Il Cosmonauta del Diavolo (parte 4)

Quattro giorni

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    Jedi lumberjack from Dagobah

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    Mi svegliai e guardai la parete di plastica del mio compartimento per il sonno, prosciugato. Il fragore nella mia testa si era affievolito, passando dalla danza febbrile di una tribù di svariate centinaia di potenti guerrieri nel mezzo di un rituale feroce e primordiale, al riecheggiare distante di un tuono su una prateria immersa nel buio, accompagnato dallo scrosciare lieve della pioggia.

    Con una certa ansia aprii il sacco a pelo e mi tirai fuori, aspettando che il dolore tornasse. Ma, mentre manipolavo la maniglia della porta con le dita sudate, la paura si placò e aprii la porta scorrevole, per poi galleggiare fuori dal compartimento, all’interno della stazione buia.

    L’illuminazione principale era disattivata, gettando la zona abitativa e il ponte di volo in un buio sconcertante, denso come melassa, che si infiltrava da ogni giunzione delle pareti del mezzo spaziale. Era spezzato solo dai neon brillanti della console principale, che fendevano l’oscurità vischiosa con bagliori di un verde vagamente tagliente che si specchiavano nelle pareti, in una lotta con le tenebre per il controllo degli spazi sopra la mia testa e sotto i miei piedi.

    Un altro scricchiolio riecheggiò lungo tutta la capsula mentre mi spingevo in direzione del ponte di volo, verso la radio. Mi faceva ancora venire i brividi lungo la schiena, nonostante sapessi che si trattava soltanto del metallo che si contraeva per l’abbassamento di temperatura.
    “Soyuz-21, mi ricevete?”

    “Ti riceviamo, OPS-3.” L’uomo all’altro capo della comunicazione non era il comandante Zudov ed io esitai quando riconobbi il raspare secco della voce dell’ingegnere di volo Rozhdestvensky.

    “Come va laggiù, ingegnere?” Non mi piaceva Rozhdestvensky. Non perché fosse particolarmente antipatico, anzi, era perlopiù cordiale quando ci parlavo. Non era nemmeno la voce ruvida come carta vetrata nelle orecchie. Era per la sua piatta mancanza di coinvolgimento non solo nei confronti della missione, ma di tutto lo spazio. Sembrava sempre mantenersi distante, in lontananza. Non come Zudov, che non era mai più distante degli altoparlanti della radio.

    “Va tutto bene, compagno.”

    “C’è il comandante Zudov?”

    “Sta riposando un po’, al momento.”

    “Capisco. Avete già avuto qualche contatto con il controllo a terra?”

    “Prego?”

    “I problemi dovuti ai brillamenti solari sono finiti? Vi siete messi in comunicazione con il controllo a terra tramite i collegamenti radiofonici?”

    “Ah, sì, i Brillamenti Solari, naturalmente. No, non possiamo ancora contattarli.”

    “Ricevuto. Beh, potete continuare a provare?”

    “Sì, naturalmente, è in cima alle nostre priorità.”

    “Ok, grazie.” Esitai, prima di chiudere con il commento che facevo sempre con Zudov. “Ci vediamo tra quattro giorni.”

    “Suppongo di sì.” Rozhdestvensky era distaccato, quasi indifferente all’intera conversazione.

    La radio divenne muta, lasciandomi solo con il sibilo dell’aria immobile, che ondeggiava piano lungo la superficie della capsula, così da sembrare proveniente da ogni angolo del mezzo spaziale contemporaneamente. Spensi la radio e mi tolsi il microfono, guardandolo fluttuare aggrappato al cavo per qualche secondo, prima di dirigermi verso il compartimento doccia.

    Quattro giorni. Questo era ciò che continuavo a ripetermi, mentre mi sedevo alla console principale, scorrendo lentamente lungo i programmi diagnostici, mentre il resto del modulo era immerso nel verde brillante dello schermo. Avevo tenuto le luci spente per il momento, solo perché era molto più confortevole stare nella penombra. Con la luce forte costantemente in faccia era difficile concentrarmi.

    “Altri quattro giorni.” Il frammento di frase che mi sfuggì di bocca fu una sorpresa anche per me. Lo dissi quasi senza voce e, se non fossi stato completamente solo lassù, l’avrei trascurato come se fosse stato rumore di fondo. Non ero mai stato il tipo che parla da solo ed ero determinato a non iniziare in quel frangente.

    I miei palmi, ancora umidi dopo la doccia, avevano lasciato impronte dove avevo afferrato i braccioli della sedia e, con un sobbalzo, mi accorsi di aver tenuto serrate le mani, appena qualche secondo prima, strette attorno alla plastica.

    “Solo altri quattro giorni.”

    C’era qualcosa di strano nella cabina. Riuscivo a percepirlo, ora, l’equilibrio era alterato. Qualcosa era stato spostato. Con la coda dell’occhio. Girando su me stesso osservai la zona abitativa, improvvisamente consapevole di un leggero cambiamento all’interno della capsula. Quando vivi in uno spazio abbastanza a lungo impari a conoscerlo fin nei dettagli, così anche la
    minima differenza si fa notare quanto l’assordante sirena delle incursioni aeree.

    Vidi che lo scomparto medico non era chiuso. Era appena socchiuso, l’apertura probabilmente era appena sufficiente per infilarci la mano, ma era abbastanza evidente perché me ne accorgessi a una seconda occhiata. Come aveva fatto ad aprirsi?

    Pensai per un secondo, fluttuando in silenzio, mentre guardavo lo scomparto aperto. Aveva uno sportello scorrevole, per cui non era qualcosa che potesse semplicemente aprirsi per inerzia dopo uno spostamento, se anche ce ne fosse stato uno lassù. Quanto a lungo era stato così? Era impossibile dirlo.

    Alla fine riuscii a imporre al mio corpo di agire, l’osservazione passiva era finita; mi mossi verso lo scomparto. Forse l’avevo lasciato aperto quando avevo preso le pillole per dormire, la notte precedente... Il mio flusso di pensieri si interruppe. Era stata la notte precedente o quella ancora prima, che avevo preso le pillole? Non riuscivo a ricordare con precisione, nulla era in ordine cronologico.

    Feci scorrere lo sportello fino ad aprire del tutto lo scomparto. Nulla sembrava fuori posto, nulla era stato spostato. Le pillole per dormire erano ancora nascoste compostamente dietro bende e tavolette di vitamine senza etichetta, mantenendo la farsa che non le avessi mai usate e che riuscissi a dormire senza aiuti.

    “Ops-3?” Ero quasi addormentato quando Zudov chiamò via radio, i miei occhi non più aperti di una fessura. “Ops-3, mi ricevi?”

    “Ti ricevo, compagno.”

    “Come sta andando lassù? Stai bene?”

    Devo aver esitato per un secondo di troppo, perché Zudov si fece improvvisamente agitato.

    “Cosa è successo?” chiese, prima che potessi parlare.

    “Nulla, sto bene.”

    “Non mentirmi, comandante, si capisce che qualcosa non va.”

    Sospirai palesemente, poi me ne pentii all’istante. Sarebbe stata solo un’altra conferma per Zudov riguardo al mio stato mentale.

    “Comandante Volynov?”

    “Ho avuto problemi col sonno.”

    “Problemi col sonno? È normale, da quanto ne so. Non hai ricevuto indicazioni al riguardo?”

    “Ho preso le pillole. Le pillole per dormire.”

    “Le hai prese?”

    “Sì, hanno funzionato.” Avevamo ricevuto istruzioni a Shchyolkovo-14, la base di addestramento per i cosmonauti, di prendere le pillole solo se fosse stato assolutamente necessario e di non prenderne più di quattro per volta.

    “Solo questo? Hai solo preso i sonniferi?”

    “No, c’è...” esitai, questa volta perché la mia voce rimase invischiata in un groppo di saliva che avevo in gola. “C’è qualcos’altro. I miei ricordi si confondono a volte.”

    “Cosa intendi?”

    “Non riesco a ricordare correttamente delle cose. Oggi ho visto che uno scomparto era stato aperto e non ricordo di averlo fatto.”

    Non ci fu che silenzio per una trentina di secondi. Pensai che Zudov mi avesse abbandonato.

    “Ok. Ascolta, devo andare, devo controllare i nostri filtri per l’ossigeno. Ci sentiamo presto.” Zudov era chiaramente distratto e, oltre il crepitare delle interferenze, riuscii a sentire un vago bisbiglio.

    “Ricevuto. Ci vediamo tra quattro giorni.”

    Il sole stava scivolando proprio in quel momento attraverso il nastro azzurro dell’atmosfera terrestre, quando lanciai un rapido sguardo dall’oblò del ponte di volo. Era quasi del tutto tramontato, ma lunghi raggi di luce divampavano attraverso l’oscurità, come il canto del cigno dell’astro che sarebbe presto scomparso.

    ‘Dormire’ descrive in modo molto approssimativo ciò che feci quella notte. Mi arrampicai nel compartimento per dormire e mi misi a fissare la parete. A un certo punto imprecisato caddi in uno stato tra la veglia e l’incoscienza. Non era sonno, ma qualcosa a metà strada, in cui la mente se ne andava per i fatti suoi.

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    Edited by AndySky21 - 23/7/2016, 12:15
     
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    Lo dico ad ogni nuova parte, ma vabbè: mi sta davvero piacendo questa serie.

    E complimenti per la traduzione.
     
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    Ad ogni modo, se posso saperlo, quante parti ci sono?
     
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    CITAZIONE (Shark Peddis @ 11/9/2016, 18:58) 
    Quoto Ink.

    Ad ogni modo, se posso saperlo, quante parti ci sono?

    Otto parti (sono pochine).
     
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