Il Cosmonauta del Diavolo (parte 5)

Tre giorni

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    Jedi lumberjack from Dagobah

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    Fui svegliato, di nuovo nel senso più approssimativo del termine, da un nuovo allarme dovuto alla temperatura. Sentivo un vago sapore di vomito e di sostanze chimiche nella gola. Avevo gli occhi acquosi, con spessi rivoli di lacrime salate che mi scorrevano sulla faccia e inzuppavano il collo della maglietta che portavo per dormire.

    Non ricordavo di aver preso i sonniferi, ma non potevo negare il gusto artificiale di menta che ancora mi allappava la bocca e la cavità nasale. Poteva esser dovuto solo alle pillole, non mangiavo da giorni e tantomeno qualcosa al sapore di menta.

    Con un lamento sondai le estremità del mio sacco a pelo e sentii i muscoli sotto sforzo. Erano tesi e rigidi. Mi ci volle qualche sforzo per farli muovere, dato che ogni più piccolo aggiustamento degli arti era accompagnato dal pizzicore dell’acido lattico accumulato.

    L’aria nel compartimento per dormire era stantia, vecchia. Sembrava essere passata attraverso i miei polmoni almeno dieci volte in precedenza, era sospesa attorno a me in una terribile staticità. Mentre mi tiravo fuori dal sacco a pelo riuscivo ancora a sentire l’odore muschiato della mia pelle e il mio sudore. Tutto puzzava di sudore, tutto puzzava di me.

    Aprii la porta e il mio cuore si fermò. Smise di battere e il sangue, da caldo che era, mi si raffreddò nelle vene, immobile. L’interno del mio stomaco si congelò, una voluminosa poltiglia di acqua ghiacciata che mi pesava nel corpo e nell’apparato digerente, anche se solo in senso figurato. Avevo la pelle d’oca, migliaia di piccole protuberanze mi ricoprivano le braccia e le gambe nude, i nervi nella mia pelle all’improvviso svariate centinaia di gradi sotto-zero.

    Del pulviscolo scuro fluttuava in una nuvoletta al centro dell’area abitativa. Sembrava a tutti gli effetti una nebulosa annerita, centinaia di minuscoli picchi e avvallamenti vorticanti fatti da un numero infinito di aghetti neri.

    “Signore.” sospirai, incredulo.

    Il filtro a carbone roteava al centro di tutta quella roba, luccicando pericolosamente ed emettendo altre scie di polvere di carbone mentre girava, in maniera apparentemente casuale, attraverso la sua nuvola. Come ci era finito? Come cazzo ci era finito?!

    “Buon Dio.” ripetei, mentre nuotavo verso la nuvola. La raggiunsi, tendendo la mano attraverso la polvere e cercando di afferrare il filtro. Era una scatoletta di metallo, all’incirca delle dimensioni di un libro tascabile, con un’apertura all’estremità, da cui stava fuoriuscendo il carbone.

    Il filtro di solito era alloggiato all’interno dell’intrico ronzante del sistema di filtraggio dell’aria. C’era un pannello di accesso usato per sostituirlo, nel ponte di volo, e immediatamente volsi lo sguardo in alto, verso di esso, quando mi ricordai dov’era posizionato. Come mi aspettavo era spalancato.

    “Soyuz-21? Soyuz-21?!” La mia voce nella radio era poco più di un bisbiglio. Nella mia testa, la mia voce gridava, cercando di attenuare la conoscenza incerta che avevo acquisito dal momento in cui mi ero svegliato. Cercavo una spiegazione. Una spiegazione qualsiasi.

    Forse c’erano stati alcuni impatti da micro-detriti che avevano scosso il filtro fino a farlo aprire. Io non li avevo sentiti, ma non avrei potuto sentire alcunché se avessi preso i sonniferi. Forse c’era stato un malfunzionamento nella pressione che aveva fatto saltare il pannello di accesso lasciando uscire il filtro.

    Forse, forse, forse. C’erano così tante possibilità, ma nessuna risposta.

    “Ti riceviamo, Ops-3.”

    “Compagno. Vyacheslav.” Chiamai Zudov per nome in quello strano stato di shock, cercando un contatto più stretto attraverso il vuoto, attraverso quella distanza così grande. “Penso ci sia...”

    Mi si strozzò la voce guardando il pannello di accesso aperto e il filtro, che avevo lasciato fluttuare vicino ad esso. Quando mi schiarii la gola, la voce non era più che un sussurro.

    “C’è qualcosa di sbagliato, compagno. C’è qualcosa di molto, molto sbagliato.”

    “Comandante Volynov, qual è il problema?” Zudov era freddo. Riuscivo a sentire uno strano silenzio, come se la sua voce si perdesse in un’eco, nella sua capsula.

    “Penso...” Non riuscivo a parlare. Non riuscivo a dire una parola. Come avrei potuto spiegarlo? Decisi di farla semplice e di ignorare le terrificanti implicazioni di ciò che era successo, descrivendo i fatti e nulla più. “C’è un problema con il sistema di filtraggio dell’aria.”

    “Che tipo di problema, Ops-3?”

    “Uno dei filtri a carbone è uscito dall’alloggiamento. O è stato sbalzato fuori. O –” E lì rimasi in sospeso. Dopo quel punto, i fatti non funzionavano molto bene. Non c’era altro che potessi dire con certezza.

    “Pensi che sia riparabile?”

    “Certo che è riparabile. Ma non è questo il punto.”

    “Ripeti, Ops-3.”

    “Ho bisogno che contattiate il controllo a terra, Soyuz. Per favore, prima che potete.”

    “Non posso farlo, compagno, le comunicazioni a lungo raggio sono ancora sospese per colpa dei brillamenti solari.”

    “Ok. Grazie Comandante. Ci vediamo tra tre giorni.” Avevo freddo. La mia spina dorsale era raggelata dal formicolio acuto dei nervi. Zudov non era mai stato così formale, mai così disinteressato, e questo mi spaventava anche più del problema con il filtro a carbone. Sentivo che, se avessi potuto guardarlo, non lo avrei visto battere ciglio quando glielo dissi.

    Ero da solo, a quanto sembrava. Nemmeno il conforto del mio vecchio amico all’altro capo della radio; con Zudov di quell’umore, mi sembrava che parlargli ulteriormente sarebbe stato inutile.

    Iniziai a razionalizzare i miei pensieri, gli spasmi primordiali di terrore che avevo provato iniziarono ad affievolirsi, confortati dalla logica, calda, concreta. Niente paura. Non c’era da aver paura.

    Avevo bisogno di qualcosa per calmarmi i nervi. Non ci era permesso avere dell’alcool a bordo della stazione, naturalmente, ma ero abbastanza sicuro che ci fossero degli ansiolitici nell’armadietto dei medicinali. Pillole, sempre pillole. Erano in un’altra bottiglietta bianca, segnata con testo nero. Avevano il sapore del gesso, niente aroma di menta questa volta. Mentre sentivo le grosse tavolette scivolarmi nella gola, il mio battito cardiaco iniziò a rallentare.

    Era passata forse mezz’ora prima che riuscissi a sentirne davvero gli effetti. Potevo percepire la pulsazione lenta e pesante del mio cuore nel petto, ogni battito un po’ più distante dal precedente, ma più pesante, la massa di tessuto muscolare e vene che lottava per liberarsi dai confini del mio corpo di carne. Il tempo stava rallentando. Mentre vedevo il sole far capolino lentamente da dietro il bordo della Terra, i nomi di tutte le pillole e tavolette che avevo preso iniziarono a scorrermi nella testa; acido ammino-glutarico, atenololo, Dekaris, Grandaxin, Oletetrina; la lista si allungava ancora e ancora. I nomi non significavano molto, solo astruse parole straniere che davano problemi a pronunciarle e problemi ancora più grossi a scriverle.

    Si stava formando una piccola gocciolina di sudore sulla mia fronte, potevo sentirla, proprio sopra l’occhio sinistro. Se ne stavano formando altre, delicatamente, ero sicuro che si increspassero ogni volta che il mio cuore mandava un altro tonfo.

    Tunf.

    Nulla, ora, se non il suono del mio battito cardiaco e l’oblò davanti a me. La vista iniziò a focalizzarsi verso il centro, mentre i bordi si sfocavano. Ero molto vicino al vetro ora, nonostante il fatto che non mi fossi mosso di un centimetro; il mio campo visivo stava zoomando rapidamente sulla curva geometrica della Terra, mentre essa veniva accarezzata da nuvole nere.

    Tunf.

    Tutto il resto era uscito dalla mia visuale, ora era solo una massa distorta e annebbiata ai bordi della mia vista. Avevo attraversato il vetro e ora guardavo l’ampia faccia della Terra, mentre essa ruotava seducente alla luce del Sole, quella grande sfera infuocata di calore insopportabile.

    Tunf.

    Il mio viaggio in discesa iniziava ad essere più rapido. Sempre lentamente, all’inizio, superavo appena la velocità orbitale della Salyut, ma di lì a poco l’accelerazione mi fece muovere sempre più spedito. Il pianeta azzurro si delineava davanti a me e io stavo cadendo nelle sue grandi fauci spalancate. Il vuoto mulinava dietro di me, mentre la mia velocità raggiungeva livelli inimmaginabili. L’atmosfera iniziava ad ardere intorno al mio campo visivo, bruciando prima in giallo e poi di un bianco incandescente. Le nuvole si aprivano e il mosaico di verde della campagna prendeva velocità facendosi incontro a me, a pochi secondi dall’impatto.

    Tunf.

    Svegliandomi di soprassalto, fui sottratto dall’allucinazione dal pulsare pesante del mio cuore. La perla di sudore sulla mia fronte era evaporata, lasciando solo un piccolo deposito bianco di cristalli di sale. Stavo bene, c’ero ancora. Nella mia allucinazione non rimaneva che una vaga vertigine.

    Decisi che avevo bisogno di qualcosa da bere. Avevo bisogno di qualcosa da bere e da mangiare. Mi sembrava di avere la bocca piena di salgemma e mi serviva tanto qualcosa per sciacquarlo via. Afferrai una bottiglia d’acqua e iniziai a berne il contenuto, che sapeva leggermente di gomma, mentre frugavo tra gli scomparti cercando del cibo che fosse inoffensivo per il mio stomaco. Sembrava che lo stufato di manzo fosse l’opzione migliore. Era contenuto in una piccola lattina e non doveva essere scaldato.

    Aprendo il coperchio a strappo della lattina, un piccolo grumo marrone di stufato si staccò dall’interno e lo guardai volteggiare via, attraversando la cucina. Si spiaccicò contro il fianco di uno degli stipi nel locale con un colpo violento, lasciando una chiazza marrone scuro.

    Seduto alla consolle di volo, provai a lanciare il programma diagnostico. Volevo scoprire a che ora era saltato il filtro e perché l’allarme non si era spento. Linee di codice lampeggiarono sullo schermo, ripetendosi ancora e ancora mentre cercavo di connettermi col programma diagnostico. Potevo sentire i dischi di memoria che ronzavano con forza mentre si sforzavano di capire cosa stessero facendo i sensori.

    Il computer insisteva che non ci fosse alcun errore. Non erano riportati allarmi, non erano stati identificati problemi. Nulla. Era come se niente fosse successo. La diagnostica finì ed emersero i risultati. Errori trovati: zero. Colpii il lato dello schermo con un pugno e quello lampeggiò, prima di staccarmi dalla poltrona della console per dirigermi di nuovo nell’area abitativa.

    Stavo iniziando a innervosirmi. L’aria era fredda, o almeno la sentivo così. L’intero incidente mi aveva dato una sensazione sgradevole riguardo la stazione e il cocktail di pillole non aiutava. Mi veniva la pelle d’oca solo a pensarci. I piccoli rumori, i trilli e i tonfi, il sibilo delle pompe dell’aria e i lamenti del metallo, potevo sentirli tutti ora. Mi si accapponava la pelle ogni volta che udivo qualcosa anche leggermente fuori posto.

    Erano passate due ore ed ero uno straccio. L’accumularsi di ogni singolo minuscolo scricchiolio, di ogni singolo cigolio, mi faceva digrignare i denti e mi sfilacciava i nervi. Mi aspettavo che la stazione avrebbe sicuramente iniziato a precipitare verso la Terra da un momento all’altro. Ogni volta che il sistema di filtraggio mandava un sibilo ero convinto che si fosse aperta una perdita e che stessi per essere risucchiato nel freddo vuoto dello spazio attraverso un buco delle dimensioni di una narice, schiacciato in una sottile poltiglia rossa mentre venivo sputato all’esterno, attraverso l’atmosfera, le mie budella liquefatte che si snodavano a spirale tra le nuvole in cielo.

    Non potevo più sopportarlo. Dovevo mettere fine alle mie sofferenze, almeno temporaneamente. Il sogno avrebbe significato ignorare qualsiasi problema, una beata ignoranza, mi dicevo. Continuavo a ripetermi questo mantra mentre tiravo fuori le pilloe dallo scomparto medico e ne mandavo giù due senza esitazione, seguite da un rapido sorso dalla mia bottiglia d’acqua.

    Beata ignoranza. L’oscurità artigliava gli angoli del mio campo visivo mentre mi arrampicavo nel mio sacco a pelo. Le pillole stavano iniziando a fare effetto. Chiusi gli occhi e mi lasciai traghettare lontano da quella ticchettante bara di metallo nel cielo.

    Non sognai, naturalmente. Non sognavo mai lassù, ma mi godetti qualche ora di confortevole buio.

    Parte 6 >



    Edited by AndySky21 - 25/9/2016, 15:45
     
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