ingegnere di Volo Rozhdestvensky. Dal momento che essi erano le uniche due persone sulla Soyuz-21, allora Zudov doveva parlare con qualcuno altrove. Qualcuno a terra. Ci fu il sibilo dello statico e il canale collassò in un segnale acustico privo di significato. Ascoltai furioso. Dovevo scoprire di chi stessero parlando, sebbene implicitamente sentissi di saperlo già.

    “...aria è contaminata?” Il canale si era ripristinato e l’altro uomo stava ancora parlando. Contaminata? Mi ero perso la prima parte della frase per colpa dell’interferenza, ma quella parola era sufficiente per sconvolgermi.

    “Sì, la concentrazione ha raggiunto il 21%.”

    “Prosegui con l’osservazione, Soyuz. Nient’altro.” Ci fu un sibilo e la voce dell’estraneo ammutolì.

    L’atmosfera si fermò. Inghiottii, il rumore sembrò assordante nel silenzio creatosi. Cos’avevo appena sentito? Di chi stavano parlando?

    Avevo l’ovvia risposta sulla punta della lingua, ma non osavo proferirla. Non osavo neppure pensarla. Era troppo pericolosa, troppo terrificante per essere compresa.

    Abbassai lo sguardo sull’impianto radio, e vidi qualcosa di agghiacciante. Il quadrante della frequenza era stato cambiato. Certamente non ero stato io a farlo, ne ero sicuro. Ciò significava che qualcuno o qualcosa d’altro era lì. Ciò significava che era tutto reale.

    Chiusi gli occhi e riportai il quadrante alla posizione usuale. Mi accolse il caldo sibilo dello statico, di tono diverso rispetto a quello dell’altro canale.

    Dovevo sapere. Dovevo sapere di chi stavano parlando. Dovevo sapere se ero solo lassù. Dovevo sapere se stavo impazzendo.

    “Soyuz-21? Rispondete, Soyuz-21?” chiesi alla fine, tenendo gli occhi fermamente serrati.

    “Riceviamo, Ops-3. Riceviamo forte e chiaro.”

    “Soyuz.” Iniziai, poi mi interruppi per prendere un respiro profondo. “Soyuz, avete avuto qualche comunicazione con il controllo a terra, finalmente?”

    Ci fu una pausa breve, pesante, prima che il Comandante Zudov parlasse. Quando lo fece, avrei potuto dire dal tono della sua voce che c’era un sorriso stucchevole sulla sua bocca.

    “Nessuna finora, temo, Salyut. Ancora disconnessi per colpa dei brillamenti solari.” Eccola, la grande menzogna. Il punto critico. Non appena quelle parole mi raggiunsero, quasi crollai dalla disperazione. Un leggero singulto mi sfuggì dalle labbra. L’uomo di cui mi ero fidato, tutto quel tempo. Era stato davvero tutto una bugia?

    “Ops-3, mi ricevi?” chiese alla fine, e feci uno sforzo per convincermi a rispondere.

    “Sono solo quassù, Comandante?” la mia voce era un sussurro fioco, appena udibile al disopra dell’interferenza.

    “Solo? Cosa intendi?”

    “Intendo, c’è qualcun altro sulla stazione?”

    “Non ci sono altri, lassù. Solo tu.”

    “Stai dicendo che è tutto nella mia mente? Che ho perso la testa?”

    “Naturalmente no. Sei stato solamente sottoposto a tanto stress. Tutto solo lassù. Non è una sorpresa che tu abbia iniziato a vedere cose. A sentirne. C’era solo da aspettarselo, da qualcuno nelle tue condizioni.”

    “Io lo so, che non sono pazzo.”

    “Certo che non sei pazzo.” mi blandiva gentilmente, la sua voce era calda e rassicurante. Le sue lusinghe quasi mi portavano a fidarmi di nuovo di quell’uomo.

    “È solo che...”

    “È solo che sei stanco. Hai lavorato duramente. Ma non preoccuparti, la tua missione è quasi conclusa. Ci vedremo domani.”

    “Domani.” ripetei intontito.

    Non ero pazzo. Non era nella mia testa. Quell’uomo, quella voce, mi stava mentendo. Doveva essere reale. Ma cosa avrei potuto fare? Sarebbe arrivato di lì a meno di un giorno, dopodiché le cose sarebbero state del tutto fuori dalla mia portata.

    Parte 8 >



    Edited by AndySky21 - 23/7/2016, 12:25
     
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