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    Era il sindaco di Taba, piccolo comune del Ruanda, e, nel corso di tutto il 1994, ha ordinato ai soldati della sua milizia personale di stuprare e uccidere più di 400 donne di etnia tutsi, incitandoli a comportarsi nella maniera più violenta possibile, mentre lui osservava soddisfatto e compiaciuto. Le donne torturate e uccise venivano gettate in una fossa comune. Nel processo tenuto contro di lui nel 1998, diversi testimoni hanno dichiarato che Akayesu era un noto sadico che amava ogni forma di spettacolo violento. Pur non avendo notizia di omicidi compiuti direttamente da lui, ha esercitato un'evidente influenza psicologica sui soldati, spingendoli a comportarsi nella maniera più sadica e violenta possibile. Un tribunale internazionale ha ritenuto Akayesu colpevole di genocidio e crimini contro l'umanità e lo ha condannato a tre ergastoli più ottanta anni supplementari di prigione.

    Tratto da: "I serial Killer" di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca
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    CITAZIONE (Nile @ 25/7/2013, 14:09) 
    In realtà no, come da titolo, è utile solo al DM :asd:

    Ti sbagli, se il master ammette nel gioco le classi di prestigio deve anche permette ai giocatori di vedere quali sono queste classi di prestigio e che requisiti hanno :lol:
    Io come faccio a far diventare la mia ladra un'assassina (come sto facendo nel cartaceo a cui sto partecipando) se non posso leggere nel manuale i requisiti minimi, le prestazioni dell'assassino, il tipo di gioco e le sue abilità speciali?


    Se poi il master non permette classi di prestigio scelta sua, libero di farlo.
    Nel manuale del DM poi ci sono anche le armi magiche, anche qui è scelta del master se vietarne l'equipaggiamento (e usarle solo come premio all'interno del gioco) o se permettere ai giocatori di averne un tot a inizio gioco.
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    Luogo omicidi: Canada – St John
    Periodo omicidi: 1985 – 1993
    Vittime: 1 – 4, donne

    Non ci sono informazioni sulla sua infanzia e adolescenza, ma non sembra essere cresciuto in una famiglia particolarmente disfunzionale o violenta. Si sposa, ma il matrimonio si rivela un fallimento perché lui è fondamentalmente incapace di instaurare una relazione autentica con un essere di sesso femminile, così Young torna a vivere con i genitori e, non essendo in grado di trovare un'occupazione stabile, svolge alcuni umili lavoretti nel caffè di cui loro sono proprietari.
    Nel 1993, viene imprigionato per aggressioni violente ai danni di otto donne e la polizia scopre che ha ucciso almeno una ragazza dopo averla stuprata, anche se altre tre donne scomparse lo hanno frequentato per un certo periodo e gli investigatori ritengono che siano state uccise. Nel complesso, le vittime di sesso femminile aggredite sono dodici, stuprate e picchiate sulla faccia e su tutto il corpo con un uso spropositato di violenza. Young le abbandona prive di sensi ritenendole morte, invece tutte le donne sopravvivono grazie a un'incredibile resistenza fisica. Il suo modus operandi è sempre lo stesso: si aggira di notte, a bordo di una delle numerose macchine che possiede, intorno ai locali equivoci e si offre di dare un passaggio alle ragazze ubriache che camminano da sole, oppure preleva delle prostitute.

    David Canter, uno dei massimi esperti europei di omicidio seriale, è stato chiamato come consulente per il caso di Garrett Young. Egli afferma che, anche se avesse realmente ucciso una sola donna e non le quattro di cui è convinta la polizia, i suoi processi psicologici sono quelli tipici di un serial killer predatore che odia le donne e le vuole distruggere.

    Tratto da "I serial killer" di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca
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    CITAZIONE (Mask888 @ 24/7/2013, 15:52) 
    Per il lancio dei dadi ci sono i bot ^^

    E' vero, però molta dell'emozione del cartaceo sta nel tiro dei dadi. Voglio dire, se si tolgono i dadi, se si toglie la scheda (facendolo al pc immagino nessuno si farà la scheda cartacea) tanto vale iscriversi ad un GDR online :P
    Poi, fate vobis, ma secondo me è meglio se usate i dadi.
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    Luogo omicidi: Stati Uniti – Filadelfia (Pennsylvania)
    Periodo omicidi: 1987
    Vittime: 2+, donne

    Quando ha solo 2 anni, i genitori divorziano perché la madre accusa il padre di gravi negligenze nei suoi confronti. La madre, di origine creola, inizia a bere pesantemente diventando ben presto un'alcolizzata. A 4 anni, il piccolo Gary viene mandato con il fratello minore a vivere dal padre, che di mestiere fa il fabbro. Subito dopo aver divorziato, il padre si risposa con una donna che non ama i bambini, e lui stesso non mostra di essere molto affezionato ai figli ed è molto rigido nell'imposizione della disciplina.
    In casa, Gary subisce umiliazioni continue: ad esempio, quando si fa la pipì addosso nel letto (enuresi notturna), la mattina dopo il padre appende fuori dalla finestra della sua camera le lenzuola bagnate, affinché tutti le possano vedere. Questi accadimenti, e altri simili, provocano in lui la nascita di un profondo senso di vergogna e inadeguatezza e lo sviluppo di un rancore crescente nei confronti del padre.
    Fin da bambino è affascinato dall'alta finanza, tanto che legge le pagine economiche dei giornali e la sua fantasia principale è quella di diventare milionario. Con il passare degli anni, cresce l'odio verso i genitori perché, secondo lui, sono responsabili di avergli fatto passare un'infanzia solitaria e senza amore. Gli altri bambini lo prendono continuamente in giro perché è molto timido e passa la maggior parte del tempo in un mondo privato popolato di fantasie. Viene soprannominato “testa d'uovo” a causa della forma leggermente ovale del cranio: da piccolo, era caduto giù da un albero sul quale si era arrampicato e aveva sbattuto la testa con violenza; dopo questo episodio, si era verificato un cambiamento improvviso nella sua personalità e il bambino aveva cominciato a soffrire di disturbi nell'eloquio e di forti emicranie.
    Nel 1961, Gary Heidnik abbandona il liceo e si arruola nell'esercito perché desidera fare il soldato; frequenta l'Accademia militare e segue dei corsi da infermiere. Nel 1962, viene sottoposto a tre mesi di terapia psichiatrica dopo i quali viene congedato dall'esercito per invalidità totale, a seguito della diagnosi di “personalità schizofrenica”, e riceve una pensione mensile governativa. Negli anni successivi, viene ricoverato frequentemente in diversi ospedali psichiatrici, ma ottiene pochi progressi nel trattamento e sostiene di non sapere quale sia veramente la malattia di cui soffre. Nel 1965, completa la preparazione scolastica e ottiene il diploma di infermiere.
    Nel 1967, Heidnik ha messo abbastanza soldi da parte per potersi comprare una casa a tre piani: uno lo occupa e gli altri due li affitta. Nello stesso periodo, inizia ad aggirarsi attorno a un istituto per ritardati mentali e intreccia relazioni occasionali con alcune pazienti di colore e ispaniche: le porta al cinema, in giro per negozi e poi a casa sua per avere rapporti sessuali. Nel 1970, la madre si suicida dopo aver scoperto di essere ammalata di cancro. Il padre non gli permette di partecipare alla sua vita e, dopo questo evento luttuoso, rompe ogni rapporto con il figlio. Da questo momento, Heidnik comincia a fare uso frequente di LSD e di droghe allucinogene.
    Nel 1971, avverte un impulso improvviso, si mette in piedi di fronte al mare e decide di fondare una chiesa che si prenda cura dei ritardati mentali e fisici. Chiama il gruppo “Chiesa Unita dei Ministri di Dio” e, oltre ai ritardati, recluta anche molti derelitti che vivono rubando automobili. Continua ad avere rapporti sessuali con donne di colore, ma profetizza un'imminente guerra razziale fra bianchi e neri negli Stati Uniti. Nel 1976, si barrica nella cantina di casa, armato di fucile e pistola, e sfida i suoi affittuari a venirsi a lamentare di persona. Ne ferisce uno e viene incriminato per aggressione, ma, successivamente, le accuse sono ritirate e Heidnik viene liberato.
    Dopo aver venduto la casa, nel 1977, Gary Heidnik decide di investire nel commercio e, in un arco di dieci anni, guadagna mezzo milione di dollari. Compra molte automobili lussuose e un camper completamente arredato, evitando di pagare le tasse in qualità di “vescovo” di una chiesa, in realtà, inesistente.
    Convive con una donna ritardata e analfabeta che, nel 1978, partorisce una figlia, ma la affida in adozione senza dirgli nulla. Un giorno, Heidnik decide di rapire la sorella della sua compagna, anch'essa ritardata, e intrattiene rapporti sessuali con entrambe. Il rapimento viene denunciato e, durante una perquisizione della sua nuova casa, la polizia trova la donna rinchiusa in cantina e immediatamente lo arresta. Nel 1978, Heidnik viene posto sotto osservazione psichiatrica e sconta quattro anni di carcere per rapimento e altri reati; durante gli anni di detenzione, compie tre tentativi di suicidio (in tutta la sua vita, Heidnik tentò di uccidersi ben tredici volte, sempre iniettandosi un'overdose di droga). Anche il fratello soffre di problemi mentali e tenta il suicidio varie volte.
    Nel 1948, Heidnik compra una nuova casa e appende davanti all'ingresso l'insegna della sua “chiesa”. Nel 1985, sposa una ragazza filippina con la quale era entrato in corrispondenza due anni prima, ma, contemporaneamente, porta a casa altre donne per fare delle orge e costringe la moglie a guardarlo e a fargli da schiava; in alcune occasioni, la stupra. Nel 1986, la moglie scappa di casa e lo denuncia, poi però ci ripensa, ed Heidnik non viene rinviato a giudizio. Da quel momento, il suo comportamento diventa sempre più stravagante: una delle manie principali è quella di tappezzare le pareti della sua stanza da letto con banconote da cinque e dieci dollari.
    Di nuovo in circolazione, avvicina una prostituto filippina, la porta a casa sua col pretesto di avere un rapporto sessuale, ma invece la lega e la rinchiude in cantina. Da questo momento, inizia a “collezionare” donne: le cattura, le immobilizza con delle catene e le chiude nella sua cantina, dove le tiene come vere e proprie prigioniere. Per nutrirle, dà loro quasi esclusivamente pane e acqua e mette il cibo dentro ciotole per cani per umiliarle. Rapisce le vittime scegliendo sempre ragazze di colore oppure orientali, razze per le quali nutre una vera ossessione; le avvicina negli istituti per ritardati mentali, approfittando del loro stato di menomazione intellettiva.
    Heidnik tortura le vittime con percosse, somministrazione di scosse elettriche e facendole combattere tra di loro. Le stupra ripetutamente mantenendole in condizioni di totale schiavitù e uccide quelle che non ubbidiscono ai suoi ordini, con scosse ad alto voltaggio oppure per denutrizione. I cadaveri sono fatti a pezzi e bruciati per far sparire ogni traccia. Quando viene arrestato, Heidnik dichiara che il motivo principale che lo ha spinto a queste azioni è un bisogno di esercitare l'onnipotenza assoluta; il suo obiettivo era di avere dieci “schiave sessuali” che gli partorissero più figli possibile prima di morire, allo scopo di creare una sua personale “tribù”.
    Gary Heidnik muore, ucciso dall'iniezione letale, il 6 luglio 1999.

    Tratto da: "I serial Killer" di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca
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    Le statistiche che vi riporto in questo topic sono tratte dal libro "I serial killer" edito nel 2011, sono quindi aggiornati a quell'anno.
    Tali statistiche sono state redatte da Ruben De Luca, famoso criminologo italiano, la cui casistica arriva a prendere in considerazione circa 2230 nominativi di assassini seriali.


    Località degli omicidi seriali

    Vi siete mai chiesti quale nazione ha il maggior numero di assassini seriali? Forse sì, e probabilmente vi siete risposti che si tratta degli Stati Uniti. Bhe, avete ragione. Sapete esattamente quanti serial killer conta? 1291.
    Un primo posto scontato, ma continuare a leggere la tabella potrebbe riservarci delle sorprese. Al secondo posto troviamo infatti la nostra cara Italia, con "solo" 121 assassini seriali, segue l'Inghilterra con 104.
    Fuori dal podio abbiamo la Francia, con appena 72 assassini seriali. Al quinto posto troviamo la Germania (70) e al sesto l'Ex Unione Sovietica (50) che batte di poco la Cina, con i suoi 47 assassini seriali.
    Ci allontaniamo nuotando nel mare cristallino ed arriviamo in Australia, che ci aspetta con i suoi 41 assassini seriali, battendo il Sudafrica, che si ferma a 38. Al decimo posto troviamo il Messico, con 29 omicidi seriali, seguono il Canada (26), il Giappone (23), l'Ungheria (19) e il Brasile (18).
    L'Iran si piazza al quindicesimo posto grazie ai suoi 15 omicidi seriali, seguito da Ex-Jugoslavia e Spagna, arrivate a parimerito con i loro 14 assassini seriali. Poco più di quelli che ornano la Corea (12) e l'Austria (11). Scendendo ancora troviamo un nuovo ex-equo tra Olanda e Grecia, entrambe contano 10 serial killer. Un terzo ex-equo ci aspetta, sia la Polonia che la Scozia hanno ospitato 9 assassini seriali, ed 8 sono quelli che hanno agito in Belgio e in India. Tripletta per Svizzera, Zaire e Colombia, tutte e tre contano 6 assassini seriali, e battono così Pakistan e Argentina, bloccate a 5 killer. Ben cinque paesi (Egitto, Iraq, Romania, Perù, Ruanda) ne hanno ospitati 4, mentre solo 3 hanno scelto come loro patria le Bermude, Singapore, Danimarca e Galles.
    Troviamo soltanto 2 assassini seriali in Svezia, Irlanda, Nigeria, Indonesia, Nuova Zelanda, Thailandia, Kenya, Israele e Yemen, e solamente 1 in Polinesia, Venezuela, El Saalvador, Turchia, Bolivia, Ex Cecoslovacchia, Taiwan, Siria, Costarica, Bahamas, Algeria, Sierra Leone, Filippine, Ecuador, Norvegia, Albania, Marocco, Afghanistan, Zimbawe, Emirati Arabi Uniti, Bangladesh, Guatemala, Vietnam.

    Tipologie di assassini seriali nel mondo
    I serial killer più frequenti sono quelli che agiscono individualmente (1711), meno frequenti quelli che agiscono in gruppo (311), ancora più rari quelli che agiscono in coppia (206)

    Sesso degli assassini seriali
    I serial killer sono sempre uomini? Leggenda metropolitana. Tuttavia è vero che essi ricoprono la maggioranza (1932), sebbe un posto di rilievo sia lasciato anche alle donne (296)

    Tipologie delle coppie
    Abbiamo appena detto che gli assassini che agiscono in coppia sono rari, tuttavia essi esistono. Chiediamoci allora come sono formate queste coppie...
    La coppia più numerosa è sicuramente quella formata da due uomini (124), più rara quella formata da un uomo e una donna (72), ancora più basso il numero delle assassine impegnate in una coppia donna/donna (10).

    Prendiamo in considerazione le coppie uomo/uomo (124), coloro che la formano possono essere uniti da molteplici legami.
    Amici (76)
    Amanti omosessuali (16)
    Fratelli (16)
    Padre/figlio (12)
    Cugini (4)

    Passiamo ora alla coppia formata da un uomo e una donna (72)
    Marito/Moglie (38)
    Amanti (28)
    Madre/Figlio (4)
    Padre/Figlia (2)

    Ed ora, l'ultima tipologia analizzata, le coppie formate da due donne (10)
    Amiche (4)
    Amanti omosessuali (2)
    Sorelle (2)
    Madre/Figlia (2)

    Tipologia dei gruppi (il primo numero rappresenta i gruppi, il secondo il numero dei soggetti che compongono i gruppi)
    Gruppo criminale: 53 (237)
    Sette sataniche: 24 (70)
    Gruppi razzisti: 13 (48)

    Distribuzione temporale degli assassini seriali (questa tabella si ferma al 2004)
    Tra il 1400 e il 1499 sono registrati solamente 2 assassini seriali, il numero però aumenta e tra il 1500 e il 1599 arriviamo a contarne 11.
    Ancora un incremento tra il 1600 e il 1699 ed il numero sale a 18, per poi scendere a 13 tra il 1700 e il 1799.
    Si ha un'ulteriore discesa tra il 1800 e il 1809, gli assassini seriali scendono a 6, ed una nuova discesa ci porta, tra il 1810 e il 1819 ad avere appena 4 assassini.
    Tra il 1820 e il 1829, però, si sale ancora, arrivando a 8 killer, che diventano 7 tra il 1830 e il 1839.
    Di nuovo alti e bassi, i serial killer salgono a 13 tra il 1840 e il 1849 e scendono a 9 tra il 1850 e il 1859.
    Una nuova salita tra il 1860 e il 1869: 15 assassini seriali, che salgono a 19 tra il 1870 e il 1879, per poi scendere ancora tra il 1880 e il 1889, registrando 17 killer.
    Impennata tra il 1890 e il 1899, si arriva a 27 assassini seriali, che salgono a 33 tra il 1900 e il 1909, per poi continuare a salire: sono 56 tra il 1910 e il 1919 e 64 tra il 1920 e il 1929. Tra il 1930 e il 1939 si tocca la cifra di 71 assassini seriali, che poi sembra placarsi tra il 1940 e il 1949, tornando alla cifra di 66 assassini seriali.
    Tra il 1950 e il 1959 salgono ancora a 76.
    Ma è a questo punto che si ha il vero boom. Tra il 1960 e il 1969 troviamo 160 serial killer, che salgono in modo spaventoso a 359 tra il 1970 e il 1979. La scala di sangue non si ferma qui ed il record è raggiunto tra il 1980 e il 1989, con ben 462 assassini seriali.
    Il numero dei killer scende a 452 tra il 1990 e il 2000 e sembra successivamente placarsi, fermandosi a "soli" 59 tra il 2001 e il 2004.

    Edited by Shira™ - 21/7/2013, 01:18
  7. .
    Era una freddissima sera d'inverno. Il campanello del portone suonò. Penetrante, insistente. La signora Van Toen si alzò dalla poltrona e andò con premura alla porta: non era stagione da lasciar aspettare la gente in strada.
    Quando aprì la porta, candidi fiocchi di neve turbinarono dentro dall'oscurità. Sulla soglia c'era qualcuno con in testa un berretto di pelliccia e al collo una grossa sciarpa ben riboccata dentro il bavero del cappotto invernale. Del visitatore, la signora Van Toen riuscì a scorgere solo gli occhi, che la guardavano da sopra l'orlo della sciarpa.
    “Buongiorno, signora” disse l'uomo, e il suo fiato caldo produsse, attraverso la sciarpa, una nuvoletta di vapore nell'aria gelida. “Sono il suo nuovo vicino. Io e mia moglie vorremmo chiederle un favore... anche se, lo ammettiamo, non è molto cortese, visto che ancora lei non ci conosce. Siamo venuti ad abitare qui soltanto oggi”.
    Solo allora la signora Van Toen si accorse che alle spalle del visitatore c'era anche un'altra persona un po' più bassa, ma ugualmente imbacuccata, che le rivolgeva cordiali cenni col capo. Doveva essere la moglie, pensò la signora Van Toen.
    “Ma certo, si accomodino” disse in tono affabile, “così potremo far conoscenza come si deve”. Ma il vicino scosse la testa. “E' molto gentile da parte sua” rispose, un po' esitante “ma, vede, non abbiamo tempo: siamo di fretta. Il problema però è che non abbiamo ancora una baby-sitter per il nostro bambino”. Gli occhi sotto il berretto di pelliccia guardarono quasi imploranti la signora Van Toen. “Non potremmo, per quest'unica volta, lasciarle il nostro babyphone, in modo che lei possa tener d'occhio la situazione? O, per meglio dire: tenerla d'orecchio?”. Il vicino rise brevemente, con una specie di strano singulto. Poi si tolse di tasca una cassettina quadrata con incorporato un piccolo altoparlante. “Lei dovrà solo esser così gentile da tenersi vicino il babyphone; e ascoltare ogni tanto se il bambino dorme tranquillo. Se poi ci fosse qualcosa che non va, potrà sempre telefonarci a questo numero”. E così dicendo estrasse dalla tasca del cappotto un foglietto con un numero telefonico.
    Senza esitare, la signora Van Toen prese sia il foglietto che il babyphone. Era una donna di buon cuore. “Certo che siamo disposti a badare al vostro piccino. Non datevi pensiero”.
    I nuovi vicini la ringraziarono profusamente e, dopo che l'uomo ebbe collegato il filo del babyphone, scomparvero frettolosi nella neve che continuava a cadere senza posa. La signora Van Toen li salutò agitando amichevolmente la mano in cui stringeva la chiave che i due, per sicurezza, le avevano consegnata.
    Poi collocò il babyphone su uno scaffale della libreria, e si rimise seduta a ricamare diligentemente il suo cuscino a punto arazzo.
    Il signor Toen, allungato sul divano, di tanto in tanto sbirciava con un occhio solo la TV, su cui l'uomo della meteo pronosticava, con aria ammiccante, ulteriori nevicate. Lentamente, il signor Van Toen sprofondò nel sonno.
    Dopo un po' la signora Van Toen si alzò dalla poltrona e si avvicinò al babyphone per accertarsi che il bambino dei vicini non avesse problemi, e rimase per qualche momento ad ascoltare intenerita il respiro regolare che proveniva dal piccolo altoparlante. Il bambino sembrava dormire pacificamente.
    Ma a un tratto dall'altoparlante uscì una specie di sommesso grugnito.
    La signora Van Toen ne fu così sorpresa che indietreggiò di un passo e per poco non inciampò sullo sgabello poggiapiedi. Aveva sentito bene? Inclinò cautamente la testa verso il babyphone e si rimise in ascolto... Ecco! Di nuovo quel basso, rauco suono di gola.
    “Svegliati, caro!” gridò la signora Van Toen, scrollando nervosamente il marito, che per l'appunto stava sognando una calda, radiosa vacanza al sole.
    “C'è qualcosa che non va, in casa dei vicini” sussurrò la signora Van Toen “Ascolta! Mi sembra di sentire una bestia feroce attraverso il babyphone”.
    “Che razza di sciocchezze” brontolò il signor Van Toen alzandosi stancamente dal divano. Poi si avvicinò al babyphone e rimase qualche momento in ascolto.
    “Che cosa ti avevo detto? Non si sente nulla, cara. Hai certamente...”
    Ma in quel preciso istante si udirono un ruggito fortissimo e un rumore come di artigli affilati che grattano sul muro. Il signor Van Toen, che adesso era diventato pallido, indietreggiò come per timore che il babyphone potesse saltargli ringhiando alla gola.
    “Sei contento, adesso?” commentò trionfante la signora Van Toen “Era questo che intendevo”.
    “Pro... probabilmente i vicini hanno un grosso cane” balbettò il signor Van Toen ritrovando un po' della sua padronanza “Sì, è decisamente così. Un cane che dev'essere entrato nella camera del bambino”.
    Ora dal babyphone uscivano a tratti ringhi, soffi e grattate. Ma la signora Van Toen sosteneva che, secondo lei, non provenivano da un cane. Tanto più che il vicino non aveva fatto il minimo accenno al fatto di possedere un cane.
    “Harrie” disse con decisione “dobbiamo fare qualcosa. Magari è un gatto selvatico che si è infilato dalla finestra. E allora? Se quella belvaccia aggredisse il bambino? Non vorrai mica avere sulla coscienza un fatto del genere, Harrie! Abbiamo promesso di vegliare sul bambino!”
    Dal babyphone uscirono altri soffi e brontolii, e poi un rumore di oggetti scagliati da ogni parte.
    “Basta! Dobbiamo fare qualcosa!” disse la signora Van Toen “Harrie, va' immediatamente a guardare cosa sta succedendo. Quel gatto selvatico sta devastando la camera del bambino. E ora gli farà anche del male, povero piccolo!”
    Altri grugniti, punteggiati da brevi rugli. A ben pensarci, quei suoni non dovevano essere né di un cane né di un gatto selvatico, concluse il signor Van Toen. Sembravano piuttosto di un orso feroce, o di un cinghiale infuriato, o peggio...
    “Su, Harrie, dì qualcosa!” esclamò la signora Van Toen.
    “Ho un'idea migliore” disse il signor Van Toen. “Telefoniamo al numero che ci hanno lasciato i vicini, e preghiamoli di tornare a casa”.
    “Vuoi scherzare, Harrie? Dobbiamo prima sincerarci di cosa si tratta. Non si può, al minimo rumore, telefonare alla gente e farla correre a casa trafelata, in mezzo alla neve. Mi meraviglio di te, Harrie!”
    La signora Van Toen guardava il consorte con aria di rimprovero.
    Il signor Van Toen tirò un profondo sospiro. Non gli sembrava che i suoni che uscivano dal babyphone potessero definirsi un minimo rumore. Capì comunque di non aver via di scampo, per cui, a malincuore, s'infilò il cappotto e le scarpe. “Dov'è la chiave?” borbottò.
    Poco dopo era fuori, e mentre fiocchi di neve gli turbinavano intorno alla testa e alle spalle, infilò la chiave nella serratura dei vicini. La neve fresca, che un vento tagliente gli faceva mulinare intorno ai piedi, aveva già ricoperto le sue orme. Il signor Van Toen rabbrividì, aprì la porta ed entrò, bravamente. Contro le violente raffiche che soffiavano contro la casa, riuscì a malapena a richiudersi la porta alle spalle. Dentro, era buio pesto. L'unico rumore che riusciva a percepire era il martellare sordo del proprio cuore contro le costole.
    “Visto? Scempiaggini!” borbottò il signor Van Toen “Tutto dipende senz'altro dal cattivo funzionamento del babyphone. Banali scariche elettriche, tutto qui”.
    Al piano di sopra qualcosa rotolò rumorosamente per terra.
    Il signor Van Toen s'irrigidì.
    Dall'alto provenivano ringhi, grugniti, e un raspare come di unghioni su una parete.
    Il primo pensiero del signor Van Toen fu di girare sui tacchi, correre fuori, fuggire da quella casa piena di rumori allarmanti; ma poi pensò al povero piccolo, là nel suo lettino. A quella creaturina indifesa, forse in balia di una bestia feroce penetrata nella sua cameretta.
    Così, chiamato a raccolta tutto il suo coraggio, si avviò a tastoni su per la scala di legno. Sentendo i gradini cricchiare sotto i suoi piedi, il signor Van Toen si fermò. Poi, imprecando a mezza bocca, riprese a salire lentamente, cautamente, in punta di piedi.
    Finalmente sentì al tatto di essere arrivato in cima alla rampa. Aguzzò gli occhi nell'oscurità. Sul pavimento del pianerottolo, una debole strisciolina di luce si allungava da sotto una porta. “Sarà quella della camera del bambino” pensò il signor Van Toen. E la luce era probabilmente quella di una piccola lampada da notte.
    In quell'istante, da dietro la porta, gli giunse un cupo brontolio.
    Poi silenzio. Un silenzio mortale.
    “Ora o mai più” si disse il signor Van Toen, e tastando nel buio trovò la maniglia, socchiuse in silenzio la porta e allungò prudentemente il collo nella camera del bambino.
    C'era, in effetti, una piccola lampada da notte che illuminava debolmente la camera, quel tanto che bastava a distinguere una sagoma sul lettino. Un essere con grandi orecchie puntute, lunghi canini e artigli affilati. L'essere rugliò sottovoce, poi si mise a ciucciare e mordere con impegno un orsacchiotto di pezza. Lungo i canini gli scendeva un filo di saliva che luccicava nel debole chiarore della lampadina.
    Il signor Van Toen sentì il sangue gelarglisi di colpo nelle vene. Del bambino, nessuna traccia. C'era solo quel piccolo mostro seduto sul lettino, intento a mangiarsi l'orso di pezza.
    “Oh no!” pensò il signor Van Toen “Questo significa che ha già divorato il bambino”.
    A quell'atroce pensiero il signor Van Toen fu lì lì per svenire, ma subito si riprese, ritrasse la testa e richiuse silenziosamente la porta.
    Per fortuna il mostriciattolo non si era accorto di lui. Col cuore in tumulto, il signor Van Toen, in punta di piedi, scese le scale, infilò la porta d'ingresso e uscì incespicando nel buio.
    Appena rientrato a casa sua, afferrò il telefono e compose il numero del recapito dei vicini.
    “Cos'hai, Harrie? Ti vedo molto pallido” disse sua moglie. Lui non le rispose: dall'altro capo del filo qualcuno aveva alzato il ricevitore.
    “Pronto? Qui Van Toen” disse il signor Van Toen con voce strozzata. “Correte subito a casa. Temo che il vostro bambino sia stato divorato da un mostro”.
    La signora Van Toen si sentì mancare.

    Dieci minuti più tardi, il campanello suonò per la seconda volta. Sulla porta c'era il vicino, ancora infagottato nella sua pesante tenuta invernale. “Vengo a tranquillizzarla” disse con aria cordiale “Il nostro bimbo dorme pacifico, senza neanche un graffio”.
    Il signor Van Toen non ci capiva più niente. “Com'è possibile?” balbettò “Avrei giurato che...”
    “Venga a vedere” lo invitò affabilmente il vicino.
    Il signor Van Toen lo seguì in casa, salì le scale ed entrò nella cameretta. Accanto al lettino c'era la moglie del vicino, che nella fretta non aveva ancora trovato il tempo di sbarazzarsi dei pesanti indumenti invernali. “Guardi pure” disse il vicino, sfilandosi il cappotto.
    La stanza, ora, era illuminata da un lampadario centrale. “Vede? Dorme come un angioletto” sussurrò la vicina. Il signor Van Toen vide.
    Il piccino dormiva, scoperto fino alla vita e con un pollice ficcato in bocca fra i due canini sporgenti. Con i piccoli artigli stringeva un lembo del lenzuolo, scuotendo leggermente nel sonno le piccole orecchie puntute. Col braccio libero si stringeva al petto l'orso di pezza tutto sbocconcellato.
    “Povero tesoro, si è un po' agitato nel sonno” disse intenerita la vicina. “Si sarà stizzito perché l'abbiamo lasciato solo, e così si è mangiato mezzo orso e ha grattato via un po' di carta da parati dietro il lettino”.
    Il signor Van Toen era rimasto senza parole. Poi, vacillando, si girò per andarsene. Il vicino e la vicina, che nel frattempo si erano sbarazzati di sciarpe, berretti e cappotti, gli sorridevano affabilmente, scoprendo due paia di lunghi canini e scuotendo leggermente le orecchie puntute.
    “Grazie per le sue premure, carissimo, e arrivederci a presto” disse il vicino, porgendo una mano dai lunghi artigli affilati al signor Van Toen. Il quale schizzò in mezzo ai due vicini, e senza salutare si precipitò con un grido giù per le scale, fuggendo verso il suo caldo nido domestico.
    I vicini si guardarono in faccia, interdetti. “Però, che strano tipo quel signor Van Toen” dissero. Poi risero, con una strana voce singhiozzante.
    Fuori continuava a nevicare, come se avesse intenzione di non smettere mai più.
  8. .
    CITAZIONE (Nickname Banale @ 11/7/2013, 18:46) 
    Cavolo che glitch inquietanti... Non giocherò mai a The Sims

    Eresia u.u
    Devi giocare a The Sims, non sai cosa ti perdi u.u
  9. .
    Luogo omicidi: Inghilterra – Londra; Scozia – Dundee
    Periodo omicidi: 1888 – 1889
    Vittime: 2+, donne

    Tutti voi conoscete Jack lo Squartatore, ma forse non conoscete altrettanto bene altri killer a lui coevi.
    A Londra, negli stessi anni in cui è attivo lo Squartatore, opera un altro serial killer che si accanisce contro le donne che abitano nella zona dell'East End. Il suo nome è William Henry Bury e non è riportato praticamente in nessuna delle tante enciclopedie scritte sugli assassini seriali, anche se la polizia londinese ipotizzò addirittura che potesse essere proprio lui l'inafferrabile “Jack”.

    William Bury nasce a Stourbridge, nel Worcestershire, ma la sua infanzia rimane avvolta nel mistero. Della famiglia, si sa soltanto che il padre vendeva il pesce ed era talmente preso dalla sua attività che dedicava pochissimo tempo al figlio. Nel novembre del 1887, Bury arriva a Londra e si stabilisce nell'East End.
    Dagli archivi di Scotland Yard, risulta che Bury ha lavorato come macellatore di cavalli, prima di stabilirsi a Londra. Per ragioni sconosciute, una volta giunto nella capitale, non ne vuol sapere di continuare la vecchia professione e decide di lavorare come segretario per un certo James Martin. Si sistema a vivere in un appartamento con Martin e la moglie e, ben presto, incontra una donna che sarà la sua futura moglie, Ellen Elliot. Si sposano poco dopo essersi conosciuti e vanno a vivere da soli in un altro appartamento, pagando l'affitto con i soldi che la moglie ha ereditato dalla morte di una zia.
    Il comportamento di Bury subisce una degenerazione graduale ma costante. Diventa un alcolizzato, un ladro e un noto pervertito che s'impadronisce dei soldi della moglie spendendoli quasi tutti per ubriacarsi e andare a prostitute. Con il passare del tempo, e bevendo sempre di più, il suo odio per le donne diventa incontrollabile. Riesce a relazionarsi soltanto con le prostitute, perché la loro autostima è a un livello molto basso proprio come la sua. A un certo punto, Bury si accorge di aver contratto la sifilide in uno dei numerosi rapporti sessuali con le prostitute e “si diverte” a infettare anche la moglie. Il fatto di avere la sifilide contribuisce a far degenerare ancora più velocemente il suo comportamento e prende anche l'abitudine di dormire con un coltello sotto il cuscino.
    La violenza di William Bury esplode nel febbraio 1888, quando aggredisce una donna di 38 anni e, con il coltello che si porta sempre appresso, le squarcia le gambe e i genitali. Incredibilmente, la donna sopravvive così come un'altra che viene aggredita nella propria abitazione la notte del 28 marzo. Bury s'introduce nella casa della seconda vittima e le chiede dei soldi per andare con delle prostitute, poi, senza alcun motivo, la pugnala due volte alla gola. Il 7 aprile, cerca di tagliare la gola alla moglie, ma lei lotta e riesce a respingerlo. Il 20 dicembre, nelle prime ore della mattina, attacca per strada una donna con estrema violenza, la strangola lentamente, cosa che lo riempie di soddisfazione, e seppellisce il cadavere poco distante dalla sua abitazione.
    Nel gennaio 1889, Bury si trasferisce con la moglie nella città di Dundee in Scozia, sostenendo di aver ricevuto un'offerta di lavoro, mentre, in realtà, voleva solo scappare. Il 5 febbraio, aggredisce la moglie nel loro appartamento e la strangola con un pezzo di corda. Dopo aver disteso il cadavere, le squarcia l'addome con il coltello ed estrae le budella. Non sapendo come sbarazzarsi del corpo, si reca alla polizia dicendo che la moglie è stata uccisa da uno sconosciuto che si è introdotto in casa. La polizia non gli crede e lo arresta, accusandolo dell'omicidio della moglie.
    Il 24 aprile 1889, William Henry Bury è condannato all'impiccagione, che viene eseguita pochi giorni dopo. Fino all'ultimo, Bury non mostra alcun segno di rimorso per i suoi crimini.

    Tratto da: "I serial Killer" di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca
  10. .
    Luogo omicidi: Svezia – Sala (Stoccolma)
    Periodo omicidi: 1930 – 1936
    Vittime: 7 + (5 uomini, 2 donne)

    Esistono diverse tipologie di Assassino seriale, una fu introdotta da un nostro connazionale, Ruben De Luca: L'Assassino serial per Induzione. Egli è molto abile nell'esercitare il suo potere mentale in modo tale che altri individui, a lui legati a vario titolo, compiano degli omicidi su suo diretto comando, oppure, eventualità che rende il soggetto ancora più pericoloso, tramite un processo di influenzamento nascosto ma estremamente persuasivo.
    Un tipico esempio di questa tipologia è rappresentato dal caso del Dottor Sigvard Thurneman, uno psichiatra svedese specializzato in ipnosi che ha utilizzato la sua capacità per indurre alcuni pazienti a commettere una serie di rapine e omicidi. Il caso, singolare e unico nel suo genere, è praticamente sconosciuto alla maggior parte degli studiosi.

    Fra il 1930 e il 1936, una serie di rapine accompagnate da omicidi inspiegabili si verificò nella piccola città di Sala, nei pressi di Stoccolma. Le vittime non avevano nessun rapporto fra di loro e appartenevano alle tipologie più disparate: un uomo chiamato Eriksson venne trovato morto in un lago ghiacciato, gli avevano sparato, un ricco ingegnere minerario e la moglie vennero trovati morti nella loro casa incendiata e svaligiata, anche a loro avevano sparato, alla testa. Una donna di nome Blomqvist fu trovata uccisa con il solito colpo di pistola nella sua casa bruciata e l'ultima vittima, nel giugno 1936, fu un cavatore che stava trasportando le paghe dei suoi dipendenti. In quest'ultimo caso, un uomo anziano sentì uno sparo e, recatosi alla polizia, disse di aver visto una macchina americana che si allontanava velocemente. La descrizione della vettura fu pubblicata su tutti i giornali e i criminali, presi dal panico, abbandonarono l'auto per strada.
    Attraverso capillari indagini in tutti i garage della città, la polizia arriva a rintracciare un meccanico implicato nei delitti, un uomo di nome Hedstrom, e il regista occulto di tutti gli avvenimenti, il dottor Sigvard Thurneman. Hedstrom racconta di aver conosciuto il dottore all'università di Uppsala, dove Thurneman era particolarmente attratto dall'ipnosi e dall'occultismo e parlava in continuazione di quanto sarebbe stato bello pianificare dei “crimini perfetti”. La prima vittima, Eriksson, era uno dei pazienti di Thurneman ed era stato regolarmente ipnotizzato per problemi nervosi. Thurneman perfezionò la tecnica che gli permetteva di controllare i pazienti più influenzabili, fra i quali anche Hedstrom,. Tramite l'ipnosi e di indurli a commettere omicidi e rapine.
    Messo alle strette con la confessione di Hedstrom, anche Thurneman si decise a confessare e, in prigione, scrisse un'autobiografia nella quale raccontava dettagliatamente della sua capacità di manipolare e dominare quella che chiamava la sua “banda”.
    Non si conosce quasi nulla della biografia di Sigvard Thurneman, ma si sa che era stato un bambino di salute cagionevole e di corporatura più piccola rispetto ai coetanei. Fra le materie che lo appassionavano, c'erano le pratiche dello yoga ed era anche implicato nel traffico delle prostitute: seduceva ragazze minorenni usando l'ipnosi e le vendeva agli sfruttatori. Thurneman era bisessuale e la polizia scoprì che, attraverso le tecniche ipnotiche, aveva suggestionato così profondamente uno dei suoi amanti di sesso maschile da spingerlo al suicidio. In un'altra occasione, creò uno stato di ipnosi profonda in uno dei suoi pazienti e gli iniettò una dose letale di veleno.
    Il suo sogno era quello di diventare milionario e ritirarsi in Sud America e, quando venne arrestato, aveva progettato di rapinare una banca di Stoccolma facendola esplodere con un gran quantitativo di dinamite.
    Sigvard Thurneman divenne “pazzo” all'improvviso e fu trasferito in un manicomio criminale.

    Tratto da: "I serial Killer" di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca
  11. .
    Luogo omicidi: Stati Uniti - Monmouth, Chicago (Illinois), Indiana
    Periodo omicidi: 1966
    Vittime: 12 +, donne

    Richard Speck nasce a Kirkwood (Illinois) il 6 Dicembre 1941. Quando ha solo 6 anni, i genitori, che fino a quel momento avevano vissuto in una piccola cittadina, decidono di trasferirsi a Dallas. Fin da piccolo, aveva un carattere particolarmente irrequieto e si metteva spesso nei guai. Ben presto, divenne un criminale abituale che si faceva notare per ubriachezza molesta, condotta disordinata e violenta e furti, collezionando ben trentasette arresti nella sola Dallas. Spesso, prendeva parte alle risse che scoppiavano nei bar, quando non era lui stesso a scatenarle: la sua concezione di una "bella serata" era quella di ubriacarsi, ingoiare delle pillole, andare in un bar e iniziare una rissa; se riusciva a menare per bene le mani e a fare molto male agli altri, considerava riuscita la serata, altrimenti si metteva a girare per le strade fino a quando non trovava un vagabondo da picchiare selvaggiamente per sfogarsi e poi se ne tornava a casa e dormiva soddisfatto.
    Nel 1961, Speck trova un lavoro part-time come netturbino, sposa una ragazza di quindici anni e ha un figlio. Nel 1965, viene accusato di aver assalito, in un parcheggio, una donna con un coltello. Dopo aver fatto il netturbino per un periodo, trova lavoro in un cantiere navale, finché, nel 1966, non ebbe una violenta discussione con un ufficiale che gli fece perdere il posto di lavoro. Nello stesso anno, la moglie chiede la separazione, perchè violento. Speck faceva uso smodato di droghe e alcolici e questo aumentava la sua violenza, impedendogli di mantenere un lavoro stabile, anche perché il posto in cui gli piaceva più stare erano i bar. Era talmente violento che tentò di uccidere anche il suocero perché lo aveva contrariato durante una discussione.
    Speck è ossessionato dal sesso e gli piace aggredire le donne per fare quello che lui chiama "del buon sesso violento".
    Per molti anni considerato erroneamente un mass murderer, il crimine per cui Speck divenne famoso e fu arrestato accadde nel 1966, quando lui si introdusse di notte in un dormitorio nel quale si trovavano nove infermiere. Speck lega le ragazze, le violenta e ne uccide otto. La nona infermiera, la filippina Corazon Amurao, si salva semplicemente perché, a un certo punto, lui è frastornato, perde il conto delle vittime e lei finge di essere morta, aspettando che Speck se ne vada. La Amurao va alla polizia e la sua descrizione contribuisce in maniera determinante a farlo catturare.
    Prima del massacro del dormitorio, ha ucciso altre quattro donne, ma la polizia sospetta che possa aver ucciso anche altre ragazze. Stuprava e derubava le vittime, poi le strangolava, le pugnalava ripetutamente e, come atto conclusivo, tagliava loro la gola; in uno degli attacchi, mutila l'ano della vittima di turno con un coltello.
    Condannato a morte, riceve la commutazione della pena in ergastolo nel 1972. Richard Speck muore in carcere nel 1991, dopo aver manifestato un comportamento violento anche dietro le sbarre.


    Tratto da: "I serial Killer" di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca


    Edited by Shira™ - 8/7/2013, 16:25
  12. .
    Per Markie e Robbie, Willie Waterman era un incubo. Dal giorno in cui li aveva avvicinati a scuola, il terrore di Doppiovù li perseguitava addirittura nei sogni. E Doppiovù lo sapeva. Lo sapeva fin dal primo momento in cui aveva visto i due amici sul piazzale della scuola. Aveva fiutato l'odore della loro paura, come sanno fiutarla gli animali. E si era convinto di aver trovato due vittime consenzienti. Due mocciosi che avrebbero fatto tutto ciò che voleva lui.
    Da quel giorno, era sembrato che una nera nube stesse sospesa in permanenza sulle teste di Markie e Robbie. Ogni giorno, appena finite le lezioni, i due svicolavano per i corridoi verso il portone della scuola, fermandosi a ogni angolo per sbirciare cautamente se per caso non ci fosse appostato dietro Doppiovù. Ma alle volte Doppiovù spuntava all'improvviso alle loro spalle per tormentarli con tirate di capelli, pizzicotti a cavatappi e pestate di piedi. E quando pensava di averli tormentati abbastanza, li minacciava: “Siete avvertiti! Domani mi porterete un fiorino, sennò...”
    Poi strizzava malignamente un occhio e si allontanava ridacchiando, con passo dondolante, lasciandoli lì tutti tremanti.
    Quando finalmente erano sulla via di casa, i due amici giuravano e spergiuravano che quella sarebbe stata l'ultima volta: non dovevano più lasciarsi provocare da quel grosso prepotente. Ma la notte, a letto, quando non riuscivano a prender sonno per tutti quei problemi che ronzano per le teste di tutti i ragazzi, vedevano apparire nel buio la faccia ammiccante di Doppiovù. E sentivano nella loro immaginazione quel ridacchiare beffardo.
    Così, l'indomani, sia Markie che Robbie prendevano di nascosto un fiorino dal portafoglio dei loro genitori, nella speranza che in futuro Doppiovù li lasciasse in pace. Ma era una vana speranza, perché Doppiovù pretendeva sempre più spesso del denaro. E un giorno, per dare più forza alle sue pretese, fece sanguinare con un pugno il naso di Markie.
    Da quel giorno Markie se la legò al dito.

    L'unico mezzo per evadere da quel clima di terrore, era la fantasia. Nel tempo libero, ma spesso anche a scuola, Markie e Robbie imbastivano le storie più fantastiche, nelle quali riuscivano a sbarazzarsi per sempre di Doppiovù. E più Doppiovù li terrorizzava, tanto più svariati erano i modi che Markie e Robbie architettavano per annientarlo. Lo spingevano in fondo a profonde voragini, lo colpivano con dei missili, lo davano in pasto a mostri antidiluviani o lo mollavano giù da un aereo. E ogni volta che avevano inventato una nuova storia, si sentivano un po' più su di giri.
    “Colpa tua, Doppiovù!” gridavano allora “Ben ti sta!”. Finché non si rivedevano davanti Doppiovù in carne e ossa, che strizzava l'occhio sogghignando. Allora ridiventavano di colpo due cagnolini tremanti che eseguivano buoni buoni tutti gli ordini del tiranno.

    Un giorno, dopo la scuola, Markie e Robbie si inoltrarono per uno dei sentieri segreti del bosco dove spesso andavano a giocare. Negli ultimi giorni era piovuto a dirotto, e il sentiero era melmoso e tutto costellato di pozzanghere. A un certo punto, Markie si fermò su due piedi, fissando pensoso il sentiero.
    “E ora?” mormorò “Non si può proseguire senza cacciare i piedi nelle pozzanghere o cercare di saltarle”
    “Che problema è?” disse Robbie, che non capiva ancora dove l'amico volesse andare a parare. Markie lo guardò stupito.
    “Ma Robbie, sai benissimo che le pozzanghere sono un pericolo mortale! Che c'è dentro ogni specie di esseri spaventosi. Spiriti e creature viscide che stanno in agguato nel fango”
    Markie capì
    “Ma certo! Che stupido!... Non ci avevo pensato!”
    E la sua fantasia riprese a funzionare a ruota libera.
    Si rimisero allora in cammino sulle punte dei piedi, tenendosi il più possibile sul ciglio del sentiero ed evitando accuratamente tutte le pozzanghere. Se uno le fissava abbastanza a lungo, sembrava effettivamente che quelle pozzanghere gli restituissero uno sguardo colmo di malvagità.
    “Guarda, Robbie!” disse improvvisamente Markie, fermandosi per indicarne una enorme, di almeno un metro e mezzo di diametro. La pozzanghera li fissava immobile, come un gigantesco occhio minaccioso. Di tanto in tanto qualcosa ribolliva in superficie, come se una creatura fangosa ruttasse sotto la melma.
    “Visto?” sussurrò Markie, quasi con venerazione. “Questa è pericolosissima, credi a me. Se per disgrazia ci resti impantanato, non ne vieni più fuori. E' una pozzanghera viva! E sta in attesa di qualcuno... Qualcuno da risucchiare, da trascinare nel fondo”
    Si guardarono in faccia, colpiti dalla stessa idea. E pensando a Doppiovù, sogghignarono. Avevano tanto rimuginato su un sistema fuori dell'usuale per liberarsi da Doppiovù, e ora le loro fantasticherie prendevano forma.
    C'era forse, per vendicarsi di Doppiovù, un sistema migliore che attirarlo in quell'orrida pozza? Dritto nelle grinfie di un mostro di fango?
    Quanto più ci ricamavano sopra con la fantasia, tanto più Markie e Robbie si entusiasmavano. Vedevano mentalmente tutta la scena.
    “D'accordo: facciamolo!” esclamò Markie.
    “Quando?” chiese Robbie.
    “Domani dopo la scuola” rispose Markie. Si guardarono negli occhi e seppero che stavolta era quella buona.

    Il giorno seguente, all'uscita della scuola, Markie e Robbie rimasero ad attendere trepidanti sul piazzale. Appena varcato il portone della scuola, Doppiovù li vide e secondo il suo solito s'incamminò verso di loro con la sua andatura dondolante. I due amici lo attesero con le gambe tremanti.
    “Ohè, pulcini” ghignò Doppiovù “Non vi mettete a scappare alla mia vista? Bhe, mi fa piacere, perché per domani ho urgente bisogno di soldi”. Markie e Robbie si guardarono, entrambi col viso in fiamme.
    “Puoi scordartene!” sbottò Markie “Da noi non avrai più niente, pallone gonfiato!”
    Doppiovù prese un'aria così esterrefatta da riuscire quasi comica. Poi si precipitò con le braccia protese sui due ragazzi, ma loro se l'erano già data a gambe, come se ne andasse della loro pelle.
    Alle loro spalle sentivano rimbombare sul selciato gli stivali di Doppiovù, il quale urlava loro insulti d'ogni genere, di quelli che non si trovano neanche sul vocabolario. Ma Markie e Robbie mantennero lo sprint fino all'imbocco del piccolo sentiero segreto nel bosco, poi seguitarono a correre per un buon tratto, sorvegliandosi a vicenda con la coda dell'occhio. Raggiunsero il pantano al centro del sentiero e lo aggirarono di corsa. Giunti dalla parte opposta, si fermarono. Doppiovù esitò, stupito, e anche lui rimase fermo sull'orlo del pantano.
    “Vi ho preso, mocciosi!” ringhiò “A quanto pare, siete troppo spompati per seguitare a correre!”
    “Niente affatto” ribattè Markie “Ci siamo fermati solo per dirti che sei una frana. E non puoi prenderci, perché fra noi e te c'è questa pozzanghera”
    Con la faccia paonazza di rabbia, Doppiovù fece un passo avanti, puntandoli come un toro infuriato. Coi suoi pesanti stivali s'inoltrò nel pantano...e cacciò un urlo.

    Markie e Robbie videro coi propri occhi Doppiovù affondare nella pozzanghera fino al ginocchio. Il pantano ruttò e Doppiovù imprecò a gran voce. Una gamba gli era rimasta imprigionata nel fango. Allora cercò di puntellarsi con l'altra gamba, agganciando una radice d'albero con la punta dello stivale. Ma a quel punto lo stivale gli si sfilò dal piede, Doppiovù perse l'equilibrio e cadde bocconi nella melma.
    “Ben ti sta, Doppiovù!” gridarono Markie e Robbie “Ora lo spirito della pozzanghera viene a prenderti”. E lasciando Doppiovù a scalciare furiosamente nel pantano, Markie e Robbie spiccarono la corsa verso casa.
    Alle loro spalle, sentirono le grida di Doppiovù farsi sempre più fioche e lontane.
    “Gliel'abbiamo fatta!” esclamò Markie, e dal gran piacere Robbie gli sferrò un pugno sul groppone.

    Il giorno dopo, Doppiovù on comparve a scuola.
    “Chiaro: si vergogna come un can bagnato” disse Markie. Ma Doppiovù non comparve neanche il giorno successivo. Alla fine della settimana l'insegnante raccontò che da qualche giorno Doppiovù era scomparso. Qualcuno dei compagni l'aveva forse visto?
    Markie e Robbie tennero la bocca chiusa. Ma all'uscita da scuola ne parlarono tra loro. Che la scomparsa di Doppiovù avesse a che fare col loro scherzo? Che Doppiovù si vergognasse a tal punto da non osare di presentarsi a scuola?
    “Oppure” disse d'un tratto Robbie “Pensi che in quella pozzanghera ci fosse realmente un mostro?... Ma l'avevamo solo inventato, no?”
    Markie gli lanciò uno sguardo strano.

    Decisero di recarsi, tanto per fare, a dare un'occhiatina alla pozzanghera.
    Era ancora lì, nera e larga al centro del sentiero, e a quell'ora rifletteva la luce del sole.
    “Guarda là!” esclamò Markie.
    Sull'orlo della pozzanghera, accanto a una radice d'albero, giaceva uno stivale. Lo stivale di Doppiovù.
    Markie e Robbie si guardarono in faccia, ed entrambi si sentirono improvvisamente a disagio, Il fruscio del vento fra gli alberi era cessato.
    All'improvviso, dalla pozzanghera uscì un gorgoglio. Robbie impallidì e si aggrappò a Markie. Ed ecco che dalla melma, lentamente, emerse una mano nera di fango, che agguantò la radice dell'albero. Poi comparve un ciuffo di capelli, e alla superficie della pozzanghera comparvero due occhi. E lentamente, aggrappandosi alla radice, emerse Doppiovù in persona, completamente coperto di fango e viscidume.
    Markie e Robbie erano rimasti impietriti, incapaci di credere ai propri occhi. Doppiovù si issò sull'orlo della pozzanghera, afferrò il suo stivale e se lo infilò. Poi girò la testa e li guardò sogghignando. Risuonò nuovamente il suo riso beffardo.

    Sul momento, Markie e Robbie pensarono a uno scherzo di cattivo gusto. Forse Doppiovù era stato nascosto per tutto quel tempo fra le piante e, per terrorizzarli, si era calato nel pantano sentendoli arrivare. Ma quando, un momento dopo, un largo raggio di sole si fece strada fra gli alberi e cadde proprio su Doppiovù, Markie e Robbie cacciarono un urlo di terrore.
    Potevano vedere attraverso Doppiovù! Vedere in trasparenza gli alberi e i cespugli dietro di lui, come se la sua persona non avesse consistenza!
    Doppiovù si drizzò in piedi e, lentamente, cominciò ad avanzare verso di loro, trasparente come una tendina dietro una finestra. Con un grido, i due ragazzi girarono sui tacchi e seguitando a strillare fuggirono lungo il sentiero, senza badare a dove mettevano i piedi, mentre l'eco della risata di Doppiovù sembrava seguirlo implacabile nel fruscio dei cespugli, nel mormorio degli alberi.
    Corsero a rotta di collo, e solo all'uscita del bosco smisero di udire quella voce. Ma non si fermarono finchè non furono al sicuro nelle loro case.
    Il giorno seguente, Markie e Robbie non sapevano più se quell'avventura era stata reale o solo frutto della loro fantasia. A scuola fu comunicato che Willie Waterman si era trasferito. Tutto qui.
    Da quel giorno, comunque, Markie e Robbie evitarono come la peste qualsiasi pozzanghera.
  13. .
    Salve, signori e signore! Sicuramente vi starete chiedendo quale sia la funzione di questa discussione. E' presto detto!
    Come voi certo saprete, la letteratura è piena delle creature leggendarie più svariate, alcune spaventose... altre meno. Vi abbiamo dato (e continueremo a darvi) ampia documentazione sulle creature più raccapriccianti e paurose, ma anche quelle meno terrificanti hanno il loro fascino e meritano riconoscimento.
    Tali creature, quindi, troveranno in questa discussione uno spazio per essere ammirate!

    Ma veniamo adesso ai punti cruciali: se volete fornire materiale su una creatura leggendaria, non dovrete fare altro che scrivere la sua leggenda nello Smistamento Creepypasta, se tale Creatura sarà classificata come creepy, la discussione troverà il suo posto nella sezione Creepy Legends, se, invece, non sarà giudicata creepy, non faremo torto alla sua importanza cestinandola, ma riporteremo il testo in questa discussione (correlato ovviamente di credits all'autore) così che tutti possano sapere.

    Detto questo, gustatevi queste straordinarie creature, che forse non vi impediranno di dormire la notte, ma certo saranno capaci di affascinare la vostra mente e la vostra anima ;)

    Fenice
    Tsuchinoko
    Agnello Vegetale
    Sleipnir
    Ghillie Dhu
    Ovinnik
    Brownie
    Bonnacon
    Panozio
    Serpente arcobaleno
    Andvari
    Trolljegeren
    Kodama
    Squonk
    Mokele Mbembe
    Kelpie
    Il mostro di Crawfordsville
    La Huldra
    Leucrotta
    Le Janas
    Ziz
    E altre ancora...

    Edited by RullOmbra - 27/4/2014, 11:33
  14. .

    stemma_zps0fdc83f3
    Lo stemma dell'inquisizione, composto dal ramo d'ulivo (che simboleggia la misericordia) e dalla spada (che simboleggia invece la giustizia)



    Cintura di castità
    Favola vuole che esse servissero per assicurare la fedeltà delle mogli durante le lunghe assenze dei mariti. Può anche darsi che a volte la fedeltà venisse assicurata in questo modo, ma per brevi periodi non certo per tempi lunghi.
    In verità l'uso della cintura era ben diverso, essa serviva in primo luogo a difendere la donna dal pericolo di stupro. Si sa da numerose testimonianze che le donne utilizzavano la cintura di loro spontanea iniziativa. Quindi sorge la domanda: la cintura è o non è uno strumento di tortura? La risposta è sì, perché questa umiliazione era imposta dal terrore di dover subire senza volere le violenza di un uomo.

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    L'aquilone del vescovoNon si sa l'etimo di questa denominazione, la quale compare in alcuni documenti toscani del Seicento. Occorre notare che al prigioniero rimane libera una gamba, egli può così camminare, anche se zoppicando in modo grottesco.
    E' probabile che l'esempio qui presente venisse utilizzato per la punizione di prigionieri forzati ai lavori di manutenzione delle strade e delle strutture militari toscane, forse risalendo al primo '500.

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    La GarrottaDue sono le versioni di questo strumento: quella spagnola in cui la vita tira indietro il collare di ferro, uccidendo la vittima solo per asfissia, e quella catalogna, rappresentata nella foto, in cui un aculeo di ferro penetra e schiaccia le vertebre cervicali mentre al tempo stesso la vite spinge l'intero collo in avanti, forzando la trachea contro il collare fisso ed uccidendo sia per asfissia sia per stritolamento del midollo spinale. Questo secondo tipo è tuttora in uso in alcune località dell'America Latina, per le torture poliziesche e per le esecuzioni.

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    Il Piffero del Baccanaro
    L'anello di ferro viene serrato dietro il collo della vittima, e le sue dita, dopo essere state inserire dentro gli archetti nell'apposita morsa, vengono strette a forza di vite. In genere questa punizione veniva inflitta per punire reati minori. In Italia veniva spesso riservato a chi aveva fatto confusione davanti alla chiesa durante le funzioni.
    Alcune pubblicazioni moderne sostengono che questo strumento venisse usato per i “cattivi musicisti”, ma anche nei secoli più dediti alla tortura chi suonava male veniva semplicemente licenziato dalla banda.

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    Scarpe del servo
    Queste scarpe venivano fatte indossare ai servi indisciplinati e sciocchi. Veniva loro ordinato di camminare senza far suonare la campanella, infatti, non appena essa suonava, il padrone correva a stringere con un giro di vite.

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    Violone delle comari
    Strumento riservato prevalentemente alle donne che rompevano la pace della vita pubblica litigando. Il collo veniva serrato mediante il foro più grande, mentre nei due fori più piccoli venivano inserite le mani. Le donne così legate erano esposte al pubblico ludibrio. Nonostante fosse considerata una pena "leggera", essa non era priva di rischi di morte, soprattutto dovuta alla setticemia, in quanto tale attrezzo veniva portato per più giorni.

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    Cicogna di storpiatura
    Più che una tortura, questo era un sistema per immobilizzare il prigioniero, prima di sottoporlo alle torture vere e proprie, tuttavia, a causa della posizione assunta, finiva per rappresentare esso stesso un primo livello di tortura.

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    Cavallino
    Sembra un semplice ciocco di legno, in realtà la parte superiore forma un bordo tagliente. Il reo vi veniva posto sopra, e, successivamente, venivano legati alle sue caviglie dei pesi, sfruttando così la forza di gravità.

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    Culla di Giuda o la “Veglia”
    Il funzionamento di questo strumenti è in tutto e per tutto simile al precedente. Il malcapitato veniva posto sulla cima della piramide (la punta di norma veniva posta nell'ano, o nella vagina, o contro lo scroto) e dei pesi venivano serrati alle sue caviglie.
    Il carnefice poteva variare la forza del peso gravante dal nulla alla totalità. La vittima poteva essere dondolata o fatta cadere sulla punta ripetutamente.
    Questa tortura era tanto più terribile dal momento che implicava una veglia continua. La penetrazione del cuneo era preordinata in modo tale da non provocare la morte, ma svenimenti o dolori indicibili. Un medico e un notaio dovevano assistere all'operazione, il primo per far ristabilire la vittima in caso di prossimità alla morte, onde poter far ricominciare la tortura, il secondo per verbalizzare ogni singolo momento degli accadimenti.

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    La GognaLa famosissima gogna. Di questo famoso strumento è stata data, negli anni, una versione goliardica, quasi fosse un tipo di pena divertente e leggera. La realtà è ben diversa. Il reo doveva restare bloccato dalla gogna per diversi giorni, inpossibilitato a difendersi da coloro che passavano (che non lesinavano il lancio di sassi, feci, ecc...)

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    La Vergine di Norimberga o Vergine di ferro
    La famosissima Vergine di Norimberga. Come si può vedere dall'immagine, era piena di chiudi atti a ferire il reo, posto all'interno. Le fonti storiche riferiscono che questo strumento era utilizzato prevalentemente in Germania. Chi subiva l'abbraccio della vergine di ferro dopo essere stato stritolato rimaneva attacato alle punte dei chiodi e delle lame quando la Vergine riapriva le braccia.

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    La sedia inquisitoria
    Si trattava di una sedia di ferro, irta di punte acuminate sulle quali veniva fatto sedere l'imputato che, è inutile ricordarlo, era completamente nudo e legato in modo da non potersi alzare. Si procedeva poi accendendo il fuoco sotto la sedia che, in breve, cominciava a scottare, spingendo l'imputato a dimenarsi.

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    Scala di stiramento
    Sullo sfondo si possono notare vari strumenti di tortura, alcuni già descritti precedentemente. Il tavolo, invece, è uno degli strumenti di tortura medievali più famosi. Il reo vi era posto, sdraiato, e i suoi arti venivano legati a un perno, così che il boia, girando una semplice manovella, potesse stendere i muscoli del malcapitato, fino a provocare la fuoriuscita delle ossa dalle loro collocazioni.

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    Culla della tortura
    Culla riempita di chiodi. Il malcapitato vi veniva posto all'interno, quindi veniva "cullato" esattamente come un bambino...ma con effetti ben diversi.

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    Cintura spinata
    Si trattava di un collare munito internamente di aculei. Era utilizzato come punizione per coloro che violavano la disciplina ecclesiastica o familiare, agli ubriachi, alle donne litigiose e alle prostitute. Si restava prigionieri del collare e oggetto del pubblico dileggio fino ad un periodo massimo di sei settimane. Spesso il reo era obbligato a portare sul petto un cartello sul quale era indicato il motivo della condanna.

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    La pera orale, rettale, vaginale
    Questi attrezzi nelle loro varie misure venivano forzati nella bocca, nell'ano o nella vagina della vittima ed indi espansi a forza di vite alla massima apertura dei segmenti. L'interno della cavità colpita viene irrimediabilmente e quasi sempre dilaniato. Le punte che sporgono dai tre segmenti servono per straziare il fondo della gola, del retto o della cervice dell'utero.
    La pera orale veniva spesso inflitta ai predicatori eretici; la pera vaginale invece attendeva le donne ree di rapporti con Satana o con uno dei suoi familiari, ed infine quella rettale gli omosessuali passivi.

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    Maschere d'infamia
    Questa tortura infliggeva allo stesso tempo due tipi di supplizio: quello psicologico e quello fisico. Rendeva ridicoli ed umiliava di fronte al pubblico, ma allo stesso tempo provocava un dolore tremendo poiché stringeva la testa. Questi congegni venivano usati per punire le donne ritenute "bisbetiche" e "litigiose" perché stremate dalla schiavitù domestica e dalle perenni gravidanze. Venivano esposti al pubblico ludibrio anche i non conformisti ed i disobbidienti di piccola tara; ed il potere ecclesiastico retribuiva in tal modo una lunga serie di infrazioni minori.
    La stragrande maggioranza delle vittime consisteva in donne, il principio motivante essendo stato da sempre quello di "mulier taceat in ecclesia", "la donna taccia in chiesa", "chiesa" significando le gerarchie regnanti sia laiche che religiose, entrambe costituzionalmente ginecofobiche; il vero senso quindi era "la donna taccia nella presenza del maschio".
    Molte maschere erano munite all'interno di congegni che entravano nella bocca della vittima ed alcuni di essi mutilavano la lingua con aguzzi aculei e con lamette taglienti. Le vittime, serrate nelle maschere ed esposte in piazza, venivano anche malmenate dalla folla con percosse dolorose, imbrattamenti con sterco ed orina, e ferimenti anche gravi specie ai seni e al pube.

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    Pinze e tenaglie arroventate
    Le tenaglie roventi erano per lo più adoperate per amputare e contemporaneamente cauterizzare le ferite, così da evitare il rapido dissanguamento delle vittima.
    Tutto quello che era asportabile veniva rimosso per mezzo di pinze roventi, a cominciare dalla lingua, per continuare con gli occhi e via di seguito senza, naturalmente, tralasciare i genitali.
    Spesso le torture rendevano storpi e sciancati per il resto della loro vita coloro che le avevano subite, se era loro concesso di vivere. Più spesso, quelli che alla fine confessavano anche colpe che non avevano commesso, preferendo la condanna al protrarsi dei tormenti, venivano condotti al rogo legati a una scala, che svolgeva le funzioni di barella, perché ridotti a un insieme di membra slogate, spezzate e piegate, e incapaci di articolare un solo movimento.

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    Straziatoio di seni Si trattava di strumenti appositi formati da quattro punte che penetravano le carni delle povere torturate condannate per eresia, bestemmia, adulterio, "atti libidinosi", aborto autoprocurato, magia bianca erotica e molto altro.
    Spesso "l'operazione" (eseguita con tenaglie arroventate) veniva preceduta dall'ustione dei capezzoli. In diversi luoghi e tempi - in alcune regioni della Francia e della Germania, fino all'inizio dell'ottocento - un "morso" con zanne roventi veniva inflitto ad un seno delle ragazze madri, sovente mentre le loro creature si contorcevano ai loro piedi.

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    Schiacciatesta
    Lo schiacciatesta già conosciuto nel Medioevo ha avuto largo uso anche in tempi più recenti, specialmente nella Germania del Nord. La sua funzione è di estrema semplicità e non ha bisogno di commenti: sulla testa appoggiata alla barra veniva lentamente calata (a mezzo vite) la calotta sino a spezzare le ossa del cranio.

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    Impalamento
    Consisteva nel conficcare un palo appuntito nell'ano del condannato per poi farlo fuoriuscire dalle spalle, usando una particolare attenzione a non ledere gli organi vitali. In questo modo, l'agonia durava anche giorni, e la sorte delle vittime poteva essere utilizzata come ammonimento per coloro che volevano trasgredire le regole dell'ordine costituito. Spesso, per rendere il tormento più atroce, l'impalato veniva posizionato a testa in giù.

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    Sospensione alla corda
    Uno dei tormenti prediletti dagli inquisitori, e al quale raramente gli accusati sfuggivano, era la sospensione alla corda. Consisteva nel ripiegare le braccia del malcapitato dietro la schiena, legargliene una ai polsi e sollevato da terra per mezzo di una carrucola. Già da solo questo era un supplizio. La pena però non si esauriva qui, perché, quando la vittima era stata sollevata ad una certa altezza, si allentava improvvisamente la tensione in modo da lasciarla cadere con uno strappo, ma non fino a farle toccare terra. Il risultato è che l'omero fuoriesce dalle sue legature con la scapola e con la clavicola, una distorsione questa che crea orrende deformazioni del torace e della schiena, spesso permanenti. Nel caso di un accusato particolarmente cocciuto, presentava l'innegabile vantaggio di potervi inserire degli optional, come per esempio acqua gelida sulla schiena, sui muscoli e i nervi stirati e contratti. In alternativa, si provvedeva ad appendergli ai piedi dei pesi, così da rendere più dolorosi gli strappi in caduta e, se ancora persisteva nel suo "errore", gli si poteva sempre accendere il fuoco sotto le piante dei piedi. Alcune varianti potevano essere le seguenti:
    1- al condannato, appeso per i piedi, viene agganciato un pesante masso al collo; la vittima veniva strangolata e tormentata finché la colonna vertebrale non si schiantava.
    2- il prigioniero veniva cosparso di miele ed altre sostanze dolci e lasciato in balia di molesti insetti come api, vespe e calabroni.
    3- il condannato, sospeso per un piede, ha una gamba legata al ginocchio dell'altra mentre l'altra è appesantita da un oggetto metallico.
    Vicino a Lindau, in Germania, un malfattore fu appeso al patibolo con delle catene di ferro e con ai piedi due grossi cani che, essendo tenuti senza cibo, lo divorarono prima che egli stesso morisse di fame.



    Torture col fuoco
    Il punto in cui venivano prevalentemente usate erano i piedi. Si procedeva in questo modo: dopo aver legato l'interrogato a un'asse, in posizione seduta, gli si ungevano i piedi di lardo, vi si accendeva sotto un fuoco e lo si teneva per la durata della recitazione di un Credo. Spesso, dopo, non si potevano più usare i piedi, come testimoniano gli atti di un processo del 1587 dove una presunta strega ne perde l'uso. Nonostante l'evidenza dei fatti il vicario vescovile di Albenga, suo inquisitore, affermerà: "il fuoco ai piedi fu dato solo a quattro gagliardissimamente indiziate, et a tutte con misura; né è vero che alcuna habbi per questo perso li piedi ma non è anco guarita forse piuttosto per colpa di mala cura che per l'estremità del tormento".
    Comunque sia, a Palermo, nel 1684 e 1716 due condannati all'impiccagione vennero portati sul luogo dell'esecuzione legati a una sedia perché incapaci di reggersi in piedi in seguito al tormento del fuoco.
    Una variante al fuoco a diretto contatto con le carni degli inquisiti erano le uova sode, non da mangiare, ma da applicare, appena tolte dall'acqua bollente, sotto le ascelle o fra le cosce; i tribunali più raffinati e con maggiori mezzi economici sostituivano le uova con sfere di ferri incandescenti. Un carnefice grossolano poteva anche adoperare piccole dosi di olio bollente, da versare goccia a goccia sull'imputato, naturalmente nei suoi punti più sensibili.


    Forcella dell’eretico
    Questo strumento si componeva di due forche, una posta sul torace e l'altra sotto il mento.
    Un collare veniva legato intorno al collo del prigioniero e gli si legavano le mani dietro la schiena.
    Il condannato risultava così impossibilitato anche del minimo movimento per non pregiudicare i punti vitali, ma infine doveva cedere per stanchezza.

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    La tortura dell’acqua
    L'accusato veniva disteso supino su un'asse orizzontale e gli si versava sullo stomaco, per mezzo di un imbuto il cui becco era cacciato fino in gola, da 5 a 15 litri d'acqua. Quando lo stomaco era teso come un otre si inclinava l'asse in modo che l'interrogato venisse a trovarsi con la testa in basso: la pressione dell'acqua contro il diaframma e il cuore provocava dolori lancinanti che, se non erano sufficienti a farlo confessare, venivano aggravati da brutali percosse sul ventre. La tortura dell'acqua fu tanto in voga e per così lungo tempo che, sotto il regno di Luigi XIV, era ancora in auge: così infatti venne interrogata la marchesa di Brinvilliers, che confessò di aver avvelenato tre quarti della sua famiglia, anche se inizialmente si era dimostrata tanto brillante e spiritosa da esclamare, alla vista dei secchi d'acqua che dovevano servire alla tortura: "Di certo serve per farmi il bagno! Non possono pensare che la beva tutta".
    L'ingegno dei torturatori, che non conosceva limite, aveva elaborato un diversivo rispetto al supplizio dell'acqua, consistente nello spingere nella gola del malcapitato un velo bagnato, accompagnato da sorsi d'acqua, finchè non arriva allo stomaco. A questo punto il velo veniva strappato con un unico colpo.
    Purtroppo la tortura del velo non riscosse grande successo: si dimostrò poco appropriata perché, nella maggioranza dei casi, l'interrogato, dopo lo strappo, spirava con le proprie viscere tra i denti.

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    Bollitura e Friggitura
    La bollitura e la friggitura dei prigionieri rappresentavano due torture dal modus operandi molto semplice: si riscaldava un enorme calderone pieno d'acqua o, preferibilmente, olio fino alla bollitura, dopodiché vi si immergeva la vittima, molto spesso inserendo prima la testa.
    Un'altra modalità d'esecuzione era friggere in una vasca o su una griglia il condannato.
    Ancora, quando i carnefici desideravano prolungare l'agonia del prigioniero, lo legavano e lo immergevano in una vasca colma d'acqua od olio, cosicché rimanesse fuori la testa, dopodiché si accendeva un fuoco.

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    Pendolo
    Tortura dell'inquisizione di Spagna che procurava una lenta e tormentosa agonia. La vittima veniva legata su un tavolo molto accuratamente, in modo che potesse muovere solo gli occhi, mentre incombeva su di lei un pendolo grande e pesante con il lato inferiore curvo e tagliente. Ma poi, nell'oscillare avanti e indietro, gradualmente ma in manniera costante, l'asta del pendolo si allungava e il prigioniero in preda al terrore e costretto contro la sua volontà ad osservare i movimenti della lama che scendeva, sopportava l'orrore di vedere il tagli avvicinarsi sempre di più al volto. Alla fine la lama affilata gli squarciava la pelle, continuando inesorabilmente a tagliare fino ad ucciderlo. Ma nella maggior parte dei casi, prima che la lama facesse uscire del sangue, il prigionero cadeva in balia della pazzia.

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    Stivaletto spagnolo
    Lo stivale era considerata dai testimoni dell'epoca la tortura piu' violenta e crudele al mondo. Consisteva in un contenitore di ferro a forma di stivale progettato per racchiudere l'arto nudo, dal piede al ginocchio; tra la gamba e lo strumento venivano inseriti con un martello dei cunei di legno o di metallo. La carne veniva cosi' lacerata e spesso le ossa si schiantavano, frantumandosi in modo spaventoso e disgustoso, mentre il castigo proseguiva finche' la vittima confessava. Era inoltre raro che chi sperimentava questa tortura non rimanesse storpio a vita.


    Guanti di ferro
    Venivano legati ai polsi del prigioniero dei guanti di ferro che tramite una vite venivano gradualmente stretti. Il prigioniero poi veniva fatto salire su dei blocchi di legno e incatenato al soffitto tramite questi "guanti"; rilasciato il supporto di legno, tutto il suo peso gravava sui polsi e i guanti penetravano in profondità la carne gonfiando le braccia.


    Spezzamento con la ruota ferrata
    Questo supplizio, utilizzato soprattutto in Germania ed in Francia, consisteva in due fasi: la prima pubblica, per fornire gli opportuni esempi, in cui alla vittima venivano spezzati degli arti, la seconda in cui, legata la persona alla ruota e issata su un palo, veniva lasciata in balia di volatili e roditori.



    Squartamento
    L'eviscerazione era un metodo di esecuzione largamente diffuso.
    L'addome veniva inciso e un capo degli intestini agganciato ad un ferro e lentamente avvolto sul tamburo del legno. La vittima rimaneva cosciente per lunghe ore e alcune volte la richiesta di giustizia veniva soddisfatta facendo ingoiare al prigioniero le sue stesse viscere, appena estirpate dal ventre.
    Una variante era lo squartamento coi cavalli cui fu sottoposto Robert-François Damiens nel marzo 1757, per avere attentato alla vita di Luigi XV. L'esecuzione più in voga nel medioevo consisteva però nel seguente procedimento: il prigioniero veniva legato con una grossa fune, sia all'altezza delle braccia che delle gambe; le funi erano poi assicurate a una grossa sbarra di legno o di metallo che a sua volta veniva legata a dei cavalli, uno per ogni estremità della vittima. Poi li si costringeva a dare dei piccoli strattoni che l'obbligavano ad implorare pietà. Quando i carnefici si ritenevano infine soddisfatti, frustavano le bestie contemporaneamente, incitandoli in direzioni opposte, in modo da fare a brandelli le membra. Spesso e volentieri il corpo della vittima opponeva resistenza, cosicché i boia lo facevano a pezzi con delle accette, come fa un macellaio con la carne, fino a quando le membra si staccavano dal busto del prigioniero ancora vivo.

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    Ordalia dell’acqua
    Il condannato veniva buttato in acqua legato, in modo che non riuscisse a nuotare. Questo sistema era usato soprattutto nei luoghi di mare. Veniva utilizzato per verificare la colpevolezza di una presunta strega: se essa annegava, era considerata innocente; se l'acqua la respingeva ed essa galleggiava, era considerata colpevole e veniva messa al rogo.
    Un'altra tecnica, la tortura delle barche, può essere così descritta: si prendevano due piccole barche esattamente della stessa misura e della stessa forma. La vittima veniva fatta stendere dentro una delle due, di schiena, lasciando fuori la testa, le mani e i piedi. Poi si capovolgeva la seconda barca sistemandola sulla prima. In questo modo il corpo del condannato veniva rinchiuso nelle due barche, mentre i piedi, le mani e la testa rimanevano fuori. Poi gli si offriva del cibo e nel caso lo rifiutasse, veniva torturato o punzecchiato in altro modo, fin quando accettava l'offerta.
    Il passo successivo consisteva nel riempirgli la bocca con una mistura di miele e di latte, e nello splalmargliela sul volto. Poi lo si esponeva ai raggi cocenti del sole, ed in breve tempo mosche ed insetti cominciavano a posarsi sul viso del prigioniero e a pungerlo, fino a portarlo alla pazzia. E nel frattempo, poiché la natura proseguiva il suo corso, all'interno della barca il cumulo degli escrementi emanava un lezzo terribile ed iniziava a marcire. Quando sopraggiungeva la morte e si sollevava la barca superiore, si trovava il cadavere divorato dai parassiti e si vedevano degli sciami di rumorose creature che gli divoravano la carne, e così pareva, crescevano dentro le sue viscere.
    Un'altra forma di tortura consisteva nel rinchiudere in un sacco la vittima, assieme a delle bestie come un gatto, un gallo, una scimmia o un serpente ed annegarlo.

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    Tortura tedesca
    Si legava un grosso gatto selvatico, chiuso in una gabbia, sull'addome nudo del prigioniero; poi la bestia veniva tormentata e punzecchiata finche preso dalla furia e dalla disperazione strappava con le unghie e con i denti la carne della vittima sotto di sé, rosicchiando fino alle budella.


    Tortura olandese
    Una variante della tortura tedesca, ma più disgustosa. La vittima, spogliata, veniva legata a mani e piedi e posta supina su un piano rigido; un vaso di ferro, pieno di ghiri e ratti, veniva capovolto sullo stomaco del prigioniero. Il passo successivo consisteva nell'appiccare un fuoco a questo contenitore metallico, cosicché le bestie, rese frenetiche dal calore e impossibilitate a scappare, dovessero scavarsi dei tunnel attraverso le viscere del condannato.


    Annodamento
    Questa era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente i capelli delle streghe a un bastone. Quando l'inquisitore non riusciva ad ottenere una testimonianza si serviva di questa tortura; robusti uomini ruotavano l'attrezzo in modo veloce provocando un enorme dolore e in alcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto. Questa tortura era usata in Germania contro gli zingari (1740-1750) e in Russia con la Rivoluzione Bolscevica nel 1917-1918.


    Abbacinamento
    Il supplizio consisteva nel causare la cecità della vittima, o esponendola al sole dopo averla privata delle palpebre, oppure avvicinando un bacino rovente (una sorta di spillone) agli occhi, che venivano forzosamente tenuti aperti.
    Questa forma di tortura era solitamente usata in guerra dai Bizantini, contro i nemici catturati come prigionieri, ma, secondo la leggenda, una illustre vittima fu già Attilio Regolo. Storicamente tale tortura era praticata specialmente contro re che venivano deposti dal trono o anche contro nobili e feudatari che tramavano contro i sovrani.


    La gabbia
    Spesso è stata vista anche in alcuni film ambientati proprio nel Medioevo. La vittima designata veniva posta all’interno di una gabbia metallica approssimativamente fatta a forma del corpo umano. I torturatori potevano anche costringere le vittime in sovrappeso in un dispositivo più piccolo, o anche fare la “bara” leggermente più grande del corpo di una vittima per creare più disagio. La gabbia spesso veniva appesa ad un albero o a una forca. Per i crimini gravi, come eresia o blasfemia, molte persone sono state punite con la morte dentro la bara. La gabbia, esposta al sole, permetteva agli uccelli o altri animali di mangiare la carne degli imprigionati. A volte gli spettatori lanciavano pietre e altri oggetti per aumentare ulteriormente il dolore della vittima.

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    Lo spacca-ginocchio
    Un altro strumento favorito da parte dell’Inquisizione spagnola per la sua versatilità, è stato lo spacca-ginocchio. Era uno strumento con punte affilate attrezzate su entrambi i lati dell’impugnatura. Quando il torturatore girava la maniglia, gli artigli lentamente schiacciavano e penetravano la pelle e le ossa del ginocchio. Anche se il suo uso ha determinato in rari casi la morte, l’effetto è stato quello di rendere le ginocchia completamente inutili. A volte, è stato utilizzato anche su altre parti del corpo compresi i gomiti, le braccia e anche le caviglie. Il numero di punte dello spacca-ginocchio variava da tre a più di venti. Alcuni artigli sono stati riscaldati in anticipo per massimizzare il dolore, altri avevano decine di artigli più piccoli che penetravano la carne lentamente e dolorosamente.

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    Fonti:
    Vari siti internet
    Museo della Tortura di San Gimignano
    Museo della Tortura di Volterra
    Museo della Tortura di San Marino

    Si ringrazia Mordekai per la collaborazione




    Estratto dalle carceri Carlo Verdano



    Trascrizione dell'interrogatorio a Carlo Verdano, accusato di essere un untore

    Interrogato: Che dica che si è risolto a dir meglio la verità di quello che ha sin qui fatto, circa le cose che è stato interrogato e gli sono state mantenute in faccia da Gio Stefano Baruello.
    Risponde: Illustrissimo signore, non so niente
    Interrogato: Che dica la causa perché interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco, che fa l'osteria là a S. Siato, di compagnia del Baruello, non contento di dire una volta no, rispose “Signor no, signor no, signor no”.
    Risponde: Perché non è la verità.
    Interrogato: Che per negare una cosa basta dire una volta di no e che quel replicare “Signor no, signor no, signor no” mostra il calore che lo nega e che per maggior causa lo neghi perché non sia vero.
    Risponde: Perché non vi sono stato.
    Interrogato: Che occasione aveva di scaldarsi così?
    Risponde: Perché non vi sono stato, illustrissimo signore.
    Interrogato: Perché interrogato se aveva mai mangiato col detto Baruello all'osteria sopra la piazza del castello, rispose “Signor no. Mai, mai, mai”.
    Risponde: Ma, signore, vi ho mangiato una volta, ma non solo, ma in compagnia di Francesco barbiere, figliuolo d'Alfonso, e quando ho risposto “Signor no, mai, mai, mai” mi sono inteso di avervi mangiato col Baruello solamente.
    Interrogato: Prima che esso non era interrogato se avesse mangiato là col Baruello solo o in compagnia d'altri, ma semplicemente se aveva mangiato con lui alle dette osterie, e però se gli dice che in questo si mostra bugiardo, poiché allora ha negato e adesso confessa; di più se gli dice che si ricerca di sapere da lui, perché con tanta esagerazione negò di avervi mangiato; né gli bastò di dire no, che anco vi aggiunse quelle parole “Mai, mai, mai”.
    Risponde: Ma, signore, perché, io non vi ho mai mangiato, altro che quella volta ed intesi l'interrogazione di Vossignoria se aveva mangiato con lui solo: e quanto al secondo, dico che mi sfogavo così, perché non vi ho mai mangiato.
    Interrogato: Perché interrogato se ha mai trattato col Baruello, di far servizio al signor D. Giovanni, rispose con parole interrotte: sarà, uh, uh, uh!
    Risponde: Perché non ho mai parlato con lui.
    Interrogato: Chi è questo lui?
    Risponde: E' il figliolo del signor castellano.
    Interrogato: Perché questa mattina interrogato se si è risoluto a dire la verità meglio di quanto fece ieri sera, ha prodotto in queste parole: “Perché io ne sono innocente di quella cosa che mi imputano” le quali parole, oltreché sono fuori di proposito, non essendo mai stato interrogato sopra imputazione che gli sia data, mostrano ancora che esso sappia d'essere imputato di qualche cosa; e pure interrogato che imputazione sia questa, ha detto di non saperlo: onde se gli dice che, oltreché si vuol sapere da lui perché ha detto quella risposta fuori di proposito, si vuol anche sapere che imputazione è quella che gli vien data.
    Rispose: Io ho detto così perché non ho fallato.
    Interrogato: Perché, interrogato se, quando passò sopra la piazza del castello col detto Brunello, videro alcuno, ha risposto prima di no, poi ha soggiunto: “Ma, signore, vi erano della gente, che andavano innanzi e indietro” e dettogli perché dunque aveva detto “Signor no” ha risposto: “Io m'ero inteso se aveva veduto dei compagni” soggiungendo “No, signore, siano per la Vergine Santissima, che non ho fallato”; le quali parole ultime, come sono state fuori di proposito, non essendo egli finora stato interrogato di alcun delitto specificatamente, così mettono in necessità il giudice di voler sapere perché le ha dette, e però s'interroga ora perché dica perché ha detto quelle parole fuori di proposito con tanta esagerazione.
    Risponde: Perché non ho fallato.
    Interrogato: Che sopra tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta, altrimenti si verrà ai tormenti per averla.
    Risponde: Torno a dire che non ho fallato ed ho tanta fede nella Vergine Santissima che mi aiuterà, perché non ho fallato, non ho fallato.

    Allora fu comandato di condurlo al luogo dell'eculeo e ivi sottoporlo a tortura, usando anche la legatura con la canapa affinché rispondesse in modo opportuno alle interrogazioni fattegli, come sopra, e non altrimenti, ecc.; e sempre senza pregiudizio del diritto del reo confesso e convinto e degli altri diritti, ecc.; fu pertanto ivi condotto e, ripetutogli il giuramento di dire la verità, egli giurò ecc. e fu quindi...

    Interrogato: A risolversi a rispondere a proposito delle interrogazioni già fattegli, come sopra, altrimenti si farà legare e tormentare.
    Risponde: Perché non ho fallato, illustrissimo signore.

    Allora, sempre senza pregiudizio, come sopra, agli effetti di quanto sopra, e dopo avergli fatto indossare abiti talari, si comandò che fosse legato, quindi venne sospeso a una fune per il braccio sinistro, dopo che anche al braccio destro fu adattata una legatura di canapa. Indi fu nuovamente interrogato...

    Interrogato: A risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni dategli, come sopra, che altrimenti si farà stringere.
    Risponde: Non ho fallato, sono Cristiano, faccia V.S. Quello che vuole.

    Allora sempre senza pregiudizio, come sopra, fu ordinato che si stringesse e quando fu stretto, fu nuovamente interrogato:

    Interrogato: Di risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni dategli.
    Risponde: Ah, Vergine Santissima, non so niente.
    Di nuovo sollecitato a dire la verità come sopra;
    Risponde gridando: Ah, Vergine Santissima di San Celso, non so niente.
    Dettogli: Che dica la verità, se no si farà stringere più forte! Cioè risponda a proposito.
    Risponde: Ah, signore, non ho fatto niente.

    Allora fu ordinato di stringere più forte e mentre lo si stringeva gli fu chiesto ancora:

    Interrogato: A risolversi a dire la verità a proposito.
    Risponde, gridando: Ah, signore illustrissimo, non so niente.
    Invitato a rispondere opportunamente, come sopra:
    Risponde: Sono qui a torto, non ho fallato, misericordia, Vergine Santissima.
    Interrogato: Di nuovo invitato a rispondere opportunamente come sopra, che altrimenti si farà stringere più forte.
    Risponde, gridando: Non lo so, illustrissimo signore, non lo so, illustrissimo signore.

    Allora fu ordinato di stringere più forte e mentre lo si stringeva fu di nuovo interrogato:

    Interrogato: che risponda opportunamente, come sopra.
    Risponde, gridando: Ah, Vergine Santissima, non so niente.

    Allora, postegli le mani dietro il dorso e legato, fu sollevato col cavalletto:

    Interrogato: A risolversi a rispondere opportunamente alle interrogazioni già dategli.
    Risponde, gridando: Ah, illustrissimo signor, non so niente.
    Interrogato: Che risponda opportunamente, come sopra.
    Risponde: Non so niente, non so niente. Che martirii sono questi che si danno a un Cristiano! Non so niente.
    Gli fu di nuovo domandato come sopra.
    Risponde: Non ho fallato.

    Allora, ad ogni buon fine, fu ordinato che fosse messo a terra e che gli fosse rasato il capo; fu quindi deposto e, mentre lo si radeva, fu di nuovo interrogato.

    Interrogato: A rispondere opportunamente come sopra.
    Risponde: Non so niente, non so niente.

    E, come fu rasato, lo fecero nuovamente salire sul cavalletto, indi...

    Interrogato: A risolversi ormai a rispondere a proposito.
    Risponde, gridando: lasciatemi giù che dico la verità.
    Dettogli: che cominci a dirla, che poi lo si farà lasciar giù.
    Risponde, gridando: lasciatemi giù che la dico.

    Ottenuta questa promessa, fu deposto a terra e indi...

    Interrogato: A dire questa verità che ha promesso di dire.
    Risponde: Illustrissimo signore, fatemi spiegare un pochettino, che dico la verità.
    Dettogli: Che cominci a dirla.
    Risponde: Fu il Baruello che mi venne a trovare in Porta Ticinese, e mi domandò che andassi con lui per certo fenomeno che era stato rubato, e disse che avessimo chiappato un villano che aveva lui una cosa da dargli per farlo dormire, ma non vi andassimo. Indi disse: Mio signore, Vossignoria mi faccia slegare un poco, che dico ciò che Vossignoria ha gusto.
    Dettogli: Che cominci a dire, poi si farà slegare.
    Risponde: Ah, signore, fatemi slegare che sicuramente vi darò gusto, vi darò gusto.

    Ottenuta tale promessa, fu ordinato così, e fu sciolto, indi gli fu detto:

    Interrogato: A dire la verità che ha promesso di dire.
    Risponde: Illustrissimo signore, non so che dire, non so che dire, non si troverà mai che Carlo Vedano abbia fatto veruna infamità.

    Sollecitato a dire la verità che ha promesso di dire, che altrimenti si farà di nuovo legare e tormentare, senza remissione alcuna.

    Risponde: Se io non ho fatto niente!

    Nuovamente sollecitato, come sopra.

    Risponde: Signor senatore, vi sono stato a casa di messer Gerolamo a mangiare col Baruello, ma non mi ricordo della sera precisa.

    E, poiché non voleva dire altro, fu comandato di legarlo per il braccio sinistro alla fune, e per il braccio destro al canape e, così legato, prima che si stringesse:

    Interrogato: Che risponda opportunamente, come sopra.
    Risponde: Fermatevi, vossignoria aspetti, signor senatore, che voglio dire ogni cosa.
    Dettogli: Che dunque dica.
    Risponde: Se non so che dire.

    Allora fu comandato di stringere, e mentre lo si stringeva esclamò:

    Aspettate che voglio dire la verità.
    Dettogli: Che cominci a dirla.
    Risponde: Ah, signore, se sapessi che cosa dirle, direi: Ed urlò: Ah, signor senatore!
    Dettogli: Che si vuole che dica la verità.
    Risponde: Ah, signore, se sapessi che cosa dire la direi.
    E fu ancora sollecitato a dire la verità, come sopra.
    Risponde gridando: Ah, signore, signore, non so niente.

    E fu allora comandato di stringere di più, e mentre lo si stringeva, gli fu sollecitato di risolversi a dire la verità promessa, e di rispondere a proposito.

    Risponde, gridando: Non so niente, signore; signore non so niente.
    E, poiché era stato alla tortura per un tempo sufficiente ed era evidente che soffriva molto, e che d'altra parte non vi era altro da sperare da lui, fu comandato di scioglierlo e di ricondurlo in prigione, ciò che fu fatto.

    Fonte: "Storia della tortura" di Franco Di Bella



    Processo verbale della tortura e del supplizio del signore de La Môle



    Innanzi a noi Pierre Hennequin, presidente del Parlamento di Parigi, camera criminale, si è fatto condusse il signor Joseph de Boniface, signore de La Môle.
    Avvertito e premurato di dire la verità sulla congiura.
    Ha risposto: “Iddio mi è testimone se io ne so altro di quanto dissi”.
    Osservatogli che non entrerà giammai in Paradiso se non sgrava la coscienza.
    Risponde: “Non so nulla, imploro la grazia di parlare col mio signore, il duca di Alençon”.
    Fattogli rimarcare che il duca ha tutto confessato come poteva leggere nella confessione da lui sottoscritta.
    Risponde: “Ove avete trovato un solo testimone che mi accusi?”.
    Fu preso dai manigoldi che assistevano il carnefice e spogliato nudo.
    Scongiurato di rendere l'anima netta a Dio e di non più sperare dagli uomini. Avvertito di purgare l'anima sua e dichiarare quali furono i discorsi tenuti nella Settimana Santa in casa di La Môle.
    Risponde: “Non so nulla”.
    Persistendo nelle sue negative ed essendo spogliato gli trovarono un “Agnus dei” al collo, fu poi legato alla fibbia ed ebbe il primo tratto di corda.
    Dimandato se avesse preso la Pasqua.
    Risponde: “La presi”.
    Dopo il secondo tratto di corda fu scongiurato a dire la verità.
    Risponde: “Non so nulla”.
    Gli fu messo il borzacchino e si fece entrare la prima zeppa di ferro, premurato di parlare e dire il vero.
    Non rispose!
    Si fece entrare la seconda zeppa di ferro.
    Risponde: “Toglietemi dalla tortura e dirò la verità”. Fu sciolto e condotto presso il fuoco. Alle premure fatte di parlare.
    Risponde: “Io non so altro. Oh povero La Môle, io domando di andare in un convento e di pregare Iddio fino alla fine dei miei giorni”.
    Avvertito di dire la verità.
    Risponde: “Non so altro”.
    Interrogato di dire la verità sul significato di talune cifre di corrispondenza, di una statuetta di cera trovata in casa sua. Per quale uso servisse la statuetta.
    Risponde: “Le cifre servivano per corrispondere col Conte e parlare di talune dame della corte. La statuetta è l'immagine di una donna che amo”.
    Esclamando: “Signore, fatemi morire all'istante”.
    Fu di nuovo messo alla tortura, gli legarono i borzacchini, si ricominciò al maglio a spingere le zeppe di ferro. Alle premure di parlare grida: “Io non so altro, per la mia anima dannata. Lo giuro sul Dio vivente. - Oh, vero Dio eterno – Mio Dio, io non so altro – Soffro troppo – Fatemi morire. Oh povero La Môle, che dolore”.
    Si cominciò l'altra tortura dell'acqua.
    Prega di cessare e parlerebbe.
    Fu sciolto e portato vicino al fuoco.
    Risponde: “Non mi torturate più. Sulla dannazione dell'anima mia io non so niente”.
    Fu rivestito, disse molte orazioni e venne consegnato al carnefice.
    Oggi 30 Aprile 1574. Firmato Hennequin, Conclusione:
    “La corte del Parlamento, visto il processo criminale istruito per la congiura tramata contro il Re, il reame e lo stato, contro Joseph de Boniface, signore di La Môle e il conte Annibal De Coconnas – dichiara entrambi colpevoli e convinti del delitto di lesa maestà e li condanna a essere decapitati su un paco eretto in piazza de Grêve. I loro corpi squartati in quattro pezzi verranno inchiodati sulle quattro porte principali di Parigi e le teste messe su due pali piantati in piazza de Grêve. Sentenza pronunciata ed eseguita il trentesimo giorno d'Aprile del 1574”.

    Fonte: "Storia della tortura" di Franco Di Bella


    Edited by Shira™ - 2/1/2014, 15:42
  15. .
    Chiunque fosse cacciato di classe, doveva presentarsi al signor Drakenborch, ovvero il Drago, come gli alunni avevano soprannominato il direttore.
    Il Drago riceveva i rei nel suo ufficio particolare, noto per questo motivo come “la camera di tortura”.
    Quando qualcuno bussava alla porta gli rispondeva la voce nasale del signor Drakenborch, che sedeva dietro una grande scrivania di quercia.
    “Avanti!”
    Jasper aprì la porta e varcò esitando la soglia.
    Alla luce della lampada da tavolo, il Drago stava curvo su un fascio di carte. La stanza era in penombra per via dello spesso tendaggio davanti alla finestra.
    Jasper si fermò sul vano della porta e attese.
    “Chiudi!” disse il Drago senza alzare gli occhi. Obbediente, Jasper tirò a sé il battente. La porta si richiuse con un leggero clic, tagliando fuori il resto del mondo. Adesso non c'era che quella stanza semibuia, il regno del Drago.
    Jasper rimase in attesa con le mani dietro la schiena, respirando il più leggermente possibile. Gli pizzicava una gamba, ma non osò grattarsi. E aveva anche voglia di andare al gabinetto.
    Il direttore non aveva ancora alzato gli occhi. Seduto dietro la scrivania, sembrava un blocco di granito.
    Girando gli occhi a destra e a sinistra, Jasper prese visione della stanza. Contro una parete c'era un classificatore di metallo con quattro cassetti, dove il Drago custodiva le schede coi nomi di tutti gli alunni, completi di note sulla loro condotta. Lungo la parete opposta c'erano degli scaffali pieni di grossi libri e voluminose cartelle di archivio. Con i muri spogli e grigi, la stanza sembrava una cella di prigione, pensò Jasper. Poi il suo sguardo si fermò a destra della scrivania, su una poltrona colossale simile a un muto mostro di cuoio grasso.
    La poltrona!
    Jasper ne aveva sentito parlare in varie occasioni, ma non l'aveva mai vista coi propri occhi. La famosa poltrona del signor Drakenborch, di cui si sussurrava con sacro timore nel cortile della scuola. Era un enorme mostro marrone, interamente rivestito di spesso cuoio di bufalo. Aveva due ampi braccioli arrotondati, pesanti cuscini di cuoio e quattro piedi di legno a zampa di leone.
    I cuscini facevano pensare a due gigantesche labbra, e a Jasper balenò l'idea spaventosa che, se mai ci si fosse seduto, quella poltrona avrebbe potuto inghiottirlo. Nell'osservarla meglio, un brivido gli serpeggiò per la schiena. Sui braccioli consunti e rigati si vedeva come un groviglio di rabbiosi graffiti.
    Quella poltrona era diventata leggendaria a scuola per via dei racconti di chi ne aveva fatto conoscenza. Eppure, pensò Jasper, non era altro che una vecchia poltrona, muta e immobile.
    Il Drago si alzò di scatto, respingendo dietro di sé la sedia, che stridette sul pavimento di legno.
    Jasper sobbalzò spaventato.
    Il direttore si aggiustò sul naso gli occhialetti di acciaio e si portò davanti alla scrivania. Era un uomo di bassa statura ma di corporatura massiccia, quasi quadrata. La sua faccia era dura, con due profonde pieghe ai lati della bocca.
    “Veniamo a noi!”
    Jasper abbassò gli occhi. Nessuno osava guardare in faccia il Drago.
    “Parla! Perché sei qui?” chiese il Drago con voce annoiata.
    “Il maestro mi ha espulso dalla classe, signor direttore” rispose Jasper fissando i propri piedi.
    “Ah! E come mai ti ha espulso?”. Nella voce del Drago si era accesa una scintilla di curiosità.
    Jasper arrossì, titubante.
    “Bhe? Non sai dire altro?”. Parole brevi, secche come colpi di scopa.
    “Se l'è presa perché ho intagliato il piano del banco, signor direttore”
    “Cos'hai fatto?”. Il tono era incredulo, sconcertato.
    Jasper si fece piccolo piccolo.
    “Ho intagliato dei segni sul piano del banco, signore”.
    “Perché l'hai rovinato?”
    “Mi annoiavo, signor direttore!”
    “Ah, è così! Ti annoiavi!” sibilò fra i denti Drakenborch, allontanandosi velocemente dalla scrivania.
    Jasper lo seguì con gli occhi. Il direttore si avvicinò alla poltrona, allungò al di sopra del sedile il braccio di una lampada estensibile e girò l'interruttore. Un cono di luce abbagliante illuminò la poltrona, e sul pavimento l'ombra del Drago si dilatò come una nera macchia di petrolio.
    “Siedi!”
    Jasper fece un passo avanti, poi si fermò. “No” si disse “Non su quella poltrona!”
    “Siedi!”
    Due secondi dopo, Jasper era lì, sprofondato nei cuscini di cuoio. I braccioli della poltrona erano così alti che le spalle di Jasper li superavano appena. Il cuoio era freddo ed emanava uno strano odore. Pesante, animalesco.
    “Puzza di bufalo” pensò Jasper. O forse del sudore dei bambini angosciati che si erano seduti su quella poltrona prima di lui. Il cono di luce della lampada sovrastava la testa di Jasper come un piccolo sole accecante.
    “Dunque ti annoiavi, eh?” ripeté il Drago tornando dietro la scrivania. Frugò in un cassetto, poi si piazzò di nuovo davanti alla poltrona, impugnando una corta riga da disegno. Accarezzò la riga con la punta delle dita, dalle unghie corte e ben curate. Jasper lo guardava spaurito.
    “Perché si viene a scuola?” chiese a bassa voce il Drago, passeggiando intorno alla poltrona.
    “Per imparare, signore” sussurrò Jasper.
    “Ah! Per imparare!” e così dicendo, il Drago vibrò con la riga una sferzata sibilante su uno dei braccioli della poltrona.
    Jasper si rannicchiò come se il colpo fosse calato sul proprio braccio.
    “Imparare non significa distruggere i banchi!”
    Svisch! La riga tornò ad abbattersi ferocemente sull'altro bracciolo, lasciandovi impressa una linea sottile. Jasper strinse i denti sentendosi rattrappire, come schiacciato dalle enormi braccia della poltrona.
    La mezz'ora che seguì fu per lui una vera tortura. Continuando a passeggiare intorno alla poltrona, il Drago lo copriva di tutti gli insulti possibili e immaginabili, e per dar forza alle sue parole colpiva sempre più forte i braccioli di cuoio. Come assordato da quei sibili sferzanti, Jasper si ranicchiava sempre più a ogni colpo, per paura che la riga colpisse anche lui. Col sudore che gli scendeva a rivoli lungo la schiena e i pantaloni incollati al sedere, tremava talmente che la poltrona stessa sembrava vibrare per la paura.
    Finalmente il Drago posò la riga sulla scrivania, si ricompose i capelli con una mano e spense la lampada. Poi si avvicinò al classificatore, aprì un cassetto e ne estrasse la scheda contrassegnata col nome e il cognome di Jasper. La firmò e vi scrisse la data.
    Jasper era ancora rannicchiato in un angolo della poltrona come un mucchietto di miseria. Il direttore tornò a sedersi dietro la scrivania, si chinò sulle carte e riprese il suo lavoro come se niente fosse stato.
    Gli occhi attoniti, fissi nel vuoto, Jasper si sentiva venir meno.
    “Puoi andare” disse dopo un po' il Drago, senza alzare la testa.

    Coi capelli bagnati si sudore, Jasper si avviò a passi incerti lungo il corridoio, sbattendo le palpebre alla cruda luce che penetrava a fasci dai finestroni. Un ragazzo con la faccia terrea stava arrivando dalla parte opposta. Davanti a Jasper si fermò.
    “Anche tu dal Drago? E' stato brutto?” sussurrò. Jasper gli rivolse uno sguardo stanco, limitandosi ad accennare di sì con la testa.
    Il ragazzo, ancora più terreo, si avvicinò con le ginocchia molli alla porta della camera di tortura. Si guardò intorno un'ultima volta e bussò timidamente.
    “Avanti”
    Il ragazzo gettò uno sguardo disperato a Jasper, poi spinse con cautela la porta. Jasper gli voltò le spalle e si trascinò stancamente fino alla sua aula.

    Jasper si propose solennemente di non sfregiare mai più il piano di un banco. Sarebbe stato un alunno bravo e diligente, anche se le lezioni del maestro Vossen erano barbose da morire.
    Ogni tanto sentiva la voglia di lanciare una pallina di carta, ma al pensiero del Drago e della sua poltrona gli venivano i sudori freddi. Se poi gli capitava di passare davanti alla camera di tortura, si metteva involontariamente a camminare in punta di piedi, come se il Drago potesse apparire sulla porta, trascinarlo nel suo ufficio e scaraventarlo a sedere sulla poltrona.
    Questo però non accadde mai, e col passare dei mesi il ricordo dell'accaduto cominciò a sbiadire sempre più. Una sola volta, nel passare davanti alla famosa stanza, Jasper udì il sibilo delle sferzate della riga sul cuoio, e immaginò che qualche altro malcapitato, espulso dalla classe, fosse lì tra le grinfie del Drago.

    Un bel giorno accadde qualcosa di strano. La lezione era finita, e Jasper, percorrendo il corridoio, passò davanti alla porta chiusa della camera di tortura. Da dietro quella porta gli giungeva la voce rabbiosa del Drago.
    “Tho! Pigliati questa!”. E subito dopo, Jasper udì i ripetuti schiocchi della riga sulla poltrona, fra le violente imprecazioni del Drago.
    “Ahi, ahi, qualcuno le sta buscando” pensò Jasper. In quell'istante la porta si aprì di colpo, e il direttore, con la faccia paonazza, varcò la soglia sbattendosi la porta alle spalle. Nei suoi occhi c'era uno sguardo selvaggio.
    “Hey, tu! Cosa stai lì a ciondolare?” lo apostrofò furibondo “Bada di andar subito a lezione. Sparisci!”.
    Jasper non se lo fece ripetere due volte; ma nel tornare in classe si domandò chi poteva trovarsi sulla poltrona, stavolta. Il Drago gli era sembrato fuori di sé, ma lo strano era che dallo studio era uscito da solo.
    “Che l'abbia ammazzato di botte?” pensò Jasper “Forse ora su quella poltrona c'è un cadavere. Forse il Drago ha perso il cervello e si è tramutato in un pazzo sanguinario”.
    Ma i giorni seguenti trascorsero uguali a tutti gli altri. A scuola non ci furono assenti, e le lezioni seguirono il solito tran-tran. Jasper dimenticò anche questo incidente.

    Ma durante un caldo pomeriggio estivo, poco prima delle vacanze, Jasper dimenticò i suoi buoni propositi. Sul pavimento, proprio accanto alla sua scarpa, c'era un piccolo elastico piegato in forma di otto. Jasper si sporse sotto il banco e raccolse di soppiatto l'elastico, ridendo tra sé. Nel banco davanti a lui, Walter Stock era tutto intento ad ascoltare la monotona lezione di geografia del maestro. La sua nuca rasata era così invitante che Jasper non potè resistere alla tentazione.
    Il maestro, in piedi di fronte alla classe con in mano il libro aperto, non guardava nessuno in particolare. Jasper adattò l'elastico intorno alla punta dell'indice sinistro, lo tese col pollice e l'indice della destra, mirò alla nuca di Walter Stock e tirò. L'elastico schizzò via, mancò per un pelo il bersaglio e, sorvolando il libro di geografia, colpì il maestro in faccia.
    Il libro di geografia cadde a terra, il maestro cacciò un grido e Jasper si batté una mano sulla fronte.

    Coi piedi di piombo e il cuore in gola, Jasper si avviò verso la camera di tortura. Tutti i ricordi della sua prima visita al Drago gli si ripresentavano alla mente. E rammentò anche l'ultima volta che aveva visto uscire il Drago dallo studio, con quell'espressione stravolta e feroce.
    Ma solo quando fu davanti alla porta, nel più assoluto silenzio, udì provenire dallo studio gli schiocchi sibilanti della riga e la voce furibonda del Drago.
    “Sta' a vedere che troverò il Drago doppiamente infuriato!” pensò Jasper.
    Avrebbe voluto scappare via dalla scuola, lontano da Drakenborch e dalla sua poltrona, ma rimase invece sulla porta a origliare, con le gambe tremanti. Il direttore gridava così forte che Jasper poteva distinguere chiaramente ogni parola.
    “Sparisci! Sparisci, ti dico!” sbraitava il Drago tra i colpi sferzanti della riga sul cuoio. Poi, silenzio. Qualche momento dopo si sentì un oggetto pesante strusciare sul pavimento, poi un secco crac, e un urlo rabbioso del Drago.
    Silenzio.
    Jasper era pallidissimo. Che cosa stava accadendo là dentro? Per un paio di minuti restò immobile davanti alla porta. Dallo studio non provennero altri rumori. Allora bussò cautamente e attese la voce del direttore.
    Nessuna risposta.
    Bussò più forte.
    Silenzio.
    Jasper rimase indeciso per qualche istante, poi chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e socchiuse lentamente la porta. Fu colpito sull'istante dal greve odore animale che aveva già sentito la prima volta. Adesso, però, l'odore sembrava riempire tutta la stanza.
    Jasper sbirciò dallo spiraglio della porta, poi entrò. Nella semioscurità dello studio si distingueva l'ampia scrivania del Drago coperta di montagne di scartoffie. Ma il Drago non era seduto al suo posto. Anzi, non era da nessuna parte. Lo studio era deserto.
    “Non può essere” pensò Jasper “Eppure ho sentito chiaramente la sua voce”. Ma di Drakenborch non c'era traccia. L'odore sgradevole era fortissimo, Jasper perlustrò con gli occhi tutta la stanza, e infine posò lo sguardo sulla poltrona.
    La poltrona!
    Il grosso mostro aveva cambiato posto: ora si trovava addirittura all'altro lato dello studio.
    Jasper tremava: da quella massa immobile sentiva provenire un'inspiegabile minaccia.
    Strisciò a piccoli, timidi passi fin davanti alla poltrona, poi rimase immobile a fissarla, cercando di decifrare ciò che stava vedendo.
    Sul pavimento ai piedi della poltrona giaceva la riga da disegno del direttore. Rotta in due. E sulla poltrona, al centro del sedile, c'era un bottone. Un bottone del vestito di Drakenborch.
    Sulle prime, Jasper non si raccapezzò; ma poi vide qualcos'altro. In fondo alla poltrona, e precisamente nella fessura tra il sedile e la spalliera, si muoveva una forma indistinta. Jasper allungò il collo per guardare meglio, e subito si ritrasse con un grido. Ciò che spuntava fra i cuscini era una mano... Una mano con le dita dalle unghie corte e ben curate che si muoveva in una sorta di spasmo. Jasper rimase a fissarla incredulo finché il rivestimento di cuoio fu percorso da una sorta di fremito, e la mano scomparve del tutto fra il sedile e la spalliera.
    Jasper si sentì gelare. Allora girò sui tacchi e si precipitò fuori, sbattendo la porta dietro di sé. Ma l'immagine della poltrona continuava a balenargli nella testa. La poltrona con le innumerevoli rigature sui braccioli, contro i quali il Drago si era accanito per anni. Fino al giorno in cui lei non aveva più potuto sopportarlo, e...
    La mente di Jasper si rifiutava di credere all'evidenza. Le poltrone non divorano la gente! Fatti del genere non succedono! Perciò Jasper si sforzò di dimenticare ogni cosa, e non ne fece mai parola con nessuno.
    Ma del signor Drakenborch, il direttore, nessuno seppe più nulla. Nessuno potè dare una spiegazione del fatto che fosse scomparso senza lasciar traccia.
    Qualche mese dopo, la camera di tortura venne ristrutturata dal nuovo direttore. La grande poltrona fu regalata a un asilo per senzatetto. Là, comoda e solida com'era, se la sarebbero certamente goduta ancora a lungo, disse il nuovo direttore.

    Edited by Shira™ - 30/6/2013, 16:00
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