Votes taken by @AnthonyInBlack

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    Partecipo :siga:
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    Camminava per le vie della città con passo fiacco e distaccato. Non guardava nulla in particolare. L’istinto, o la noia, come avrebbe detto lui, lo guidava nella notte. La sua mente aveva smesso di pensare: se ne rifiutava, ormai. E continuava ad avanzare oltre i marciapiedi, le strade, i palazzi.

    Tra le mani stringeva una copia di Racconti Neri, di Guy de Moupassant. L’aveva terminato il giorno prima ma aveva colto, in quell'opera, qualcosa di tremendamente familiare. Personale, avrebbe detto lui. Era accaduto specialmente nelle prime pagine, in un racconto che si intitolava “Come suicidarsi”. La trama non riservava sorprese e i fatti si svolgevano esattamente come indicato dal titolo.

    Era al confine di Providence, dove le strade iniziavano ad affacciarsi sulle colline rischiarate dalla luna. Ad un tratto, una scintilla gli fece battere le palpebre. Guardò in basso. La luce fredda di qualche lampione faceva luccicare le punte dei suoi stivali. Portava degli anfibi Louis Vuitton, numero 44, dal costo di centosessantanove dollari e novantanove centesimi.

    Quando li aveva comprati aveva provato piacere e si era sentito… degno, avrebbe detto lui: un uomo che poteva permettersi di spendere una tale cifra in scarpe sarebbe potuto andare in giro a vantarsene con gli amici. Solo che l’uomo non aveva amici. E l’ebrezza era svanita nell'esatto momento in cui era uscito dal negozio di scarpe.

    In realtà, anche se avesse avuto dei compagni non sarebbe cambiato nulla. Odiava le persone: era un misantropo della peggior specie. Aveva illuso tutti quelli che erano stati tanto sfortunati da cercargli un approccio. Ci era uscito con quella gente. Aveva scherzato, giocato, mangiato e persino dormito. Tuttavia, il demone della ragione gli impediva di fidarsi e di rivelarsi in tutta la sua personalità.

    E così era stato. Sino a che non aveva perso tutti. Poiché persino l’essere umano più stupido, prima o poi si rende conto di non essere un oggetto di svago per qualcun altro. Perciò l’uomo passeggiava sull'asfalto che aveva calpestato centinaia, forse migliaia di volte, in solitudine. Stanco di interrogarsi sui misteri della vita, su cosa fosse giusto o sbagliato, e su quale fosse davvero il senso delle cose. Perché un senso non c’è, avrebbe detto lui.

    Era giunto in Clover Street e si accingeva ad osservare Providence dalla prospettiva di un’altura recintata. In quel posto la sua lingua aveva incontrato quella di una ragazza, tanto tempo prima. Si trattava dell’unica che avesse mai veramente amato. “Coco” sussurrò a sé stesso. Di fronte all’amore anche l’odio poteva chinarsi. Ricominciò a pensare.

    Si chiese se in quel momento si trovasse lì, senza nessuno, immerso nell’oscurità, con quella copia di Racconti Neri e il fascino che aveva esercitato su di lui, a causa di quella storia amorosa. Non poteva escluderlo. Ma credette anche che, in un modo o nell’altro, avrebbe comunque compreso quanto fosse ripugnante la razza umana.

    Nonostante ciò, rimpiangeva quel nodo che gli si formava in gola ogni volta che guardava Coco. Quel senso di soffocamento e stretta al cuore che, paradossalmente, lo faceva sentire vivo. Non ricordava altri momenti in cui avesse mai avuto tanta certezza d’esistere. Per quanto illusorio, era stato bello. Alienatico, avrebbe detto lui.

    L’uomo tornò nel suo appartamento in Phillips Avenue. I raggi lunari attraversavano le grandi vetrate della stanza da letto, che si accinse presto a spalancare. Folate di vento gelide ebbero il permesso di entrare. Dopodiché si diresse verso l’armadio e indossò una vestaglia da notte, indeciso tra la Sergio Valentino da duecentosessantadue dollari e la Versace, più cara di cinquanta centesimi.

    Dalle colline verdognole che potevano notarsi nel paesaggio continuavano a sprigionarsi raffiche d’aria, che terminavano nella casa dell’eremita, ora impegnato a sistemare un cinturino di stoffa attorno ai fianchi. Presto, tuttavia, notò qualcosa che si muoveva sull'anta del guardaroba: un’ombra dalla forma circolare che strepitava come una fiamma ardente. Si voltò e ricordò che aveva appeso lui quella corda al lampadario, prima di andare a dormire.

    Il cappio pendeva dal supporto e pareva muoversi di vita propria, impaziente di mietere la vittima. L’uomo restò immobile per qualche attimo ad osservarlo. La vista della stanza, talmente sproporzionata per un solo inquilino, gli bloccò le vie respiratorie: che ci faceva lì, in possesso di tutto e in assenza di tutti?

    Dalle finestre, la città lo spiava costantemente. A volte, tentava persino di chiamarlo, di reintrodurlo nella comunità, e l’uomo poteva sentirla. Ma restava indifferente.

    Quando si svegliò restò per un attimo fermo a guardarsi intorno. “Mamma, guarda la barba di quell’uomo!” annunciò una bambina che passeggiava in Angel street nella mano di una donna. I raggi solari lo picchiavano duramente e infierivano sull’odore insopportabile che fuoriusciva dalla sua borsa. Ad una certa ora si sedette all’angolo della chiesa di San Patrizio e finse di riflettere se fosse meglio il suo cappotto Armani o i suoi jeans Dior. Avvertiva una fitta alla schiena, a causa del marmo su cui aveva dormito. Davanti a lui si ergeva il solito edificio adibito a libreria, nella cui vetrina si poteva scorgere una copia di Racconti Neri, di Guy de Moupassant.

    A mezzogiorno mimò persino il momento dei pasti, sedendosi con uno sgabello improvvisato all’ombra di qualche albero del parco comunale di Providence. I pedoni lo guardavano come si fa con un barbone. Ignoranti, avrebbe detto lui. Il loro giudizio non importava più ormai. Poteva essere chi desiderava.

    Nel pomeriggio si allontanò dalla zona urbana, immergendosi tra le colline verdeggianti che tanto amava. La luminosità della giornata, il calore, i petali dei fiori colorati e l’erbetta che cresceva florida e rigogliosa gli ricordarono una parte del sogno. Quella più intima e realistica, Coco.

    Le loro lingue si erano incontrate davvero nella notte più splendente dei tempi. Lui teneva le mani sulla testa di lei, sino che l’aveva avvicinata delicatamente a sé. Dopodiché, le loro labbra si erano toccate, contraendosi in un impeto furioso di passione grottesca.

    L’uomo stava stringendo il capo della compagna con tutte le sue forze. Aveva i pugni chiusi e stretti nei suoi capelli insanguinati e avvinghiava quella testa immobile, privata del corpo, con fare elegante e impassibile.

    Ci siamo innamorati al chiaro di luna su una collina del New England, io indossavo uno smoking Prada e lei un abito Gucci da cinquecento dollari e cinquanta centesimi, avrebbe detto lui.

    Edited by @AnthonyInBlack - 13/10/2020, 19:49
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    “Arrivato ai miei ultimi giorni, e spinto verso la follia dalle atroci banalità dell'esistenza che scavano come gocce d'acqua distillate dai torturatori sul corpo della vittima, cercai la salvezza nel meraviglioso rifugio del sonno. Nei sogni trovai un poco della bellezza che avevo invano cercato nella vita e m'immersi in antichi giardini e boschi incantati. Una volta che il vento era particolarmente dolce e profumato sentii il richiamo del sud e salpai languido, senza meta, sotto costellazioni ignote”.


    - Howard Phillips Lovecraft


    INFESTAZIONE

    La suoneria della sveglia mi desta dal sonno. Impreco contro l’orribile suono elettrico. Mi alzo dal letto e non vedo nulla. L’istinto guida le mie mani, in alto, verso la parete a destra. Apro la finestra della stanza. La luce flebile dell’alba riempie l’ambiente circostante e chiudo gli occhi frementi per il dolore. La fitta non è ancora cessata, ma li riapro: il tempo continua a scorrere. Mi trascino verso il bagno e osservo il mio riflesso nello specchio. Maledico Dio per non avermi dato il dono della bellezza e apro il lavandino per coprirmi il volto con l’acqua. È fredda, ghiacciata. Piccole gocce finiscono all’interno del mio pigiama e scavano nel petto. La mia schiena emette un brivido. Penso che sarebbe stato meglio restare a letto. Tuttavia, sono costretto ad andare a scuola. Non voglio un’esistenza ancora peggiore di quella che si palesa ogni giorno davanti alle mie pupille insanguinate.

    Sento qualcuno che chiama il mio nome dalla cucina. Una voce gracchiante e stridula, che nessun uomo appena sveglio dovrebbe mai udire. È mia madre. Confusa e maldestra, crede che io sia ancora nel letto e urla. Grida come un cadavere che si risveglia nella sua tomba. Una scarica d’adrenalina riempie il mio sistema nervoso e giunge fino al cuore. Avverto un dolore: è disperazione, rabbia, scoraggiamento. Esco dal bagno e tento di trattenermi. Mi porto le mani alle orecchie, nel tentativo di non udire più niente, di evadere da questa realtà deprecabile.

    Intravedo mio padre, ma sono troppo nervoso per salutarlo. Raggiungo il tavolo del soggiorno e mi siedo, aspettando la colazione. Uno sguardo veloce alla televisione rivela che sono le sette e quaranta minuti. Mi restano solo pochi giri della lancetta più lunga per raggiungere la scuola. Ancora non vedo neppure l’ombra di una tazza di latte. Inspiro ed espiro profondamente. Mi porto le mani giù dalle orecchie. Passa qualche istante e avverto mio padre che si lamenta perché non ha ricevuto il buongiorno da me e mia sorella. Lamenti, lamenti e lamenti: non sa fare altro che questo.

    La figura traballante di mia madre si avvicina con una tazza in mano. L’appoggia davanti a me e sento l’odore speziato del cappuccino. Avrei preferito latte bianco e semplice. In ogni caso, lo porto alla bocca. Il liquido tocca le labbra e un male lancinante si diffonde nella bocca. È bollente. Maledico mia madre. Non è capace di fare nulla. Mi restano soltanto dieci minuti.

    Mi dirigo nella mia stanza, con lo stomaco brontolante. Sento mia sorella, si sta arrabbiando perché non trova i cosmetici per il viso. Apro l’armadio in fretta e furia. Le ante emettono un sonoro “Crack!”. Agguanto un numero spropositato di capi d’abbigliamento e inizio ad esaminarli. Sono tutti fottutamente piccoli. Mi accontento della felpa che indosso ogni giorno e torno in bagno per sistemare i capelli. Apro la porta e scorgo il corpo anziano e peloso di mio padre, risciacquato dalla doccia.

    La chiudo. Incasso altri rimproveri e mi accontento dello specchio della cucina. Non ho a disposizione la gelatina e risolvo con l’acqua. La capigliatura si fa presto più disordinata di com’era prima. Torno correndo in camera mia e prendo il telefono, le sigarette, indosso il giubbotto, preparo lo zaino e riposiziono il soprammobile tentacolare di Cthuluh sulla mia scrivania. È uno degli esseri mitologici creati dal mio scrittore preferito. Mi fa pensare che non sia tutto così orribile, che ci sia pur qualcosa di bello, oltre la sudiceria della vita mondana.
    Esco fuori di casa ed entro in macchina. Abito in una zona di campagna, sono costretto a farmi scortare da mio padre per raggiungere la scuola. L’orologio sul navigatore dell’auto segna le otto e cinque minuti. Significa che dovrò entrare alla seconda ora anche oggi.

    Accedo in classe alle nove. Saluto la professoressa di figurazione e ricordo d’aver dimenticato a casa la cartellina con il materiale. Michael gioca con il cellulare. Carl è incurvato sul foglio d’album, impegnatissimo a non fare errori. Violet mi fa gli occhi dolci, ma è più brutta di Hastur, il signore degli spazi innominabili. Il resto degli studenti scarabocchia e chiacchiera, come se in classe non ci fosse nessuno. Chiedo a Jane di prestarmi un pennello, un foglio e mi fingo attento a quello che la signorina Shame sta dicendo a Layla. Due ore passano in tal modo.

    Al momento della ricreazione parlo un po' con Carl e faccio qualche battuta a Jane. Nell’ora di italiano quasi mi addormento e chiedo di uscire per andare in bagno. Raggiungo il piano inferiore dell’istituto. Fumo una sigaretta, la prima della giornata, e finalmente mi sento più produttivo. Osservo le scritte sulle porte e sorrido alla mia: “Ph’nglui mglw’nafh Ctuhluh R’lyeh wgah’nagl fhtagn”.

    Do un’occhiata al telefono. Mi aspettano ancora tre ore prima dell’uscita. Risalgo in classe e mi addormento sul banco. Mantengo lo stesso atteggiamento per tutte le materie a seguire e non parlo con nessuno. Finalmente suona la campanella. Mi stiracchio e sistemo lo zaino. Infilo il giubbotto e aspetto che la professoressa di chimica finisca di parlare. Anche Layla, Violet e Jane sono pronte e attendono in piedi.
    Carl si avvicina per scambiare qualche parola con me e noto Michael che rientra in classe dopo essere stato in bagno. Stringe qualcosa nella sua mano e si dirige a passo spedito verso Jane. Dico a Carl che non sono in vena di parlare. Mike apre il pugno e mostra una sigaretta rollata.

    Improvvisamente mi balena in mente un’immagine. È Azatoth, il caos primodiale. Anziché il solito flauto blasfemo, imbocca una sigaretta. Comincia a girarmi la testa, forse per la stanchezza. La cicca di Michael sembra vecchia e impolverata. Mi incuriosisco e aguzzo le orecchie. Dice che l’ha trovata al piano di sotto e che probabilmente era di un professore. Chissà da quanto tempo si trovava lì...
    La offre alle compagne di classe. Ridono e scherzano. La pelle delle loro facce si contrae in smorfie schifate e divertite. Il bidello entra in aula per pulire e la prof smette di parlare. Tutti si precipitano alla porta e la sigaretta finisce nelle mani di Violet. Prima di andare via si avvicina e me la porge. Le faccio cenno di no con la testa. Me la tira addosso e finisce nel cappotto dell’apertura del collo. Voglio tornare subito a casa. La toglierò dopo.

    Nel pomeriggio mi tuffo tra le pagine dei racconti di Lovecraft. Leggo ‘L’abitatore del buio’ e resto stupito dal personaggio protagonista. Si chiama Robert Blake. Ad un certo punto del racconto smette di dedicarsi alle abitudini tipiche degli esseri umani, come dormire, uscire di casa e persino mangiare. Mi chiedo, infatti, quanto abbia senso soddisfare tali bisogni; caratteristici anche delle bestie più volgari viventi sulla Terra.

    Vorrei tanto trovare un senso. È assurdo che gli uomini nascano, crescano e muoiano su questo mondo senza sapere come ci siano arrivati. Non posso proprio accettarlo. E la ripugnanza della realtà mi spinge ad andare ancora più a fondo alla questione. Ma cosa potrò mai fare io, uno studente qualunque del Liceo Artistico di Roanoke?

    Sono nel letto, resto a guardare il soffitto per alcuni minuti. Sento il cellulare che squilla. Mi allungo verso la scrivania e lo sblocco. È un messaggio della mia ragazza, Lorraine. Mi chiede cos’ho da fare durante la serata. Non la sopporto. Se rispondo adesso rispondo proverà a chiamarmi e mi costringerà ad ascoltare le sue cazzate per almeno un’ora.

    Mia madre strilla che sta per andare a lavorare, dagli antri della cucina. Faccio finta di niente e sento di nuovo qualcosa che preme nel mio petto all’altezza del cuore. Rabbia. Scintille di fuoco ardenti. Non riesco proprio a comprendere perché urla come un animale. Forse lo penserebbe anche mio padre, se solo fosse più presente in casa.

    Sono le sei del pomeriggio e devo ancora scrivere. È necessario. E va bene qualsiasi cosa: una pagina di diario, l’inizio di un racconto dell’orrore o la lista degli oggetti da portare con me se sento la voglia di scappare di casa. È confortante. Quando l’universo mi fa così tanto schifo, prendo una penna in mano e do vita a mondi migliori. Poso il telefono. Lorraine riceverà una risposta più tardi. Le dirò che uscirò con lei in tarda serata. Prendere un po' d’aria fresca fa bene a tutti, in fondo. E poi… chi non si impegna a vivere, si impegna a morire.

    Chiudo a chiave la porta, sistemo il computer, il blocco per gli appunti, una penna, e accarezzo il soprammobile di Cthuluh sulla scrivania. Do il via ad una playlist di musica psichedelica e inizio ad entrare nel flusso. Scavo nelle tasche, afferro il pacchetto di Winston e mi allungo una sigaretta in bocca. Non potrei mai smettere di fumare. Se lo facessi, smetterei di scrivere. E se smettessi di scrivere, smetterei di vivere. Sempre a patto che questa condizione sia degna d’esser chiamata vita.

    In serata esco con Lorraine. Per chiedere un passaggio al centro della città ho dovuto chiedere ai miei genitori. Alla richiesta hanno bestemmiato e hanno tirato in ballo questioni che non c’entravano nulla con l’uscita. Passeggiamo in Port Street e, talvolta, i discorsi sfociano in silenzi imbarazzanti. In effetti, non so se si possano definire discorsi delle discussioni iniziate e concluse da una sola persona: la mia ragazza parla troppo.

    Tento di discutere del mio ultimo racconto pubblicato su un sito internet, ma ben presto mi interrompe e decido di non proferire più alcuna parola. Quasi non se ne accorge. Mangiamo una pizza nel solito locale all’angolo di Church Avenue e quando mi chiede cos’ho che non va le rispondo dicendo che sono stanco. Non voglio ammettere la verità, vorrei che se ne rendesse conto da sola. Sorseggio un bicchiere di Ichnusa, la mia birra preferita. Guardo la bottiglia e desidero di poterne abusare fino a sentire la testa che gira. Ma con lei non posso farlo. Un giorno o l’altro troverò il coraggio di lasciarla. Per il momento, tuttavia, è pur sempre meglio stare con lei che da solo. Non ho voglia di mettermi a cercare un’altra ragazza. “Su, dimmi la verità, c’è qualcosa che non va?” insiste. Sbuffo. Le ripeto che sono solo stanco. Stanco di tutto.

    All’improvviso ammutolisce anche lei. So cosa sta pensando, qualcosa del tipo: “Non sono in grado di renderti felice, perciò mi rattristisco. Non sei obbligato a stare con me. Trova qualcuno che non ti faccia annoiare, mentre io mi crogiolo nel pianto”. Non ha tutti i torti. Mentre la riaccompagno a casa fumo l’ennesima sigaretta. Ci salutiamo e le dico che la amo. Sorride. Lo faccio anch’io. Mento.
    Rientro a casa in auto, con mio padre alla guida. Farfuglia qualcosa sulla canzone che stanno passando in radio. È un invito ad un discorso sulla musica, ma non partecipo. Non può andare bene solo quando vuole lui.

    Sbrigo le ultime faccende che mi riguardano e mi infilo nel letto. È mezzanotte e, come al solito, devo ancora studiare. Vorrei tanto perdermi in un sogno, ma so già che non succederà. Squallida, orrida, spregevole esistenza umana. Mi addormento desiderando che prima o poi, in qualche modo, riuscirò a scoprire la realtà del mondo. Perché non può essere davvero così ripugnante.
    Durante la notte una luce illumina per un attimo la mia stanza. È bianca e fuggiasca, come quella dell’asteroide caduto sulla terra ne ‘Il colore venuto dallo spazio’. Riesce comunque a ridestarmi dal sonno e scopro che ho dimenticato la finestra aperta. Il riflesso abbaglia la parete frontale e la riempie di ombre bizzarre e inumane. Tuttavia, sono troppo intorpidito per chiuderla. Dopotutto, potrei star sognando. O forse è solo una stella cadente.

    OPPRESSIONE

    Mi sveglio. Spengo la litania della sveglia. Resto un altro po’ nel letto. Sono a pezzi, peggio del solito. Ho terminato di studiare verso le tre di notte. Mi strascico in bagno senza guardare l’ambiente che mi circonda. Sento i passi di mio padre. Lo saluto. Risponde. È mia madre. Mi intravedo nello specchio. Non ho voglia di sentire l’acqua fredda che scivola sulla mia pelle. Penso che una sciacquata di acqua calda possa bastare. Avverto un odore insostenibile, tipico della fogna. Si fa strada dalle tubature scoperte di fianco al water. Un senso di nausea inizia a salire dagli antri del mio stomaco.
    Gli occhi mi bruciano come il mozzicone ancora acceso di una sigaretta esausta. Sento freddo. Specialmente alle spalle. Mi siedo al tavolo e attendo la colazione. Per poco non mi addormento e a svegliarmi ci pensa mia sorella, urlandomi nelle orecchie. Sento che potrei scattare e gridarle contro, per un attimo penso anche di ucciderla, tuttavia sono troppo stanco.

    Avverto l’odore di qualcosa. È latte. Oggi avrei preferito un cappuccino. Però almeno non è bollente. Mi accontento. Vado a vestirmi con la prima roba che capita e guardo l’orario. Sono stranamente in orario. Riposiziono il soprammobile di Cthuluh sulla scrivania. Scendo di casa alle otto meno cinque e arrivo a scuola in tempo, giusto un paio di minuti in ritardo. Assisto alla lezione di storia dell’arte senza partecipare. Chiedo presto di uscire. Scendo le scale e fumo l’ultima sigaretta del pacco al piano di sotto. Continuo a sentirmi intorpidito. Vorrei ascoltare un po’ di musica, ma ho lasciato le cuffie in classe. Do un’occhiata al telefono. Mi aspettano ancora cinque ore prima dell’uscita. Lorraine mi ha inviato il messaggio del buongiorno. Non rispondo.

    Risalgo in aula e attendo con ansia la fine della lezione. Chiedo alla mia compagna di banco qual è la materia che viene dopo e mi alletto all’idea che ci aspetti l’ora di filosofia.
    Il professor Elijah entra nella stanza con fare pensoso e si accomoda alla cattedra. Lo osserviamo tutti. È un tipo strano, ma mi piace. Si sfila una manica del cappotto e poi si ferma. Ha lo sguarda fisso alla parete di fronte, al fondo dell’aula. Flette il collo verso sinistra e inizia a interloquire: “Oggi parleremo di Schopenhauer”. Michael dice qualcosa che desta riso sulle bocche di Layla e Violet, ed Elijah si alza per raggiungerlo. Si trova al primo banco e non è difficile capire chi sgarra: in classe siamo solo otto. “Sapete, Schopenauer avrebbe detto che la reazione suscitata da questo ragazzo in alcuni di voi non è propriamente reale” annuncia poi.

    Ci spiega che, secondo il filosofo, i fenomeni materiali sono solo parvenza, illusione, sogno: tra noi e la vera realtà è come se vi fosse uno schermo che ce la fa vedere distorta e non come essa è veramente: il velo di Maya. Seguo le parole del professore come quelle di Lovecraft ne ‘I miti di Cthuluh’. Scopro che potrebbe interessarmi. Adoro l’idea che la realtà che vivo ogni giorno non possa essere altro che apparenza. La lezione di filosofia trascorre in un batter d’occhio. Torno a casa riflettendo sulle parole di Elijah: “Se il Velo di Maya ci separa dal deserto del Reale, abbiamo tutto il diritto di desiderare di sapere che cosa c'è al di là di esso. Ma abbiamo anche il dovere di sapere che il Velo di Maya, un Velo di Maya, è indispensabile. Senza Velo di Maya, probabilmente saremmo esposti all'orrore del Reale”.
    Mi chiedo quale sia, dunque, la vera essenza delle cose. E credo che scoprirla dovrebbe essere l’obbiettivo primario di ogni essere umano. Quando arrivo alla mia abitazione pranzo e schiaccio un pisolino, incurante delle atrocità che sono costretto a vivere con i miei sensi ingannevoli.

    Vengo svegliato di soprassalto dalle grida di mia madre. Rimpiango d’aver dimenticato di chiudere a chiave la porta della mia stanza. Mi butta giù dal letto solo per farmi sapere che sta uscendo di casa. Non ne posso più. Tutta la rabbia repressa esce fuori dal mio corpo, come un demone appena esorcizzato. È un diavolo assetato di sangue, che vuole mietere la vittima della sua prigionia forzata.
    La caccio via dalla camera e mi auguro di non vederla mai più ad alta voce. Grida. Grido anch’io. Le vene della mia fronte si gonfiano e palpitano come le fiamme dell’inferno. Sento il peso che mi affliggeva il cuore dissolversi nell’aria gelida di una casa trascurata. La donna va via correndo, forse piangendo. Inspiro. Sospiro. Adesso ho bisogno di fumare.

    Rovisto nello zaino di scuola, alla ricerca delle Winston. Le mie mani si muovono freneticamente. Lancio via i libri presenti nella borsa. Ecco, il pacchetto. La agguanto e provo un tuffo al cuore: è vuoto. Cerco di distrarmi. Devo fumare. Accendo il computer, pronto a scrivere tutto ciò che mi passa per la testa. Devo fumare. Apro un foglio Word. Devo fumare. Resto a fissarlo per due o tre minuti. Non riesco. Non riesco a scrivere. Impazzisco. Inizio a cercare qualcosa da fumare per l’abitazione. In casa, però, sono l’unico che ha il vizio. Penso. Penso. Ripenso. Devo fumare. Si dice che la rabbia alimenti altra rabbia. Posso confermare che sia così. Sento il demone che pensavo fuoriuscito diventare più grande dentro al mio corpo. Non se n’è andato. È cresciuto. Ora ha più controllo sulle mie azioni.

    Mi avvicino al letto e comincio a tirare pugni sul cuscino. Ringhio. Sbavo. Urlo. Non ne posso più. Completamente posseduto dal demonio, inizio a distruggere i miei averi. Romanzi, saggi, radio, attaccapanni. Finisce tutto per terra e qualcosa si frantuma. Il respiro si fa affannoso e mi stendo tra le cianfrusaglie, sul pavimento gelido. È ghiacciato. Mi chiedo quanto sia sfortunato a non avere un padre che si occupa del riscaldamento in casa. Volto il capo, distrutto. Noto che tra i pezzetti di plastica e carta smembrata c’è un parallelepipedo giallognolo e spiegazzato. È grande quanto il mio mignolo e contiene qualcosa. Sembra tabacco.

    Si trova per terra, semi occultato dal mio cappotto. Lo ghermisco, lo porto ai miei occhi e una scarica di piacere invade il mio sistema nervoso. Sono salvo. È la sigaretta che ha rinvenuto Michael il giorno prima a scuola. Sarà sporca e lurida, ma ripenso ad alcune parole di Schopenhauer e decido di usufruirne senza esitare: “L'unico modo per liberarsi dalla depressione cosmica è essere ubriachi”.

    Esco sul balcone e l’accendo. È pomeriggio inoltrato e il tramonto inizia a farsi vedere. La campagna è disturbata da folate di vento polare. Rabbrividisco, ma non importa. Aspiro la prima boccata di fumo. Entra nella mia bocca e la riscalda. Il tempo rallenta. Spingo il vapore fino ai polmoni, facendolo passare per la gola. Sento i muscoli rilassarsi. Faccio tiri lunghi e sostenuti. In men che non si dica sono già al filtro. Quando lancio via il mozzicone mi accorgo che ho un sapore strano in bocca. Non sembra nicotina. È dolce, talmente dolce che potrei vomitare.

    Avverto un giramento di testa. Inizio a pensare a ciò che ho appena fatto. Forse ho contratto una malattia fumando quella sigaretta sporca e invecchiata. Ma essere umani è una condizione che richiede qualche anestetico.
    Mentre rientro in casa mi accorgo che la sensazione di freddo è sparita. Un ultimo sguardo alla finestra, però, rivela che le correnti d’aria continuano spingere cespugli, erba e alberi. Mi chiedo cosa stia succedendo. Vado a sciacquarmi la faccia. Apro il rubinetto e riempio le mani a coppa sotto il flusso d’acqua. Mi scaravento il liquido sul viso e resto a guardarmi nello specchio. Forse non sono poi così brutto. O meglio, non sono né bello, né mostruoso. Non sono niente.

    Osservandomi non provo nulla. Sono solo una creatura vivente che si trova sul pianeta terra e vive la sua esistenza miserabile e cronometrata insieme a tutte le altre. La solita riflessione sull’orrore della realtà si rivela sterile. Sento che è inutile, come tutto il resto. Che sta succedendo? Le gocce d’acqua continuano a scivolare dal mio volto. Noto che ho le mani infilate in tasca, nonostante non le abbia asciugate. Le tiro fuori e mi chiedo perché l’ho fatto. Esamino i palmi alla luce flebile della lampadina del bagno. Sono ancora bagnati, ma non me ne rendo conto. E la mia faccia… Comincio a tastarla, sopra, sotto, a sinistra e a destra: la specchio rivela che non è asciutta, però non lo sento.

    È come se avessi perso il senso del tatto. Mi agito, ma la sensazione d’irrequietezza sparisce subito. Sembra che non riesca a provare più nulla. Pare che i miei sensi, le emozioni e persino me stesso non esistano più. O meglio, che siano stati sostituiti. Mi domando se sia la realtà intorno a me ad essere cambiata. Inspiro un po' d’aria col naso. Non sento nessun odore, neppure il minimo fetore che esalano le tubature scoperte del bagno. Corro nella mia stanza, guardandomi intorno. Non vedo più i colori. È tutto grigio. Forse sono diventato pazzo, però non riesco ad allarmarmi. Mi sento un idiota. Un animale della specie più infima.

    Resto chiuso nel mio covo fino all’ora di cena. Provo a sfogliare “L’orrore a Red Hook”, il primo libro che vedo nel mucchio di cianfrusaglie, sul pavimento. È così… inutile, non mi trasmette nulla. Mi avvicino al soprammobile di Cthuluh. Anch’esso è vuoto, come ogni altra cosa. Il mondo intorno a me si succede in una scala di grigi. Ormai non riesce più nemmeno a disgustarmi.
    Sento mia madre che urla il nome del sottoscritto. È ora di cena. Il richiamo non mi infastidisce, riesco a malapena a sentirlo. I miei sensi sono ovattati. Esco dalla stanza. Quattro scheletri sono seduti al tavolo, con il capo rivolto verso di me. Sobbalzo. Inizio a credere d’aver fumato una qualche sostanza stupefacente. In un Liceo Artistico non è così improbabile.

    “Che hai?” chiede la creatura più alta. Le parole escono dal movimento della mascella, le ossa fremono in un moto meccanico. È come se avessi la vista a raggi x. Ciò che vedo, però, non va oltre la consistenza di alcuni materiali, bensì della sostanza: dei colori, delle emozioni, del calore. Tento di rilassarmi, pensando che prima o poi l’effetto finirà, e mi avvicino al tavolo.
    Si chinano sui piatti e mangiano qualcosa che non riesco a distinguere. È grigia, come il resto del tutto. Guardo nel mio piatto e capisco che probabilmente si tratta di una cotoletta. Passano alcuni minuti e mia sorella comincia a discutere con mio padre. La riconosco dagli atteggiamenti. Riconosco tutti dagli atteggiamenti, dal movimento del loro scheletro privo di carne. È un quadretto familiare degno di un racconto lovecraftiano.

    Presto iniziano ad urlare. Spalancano le mandibole, mostrando puntini bianchi privi di risentimento. Ma non sento più nulla. Non ho più forza.

    POSSESSIONE

    Non mi sveglio. Non mi curo più delle diatribe tra i miei familiari. Provo ad ascoltare della musica. Alcuni pensano che essa sia ciò che più si avvicina ad un’attività prettamente lontana dalla realtà mondana. In essa trovo conforto, come nella scrittura, ma sembra non bastare più. Come tutto, del resto. Siamo creature illuse di essere felici e di poter contare sulla causa della nostra gioia. Tuttavia, tale fonte non è mai infinita. Presto ci stanchiamo. Ci scocciamo di tutto. È umano. È una delle caratteristiche della specie peggiore del pianeta Terra: l’uomo.
    Il tempo trascorre e smetto di cercare un senso. Credo che potrei togliermi la vita. Però sparisce presto anche questo desiderio. Non avrebbe senso.

    Resto sveglio per numerose notti a venire. Nonostante ciò, non sono stanco. Il mio corpo e i miei sensi sono come intorpiditi, ma che prezzo ho dovuto pagare per non sentire più tutto ciò che mi circonda? Sembra che non debba più provvedere a soddisfare i bisogni primari di un essere vivente. Proprio come Robert Blake. In ogni caso, però, riesco a ricordare quelle briciole di piacere che provavo mentre dormivo. Il gusto delle cose non è più lo stesso.

    Maledico Schopenhauer per aver alimentato il mio desiderio. Il professor Elijah non è più così strano per come lo vedo adesso. Le facce di Layla, Michael, Violet e Carl sono reminiscenze tanto confuse, quanto nostalgiche. Non so dire se quella che vivo adesso sia la realtà vera, priva del velo di Maya, che tanto bramavo. Tuttavia, posso confermare l’esistenza di qualcosa ancora peggiore del mondo che ripudiavo. Quello in cui i miei genitori strillavano e blateravano lamenti, la mia ragazza non era uno scheletro come tutti gli altri e la scuola forse poteva piacermi, se solo gliel’avessi permesso; quando potevo leggere Lovecraft e perdermi in altri universi, per poi tornare sulla terra e mettermi in gioco, magari ispirato dalle vicende di personaggi mai esistiti.

    Passano due o tre giorni e decido di non uscire più dalla mia stanza.
    Vivo in una condizione malinconica e angosciosa, che non ha motivo di esistere. Il tempo non esiste più. Davanti ai miei occhi si succedono immagini incolori e persone prive del loro lato umano.

    Tuttavia, nella desolazione e nel buio in cui si muove il mio corpo in decadimento, credo d’aver compreso quale sia la natura della mia condizione. Non posso affidarmi pienamente alla vista, poiché già malfunzionante prima del cambiamento. Ma mi pare di notare movimenti subdoli delle ombre sulle pareti della mia camera. Talvolta mi sembra di vedere la figura di Shub Niggurath, il capro nero dai mille cuccioli e altre volte c’è Nyarlatothep, il caos strisciante dai lineamenti egiziani.

    Qualche notte fa, in particolare, è successo qualcosa per cui non posso avere dubbi. Una luce dalla potenza straordinaria ha rischiarato la mia stanza per qualche istante. Era simile a quella che già una volta mi aveva destato dal sonno. Entrava dalla finestra, che ormai non chiudo più, vista la mia insensibilità al freddo. Dal riflesso malinconico e pallido che il bagliore emanava nella camera, si creò l’ombra di una sagoma tentacolare e smorta. Aveva le sembianze di un polipo e non faticai ad associarla immediatamente a Cthuluh.
    Si dice che dei e semidei a volte entrino a far parte delle vicende umane, qui sulla terra. Essi conoscono le paure più recondite degli uomini e il contatto con loro comporta spesso la pazzia.

    I tentacoli si muovevano lentamente, dall’alto verso il basso. Quando mi drizzai sul letto e fissai l’ombra, alcune visioni si succedettero nella mia mente. Rivissi il momento in cui scrissi l’invocazione a Cthuluh nella scuola, tutti quelli in cui mi dedicavo alla cura del soprammobile e quello del ritrovamento della sigaretta. Non so più cosa pensare, ma credo nel mio stato attuale sia normale perdere la ragione. E se così non fosse… credo che non lo saprò mai.

    Edited by ;Isabel - 12/2/2019, 19:13
  5. .
    In un tempo non specificato e in un luogo dalle tradizioni assai antiche, un gruppo di uomini neri decise di affrontare le avversità del mare, che si ergeva stagliante oltre il loro continente. Dopo aver costruito un’imbarcazione, salparono alla volta di nuove speranze per una vita migliore. Tuttavia, solo in due riuscirono a fuggire dal regime tirannico e dalla povertà del paese rurale in cui abitavano.

    Respirare l’aria di una regione civilizzata fu meraviglioso, ma dovettero presto riguardarsi: gli uomini che abitavano nel posto erano diversi da loro. I neri si rifugiarono nei boschi e cercarono di stabilire come avrebbero reagito in caso di contatto con la civiltà. Labib decise che l’unica differenza tra loro e gli uomini bianchi fosse il colore della pelle, perciò non sarebbe stato ostile. E, inoltre, stabilì che non avrebbe mai indossato vestiti, per rimanere fedele alle sue tradizioni. Rustom, invece, pensò che la diversità non potesse essere un bene. Avrebbe attaccato senza esitare, se ce ne fosse stato il bisogno.Il tempo trascorse e gli immigrati adottarono stili di vita diversi: uno più propenso all’adattamento e al sacrificio e l’altro basato sulla soddisfazione dei bisogni primari.


    Nel frattempo, la comunità a qualche miglio dal bosco si immiserì. In una delle baite più vicine ad esso abitava una famiglia particolarmente languita, capeggiata da un taglialegna che riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hansel e Gretel. Giunse presto il momento in cui non poté più provvedere a sfamarli e non sapeva più a che santo votarsi. Una sera, mentre si girava inquieto nel letto, la moglie gli disse: “Ascolta marito mio, domattina all'alba prendi i nostri figli, dai a ciascuno un pezzetto di pane e conducili fuori in mezzo al bosco, nel punto dov'è più fitto; accendi loro un fuoco, poi vai via e lasciali soli laggiù. Non possiamo nutrirli più a lungo”

    “No, moglie mia” rispose l'uomo “Non ho cuore di abbandonare i miei cari bambini, le bestie feroci li sbranerebbero subito”. "Se non lo fai" aggiunse la donna, “Moriremo tutti quanti di fame” e non lo lasciò in pace finché egli non acconsentì.

    Allo spuntar del giorno, i bambini ebbero il loro pezzetto di pane, ancor più piccolo della volta precedente. Il padre li condusse dentro al bosco, dove non erano mai stati in vita loro, e disse che i genitori sarebbero tornati a prenderli quando sarebbe calato il sole. A mezzodì Gretel divise il suo pane con Hansel, che l’aveva già terminato, e disse alla sorella di stare tranquilla: era convinto di riuscire a trovare la via di casa. Però, ben presto, si addormentarono per la stanchezza.

    Continuarono a camminare e procedettero in tal modo per due giorni ancora. Le promesse di Hansel si rivelarono errate. La fame li stava deturpando e non sarebbe stato difficile scambiarli per le creature demoniache di cui avevano sentito parlare dalla loro madre. Spesso la donna si allontanava a meditare e a preparare strani miscugli all’ombra di rocce misteriose o sulla sponda di ruscelli trasparenti, innaturalmente silenziosi. In ogni caso, quando le stelle tornarono a brillare e ogni speranza sembrava svanita, i due bambini si trovarono di fronte ad una casa.

    Si trattava di un edificio in legno scuro, tant’è che Hansel riuscì a distinguerlo in modo chiaro solo dopo aver fissato il punto interdetto per almeno un minuto. Gretel si reggeva alla spalla destra del fratello e, non fecero in tempo ad arrivare davanti alla porta d’entrata, che si lasciò andare sfinita verso il basso, trascinandolo con sé. I due restarono immobili, l’uno stravaccato sull’altro, finché non sentirono il cigolio di una porta che si mischiava al verso di qualche civetta in lontananza. Il vento penetrava nei vestiti e ghiacciava le loro membra pallide, opposte al riflesso corvino che emetteva la pelle dell’uomo in avvicinamento.

    Ma sarà meglio riprendere la vicenda dei due più tardi, poiché, in una zona non molto remota, stavano avvenendo dei fatti paralleli non indifferenti per il lettore.


    Difatti, una bimba molto amata dalla sua famiglia stava per avventurarsi nel suddetto bosco. “Vieni” annunciò la madre di Cappuccetto Rosso. “Eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna. Sarà felice di vederti e di farsi pettinare la parrucca candida. Sii gentile, salutala per me, e va' da brava senza uscire di strada, se no cadi, rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote”. La bimba non poteva tirarsi indietro: provava grande affetto per la nonna e, inoltre, era stata lei a donarle il caratteristico cappuccio che la bimba amava più di ogni altra cosa. “Sì, farò tutto per bene” promise alla mamma. Disse che sarebbe partita all’alba, la nonna abitava a circa un’ora dal villaggio.

    La fanciulla, giunta in prossimità del bosco, alzò gli occhi. Quando vide i raggi del sole filtrare attraverso gli alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: “Se porto alla nonna un mazzo di fiori, le farà piacere; è così presto che posso arrivare ancora in tempo”. E si addentrò nel bosco in cerca di corolle. Mentre ne coglieva uno, credeva che più in là ce ne fosse un altro ancora più bello. Si dirigeva verso l’obbiettivo e così si introduceva sempre più nel bosco.

    Nel momento in cui l’eccitazione svanì, notò che si era spinta parecchio lontano: gli alberi iniziavo ad essere spogli e aggrovigliati, la luce passava a fatica da quei fittizi legami naturali e non c’erano prati: solo terra nerognola e arruffata, fredda e umida come l’atmosfera del luogo. Era come se l’aria fosse diversa lì, avesse un odore di morte e sciagura, e gli uccelli non cinguettavano felici insieme al frinire e allo squittire di altri piccoli insetti e animali.

    Cappuccetto Rosso sarebbe voluta tornare indietro, ma ormai doveva essere tardi e fu costretta a proseguire per quella via. Mentre si muoveva, una folata di vento colpì il cappuccio, facendolo cadere al suolo, alle sue spalle. La bimba si inginocchiò e stava per coglierlo, quando notò dei piedi enormi, che quasi si confondevano col colore della terra e la dominavano imperiosamente.

    Alzò lo sguardo e stavolta non vide il sole: davanti a lei si ergeva un uomo scarno, più scuro dei tronchi malsani che la circondavano, nudo e con lo sguardo fisso sul suo cappuccio. La fanciulla non ebbe un infarto solo perché il suo cuore era pieno d’amore, ma non riuscì comunque a proferire alcuna parola. Non aveva mai visto un uomo senza vestiti. Allungò una mano e afferrò il suo copricapo con molta calma, portandolo alla testa e cercando di non tossire nonostante l’odore pungente che emanava il gigante.

    L’uomo nero seguì con gli occhi ogni movimento del copricapo. La bimba restò per un attimo immobile, per poi cominciare a correre non appena l’uomo si sporse verso di lei, mostrando la dentatura sgangherata e incompleta, contornata da un’espressione disagevole del volto. La piccola, osservando quei lineamenti sconosciuti, non riuscì a trattenersi e si allontanò in modo maldestro.

    Si voltò solo dopo aver corso per una decina di minuti, scoprendo che non c’era più traccia della creatura. Talvolta, però, le sembrava di notare qualcosa tra gli scorci dei cespugli o le fronde degli alberi e accelerava il passo impaurita.
    Nonostante tutto, Cappuccetto riuscì ad arrivare alla casetta della nonna e scoprì che oltre ad essere invecchiata, era degradata in modo spaventevole. La bimba credette che sua nonna dovesse avere qualche malanno per lasciare che la sua abitazione si riducesse in quello stato. Prima di entrare, sbirciò alla finestra.

    Caro lettore, adesso è giunto il momento di tornare all’avventura di Hansel e Gretel.

    Hansel credette che la notte prima avesse avuto qualche allucinazione a causa della stanchezza; però, guardandosi meglio intorno, notò che non si trovava nella sua casa: non poteva che essere l’abitazione scura che aveva intravisto tra i rovi. Tuttavia, ricordò anche d’aver visto una figura misteriosa prima di perdere conoscenza e non ci volle molto tempo prima che si presentasse ai suoi occhi.
    “Dov’è Gretel?” Pensò fra sé. Il giovanotto si alzò dal groviglio di paglia in cui aveva dormito e notò che era finito in una sorta di gabbia per animali: un’ala di quella casa era stata barricata con dei pilastri di legno e dall’odore che si avvertiva poteva intuirsi che non doveva essere il primo a capitare lì dentro.

    L’uomo che apparve non appena il ragazzetto tentò di spostare uno dei pilastri era alto quasi quanto il soffitto e aveva una pelle color carboncino. Si avvicinò ad una delle colonne la spostò, facendo segno di uscire con le sue mani enormi. Hansel restò paralizzato, con lo sguardo attonito rivolto al vuoto: “Allora esistono davvero”, rifletté. “Le creature che invocava e venerava mia madre… esistono per davvero” si ripeté a voce bassa, cercando di accettare l’idea il prima possibile per non apparire reticente o indisposto nei confronti della creatura. Decise che si sarebbe fidato, perché probabilmente il mostro conosceva sua madre e non pareva affatto minaccioso, se non per l’aspetto. In fondo, gli aveva liberato il passaggio non appena aveva tentato di evadere.

    L'essere scura sembrava incapace di parlare e aveva indosso uno straccio che partiva dalla spalla e gli copriva una sola metà del corpo, rivelando la corporatura mesomorfica. Gesticolò al bambino che avrebbe potuto sedersi e mangiare qualcosa o andare via. Hansel non poté resistere all’invito, su un tavolo apparecchiato in quello stesso salotto c’erano pietanze colorate dall’aspetto irresistibile, emanavano freschezza e un profumo delizioso, come se fossero state appena colte. L’uomo nero si allontanò verso un’altra stanza, mentre il bimbo restò a godersi il pranzo, con lo sguardo rivolto alla finestra che affacciava sul bosco.

    Mandò giù qualche boccone e si accorse che tra i cespugli c’era una mano pallida, piccola come quella di una fanciulla, che si agitava in modo ossessivo. Hansel si alzò dal tavolo e uscì dalla casa, convinto che si trattasse di Gretel. “Chi sei tu? E cos’è successo alla mia nonnina?” chiese la voce proveniente dagli arbusti. Il bambino invocò il nome di sua sorella a voce alta e dall’edificio si levò un rumore simile al frangimento di un piatto di porcellana.

    “Sta zitto, o gli uomini neri ti sentiranno!” esclamò Cappuccetto Rosso. Hansel non riuscì a comprendere il senso di quelle parole. Disse di averne visto soltanto uno e che non era affatto meschino. “No, io ne ho incontrato uno senza vestiti poco fa! E in questa casa dovrebbe trovarsi mia nonna” Il giovanotto sorrise e continuò ad avvicinarsi all’intrico di rovi da dove proveniva il brusio. Tuttavia, a metà strada fu costretto a voltarsi: l’uomo che l’aveva accolto stava avanzando a passo svelto dall’edificio, dritto verso di lui. La tunica strappata si muoveva come un fantasma iperattivo. Si muoveva a gattoni, correva in modo scimmiesco e ringhiava mostrando la dentatura limata a punta.

    Hansel si lanciò tra le spine e venne risucchiato dentro con l’aiuto della bambina. I due strillavano, in preda al panico e consapevoli del destino inevitabile che gli spettava. Una morte assurda e inspiegabile stava per assalirli e avvolgerli allo stesso modo in cui il cappuccio rosso troneggiava sulla testa della bimba. Però, se c’era una cosa che sua nonna gli aveva insegnato era proprio che “La paura può farti prigioniera, mentre la speranza può renderti libera”. E quando i giovani sfortunati erano sicuri che sarebbero morti, la creatura animalesca si fermò e iniziò a guardarsi intorno, arricciando il naso e inspirando aria come se avesse fiutato qualcosa.

    I bambini si strinsero l’uno all’altro in cerca di conforto. E, dopo qualche istante, udirono un tonfo: la bestia fu atterrita da una presenza oscura, che si scaraventò su di lei con la forza di un gorilla. Hansel e Cappuccetto si sporsero e osservarono il volgersi della scena. “Eccolo, è il nero senza vestiti! È stato lui a fermare l’uomo che ti ha rapito” I giganti si picchiavano come bestie e gli spettatori approfittarono del momento per tentare di scappare. Cappuccetto Rosso iniziò ad indicare la via ad Hansel e, nel momento in cui passarono dal retro dell’abitazione, notarono qualcosa che non avrebbe mai smesso di tormentare il loro animo per tutto il tempo a venire.
    In una sorta di rimessa si trovava il corpo di Gretel, intasato di segni di stupro e con qualche arto mancante. Poco più in fondo, invece, c’era una parrucca bianca e un paio di occhiali, immersi in una pozza di sangue.

    Quando i bambini arrivarono al villaggio, ormai avevano perso l’innocenza e non sarebbe stato opportuno chiamarli in tal modo. Hansel restò a casa della compagna di peripezie e quando, col passare del tempo, decisero di raccontare l’accaduto, non li credette nessuno. In ogni caso, quando un adulto della comunità decise di andare a far visita alla nonna di Cappuccetto, tornò dicendo che nella casa non c’era più niente e credettero che la vecchia avesse deciso di abbandonare le cuoia in un posto lontano, per un’ultima avventura.

    I ragazzi compresero una lezione fondamentale: in realtà, gli immigrati, non dovevano essere molto diversi da loro. Anzi, erano proprio uguali: alcuni cattivi e spietati, quanto Rustom o la madre di Hansel, e altri buoni, come Labib lo svestito o la nonna di Cappuccetto Rosso, ormai defunta.

    Edited by Annatar - 19/1/2019, 20:55
  6. .
    Sono stanco dei luoghi comuni su Halloween. Vorrei capire una volta per tutte il senso della festa e immergermi fino in fondo nello spirito che essa dovrebbe trasmettere, come accade per il Natale e la Pasqua. Sento che non avrò pace finché non accadrà; il problema è che Halloween non è mai uguale e non faccio fatica ad associarla alla situazione della mia abitazione in questo momento: tra gli ospiti invitati dai miei genitori riesco a riconoscere solo i parenti più prossimi. I restanti hanno facce misteriose e atteggiamenti arcaici, ma sono sicuro che conoscendoli si riveleranno affabili e simpatici. E tutto ciò mi comporta un gran dispiacere, vorrei tornare a credere che la festività racchiuda davvero un senso di mistero irrisolvibile e una realtà ricca di emozioni.

    Quando siamo bambini percepiamo Halloween esclusivamente attraverso il suo lato essoterico: ci limitiamo a preparare addobbi a forma di scheletro, a svuotare zucche e ad ascoltare la leggenda di Jack O’ Lantern. Col tempo, tuttavia, ci spingiamo un po' oltre e veniamo a sapere le origini celtiche della ricorrenza, la celebrazione dell’ultimo raccolto dell’anno e il suo vero nome: Samhain.
    Tale nominativo spinge alcuni di noi su una via ancor meno visibile e occulta, ed è così che il timore irrazionale degli spiriti in grado di varcare la soglia del nostro mondo nel giorno interdetto svanisce, lasciando libero passaggio ad una verità più concreta e impressionante: quella delle streghe. Il solo pensiero che possano essere esistite ed esistano delle donne dedite alla magia sviscera alcuni principi morali reconditi e stabili, arrecandoci dubbi e perplessità sulla natura dell’universo.

    Per Magia si intende la capacità di influenzare o dominare le forze della natura e, se si riflette sul fatto che un simile potere possa essere di radice malefica o utilizzato per agire a scopi malvagi, non possiamo fare a meno che rabbrividire.
    È in tal modo che comprendiamo la reticenza che ripone la chiesa cristiana nei confronti della celebrazione del 31 ottobre e cominciamo a interrogarci su vari punti. Solitamente gli atei iniziano a porsi le prime domande sulla presunta esistenza del soprannaturale, e i cristiani, che per loro natura già la ammettono, si chiedono se Halloween sia davvero una festa innocua.

    Se si approfondisce la questione legata alle streghe si scopre che una forma moderna della vecchia religione è ancora in voga nel mondo moderno e sarò lieto di soffermarmi su questo punto poiché l’ho studiato a fondo nella biblioteca comunale, proprio all’angolo dell’appartamento in cui abito. Nonostante prediligessi recarmi nel luogo in tarda serata, talvolta non ero solo mentre sfogliavo i libri che sceglievo di leggere e, per un motivo che va oltre la mia comprensione, spesso capitava che i presenti andassero via all'improvviso e io non potevo che sorridere di fronte all’irrazionalità di certe menti umane.

    In ogni caso, mi sono dedicato anima e corpo a tali argomenti: il mio obbiettivo era quello di sentire Halloween, aspirarla come fumo da una sigaretta e inspirarla in modo soddisfatto solo dopo che fosse entrata nel mio corpo e mi avesse fatto sentire il calore e le emozioni che ogni festività dovrebbe trasmettere. Volevo Fumare Halloween.

    Nella stregoneria, oggi chiamata Wicca, si celebra il 31 ottobre come il momento in cui muore il Dio: il principio maschile venerato in tale religione. Samhain rappresenta, oltre al capodanno celtico, una delle otto festività stregonesche che si celebrano in diversi momenti dell’anno, solitamente durante gli equinozi, i solstizi e in particolari momenti legati alla posizione della luna. Essi formano la Ruota dell’anno, che a sua volta, rappresenta un ciclo continuo di morte e rinascita. Ogni Wiccan che si rispetti dovrebbe eseguire dei rituali in questi giorni, specialmente durante Halloween.

    I riti avvengono rispettando vari punti descritti nel Libro delle Ombre, un volume, talvolta manoscritto, che ogni congrega o praticante solitario utilizza come esempio e varia in base alla tradizione Wiccan che si sceglie di seguire. I rituali sono delle celebrazioni in cui si entra a contatto con il Dio, anche detto Cornuto, e la Dea; ma anche con gli spiriti degli elementi e attraverso il loro potere si instaura un cerchio protettivo, solitamente fatto col sale, per tenere alla larga gli spiriti maligni. Durante il rito si cerca di generare energia attraverso il proprio corpo, talvolta con l’aiuto di alcune tecniche orientali, come quella dell’apertura dei chakra, e di tenerla all’interno del cerchio, cercando di immaginare quest’ultimo come una cupola semisferica di vetro trasparente.

    Qualche tempo fa provai ad eseguirne uno nella mia camera, ma l’ambiente era troppo buio per riuscirci e non ero fornito degli strumenti necessari. Ricordo solo che iniziai a consacrare lo spazio sacro dove avrei creato il cerchio, spazzai con una scopa sul pavimento e portai la polvere e la muffa in un angolo della stanza. Non avendo a disposizione le piante adatte ad essere bruciate per consacrare lo spazio col fumo, decisi di accendere un fuocherello con qualche pezzo di stoffa e della carta; tuttavia, fu una pessima idea: iniziò a mancarmi il fiato e svenni, mi torna difficile ricordare il resto di ciò che successe.

    Quando l’energia è abbastanza, ci si concentra per stabilire dove o a cosa indirizzarla: ad esempio, ad un parente malato o in fin di vita, e in tal caso si tratterà di un rito di guarigione. Se non si hanno richieste specifiche o si vuole semplicemente effettuare la pratica in onore degli Dei, tutta la forza creata verrà inviata alla natura: nella Wicca si dà molta importanza a quest’utima, poiché è la prova vivente del ciclo di morte e rinascita che rappresenta la Ruota dell’anno.
    Ho deciso che stanotte non indosserò il mio lenzuolo bucato per raggiungere i miei compagni di classe e bussare alle porte di Angel street per ottenere qualche dolcetto, come è avvenuto negli anni precedenti. Piuttosto, vorrei provare nuovamente ad essere una strega o ad effettuare una seduta spiritica.

    Tuttavia, l’uomo barbuto con la bombetta in testa pensa che sia inutile. Continua ad aggirarsi per l’abitazione con un bastone da passeggio e talvolta si avvicina dicendomi che dovrei sfruttare l’occasione per spingermi lontano. Si chiama Arthur Machen ed è anziano, ma sembra ancora in grado di ragionare. Forse è venuto a sapere che sono un tipo solitario dai miei genitori e vuole che colga l’occasione per uscire un po’. Dice che Halloween non ha un senso preciso, è solo un giorno in cui eventi strani e particolari bizzarri decidono di togliersi il mantello e mostrarsi al riflesso lunare per ricordare agli uomini che nonostante il tempo continui a scorrere, le superstizioni spariscano e le scienze progrediscano, avvicinandosi alla verità dell’origine del tutto, non saranno mai in grado di governare e tenere sotto controllo tutto ciò che esiste.

    “Vorresti provare delle emozioni come quando eri bambino e credevi davvero nei mostri. È il desiderio represso che non ti permette di essere cosciente” annuncia Arthur, sforzandosi di non tossire. Probabilmente è malato, ma riesce comunque a stupirmi. Gli chiedo come fa a sapere ciò che sto provando e mi risponde dicendo che può soddisfare il mio sogno se sono sicuro di espormi al rischio e di non proferirne il segreto.

    Accetto senza rifletterci e mi conduce con destrezza nella stanza più appartata, pare conoscerla. Gli dico di rallentare il passo, poiché gli abitanti del piano di sotto sono soliti entrare nell’appartamento della mia famiglia senza preavviso e mettersi a scrutare in ogni stanza per trovare la fonte del rumore. “Fa un tiro dal mio sigaro” continua poi. Non riesco ad evitare che un risolino isterico s’impossessi delle mie labbra. “Stai offrendo da fumare ad un bambino?” domando. “Tra le cose che scoprirai stasera c’è quella che il tempo non conta nulla. È solo un’illusione. Avanti, prendilo”. Ci penso su e raccolgo l’invito: nel peggiore dei casi mi sarei potuto vantare d’aver fumato per la prima volta, quella notte.

    Mentre il prodotto della combustione del tabacco inizia a fluire nella mia bocca sono sempre più euforico all’idea di ciò che sto facendo e non riesco a fare a meno di pensare al valore simbolico purificatore del fumo. E chiamatela coincidenza, associazione mentale illusoria, automatica o come vi pare, ma ora avverto un senso di liberazione. Sono più rilassato e in grado di scovare alcuni particolari esoterici nascosti tutt’intorno a me. L’anziano sta osservando la mia espressione pensierosa e rompe il silenzio: “è questo ciò che succede quando quelli come noi rivivono l’esperienza più intensa della loro vita”. Quelli come noi, rifletto. Che vuole dire? Avverto l’esigenza di uscire dalla stanza per esplorare i confini della zona e pensando che, seppur di grado lontano, siamo parenti.

    Esco dalla porta di casa e mentre la sbatto per richiuderla passa un gruppo di ragazzi che sobbalza per lo spavento. È come se il fiato gelido dell’inverno trapassi il mio corpo senza che io possa sentirlo e non riconosco neppure uno dei loro costumi: tra loro c’è una ragazza vestita da suora, con degli occhi gialli e delle zanne spropositate; un clown con i capelli rossi e dei palloncini ad elio stretti in una mano e un ragazzo snello, vestito in modo elegante e con una maschera bianca e senza lineamenti che gli copre tutto il volto. Dove sono finiti i vampiri, le streghe o i fantasmi? Concentrandomi meglio noto che anche la strada, nel complesso, è diversa da come sono abituato a vederla di solito: ci sono degli aggeggi elettronici che emanano luci verdi, rosse o gialle e delle auto volgari che obbediscono ai segnali. L’asfalto è più liscio e i marciapiedi più alti. Cerco di rincorrere i mostri per chiedere cosa stia succedendo, ma ogni volta che urlo paiono sempre più terrorizzati. Mi chiedo se l’unico mostro non sia io, poiché non riesco più a comprendere la situazione.

    Scelgo di tornare indietro per estorcere qualche informazione in più ad Arthur, ma mi soffermo su un manifesto appeso alla facciata frontale del condominio in cui abito. “Sei pronto ad affrontare la notte delle streghe? Vivi un’esperienza terrificante tra cocktail e musica a tema nella masseria Barney’s” Cocktail? Non avevo mai letto o sentito quella parola prima di questo momento. In alto ad un altro cartello pubblicitario noto quella che pare essere una data: 31/10/2018. Inizio ad avere paura e mi avvicino allo specchietto di un’auto parcheggiata poco più in là: avverto il bisogno di guardarmi, non lo faccio da troppo tempo, e mentre lo raggiungo una folla confusa di domande e deduzioni assurde balena alla mia mente: qual è la mia immagine? Cos’è successo al mondo in cui abito? Perché nella mia casa non ci sono specchi?

    Vi siete mai chiesti quale fosse la vera causa dei rumori che avvertite durante la notte, delle case cigolanti e dei fenomeni bizzarri che si mascherano sotto quello che pare un costume per Halloween? Questa notte ho imparato che non si deve mai escludere a priori la possibilità dell’esistenza del soprannaturale; perché potrebbe rivelarsi improvvisamente e soffocarvi mentre state dormendo, provocarvi un infarto quando guidate la vostra auto o prendere possesso del vostro animale domestico, conducendovi alla disperazione e all’infermità mentale. Tuttavia, potrebbe anche convincervi della sua esistenza rivelandosi senza mostrarsi, come la figura della mia immagine che ero sicuro di notare nel riflesso del finestrino dell’auto.

    “Sei morto aspirando del fumo e solo rivivendo quel momento potevi esserne cosciente” Aggiunge una voce roca alle mie spalle. Sono sconvolto, ma la mia capacità di provare emozioni è limitata. Il ciclo di morte e rinascita wiccan è compiuto e non è piacevole come pensavo. “Su, va a farti un giro o dovrai aspettare un altro anno per spingerti lontano”. E dopo qualche colpo di tosse Arthur torna a dirigersi verso la casa: “Io sono morto vecchio e stanco; perciò l’unica cosa che posso fare è tornare alla festa organizzata dai tuoi genitori, con quelli come noi”.

    Edited by @AnthonyInBlack - 19/11/2018, 21:28
  7. .
    “Penso che un’opera possa definirsi artistica quando supera il confine materiale di cui è composta e arriva dritta nell’inconscio, scuotendo l’anima dell’osservatore sino a far vacillare pericolosamente ogni nervo del corpo e tutti i neuroni del suo cervello”.

    Il professore allungò una mano all’altezza della bocca e si accarezzò il mento. Aveva una barba rade e corta che lo faceva sembrare più giovane di quanto non fosse in realtà e si trovava all’università da non più di tre giorni. Ogni ragazza presente nell’aula, come tutte le altre della Winslow University, avrebbe ucciso per tastare con le proprie mani quell’agglomerato di peli facciali e assaggiare il sapore delle sue labbra.

    “Tale metodo di giudizio, tuttavia, non può essere valido per le persone affette dalla sindrome di Stendhal, in quanto esse sono sensibili a qualsiasi forma artistica più dell’ordinario e, di conseguenza, rischiano che un capolavoro in grado di smuovere le membra più intime di un uomo normale possa arrecarle danni non trascurabili”.

    Zoey mi colpì con un buffetto sul braccio. “E poi hai la faccia tosta di criticarci? Sembra che tu abbia visto una delle sette meraviglie del mondo” annunciò sorridendo. Le feci cenno di star zitta e le chiesi di smetterla con tali assurdità. Anche se eravamo iscritti alla facoltà di lettere, talvolta il suo modo di parlare risultava irritante. In ogni caso, quel giorno, il discorso era confluito nell’arte. E Joe, l’insegnante, non pareva affatto dispiaciuto all’idea. Sembrava che si fosse accesa, dentro di lui, la lampadina che è solita ridestare dalla noia una persona che improvvisamente fiuta l’odore di un argomento appetitoso.

    “Anche se l’arte è soggettiva, voglio rivelarvi che talvolta ci troviamo di fronte a componimenti raffinati dal potere di trasmettere a chiunque dei messaggi di natura spirituale. Ma sapete qual è il bello? Che tali opere non vengono definite artistiche da nessuno. Ci si limita ad annusare l’odore di putrefazione di cui sono intrise e ad osservarle come il figlio di Saturno guardava suo padre prima che gli divorasse la testa”.

    Avevo sentito parlare dell’opera di Goya. Il riferimento era chiaro, ma che motivo c’era di fare un paragone talmente macabro? Non ebbi il tempo di ragionarci a fondo, che subito continuò e stavolta fu palese a tutti gli spettatori che aveva una concezione tutta sua dell’arte e che fremeva dalla voglia di esprimerla, incurante del programma scolastico che avrebbe dovuto seguire.

    “Per comprendere simili capolavori bisognerebbe abbandonare la concezione di uomo come figlio di Dio, essere vivente che ha stabilito delle regole e delle leggi per vivere pacificamente accanto al prossimo e creatura intelligente dalla facoltà di catalogare e spiegare i fenomeni della natura”.

    Le ragazze presenti nella stanza, quindici o forse venti, dilatarono le pupille. Quell’uomo aveva un fascino irresistibile e sentire il suo pensiero personale lo rendeva ancora più attraente. Nemmeno Anya Major in quel nuovo spot che pubblicizzava il Personal Computer poteva ritenersi all’altezza.

    “Pensate per un attimo all’essere umano come una bestia, una scimmia che ha preso il sentiero sbagliato dell’evoluzione e che adesso non può limitarsi a sopravvivere poiché è affetta dalla maledizione dell’intelligenza: io credo che sia possibile risvegliare alcuni istinti, quelli che oggi definiremmo tra i più malvagi e primordiali della nostra specie, attraverso l’osservazione approfondita di ciò che sto per mostrarvi e che io qualifico come arte, nel senso più puro del termine”.

    Joe Carroll mosse le labbra, lucide e sporgenti come lo strepitio convulso delle fiamme dell’inferno, ed emise un ghigno. Non l’avevo mai visto sorridere. In quel momento l’aula parve rabbuiarsi, non sentivo e non vedevo più niente se non le scintille di luce che emettevano i suoi incisivi. Wow, pensai. Quest’uomo deve essere passato dalla Central Saint Marins per sembrare così affascinante.

    “Però credo sia meglio riguardarvi: tutti coloro che trovano interessanti certe sensazioni di paura, terrore e sgomento probabilmente riusciranno ad addentrarsi in tali capolavori come Fussli nel suo Incubo; ma gli altri farebbero meglio a tenersi alla larga. Gli stuzzicati alzino una mano, prometto che non rimarranno delusi”.

    Ovviamente neppure uno dei circa cinquanta ragazzi seduti nei banchi a scrutare quell’angelo caduto esitò a rivolgere un braccio al cielo in segno di conferma. Tuttavia, ciò che seguì fu davvero singolare. Il professore cominciò a camminare per la stanza e non si fermò finché non la esplorò da cima a fondo, osservando gli studenti uno a uno, guardandoli negli occhi, come se cercasse qualcosa o tentasse di comunicare un messaggio. Tutti rimanevano ammaliati al suo passaggio e, francamente, io non fui da meno: quando fu il mio turno sembrò che un fulmine avesse illuminato la scena e brillava tutto così intensamente che mi fu impossibile non perdere la concentrazione.
    Al termine della bizzarria Joe era sparito e nell’aula regnava un vociare confuso. Zoey si girò verso di me e chiese cosa fosse successo, ma non fui in grado di risponderle e decisi che sarei tornato al dormitorio.

    Mi alzai e mentre richiudevo la borsa lanciai uno sguardo alla vetrina alla mia destra: al lato di un calendario con un segnalino posto sul ventidue Maggio c’era il riflesso di un ragazzo alto un metro e ottanta o giù di lì, indossava l’uniforme della Winslow e non aveva niente da invidiare a nessun’altro degli studenti presenti in aula. Tuttavia, pareva che non avesse più un volto: il suo viso ricordava un uovo bianco smaltato, corroso di putrescenza all’altezza degli occhi e in altri punti dove spuntavano i lineamenti più visibili. Il cartellino della giacca recitava Tom Wiseau: ero pallido in modo innaturale e per un attimo credetti di essere morto. Quell’evento doveva avermi sconvolto. Uscii dalla stanza a passo svelto e senza salutare.

    Dopo qualche passo nel cortile avvertii una fitta di dolore al fondo degli occhi, forse a causa dell’esposizione improvvisa alla luce del sole. Pizzicai le palpebre con pollice e indice della mano destra e strabuzzai le pupille per mettere a fuoco il prato appena fuori dalla struttura. Tutti gli insetti dello spazio naturale donato all’università degli Allen Centenial Gardens, un parco pubblico poco distante, erano ignari delle assurdità avvenute all’interno della sezione di Letteratura inglese poco prima e volevano solo godersi il caldo della primavera nei fiori scarlatti che contornavano la statua di Lincoln. Tornando in me, nacque l’esigenza di sapere che ore fossero; Joe Carroll era entrato in aula dopo la lezione di latino, quindi tra le nove e le dieci di quella mattina. Quando ricordai di avere un orologio al polso risi come un depravato e, per un istante, mi fu impossibile riconoscere persino il luogo in cui mi trovavo: le lancette segnavano le tredici.

    Sulla via per tornare al dormitorio notai Seth Roger, frequentava l’università ed era al mio stesso anno nel 1982; poi aveva cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti ed era stato assalito dall’illusione del piacere. Ora si trovava al bordo della parete di un edificio in costruzione e portava un cappello di lana da cui spuntava qualche ciuffo di capelli ridotti ad uno giallo ocra marcio e putrescente. Una volta era famoso per la sua forza, mentre adesso non aveva più neppure il volto di un giovane.

    Nel pomeriggio invitai Zoey nella mia stanza, avevo bisogno di sapere cosa stava accadendo e quale fosse il suo punto di vista a riguardo. Preferii non cominciare a parlare direttamente dell’accaduto e attaccai il nuovo singolo di Van Halen al mio quarantacinque giri. “Caspita, che esplosione! La Bomba Zar dei sovietici è nulla a confonto!” esclamò e ridemmo entrambi. Continuammo a seguire il ritmo e quando alzai il volume cominciammo a muoverci come idioti. Zoey era goffa, ma aveva un bel viso. Pensai che se solo non avesse dedicato tutto il suo tempo allo studio sarebbe stata più che carina, ne ero certo.

    Quando il disco smise di girare le chiesi cosa pensava di ciò che era successo durante la mattinata. “So che non puoi capirmi Tom, ma… credo di essere innamorata di Joe e oggi, quando ha fatto quel discorso, ero come assuefatta dalle sue parole”. Le risposi che non potevo biasimarla e che tutti, in quell’aula, avevano provato una sensazione simile. “Non hai notato il modo in cui lo guardavano?” Le dissi. “Persino io non riuscivo a resistergli. Quell’uomo ha qualcosa di speciale, o non saprei come altro definirlo” Zoey arricciò le sopracciglia. Una folata di vento spostò il tendino davanti all’unica finestra della stanza: il sole non era ancora scomparso dal cielo, ma il freddo della notte cominciava ad avanzare nel dormitorio.

    “Domattina potresti fargli qualche domanda, sarà di nuovo da noi intorno alle dieci. In fondo, se sai quant’è bello ciò che aspetti, è bella anche la sua attesa”. La squadrai, portai un dito al lato sinistro del capo e cominciai a rotearlo: ormai era fuori di testa. Zoey parve divertita dal gesto e, in fondo, non era così tanto lontano dalla realtà dei fatti.

    Trascorsi il resto della serata a studiare latino. I miei occhi protestavano per il loro diritto di riposo, ma dovevo ancora memorizzare qualche paragrafo tratto da un poema di Charles Baudelaire e tradurlo nella suddetta lingua: il professore della materia non avrebbe tollerato errori o dimenticanze. Forse ogni insegnante aveva qualche rotella mancante, come quella che si era bloccata nella testa di Zoey dopo aver conosciuto Joe, e tutti i complessi che mi tormentavano attorno a quest’ultimo non erano che fantasticherie di uno studente troppo curioso. Già immaginavo gli sguardi straniti che mi avrebbero rivolto i ragazzi presenti in aula l’indomani, dopo aver chiesto a Carroll cosa fosse successo il giorno prima. Probabilmente avrei fatto meglio a star zitto.

    Tuttavia, fu mentre ero immerso in tali pensieri che le cose iniziarono a farsi decisamente strane. La tenda sventolava senza tregua nella mia stanza e decisi di alzarmi per fermare il flusso d’aria. Quando tastai la maniglia degli infissi mi chiesi come avessi fatto a resistere in quelle condizioni sino a quel momento: il manico di ottone era gelido, una spina di ghiaccio che in men che non si dica penetrò nel braccio dal metacarpo della mia mano, e raggelai.

    Prima di bloccare gli infissi mi affacciai oltre la soglia, il dormitorio si trovava qualche centinaio di metri a ovest dell’edificio universitario e la mia camera era collocata al quarto piano, perciò godevo di una panoramica niente male: la luna era alta nel cielo e, anche se emetteva poca luce, si riusciva a distinguere il giardino vermiglio davanti alla struttura, al cui centro troneggiava Abramo Lincoln e, più avanti, il campo di football in cui si allenava la squadra della scuola. L’università aveva un forma rettangolare e al centro di uno dei due lati lunghi sporgeva la struttura d’entrata, costituita da un portico ad archi in pietra sormontato da una costruzione che dava l’idea di un tempio greco antico: una serie di colonne dai capitelli all’echino a forma di spirale reggevano un tetto spiovente, lucente e fresco come fosse stato dipinto quella mattina stessa, mentre perdevo coscienza nell’aula di letteratura inglese.

    D’un tratto, mentre tiravo verso di me l’anta della finestra un sussurro si fece strada nelle mie orecchie e balzai per lo spavento: “Tom” diceva. A volte può capitare di udire una voce inesistente che richiama il proprio nome ma, mio malgrado, non era questo il caso. Chiusi gli occhi e sperai d’essermi sbagliato. “Ho fatto una promessa e intendo mantenerla, Tom” continuò il sussurro spettrale.

    Trovai il coraggio di voltarmi, ma non fu abbastanza per impedire al mio cuore di salire a farsi un giro fino in gola e tornare giù: sulla sedia della scrivania si trovava un uomo elegante, dallo sguardo vivace e una barbetta grigio cenere che gli dava un’aria gioviale. Il mio sistema nervoso si incespicò più volte prima che riuscissi ad aprire bocca: “Che ci fa lei qui?”, domandai. Joe sorrise, i suoi denti erano più bianchi di come avevo immaginato: “Seguimi” annunciò, e si diresse verso la porta d’uscita. Ero incredulo, ma nonostante ciò la mia curiosità era aumentata. Indossai un cappotto e lo raggiunsi.

    Joe pareva indisposto a qualsiasi a domanda. Camminavamo in Observatory road, quando decise di svoltare a destra per entrare negli Allen Centennial Gardens. Di solito i coniugi Dean chiudevano i cancelli del parco prima che calasse il sole, perché ovviamente non amavano l’idea che qualcuno potesse entrare nella loro proprietà. Tuttavia, il cancello che oltrepassammo era aperto e una catena malridotta penzolava da una delle sbarre più vicine alla serratura.

    Superammo il primo prato ad est della casa, Joe procedeva a passo svelto e non era affatto preoccupato di calpestare le aiuole piene di fiori; nell’oscurità della notte mi sembrò quasi che passasse oltre i recinti attraversandoli come un fantasma.

    Quando arrivammo al centro del parco l’uomo si fermò. Finalmente potei avvicinarmi e osservarlo meglio: senza dubbio era ancora Joe Carroll, ma la sua cute aveva una lucentezza peculiare. Brillava quasi quanto l’Orsa Maggiore vista dalla Terra e fu solo nel momento in cui tale pensiero balzò alla mia mente che rivolsi lo sguardo in alto, per la prima volta da quando avevo attraversato la soglia d’uscita del dormitorio. Notai che il cielo era malato, infetto da un morbo che nessun abitante del pianeta poteva curare: una nube corvina assaliva lentamente i corpi celesti da nord e li inghiottiva nella sua morsa incolore, facendoli sparire. Pareva che il professore assorbisse lo scintillio delle stelle, poiché nonostante esse continuassero a sparire lui era come un faro sempre più potente nel bel mezzo dell’oceano, su un’isola sperduta piena di piante esotiche.

    Mancava ancora poco e la luna sarebbe sparita. Il demone dell’isterismo si dimenava nel mio corpo e cercava una via di fuga da quell’orrore che presto avrebbe reso indistinguibile ogni singolo frammento dei giardini circostanti. Man mano che l’alone di morte si spandeva sul prato, un odore acre e pungente si levava dal terriccio sottostante, eliminando il profumo dei fiori per cui erano tanto famosi gli Allen Centennial Gardens. Le Blue Sage perdevano il loro colorito vivace e appassivano come giovani ragazzi alle prese con droghe pesanti. Tra loro c’era Seth Roger, che chiedeva qualche dollaro in più dalla paghetta settimanale ai suoi genitori. Il giorno dopo aveva già terminato i risparmi e si trovava disteso nel punto più ombroso di un grande parcheggio, mentre una corrente estranea confluiva nel lago scarlatto del suo sangue: la morfina stava entrando in circolo e non avrebbe mai più smesso di inquinare le acque vitali di Mike, almeno finché non si fossero prosciugate. Rabbrividii.

    Anche le Calamint e le Tatarian stavano seccando, insieme a tutti gli esseri vegetali contenuti nelle aiuole. Dalla casa dei Dean si levò un urlo. L’aria si faceva sempre più rarefatta e gelida e della luna non era rimasto che un granello di sale. Cercai lo sguardo di Joe e non fu difficile trovarlo, contrariamente al mio coraggio per riuscire a sputare fuori qualche parola: “E ora?” domandai. “Ora possiamo cominciare” disse Joe. “Vedi, per certe cose è necessario il buio. Le piante, gli animali e persino noi umani non potremmo vivere senza la luce. Ma esiste qualcos’altro che non può fare a meno dell’oscurità”.

    Ero succube di ciò che diceva, dal momento che tutto il resto era sparito. E inoltre era stato chiaro fin dal primo momento di quell’assurdità che Carroll fosse una specie di guida, ed era l’unico bagliore nel buio perché probabilmente dovevo seguirlo, altrimenti come avrebbe fatto a mantenere la promessa?

    In ogni caso, non c’era più tempo per speculare, poiché il faro umano si stava dirigendo verso la casa dei Dean. “La purezza fa un lavoro davvero estenuante: assorbe ogni rumore della realtà, e lo restituisce in vibrazioni luminose. Il mondo è pieno di questi esseri armonici che quasi nessuno vede” disse l’uomo aprendo la porta dell’abitazione. “Puoi considerarlo un dono che la natura concede alle creature più splendide della Terra, Tom. Tuttavia, siamo liberi di utilizzare tale potere spirituale a nostro piacimento, e io lo farò per mostrarti alcune cose che cambieranno per sempre il tuo modo di vedere il mondo” Joe continuava ad avanzare nell’abitazione e talvolta aggiungeva delle spiegazioni al suo discorso, tra le quali il fatto che mi avesse condotto negli Allen Centennial Gardens e nella casa al loro interno solo perché per sfruttare la sua capacità aveva bisogno di una grande quantità di elementi naturali.

    Il resto di ciò che accadde fu un mistero. Ci trovavamo in quello che poteva essere un soggiorno e il professore mi chiese di sedermi sul sofà e abbassare le palpebre. L’abitazione era umida e la pelle del divano gelida quanto il pomello della finestra della mia stanza. Iniziai a chiedermi se l’avrei più rivista, poiché dei tentacoli invisibili accalappiarono le mie gambe all’altezza dei polpacci e cominciai ad urlare in preda ad una crisi isterica, che divenne panico allo stato puro quando scoprii che non riuscivo più ad aprire i miei occhi.

    Cercai di scappare, ma ogni volta che ci provavo i miei arti si bloccavano, come comandati da qualcun altro all’infuori di me e fremevo gemendo, posseduto dalle convulsioni. Nella mia mente si succedevano immagini confuse e astratte, linee e punti dalle più innumerevoli forme che avevano come unico segno riconoscibile un colore. “Il colore della purezza, il mio colore” disse una voce dall’abisso più recondito della mia anima. “Hai una vaga idea di quante persone siano morte, per riuscire a trasformare il negativo in positivo, il male in bene, lo sporco in pulito, il piombo in oro?” Era Joe, senza dubbio. E stava associando il colore della sua luminescenza a quello della purezza, alludendo alla filosofia alchimista. Non mi fu difficile comprendere che, in qualche modo, adesso si trovava dentro di me e poteva modificare il mio stato mentale, facendomi avere visioni d’ogni tipo.

    Difatti persi la cognizione del luogo in cui mi trovavo e immagini caotiche e orrende si succedevano davanti ai miei occhi spenti. Descrivere a parole ciò che provai in quei momenti sfugge persino alle mie capacità, quelle di uno studente di letteratura, e non posso che limitarmi a pensare che quel giorno, se mai esistessero un tempo e uno spazio definito in ciò che provai, ebbi la maledizione di conoscere cosa fosse davvero l’orrore, nella sua forma più scabra: monumenti innalzati al male, sciamani intenti a disegnare cosa avevano visto durante il viaggio nell’oltretomba, muse ibride che si contorcevano all’ombra del sole, canzoni e balli tribali in onore di Belzebù, ragazze petulanti che rivolgevano preghiere agli elementi naturali, cercando di invocare creature immonde. Mentre spiriti divoratori di carne si affaticavano per farsi notare una voce sconosciuta iniziò a recitare una sorta di poesia che avvalorava la mia tesi secondo cui mi trovassi in un luogo non fisico, in cui tutto era possibile, a seconda della volontà di quelli che Joe chiamava “esseri armonici”.

    Quando il caos si placò comparve un uomo triste e misterioso, in procinto di dipingere con tutta la forza che gli restava e affannato dalla determinatezza con cui tentava di riportare su tela le sue emozioni inconsce, i suoi istinti più repressi e le sue voglie prive di pudore, e cominciò la litania:

    “Rembrandt. Triste ospedale pieno di mormorii,
    ed ornato solo di un grande crocifisso,
    dove fra singulti e orrori si eleva una preghiera
    nel raggio invernale che brusco l'attraversa”

    Il pittore si trovava nell’unico punto illuminato di quel vuoto informe e contorto, un buco nero senza via di fuga governato da leggi soprannaturali o psichiche, sconosciute per la razza umana sprovvista del dono della purezza. La fonte di luce, pallida come quella lunare, era in grado di riflettere anche le sensazioni dell’artista ed io ne ero assuefatto. Era come se fossi ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo, impotente di agire e costretto a guardare e vivere quelle scene per volere del professore di letteratura. Talvolta l’uomo intento a dipingere lasciava posto ad un altro individuo, che si succedeva a sua volta con un altro.

    “Delacroix, lago di sangue frequentato da angeli malvagi,
    all'ombra di un bosco di abeti sempreverdi,
    in cui, sotto un cielo triste, delle bande strane
    passano, come un sospiro soffocato di Weber;

    Goya, incubo pieno di mistero,
    di feti che si fanno cuocere nel mezzo dei sabba,
    di vecchi allo specchio e di bambini nudi,
    per tentare i demoni sistemandosi le calze”

    E quando credetti che l’orrore stesse per finire arrivarono persino Leonardo da Vinci e Michelangelo.

    “Leonardo da Vinci, specchio profondo e cupo,
    in cui degli angeli incantevoli, dal dolce sorriso
    carico di mistero, appaiono all'ombra
    di pini e ghiacciai che cingono il loro paese!

    Michelangelo, luogo indefinibile in cui si vedono degli Ercoli
    mischiarsi a dei Cristi, e dei fantasmi
    dritti e possenti che nell'ora del crepuscolo
    trascinano il loro sudario con le dita tese;

    Infine, dalle tenebre sbucò un uomo di mezza età, elegante e con un principio di calvizie sul capo. Non faticai a riconoscerlo: era Baudelaire, che alzò le mani verso l’alto e continuò il discorso:

    “Queste maledizioni, queste bestemmie, questi lamenti
    queste estasi, queste grida, queste lacrime, questi Te Deum!
    Sono un'eco ripetuta da mille labirinti;
    sono un oppio divino per i cuori mortali!

    Perché è veramente, Signore, la migliore testimonianza
    che noi possiamo dare della nostra dignità
    che questo ardente singhiozzo che passa di era in era
    e viene a morire sull'orlo della vostra eternità!”

    Il poeta stava inneggiando al divino la capacità artistica degli uomini, ma lo faceva attraverso opere macabre, capaci di entrare nell’animo umano in un solo sguardo e di scuoterlo sino a capovolgerlo, stravolgendo la concezione di bellezza. Ricordai le parole che aveva pronunciato Carroll durante la mattinata e fui finalmente in grado di comprenderle: dovevano essere quelle le opere di cui parlava.
    Il luogo si svuotò e avvertii un senso di rilassamento: la commedia era finita e la promessa era stata mantenuta, era ora di tornare alla normalità, pensai. Tuttavia, mi sbagliavo: “Pensi che sia tutto qui?” annunciò la voce di Joe. “Oh no, questi sono capolavori con una certa energia, ma non sono nulla a confronto di ciò che definisco Arte” continuò. E fu così che cominciò il vero giro nella casa stregata.

    La volontà perversa di Carroll mi mostrò un’abitazione in legno, gelida e dalla piantina contorta. Man mano che ci si avvicinava diventava più tenebrosa e dall’interno pareva provenire un urlo simile al verso blasfemo della strige. Ovviamente non potevo fermarmi ed entrai. A primo impatto non c’era nulla di strano, ma bastò soffermarmi alla teiera poggiata sulla cucina per notare che era composta di un rivestimento peculiare: liscio al tatto, marroncino e rattrappito. Nonostante non avessi il pieno controllo delle mie azioni riuscii a levare un urlo che per poco non risvegliò le anime dannate presenti nella casa. Osservando meglio notai che attorno a me ogni oggetto era rivestito in pelle umana, se non addirittura costruito con ossa e frammenti di corpo. E quando visitai la cantina il terrore raggiunse il parossismo: donne squartate, busti, braccia e gambe putrescenti, illuminate da candele fioche e giallastre.

    Cercando di liberarmi dall’olezzo che si respirava lì dentro lanciai un altro urlo, acuto quanto quello di una strige, e mi accorsi che il grido sentito in precedenza doveva essere proprio quello: il mio. Potevo confermare che il tempo fosse un’illusione. E sperai che lo fosse anche tutto il resto, ma Joe parlò ancora: ”Ed Gein, il macellaio di Plainfield. Mai sentito nominare, Tom? Era un tuttofare con un hobby molto particolare. Questa è la sua casa. Oh sì, senti!” Le pareti e il soffitto dell’abitazione si riempirono di capillari umani che pulsavano, si poteva avvertire un mix di sensazioni letali che avrebbero portato alla pazzia qualsiasi essere umano e condotto all’estasi ogni creatura armonica. Io ero come un ibrido in quel momento e fortunatamente non persi il senno.

    “Le persone pensano che Ed sia un mostro, mentre non è altro che un artista. E questa casa è un’opera d’arte!” disse Joe. Mi fu chiaro cosa volesse intendere e non feci in tempo ad esitare che venni scaraventato in un turbine di sangue e oscenità, in cui passato, presente e futuro si confondevano. Tra i soggetti c’era Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwakee, che si dilettava a cuocere carne umana, mentre disegnava la struttura del tempio che avrebbe voluto creare con i teschi delle sue vittime; Anatoly Moscovin, intento a dissotterrare l’ennesimo cadavere da un cimitero per portarlo nella sua casa e trasformarlo in una bambola dalle parvenze umane; John Wayne Gacy, che si divertiva a disegnare il suo alter ego Pogo, l’uccisore di una miriade di adolescenti e persino la mente alterata di Charles Manson che, pur non avendo ucciso nessuno, bramava più energia negativa di molti altri e imbrattava delle tele astratte che sarebbero diventate dei must per la murderabilia.

    All’improvviso sembrò che tutti quegli assassini mi assalissero, sfuggendo al controllo di Carroll, per colpirmi fino a uccidermi, farmi a pezzi, impagliarmi, scuoiarmi o mangiarmi.

    Quando mi ridestai, pronto a combattere contro quella sottospecie di faro umano nel salotto dei Dean, non mi trovavo negli Allen Centennial Gardens, bensì nella stanza del mio dormitorio. Feci un respiro profondo e mi alzai dalla scrivania. La finestrella indicava che era notte. Richiusi il libro di latino e chiamai Zoey al telefono. Le dita delle mie mani si muovevano assecondate da un tic nervoso. “Tom?” rispose con accento femminile. La mia mascella era atrofizzata e non riuscii a proferire alcuna parola. “Che ti prende? Non dirmi che sei diventato muto come Nosferatu nel suo primo film”.

    Il suo caratteristico modo di parlare fece riaffiorare un senso di familiarità e speranza, una campanula nel bel mezzo degli Allen Centenniall Gardens. Tuttavia, ogni spora del polline benevolo tornò nell’abisso del terrore quando pronunciò la frase seguente: “Joe ha detto che può spiegarci tutto, sta tranquillo. Noi siamo già nell’aula di lettere, ti stiamo aspettando”. Stanco dei dubbi e della confusione che avevo in mente, non esitai ad incamminarmi verso l’università, evitando il bagliore lunare che, a causa dell’incubo, non potevo che associare alla radiazione luminosa del demonio.

    Il paesaggio era tranquillo e non c’erano nebbie ostili. Lincoln troneggiava impassibile nella sua ghirlanda di rose, che talvolta venivano spostate da un venticello primaverile.

    Nel momento in cui entrai nella sala di letteratura, buia e impermeata di un odore simile a quello dell’ammoniaca, distinsi le sagome dei miei compagni di corso, seduti nei loro banchi, immobili e in silenzio assoluto. Guardandomi meglio attorno notai che mantenevano una posizione perfettamente eretta della schiena, persino quella che pareva essere Zoey, al fondo dell’aula: un dettaglio che mi fece strabuzzare il naso, poiché non era solita curarsi dell’aspetto o dell’atteggiamento fisico corretto.

    Mi avvicinai di soppiatto e le tirai un buffetto sulla schiena, come aveva fatto lei la mattina prima; però non rispose e le poggiai una mano all’altezza della clavicola, chiamandola. La sua pelle era liscia, ma odorava di qualcosa che non riuscii a definire e d’un tratto si accese il lampadario, che diede atto ad una rivelazione sconvolgente: la sua cute era nera, intrisa di un liquame simile al petrolio.

    La gente pensa che in simili momenti si urla, ma non è così. Si resta immobili, sconcertati e affogati in un oceano di smarrimento. Ogni alunno si trovava in quello stato, erano diventati delle statue di cemento in procinto di asciugare e restare per sempre dei vegetali, come le Calamint e le Tatarian che venivano prosciugate della loro forza vitale con l’avanzare della nebbia oscura. Lanciai un’ultima occhiata a quella che era stata la compagna di università e iniziai a singhiozzare per la disperazione. Dietro le mie spalle si alzò la voce inconfondibile di Carroll: “Sigillante Poliuretanico” annunciò. “Una botta sulla testa e nel giro di qualche minuto anche tu avrai l’onore di entrare nella mia opera d’arte”. Un pugno mi colpì sulla fronte e mi ritrovai svenuto sul pavimento della classe.

    La voce di Zoey risuonava nella mia testa. Non potevo sopportare l’idea che fosse morta in quel modo e continuavo a sentirla mentre chiamava il mio nome ed emetteva dei sussurri per attirare la mia attenzione. “Tom, se non ti svegli sarò costretta ad attaccare il nuovo singolo dei Van Halen. Dovresti ascoltarlo, è una bomba” Quando spalancai gli occhi mi ritrovai nello stesso posto, ma i miei compagni potevano muoversi e non erano imbrattati di nessun tipo di sostanza tossica. La stanza era ben illuminata e fuori sembrava essere giorno, il calendario sulla vetrina alla destra del mio banco aveva un segnalino sul ventidue maggio. Mi voltai e corsi da Zoey per abbracciarla, incurante di tutto il resto. Lei si alzò dalla sedia e dopo una smorfia stranita acconsentì.

    Mentre la stringevo notai Seth Roger che passava nel giardino di Lincoln, con un Blue Sage sull’orecchio. “Allora Tom” disse il professore dal fondo della cattedra. “Hai capito qual è il mio concetto artistico?”.

    Edited by @AnthonyInBlack - 30/11/2018, 16:53
  8. .
    Robert Farrell non avrebbe ammesso la possibilità dell’esistenza di un’entità superiore all’essere umano neppure davanti alle recenti stigmate di Natuzza Evolo o alle lacrime sanguigne della statua della vergine di Lourdes.

    Eppure, nella sua vita subentrai io: un demone. Mi chiesi subito se avrebbe cambiato idea…


    La sua reticenza nei confronti della vita dopo la morte scaturiva dal suo mestiere: osservare i corpi impotenti delle persone che sino al giorno prima si muovevano, parlavano e probabilmente giocavano a carte lo sottoponeva ad una verità troppo cruenta per un essere umano a cui l’incappucciata in nero non aveva ancora neppure proposto una partita a scacchi. Tutto ciò l’aveva portato ad odiare l’odore dell’incenso e persino la sola idea di entrare in una chiesa: “Come potrebbe esistere una vita dopo la morte se i nostri corpi rinsecchiscono, emanano l’olezzo della putrefazione e diventano cibo per vermi?” pensava. Nonostante ciò, in quel momento, si trovava in una chiesa. Per raggiungere la basilica di San Michele aveva addirittura percorso decine di chilometri con la sua auto.


    Gran bell’idiota! Non immaginava affatto quanto fosse grande la mia potenza.


    Durante il viaggio, Margaret gli aveva detto: “Non dobbiamo andarci per forza”. Lui si era voltato verso i sedili posteriori e aveva incrociato lo sguardo della compagna. Le pupille dilatate, affogate in un budino biancastro, parevano chiedere aiuto: tutto il soccorso che le sue labbra incoscienti, più arse del deserto della Giudea, non erano capaci di comunicare.

    Un attimo dopo gli era sembrato che ogni dubbio fosse svanito e ed era tornato alla convinzione precedente secondo cui sua moglie aveva qualcosa che non andava più nel modo giusto. Il piede destro dell’uomo era tornato a sforzarsi sull’acceleratore, più forte di prima. Tuttavia, il parossismo del terrore nel cuore di Robert si era acceso nel momento in cui aveva invitato la compagna ad entrare nella chiesa.
    “Non sai neanche come trattare una donna” aveva detto Margaret in quel momento. Era come se ogni singola parola zampillasse fuori dalla sua bocca in uno strepitio convulso che ricordava le fiamme ardenti dell’inferno. “Credi davvero che Dio, quello stesso Dio che hai sempre ripudiato, possa aiutarmi?”.

    Robert si era passato una mano sulla fronte. Le sue dita, adesso, erano imperlate di sudore, ma gli parve che si trattasse di sangue e rabbrividì, nonostante il Sole battesse sulle loro teste e le rendesse pesanti come i gradini della scalinata della basilica. “Sei sempre il solito” aveva continuato la donna. “Ti accorgi delle cose importanti solo nel momento del bisogno. Dio non ascolterà le tue preghiere”.
    Dopo qualche minuto sbucò un prete dall’oscurità dell’edificio.

    Avevo già sentito parlare di lui. Quel bastardo aveva rimandato all’inferno molti miei simili.

    Quando la donna guardò l’uomo di chiesa, Robert ebbe l’impressione che un ghigno insensato si dipingesse sul suo volto. Poi allungò una mano tremante e si presentò; provò una sensazione di malessere in tutto il corpo: era diverso da come se l’era immaginato per telefono, o forse non frequentava un luogo sacro da così tanto tempo che gli pareva bizzarro trovarsi di fronte ad un esponente di Cristo vestito totalmente in nero.

    E non posso negare che il solo tocco della sua mano fece un certo effetto anche a me.

    “Padre Amorth, il piacere è tutto mio. Seguitemi” annunciò il parroco.
    Aveva un’aria solenne e uno sguardo torvo che esprimeva saggezza, con quel paio di occhi doveva aver visto gran parte dell’oscurità che il cielo e la terra avessero da offrire, forse persino più di me. Difatti, in un primo momento, feci fatica nello stabilire a quale reame appartenesse.

    La basilica era fresca e l’unico fascio di luce filtrava attraverso un mosaico, sopra l’altare. Ritraeva San Michele come prode guerriero di Dio, nel tentativo di uccidere un drago, schiacciandogli il collo sotto il suo stivale d’avorio sciapito. La lingua del demone era fuori dalla bocca, contornata da denti aguzzi, che non sarebbero serviti più a nulla. Robert provò un senso d’angoscia. Si sentiva come lui: una creatura immonda, calpestata dalla presunta malattia di sua moglie, e provò un sentimento di rancore nei confronti del santo. Per un momento credette che la basilica, la candele accese, gli affreschi sui muri imponenti e gli odori del luogo l’avrebbero fatto svenire.

    Il fascio di luce azzurrina faceva luccicare le panche della chiesa e dava un’aria divina al volto di Sant’Antonio, contratto in un’espressione d’orrore. Robert aveva fissato la statua per qualche attimo e aveva provato un pizzico di curiosità per gli esseri striscianti che il santo impietrito cercava di scrollarsi di dosso. Tutto, in quel luogo, pareva rappresentare una sfida tra il bene e il male, persino la camminata impaziente del prete.

    Margaret riusciva a stare al suo passo e non sembrava affatto intimorita. “Non ha senso” pensò Robert, ma poi ricordò che, come aveva letto in quel testo latino che aveva ritrovato nella cappella mortuaria della famiglia Abbot, poteva essere parte del gioco del parassita: fingersi invisibile.

    Povero, stupido, idiota. La corruzione della mente di un essere umano è cosa ben più facile di quanto si possa credere, e nelle condizioni adeguate e i momenti giusti può diventare effettiva senza alcun accorgimento.

    Padre Amorth li condusse in una stanza ben illuminata. Il profumo dell’incenso era molto forte e le pareti erano ornate di svariati quadri dall’aria oscura, diabolica. Una scrivania d’acero stracolma di documenti e cartelle regnava al centro della stanza e Robert non fece fatica a capire che dovesse essere di proprietà del parroco. “Accomodatevi” disse con tono calmo. “E osservate questo” continuò l’uomo di Dio indicando una delle stampe bizzarre che decoravano le pareti marroncine.

    Aveva puntato l’indice verso La scena del diluvio, di Anne De Roussy. Si trattava di una stampa antica e aveva l’aspetto di una di quelle cose che non bisognerebbe mai risvegliare dai sogni dissennati del tempo. Margaret chiese cosa rappresentasse e il prete spiegò: “La figura in alto, quella avvinghiata all’uomo, è un demone. Asmodeus, probabilmente. Sta cercando di portarlo via dalla sua amata e dai suoi figli. La mano dell’uomo è ancora salda a quella della donna, ma quando il maligno è aggrappato al corpo in quel modo, resistergli è difficile quanto lo è stato attraversare la porta della chiesa per una delle persone presenti in questa stanza”.

    Robert cominciò a tremare, ma cercò lo sguardo della compagna e lo trovò confortante: pareva rilassata. “Uno dei giochi preferiti dal diavolo è illuderci” Amorth si accarezzò il mento sbarbato e continuò: “Ovvero far passare per malsane tutte le cose in cui credevamo e far provare un senso di familiarità con alcuni simboli e disegni occulti: un’intaccatura alla personalità del soggetto. Se non riuscite a seguirmi, fermatemi pure”.

    Improvvisamente, Robert trovò buffo il modo di parlare del parroco. Cercò di trattenere le risate con tutta la forza che gli era rimasta, ma tornò ad assumere un’espressione seria solo quando la sua mente lo riportò indietro con i pensieri a qualche giorno prima.
    Aveva percorso le solite vie affollate di Ondo City per tornare a casa, con la sua auto. Tuttavia, quella volta non era solo: sul sedile di fianco a quello del guidatore c’era un testo antico, probabilmente risalente agli ultimi anni dell’Impero romano. De Vermis Miisterys, recitava il titolo. Avrebbe dovuto restituirlo all’ultimo discendente della famiglia Abbot, ma non l’aveva fatto. E non per una questione di fatica: il giovane Wington Abbot, ultimo della stirpe, si trovava proprio vicino a lui, mentre ripuliva la cappella.

    Robert aveva approfittato del primo momento libero per portarlo furtivamente alla sua auto e aveva addirittura sfogliato qualche pagina. Quel tomo millenario, dalla rilegatura perfetta, le borchie in ottone che cavalcavano il dorso e le pergamene illustrate di abomini lo attraeva in modo indicibile.

    Quando giunse alla sua abitazione e lo mostrò a Margaret, ella parve subito incuriosita. Talvolta Robert, durante la notte, avvertiva qualche rumore e nel momento in cui si svegliava nel letto, la compagna mancava all’appello. La trovava sempre nel suo studio, intenta a leggere il libro maledetto senza l’ausilio di un dizionario. Si giustificava dicendo che aveva frequentato il liceo e ricordava ancora qualcosa sul latino. Ma Robert non ci credeva. Non dopo aver letto quali fossero i segni di una possessione demoniaca e altre informazioni a riguardo nel De Vermis Miisterys.

    L’amore per sua moglie l’aveva portato nella basilica di San Michele, al centro di Toronto.
    “Apri gli occhi figliuolo. Tua moglie dice di essere pronta per l’esorcismo” Robert scosse il capo per riprendersi e si guardò intorno. Margaret era legata ad una sedia e una benda copriva le sue urla, che altrimenti avrebbero risuonato potenti contro le pareti del tempio di Cristo.

    In quel momento provai un senso di sollievo, ma non avrei mai dovuto rilassarmi con Padre Amorth nella stessa stanza in cui c’ero io. Ridevo e digrignavo i denti al pensiero che un’innocente avrebbe sofferto a causa mia.

    Il prete cominciò con la litania romana: “Signore onnipotente, voi che avete dato il potere a tutti i vostri apostoli di schiacciare sotto i talloni i serpenti e gli scorpioni, che fra tante altre ammirevoli parole vi siete degnato di insegnarci questa: Andatevene, demoni”.
    Amorth si voltò improvvisamente verso Robert e gli spruzzò un po' d’acqua santa addosso. Si avvicinò sempre di più verso quest’ultimo, che si dimenava e strillava come avrebbe fatto uno dei suoi cadaveri nel caso in cui si fosse risvegliato nella propria bara.

    Soffrivo enormemente e mai mi sarei aspettato un tale gesto dal prete.

    “Vattene Asmodeus! Finché sarò in vita non vincerai mai!” intonò il parroco, mentre i ricordi e i pensieri di Robert svanivano lentamente dentro di me e mi preparavo a tornare nelle viscere dell’inferno.

    Edited by @AnthonyInBlack - 17/6/2019, 13:12
  9. .
    Nella volta celeste Acquario brillava di luce propria. Arthur aveva notato La costellazione ancor prima di entrare nell’autobus. Odiava quel gruppo di stelle nonostante rappresentassero il suo segno zodiacale. Era stufo di sentirsi uno dei tanti pesci presenti nell’acquario. Avrebbe preferito essere del Toro, dello Scorpione o persino della Bilancia. Ma non un Acquario. Robert Matheson era seduto al suo fianco destro, lontano dal vetro. Con le labbra contratte in un’espressione disgustata si lamentava dell’odore che circolava nell’aria: era del Cancro. Il resto dei compagni era sparpagliato tra i sedili logori dell’ammasso di ferraglia, che sarebbe partito non appena fossero arrivati i gemelli Palmer.

    Intanto, nello stato di Washington: << E non rompere! >> esclamò William Pep a sua moglie. Era una fifona. Credeva davvero che il governo militare degli Stati Uniti d’America avrebbe preso ulteriori provvedimenti oltre alle lettere d’avvertimento che ricevevano nella loro piccola abitazione sul monte Rushmore. Okay, la settimana scorsa Qualcuno aveva fatto esplodere la cassetta della posta. Ma poteva essere stato chiunque. E poi William era libero di fare ciò che voleva. Non se ne poteva discutere.

    Jenny era intenta a pettinarsi l’unico ciuffo di capelli che aveva da sempre occupato la sua zucca, aveva un’aria triste e non osava proferire parola con nessuno; forse per via dei fatti avvenuti nell’ultimo viaggio. Bob occupava due sedili e osservava la strada deserta fuori dal finestrino, sospirando ogni volta che il vento inclinava le fronde dei faggi imprigionati nei quadrati di terra circondati dall’asfalto. In lontananza si potevano notare le luci dei lampioni che si inerpicavano su per le montagne. Non c’era mai traffico in quella zona del Nevada e se non fosse stato per qualche condominio fatiscente, come quello in cui abitava la maggior parte dei presenti su quel pullman, sarebbe stata una zona totalmente deserta.

    << Siete pregato di smettere la divulgazione di notizie, peraltro ridicole e senza fondamento, che potrebbero risultare nocive alla comunità del paese. L’argomento dei dischi volanti ha da sempre causato scompiglio e disinformazione tra i cittadini e non vorremmo che si ripresentassero in forma più acuta. Cortesemente, vicedirettore Strickland MacFarlane. Base militare di Fort Wave >> William sbuffò alle parole di Martha. Non c’era motivo di leggergli una delle lettere che avevano ricevuto qualche settimana prima, per l’ennesima volta. Aveva visto dei fottuti Ufo! Doveva saperlo tutto il mondo!

    I Palmer salirono sul mezzo barcollando. Arthur non conosceva la lingua dei segni e non aveva potuto chiedergli a quale simbolo zodiacale appartenessero, ma il ritardo era una caratteristica tipica del Leone. La porta vicino il posto di guida del mezzo si chiuse. L’autista era noto al gruppo come Capitan Sparrow, un soprannome ideato da Jenny che, evidentemente, non aveva mai visto un capello da ufficiale prima di quello dell’uomo al volante. << Salve, Capitan Sparrow >> aveva annunciato entrando nell’autobus qualche mese prima. Lui l’aveva fissata per qualche secondo, poi si era alzato e l’aveva picchiata in modo brutale, finché un rivolo di sangue non le era sgorgato dalle narici. Arthur aveva incitato gli altri a non parlare dell’accaduto con nessuno. Non potevano perdere l’unico lavoro che gli avessero mai offerto nelle loro vite.

    William si stava lisciando i baffi. Il tasto Invio del Fax separava il racconto della sua ultima esperienza con un oggetto volante non identificato dal rettore della rivista Occult Science, che l’avrebbe senz’altro pubblicato. Le sue storie destavano scalpore tra chi aveva avuto incontri ravvicinati del quarto tipo, poiché non si limitava a narrare le vicende, ma integrava i contenuti con commenti personali. Non aveva paura del governo.

    La compagnia giunse alla base militare di Forth Wave. Superarono il controllo all’entrata e vennero condotti nella stanza dei costumi, un luogo simile al backstage di un teatro, ma con le luci soffocanti di una camera oscura. Il signor Thimoty ritoccò le sopracciglia di Robert e propose al gruppo nuove tute adatte al lavoro: era un maniaco della perfezione, una Bilancia. Quando la compagnia terminò di vestirsi e agghindarsi con gli abiti e gli ornamenti che i Poteri Forti avevano studiato a tavolino per loro, tornarono sull’autobus. Arthur notò che qualcuno stava già tremando. Era difficile immaginare cosa pensassero gli altri, ma, per lui, quel mestiere significava smettere di sforzarsi di sembrare normale e sfruttare la propria diversità, il proprio pudore e la propria sofferenza per fare del male.

    La casupola isolata sul monte Rushmore smise di brillare. Per le persone che avessero superato la mezza età era ora di andare a dormire. Martha uscì nell’atrio e sorprese il marito alle spalle, intento a guardare il cielo sotto il riflesso biancastro della Luna. Quando osservava i corpi celesti pareva addolcirsi: << Scusa >> annunciò la donna. William si voltò e unì le labbra alle sue, poi aggiunse << Stanotte Acquario è incredibilmente luminosa >>.

    Bob fu l’ultimo a mettere piede fuori dall’autobus. Si trovavano ai piedi di una montagna. Prima che fossero scesi dal mezzo, Capitan Sparrow gli aveva indicato un’abitazione lontana qualche chilometro, sulla cima di una formazione rocciosa affiancata al monte.

    Chi poteva bussare alla porta a quell’ora della notte? Martha era ancora sveglia e, con passo felpato, si diresse verso l’uscita. Superò la finestra del salotto. L’aria era acerba e la brezza notturna entrava dagli spifferi tra le assi di legno del soffitto. Aprì la porta. Un brivido si fece strada dall’estremità della sua schiena, conficcandosi nella carne in numerose diramazioni che si snodavano sino al collo. Faceva un gran freddo.


    Jenny si era messa a correre. Sembrava non ricordare il modo giusto per svolgere il lavoro. Aveva paura. Arthur sapeva che, se presi alla sprovvista, i Capricorno possono perdere la fiducia in se stessi e la propria autostima. Hanno bisogno di persone che diano loro forza per farli arrivare alla meta più alta, ma in quel momento non poteva curarsene. Doveva fare ciò per cui era giunto fino lì. Estrasse un laser dalla tasca della tuta argentata e lo puntò alla finestra dell’abitazione, poi accese una torcia e illuminò il suo collo davanti agli scuri. Rimase immobile in quella posizione, mentre Robert continuava a bussare alla porta senza farsi notare e Bob emetteva dei versi gutturali da qualche collina più a est.

    William si svegliò di soprassalto. Aveva avvertito un urlo. Ma dov’era finita Marta? Si diresse verso l’uscio e notò che il vetro della grande finestra in salotto filtrava dei raggi di luce particolari. “Ufo” pensò. In preda all’agitazione di tale pensiero corse verso la porta d’entrata senza preoccuparsi del buio, ma inciampò su qualcosa. Un corpo morbido, un corpo profumato: << Martha… ma che cazzo! Svegliati! >>. Le sue parole risuonarono impotenti contro il verso mostruoso che proveniva da lontano. William si accasciò al suolo e restò in quella posizione, piangendo e battendo il pugno contro il pavimento per diverse ore. Poi alzò lo sguardo e notò che intorno a lui c’erano delle persone con abiti luccicanti e foscerescenti. A qualcuno mancava un braccio, c’era una donna affetta da microcefalia con la testa pelata, tranne per un ciuffo pettinato al centro del capo; c’era un omone grande e grosso che faticava a reggersi in piedi, e persino dei gemelli siamesi. Al centro, però, c’era un ragazzo con lo sguardo costantemente rivolto verso l’alto, che parlò per primo. Il suo collo venoso era bloccato in quella posizione.

    << Siamo umani, so che non si direbbe, ma vogliono farci passare per extraterrestri >> disse Arthur.
    << Non abbiamo scelto di fare tutto ciò e siamo davvero dispiaciuti per la donna >>.

    William smise di pubblicare i resoconti dei propri avvistamenti e si dedicò alla sepoltura di Martha. La compagnia tornò alla base di Fort Wave e ricevette il dovuto compenso dal generale Strickland. Per quella notte avevano finito. Jenny tornò a far parte del gruppo dopo le parole di conforto che gli rivolse Arthur: << Se prima di trovarci eravamo considerati come mostri, adesso siamo mostri cattivi. Scorpioni, tori, bilance, cancri e pesci: creature e oggetti dalle innumerevoli forme; ma se prima di svolgere questo lavoro eravamo solo un ammasso indefinito di stelle, ora siamo una costellazione >>.

    Richard Doty, agente speciale in pensione che lavorava per l’AFOSI (Ufficio aeronautico militare speciale degli Stati Uniti), afferma che il governo degli USA cerca in tutti i modi di dissuadere l’attenzione dei cittadini e di conseguenza dei mass media dai fenomeni riguardanti oggetti volanti non identificati. Egli afferma che avrebbero sminuito e ridicolizzato casi simili a causa del caos che si sarebbe creato nella comunità. Tra i mezzi di difesa da tali testimonianze spiccava un programma assai bizzarro e controverso, che Richard ha citato nel docu-film Unacknowledged: “Raccoglievano persone affette da deformità genetiche. Ricordo che un uomo non voleva smettere di diffondere su larga scala le testimonianze dei propri avvistamenti, così radunarono quelle persone e le condussero all’abitazione dell’uomo. Ci viveva con sua moglie. Li spaventarono a morte. Programmi del genere sono sempre esistiti, ma credo che questo sia attivo ancora adesso. Anzi, ne sono sicuro”.


    Edited by @AnthonyInBlack - 19/11/2018, 21:33
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    Profumo, delitto e castigo

    Prima di scomparire, Abby amava recarsi sulle colline ai confini di Plainpalais e poggiare la sua lunga chioma all’ombra degli abeti che sottostavano al monte Saleve. La piccola si dedicava alla lettura delle opere di alcuni autori francesi come Voltaire, Rosseau e Diderot. Talvolta, però, si spingeva sulle montagne più alte e coglieva dei fiori, malgrado sapesse che l’esposizione prolungata al sole avrebbe potuto esserle fatale. La sua pianta preferita era la genziella e, sin dal primo momento in cui aveva scoperto quel fiore bluastro, sembrava essersene innamorata.

    Difatti, non riesco a ricordare un solo momento in cui non emanasse lei stessa il profumo del vegetale. Tuttavia, per quanto potesse apparire graziosa, restava pur sempre una disgraziata. Era l'unica della famiglia ad essere nata marcia e facevo fatica ad ammettere di essere suo padre. Ogni volta che guardavo quella calotta cranica allungata all'indietro, dei conati di vomito assalivano il mio stomaco. Tuttavia, i fatti che mi accingerò a raccontare meriterebbero l’attenzione di qualsiasi essere vivente, a prescindere da quanto orripilante sia.

    A distanza di qualche anno dalla sparizione di Abby (doveva essere più o meno il 1760), rinvenni una ciocca dei suoi capelli sull'uscio della porta di casa. Quella notte, la luna brillava nel cielo come la pupilla stanca nella cornea di un lettore accanito. Ero uscito all’aperto in seguito al ticchettio che produceva il ramo di un albero, sbattendo contro una finestra della mia baita. L’aria di montagna, normalmente, è rarefatta, ma in quel momento mi parve di non sentirla affatto: niente di ciò che si trovava nell’ambiente sembrava adatto ad essere inalato, ingerito, tastato, guardato o ascoltato per l’uomo. I miei sensi erano come intorpiditi da una forza sconosciuta, che mai avrei creduto d’incontrare tra i sentieri eremitici di Plainpalais.

    Come avevo anticipato, trovai un mucchio di capelli proprio davanti all'entrata. Esaminandogli meglio, mi balenò subito in mente che potessero somigliare a quelli di mia figlia. Ma ogni dubbio svanì quando li allungai al naso e riconobbi la fragranza inequivocabile della genziella. I miei nervi fremevano e feci fatica a trattenerli tra le dita, cosicché caddero. Presto mi accorsi che, sulla terra umida, ne erano presenti altri. Posseduto da una curiosità macabra e perversa seguii la scia verso l’interno del bosco. Ogni tanto una ventata del profumo di genziella investiva le mie narici, scuotendo le mie viscere più di quanto non riuscisse a fare il clima alpino in quell’autunno maledetto.

    Nel bosco risuonava il bubolare di una civetta e la vegetazione aveva un aspetto bizzarro: le piante, i tronchi e fiori riflettevano un’ombra blu, un fenomeno che non avevo mai avuto occasione d’osservare prima (come normalmente dovrebbe essere). Iniziai a chiedermi se stessi sognando o se avessi perso il lume della ragione. In ogni caso, continuai ad avanzare. E rallentai il passo solo nel momento in cui distinsi uno strano scintillio, sulla cima di una collina. Prima di andargli incontro esitai qualche attimo, poiché invasato da pensieri e sentimenti sempre più tormentanti. Ma le tracce portavano in quella direzione e continuai a proseguire. Quando raggiunsi il bagliore, tuttavia, il sangue strillò nelle mie vene talmente forte che per poco non mi venne un infarto: si trattava di qualcosa che non avrei più dimenticato per il resto della mia vita.

    Scarna, esangue e mostruosa oltre ogni dire, giaceva poggiata con la schiena al tronco di un grande pino una creatura dalle sembianze umane, concentrata su un libro. Il luccichio proveniva dalla fronte che, in assenza di capelli, dava adito a tutta la sua mostruosità di una testa calva e allungata. Gli occhi, scintillanti come stelle in procinto di esplodere, esprimevano odio. Il terrore che provai in quel momento non può essere descritto a parole, ma credo che ogni essere vivente dotato di pensiero logico avrebbe tremato per la paura. E non era ancora tutto: pallido come la luna e magro come le fronde degli abeti circostanti, quell'abominio umanoide si alzò e mi venne presto incontro.

    Cominciai ad indietreggiare, pian piano, verso la mia abitazione e desiderai tanto di non aver mai sentito il ticchettio del ramo che mi aveva portato fino a quel punto. Penso che nessuno possa vantarsi di conoscere veramente l’orrore, se non il sottoscritto. I miei vestiti erano imperlati di sudore: sudore freddo, gelido.

    Ad un tratto, la creatura strillò. Iniziai a correre senza mai voltarmi, ma un tale urlo non poteva appartenere a questa terra, tanto fu stridulo e acuto che coprì ogni rumore circostante. Credetti persino che i miei timpani sarebbero collassati assieme al battito del mio cuore.

    La mia andatura si fece ancora più rapida, finché non raggiunsi il casolare dove abito tutt’ora. Quando aprii la porta ed entrai, dovetti girarmi per chiuderla e notai che non c’era nessuno a seguirmi. Ormai avevo il buon senso di credere che la mia mente non funzionasse più a dovere. Ma era tutto troppo reale per essere un incubo o un’allucinazione. E ne ebbi una prova schiacciante giusto qualche altro istante dopo.

    Sulla mia scrivania, infatti, si trovava qualcosa di inusuale: un volume illuminato dal chiarore lunare e intriso del profumo di genziella. Era Candido, di Voltaire. Il tomo, aperto alla prima pagina, aveva delle parole sottolineate che condannarono la mia anima alle pene dell’inferno già qui, sulla Terra. Soprattutto, però, mi fecero pentire del gesto compiuto qualche anno prima nei confronti di Abby. La frase impressa nella carta, come un marchio impresso con il fuoco sulla pelle di un essere umano, recitava: “La paura segue il delitto, e ne forma il castigo”.

    Edited by @AnthonyInBlack - 3/5/2019, 17:17
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    Siamo circondati da misteri oscuri e viviamo in un mondo ricco di segreti non ancora dimenticati, che talvolta vengono alla luce, filtrati ai nostri occhi dallo spettro della realtà e camuffati dal regolare ticchettio dell’orologio che scandisce il tempo del mondo.

    Anno 1978: nella città di Glasgow si era verificata la scomparsa di una moltitudine di adolescenti. Tra i maggiori sospettati spiccava Marcus Keane: un vagabondo tutt’altro che ben visto dagli abitanti della cittadina, che sarebbe poi fuggito per via dei sospetti.

    Marcus aveva cominciato a marinare la scuola all’età di sedici anni. Nonostante avesse dei suoi gusti eccentrici, non era mai stato vittima di bullismo e aveva sempre reagito alle provocazioni dei compagni sfoderando la sua rabbia repressa in ogni sfumatura. Proprio come la tonalità dei suoi capelli: castani alla radice e addolciti da un biondo sempre più intenso fino alle punte. Tuttavia, si ostinava a non tuffarsi nel mare della normalità comune in cui sguazzavano i suoi coetanei. Scuola, studio, famiglia, passeggiate limitate al centro della città e obbiettivi per il futuro: tutto ciò rappresentava per lui la banalità dell’esistenza umana.

    Marcus preferiva di gran lunga appiccare un incendio in una landa desolata e osservare il divampare delle fiamme, mentre le urla dei Cannibal Corpse gli squarciavano le orecchie. E fu proprio mentre passeggiava ai confini di Gasglow, dove le acque del fiume Clyde condiscono il panorama boschivo, che incontrò quello strano ragazzo dall’altezza smisurata e lo sguardo inebetito, rivolto al cielo. Si trattava di un adolescente troppo cresciuto, che stringeva tra le sue lunghe braccia una sorta di vaschetta dai bordi trasparenti, dentro cui pareva esserci qualcosa di vivo, che si muoveva e contorceva come un’anguilla.

    “Questa dev’essere tua” aveva annunciato Marcus porgendogli una rana, dopo essersi avvicinato e aver allungato lo sguardo nella bacinella. Il gigante aveva dei lineamenti sporadici, tant’è che, in un primo momento, Marcus pensò che potesse somigliare ad un pesce. Ed era talmente distratto che riuscì a focalizzare l’attenzione sull’interlocutore solamente dopo qualche secondo: “Cosa?” domandò. Gli occhi di entrambi erano fissi al centro della vaschetta, da cui proveniva un verso rauco e intermittente. Marcus infine alzò la mano in cui teneva l’anfibio e lo lanciò nella bacinella, con gli altri. Il gigante lo ringraziò.

    Disse di chiamarsi Dylan: “Le creature del mare sono tutte mie amiche” aggiunse e continuò: “Vieni con me, ti faccio vedere una cosa!” Si incamminò verso la parte più fitta e rigogliosa del bosco, senza aspettare. Marcus esitò un momento, ma pensò che niente poteva essere peggio di tornare nella sua casa, e lo seguì. Attraversarono i sentieri del bosco che conducevano ad una sponda del fiume, mentre il sole faceva buffetti dalle fronde degli alberi e il rumore dei passi riecheggiava regolare nell’aria, mischiandosi in sottofondo alla conversazione dei due.

    Marcus era talmente posseduto dallo spirito dell’avventura che dimenticò persino di chiedere al nuovo compagno da dove venisse o quanti anni avesse. Ad un certo punto, un edificio in legno prese forma davanti ai loro occhi e Dylan rallentò il passo: dovevano essere giunti a destinazione. Marcus provò un brivido. La vista di quella casa abbandonata assunse la forma di un desiderio di libertà, estremamente vivido nella sua mente. Un rifugio, ecco tutto ciò che cercava. Per scappare dai genitori e avere un luogo in cui passare il tempo mentre marinava la scuola. L’edificio era di legno scuro e aveva l’aria e le dimensioni di una baita di montagna.

    All’interno, tuttavia, non era accogliente quanto quest’ultima. Il buio e l’olezzo di umido regnavano incontrastati e si potevano distinguere i versi, i fruscii, i rumori e i viscidi spostamenti di rane, rospi, anguille e chissà che altro. Dylan disse che teneva gli animali in gabbiette e piccole vasche, e che era normale avvertire tutti quei suoni. Anche perché, talvolta, qualche bestiolina riusciva ad evadere dalla propria prigione. Marcus, che si era mantenuto sull’uscio della porta fino a quel momento, immaginò di trovarsi chiuso lì dentro e di avvertire il contatto umido e squamoso di migliaia di code su tutto il suo corpo.

    Provò un tale ribrezzo che si allontanò e Dylan, passandosi una mano sulla fronte e sospirando, sparì nel buio per sistemare gli animaletti contenuti nella vaschetta che aveva trasportato fino a quel momento. Trascorsero il resto di quella giornata all’ombra dell’ultimo del sole, seduti sul bordo di uno scoglio che svettava sul fiume. Marcus agitava le gambe e fissava il fiume, mentre il vicino sorrideva alla vista di un insetto che volteggiava poco lontano dal suo viso.

    Ed ecco che un pesce balzò fuori dall’acqua, emettendo un riflesso argenteo che meravigliò entrambi e risvegliò un animo afflitto da oppressione e tristezza. “Sai, mi è sempre piaciuto guardare l’acqua che scorre. Fin da quando ero bambino. Andavo al fiume, lo osservavo nella sua grandezza e ricordavo che è solo una piccola parte nell’immensità del mare. E mi ripetevo: Fanculo la scuola. Non conta proprio un cazzo. Posso essere chi voglio. E non m’importa se la mia famiglia non può capirmi”. L’odore dell’acqua salata si mescolava al profumo della natura circostante, creando un’atmosfera inebriante. “Sai che penso?”, ribatté Dylan e continuò: “Penso che i legami di sangue siano fatti per essere divisi, allo stesso modo in cui una rana abbandona le proprie uova dopo averle deposte. È naturale”.

    Il gigante si alzò e si tuffò nell’acqua. “Buttati anche tu! È calda” aggiunse tirandosi in superficie dopo l’immersione. Si manteneva a galla con una facilità straordinaria. Marcus sorrise: aveva davvero trovato qualcuno che poteva capirlo? Qualcuno su cui poter contare? Tolse i vestiti e si lanciò anche lui nel fiume. La luna aveva ormai sostituito il sole e una brezza notturna soffiava potente contro la vegetazione dello scoglio.

    L’acqua non era affatto calda. In lontananza un grosso pesce sfiorò la superficie del fiume, poi nient’altro: silenzio. Silenzio assoluto. Dov’era finito Dylan? Marcus si trovava nel fiume Clyde, da solo, senza vestiti, sotto la pallida influenza della luna. Spaventato, decise che sarebbe tornato sulla terraferma. Ma appena si mosse qualcosa sfiorò il suo piede e ripensò al capanno: le viscide creature che altro non avrebbero desiderato senonché piombargli addosso e strisciare sul suo corpo. “Calma Marcus, sei solo spaventato” pensò.

    Provò nuovamente a muoversi verso l’appiglio più vicino e stavolta qualcosa avvinghiò la sua gamba, all’altezza della caviglia. Urlò disperatamente e precipitò verso il basso. Quando riaprì gli occhi non riusciva a distinguere nulla oltre che il buio. Credette di essere morto, ma il terribile odore che le sue narici filtravano gli fece capire che doveva trovarsi nella tana del gigante.

    Un rivolo di lacrime solcò le guance del suo viso. Per la prima volta nella sua vita, ebbe paura di morire, di perdere tutto ciò che aveva e che sino a quel momento aveva odiato e ignorato in modo spudorato. Ma probabilmente era troppo tardi. Una fioca luce di candela si stava avvicinando. Il riflesso giallastro illuminò l’ambiente circostante: il ragazzo si trovava disteso sul pavimento, accerchiato da rane, rospi, vermi d’acqua ed esseri bizzarri che non ricordava di aver mai visto prima; tutti immobili e in silenzio.

    La creatura innominabile che portava il cero si fece spazio nel cerchio e si accovacciò vicino al ragazzo. Era umanoide e ricoperta da squame verdognole, con le dita delle mani palmate e gli occhi infossati nella faccia ripugnante di un serpente a lingua biforcuta. Marcus tremò e sperò che Dylan, il suo nuovo amico, arrivasse in tempo per salvarlo dalle creature orrende e ignobili che nascondeva nel suo rifugio.

    Ma quando si concentrò sul volto della creatura, in particolare sullo sguardo e i lineamenti deturpati, capì che non c’era più nulla da fare. “Chi cazzo sei tu?” chiese singhiozzando il malcapitato. E la risposta non tardò ad arrivare: “Sono stato chiamato in molti modi: Nessie, Dagon, Tritone. L’importante ora non è questo. Perché ho fame. Una gran fame”. Dylan si avventò alla gola di Marcus, seguito dalle bestie che lo attorniavano.

    Edited by @AnthonyInBlack - 17/6/2019, 13:01
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    Il giorno in cui il mio spirito umano si ridusse ai famelici istinti di un animale primitivo e persi la capacità di amare, sorridere e sognare, non potrà mai essere dimenticato a Wilbury Mountain. Il solo ricordo di quegli avvenimenti attanaglia il mio corpo fino alle viscere e avvolge il feto putrefatto della mia anima allo stesso orribile modo in cui i neonati, talvolta, muoiono soffocati dal cuscino della propria culla. Chi sono io per comprendere oscenità tali che l’uomo non dovrebbe neanche provare ad immaginare, e darne una spiegazione razionale?

    La vicenda che mi accingo a raccontare, nella speranza che qualcuno possa rivedervisi e non sentirsi alieno, poiché afflitto dalla stessa maledizione, ebbe inizio il 21 Aprile 1967. Mentre traducevo alcuni testi che avrei dovuto consegnare l’indomani pomeriggio al direttore della rivista per cui stavo lavorando, squillò il telefono di casa. Mi chiesi chi mai potesse a cercarmi nel cuore della notte: doveva sicuramente trattarsi di uno scherzo. Ma una voce profonda, che non aveva per niente l’aria di scherzare domandò: “Salve sono Amber, mi occupo delle faccende legali a Wilbury Mountain. Parlo con il signor Parker?” Io confermai e lui continuò: “Qualche giorno fa è deceduta una sua lontana parente, una certa Josephine Parker e lei è l’unico possibile erede della sua casa”. La faccenda si stava facendo interessante. “Sarebbe meglio dire che sono l’ultimo rimasto della famiglia Parker”, aggiunsi io. Amber approvò e disse che mi sarei dovuto recare al più presto nel paesino in cui si trovava per sistemare la questione.

    Fui pronto per partire nel giro di una settimana. Parecchi chilometri mi separavano dallo stato in cui abitavo, la Georgia, a Wilbury, nella Virginia dell’est. Dopo varie fermate che non mi appresto a trascrivere, per la scarsa importanza che hanno nella vicenda, giunsi finalmente nello stato del Commonwealth. Ore e ore di stradine sterrate più tardi, sorpassai il confine della contea di Warren e cominciai a notare la mia meta: sul lato ovest di una grande montagna ricoperta d’alberi, sorgeva un gruppo di piccole abitazioni in legno a tetto spiovente, dai cui spuntavano colonne di fumo. Un presentimento privo di fondamento si fece strada nella mia mente: che gli abitanti sfruttassero le esalazioni dei comignoli delle proprie case come difesa dalla foresta circostante o come richiesta d’aiuto, e rabbrividii.

    La notte del 2 Maggio 1967 arrivai in quella che, in base alle descrizioni del notaio, pareva essere la zona dove si trovava la locanda che mi avrebbe ospitato. Scesi dalla Ford Focus che avevo guidato fino a quel momento e soffermai lo sguardo sul paesaggio: ebbi la sensazione di trovarmi completamente circondato da alberi alti e scuri che si estendevano in ogni direzione, creando un buio innaturale persino per la notte. L’aria era gelida e il freddo penetrava nelle ossa. L’unico motivo per cui il mio cuore non cominciò a scalpitare in preda al panico d’essermi perso in una regione a me sconosciuta fu dato dall’ululato di un cane, che riempiva il silenzio del bosco circostante, donando al mio corpo una sensazione di familiarità. Provai a stabilire da dove provenisse il latrato e finalmente, dopo vari tentativi, riuscii a scorgere un puntino illuminato, rimasto nascosto fino a quel momento dal tronco di un enorme ontano nero. La fonte di luce era emanata da una torcia ardente, davanti ad un edificio in legno di betulla rischiarato dalla luna, non molto distante da dove mi trovavo.

    Lo raggiunsi a piedi e fui felice nel notare che, anche se ne ero ormai quasi certo, si trattava della locanda: Wild Ortega, recitava un cartello arrugginito conficcato nella terra, vicino alla porta d’entrata. Infreddolito e impaurito per essermi reso conto che la serenata canina non proveniva da quel luogo e che avrei potuto ritrovarmi una bestia selvatica sulle cosce delle mie gambe tremanti da un momento all’altro, entrai senza esitare. Un odore di carne cotta si infiltrò piacevolmente nelle mie narici e un senso di fame assalì il mio stomaco. L’edificio era ben arredato e la luce soffusa di una lampadina riempiva ogni angolo, anche se in modo assai irregolare. Una serie di ombre occupavano la parete alla mia destra e non potei trattenermi dall’impulso di tastare il muro: era ruvido, probabilmente come la pelle della creatura bizzarra impressa nel quadro poco più in alto.

    Soffermai lo sguardo sul dipinto, studiandolo, e cercai di leggerne la minuscola iscrizione in alto a destra; ma la concentrazione si vanificò quando una voce, sibilante come il fruscio che avrebbe prodotto un serpente strisciando sul quel muro, annunciò: “Oh, meglio tenersi alla larga dal Wendigo!”; mi voltai e ancor prima di presentarmi o rispondere alla domanda tirai le labbra in un sorriso di cortesia. Davanti a me c’era una signora anziana, leggermente ricurva sul bastone da passeggio che stringeva tra le mani livide e rugose. Aveva un fisico smilzo e consumato dal tempo, ma due occhi color mandorla pieni di vita. “Lei dev’essere il signor Parker”, disse. Io annuii e cominciammo a conversare, dopo essermi scusato per la brusca entrata. Infine mi venne mostrata la stanza in cui avrei dormito per il tempo necessario a risolvere la faccenda dell’eredità misteriosa.

    La camera era ospitale quasi quanto la vecchia: si trattava di un monolocale, ornato di oggetti grotteschi, ma terribilmente curiosi. Le pareti ed il pavimento erano in legno di mogano e una fioca luce da comodino illuminava il tutto, con la stessa intensità della lampadina all’ingresso. Quella notte andai a dormire con la pancia piena, pensando e ripensando alla signora anziana che, con le sue uniche forze, era riuscita a mantenere in piedi l’edificio in cui mi trovavo per chissà quanto tempo: forse, zia Josephine, non doveva essere tanto diversa da lei. La mattina del 7 Marzo mi svegliai e fui felice di sapere che il signor Amber mi aspettava nel salotto. Era un ometto biondo e goffo dalla carnagione chiara, quasi quanto la mia.

    Nei giorni precedenti non avevo fatto altro che riflettere e vagare per i boschi circostanti: un senso di pace sembrava aver catturato la mia anima. L’incantevole paesaggio di montagna mi rendeva tranquillo e aveva fatto sì che la mia mente spazzasse via tutte le stupide paure da uomo di città che avevo provato all’inizio. La quiete del luogo, per quanto assurda da apparire innaturale, stava prendendo possesso completo del mio corpo e io, assuefatto dalla spensieratezza, la spronavo ad entrare sempre più a fondo. Inoltre, avevo chiesto informazioni alla vecchia riguardo alla creatura presente nel quadro, il Wendigo: una figura demoniaca della mitologia dei Nativi Americani, più precisamente uno spirito che poteva assumere sia caratteristiche umane che quelle di un mostro umanoide, trasformatosi da quella che una volta era una persona normale che aveva praticato il cannibalismo. Ne era scaturito un lungo discorso sui misteri e le leggende del luogo e si era rivelata di ottima compagnia.

    Strinsi la mano madida di sudore del notaio e concludemmo la discussione sulla proprietà. Tutto ciò che c’era da sapere, era ora in mio possesso. Avrei potuto vendere la casa o tenerla. Amber mi invitò a visitarla il prima possibile, offrendosi come guida per arrivare al centro del paese senza perdere tempo in giri inutili o addirittura perdendomi; secondo lui, Wilbury era senz’altro una comunità minuscola, ma allo stesso tempo, le stradine e i sentieri del paese erano assai contorti e intricati. Accettai d’essere guidato fino all’abitazione abbandonata l’indomani pomeriggio, poiché un dolore che sembrava partire dallo stomaco, stava provocando fitte atroci in tutto il mio corpo: doveva trattarsi del cambio di dieta.

    Trascorsi il resto di quella giornata leggendo "Il figlio del male", all’ombra di un gigantesco cipresso popolato da varie razze di uccelli. Talvolta, una ventata d’aria fresca batteva contro i miei denti costringendomi a chiudere la bocca, e fu in quel preciso momento che mi resi conto dell’influenza che il luogo stava esercitando su di me. Ma essa andò ben oltre le mie aspettative. D’improvviso le lettere sulle pagine del libro aperto tra le mie gambe cominciarono a svanire lentamente e una sensazione di caldo avviluppò il mio collo. Mi sentii soffocare. E giacchè non c’era niente di visibile attorno a me che potesse provocare simili fenomeni, il presentimento di un male ultraterreno si insinuò nel mio sistema nervoso attraverso una potente scarica di adrenalina. Spostando lo sguardo notai che il paesaggio era cambiato: l’erbetta verde che sottostava alle mie natiche aveva ora l’aria di una torta al cioccolato ripiena di vermi e il cipresso, ormai spoglio e incurvato, era ancora in piedi solo perché sostenuto da un alberello poco distante. Tutto ciò che riuscivo a distinguere, oltre a qualche albero e le pagine bianche che poco prima mi apprestavo a leggere a bocca aperta, come ipnotizzato, era una serie di grandi cespugli non molto distanti, che coprivano ogni possibile visuale di fuga. L’aria diventò più densa e rarefatta. Una sorta di nebbia grigiastra calò dal cielo come granelli di sabbia in caduta libera. Non osai muovere un solo muscolo: rimasi inerme in quella posizione, paralizzato dalla paura. Ricordo che dai cespugli giunse alle mie orecchie il muoversi delle foglie e una figura sfuggente attraversò la terra untuosa e bagnata, in cui avrei preferito sprofondare una volte per tutte e smettere di assistere a quegli orrori. Cominciai a provare seri dubbi sulla mia sanità mentale, poiché non potei che associare la figura misteriosa ad una delle creature leggendarie nominate dalla vecchia locandiera.

    Quando riaprii gli occhi non sapevo più che giorno era. Delle fitte lancinanti frustavano le ossa del mio corpo allo stesso modo in cui un’ape infilza il proprio pungiglione nella carne nemica per poi cadere sfinita e senza vita, concedendo qualche secondo di tregua prima dell’arrivo dei rinforzi. Un uomo dalla folta barba si era preoccupato di raccogliermi e curarsi di me: si trattava di un boscaiolo che conduceva uno stile di vita autonomo, basato unicamente sui suoi sforzi. Il letto che mi ospitava consisteva in un materasso malconcio, ammassato su una pila di tavole di legno. “Imvelo ayamukeli amademoni”, e altre strane parole che non faticai ad associare alla lingua Zulu, erano impresse nelle pareti di mogano della minuscola abitazione. Il tutto, illuminato da qualche candela. “Oh, eccoci qui”, aveva annunciato con aria compiaciuta entrando dalla porta cigolante, provvisto di selvaggina fresca e sacchi di verdure, che rendevano ancor più imponente la sua figura imbottita da vari strati di pelliccia.

    Lo scroscio della pioggia e il fragore dei tuoni sembravano rimbalzare direttamente sul tetto, rimbombando all’interno del rifugio come una richiesta d’aiuto disperata e non persi occasione per benedire nuovamente la bontà d’animo dell’uomo. Con il passare dei giorni, avevo scoperto che era un fanatico religioso e poichè il mio stato fisico, e probabilmente anche quello psichico, non mi permettevano di tornare ad occuparmi delle faccende che richiedevano la mia attenzione, tutto ciò che potevo fare era intratterlo in lunghe conversazioni. Il vecchio Orghett aveva trascorso la propria vita girando in lungo e in largo per l’America, come tuttofare. Si era stabilito sulla montagna di Wilbury con l’obbiettivo di condurre una vita isolata e dedicarsi al Kokuzhan: un culto di origine africane, da cui sembrava dipendere completamente. Era convinto che per raggiungere l’estasi non fosse necessario l’uso di droghe, ma sarebbe stata sufficiente la forza della fede.

    Incuriosito dall’esaltazione del barbone, cercai di raccogliere quante più informazioni possibili sull’argomento, e notai che c’era qualcosa di più concreto rispetto al suo punto di vista e alle forme rivisitate e minimizzate con cui praticava il culto: il simbolo del credo era il dio Koku, che inizialmente garantiva invincibilità e protezione in guerra; ma con la diffusione di stregoneria e magia nera nel continente africano, divenne una figura di difesa dalle arti oscure. Tuttavia, quando raccontò dei rituali a cui aveva partecipato lui stesso, feci fatica a riconoscerne la naturalità positiva di cui era convinto: nei raduni gli adepti si dedicavano a danze vorticose, sino a raggiungere uno stato incosciente di possessione e in tali particolari condizioni psicofisiche mostravano una grande capacità di sopportazione al dolore. Queste prove sovrumane, considerate come miracoli, manifestavano lo straordinario potere della divinità. Alla fine della possessione giungevano ad uno stato di sublimazione in cui divenivano coscienti della comunione con il proprio dio, arrivando a misurarsi con una delle più alte sensazioni di felicità che l'uomo potesse mai provare in tutta la sua vita. A quelle parole non potei che provare un raccapricciante senso di smarrimento. Mi trovavo davvero nella tana di un vecchio eremita esaltato, su una montagna dimenticata da Dio? Decisi che mi sarei recato al centro di Wilbury per sistemare la faccenda dell’eredità il prima possibile, indipendentemente dalle mie condizioni disagevoli.

    Il tempo, che aveva ormai l’aria di una vaga illusione, divenne ancor più insignificante durante il tragitto che conduceva alla mia meta. I sentieri si inerpicavano verso l’alto e i miei sensi, di pari passo, godevano sempre più di una sanità che credevo morta agli anni della giovinezza. Ma ciò nonostante, i miei organi interni continuavano a lottare furibondi contro un male sconosciuto. Prima di partire avevo chiesto al vecchio Orghett di scortarmi fino al centro del paese ad ogni costo, anche qual’ora l’avessi pregato io stesso di fermarsi e devo ammettere che, a suo modo, mantenne la promessa; poichè ad un certo punto del cammino persi le forze e caddi impotente a terra, ma al risveglio mi trovai in un luogo in cui presenza dell’uomo era decisamente evidente: giacevo all’angolo di una delle case che si affacciavano verso una sorta di piazza circolare, dove il terreno era rialzato da serie e serie di mattonelle biancastre consumate dal tempo e disposte in circolo.

    Alzandomi in piedi accesi un sigaro e notai che il clima, nonostante l’altezza, era più caldo e confortevole; ma un silenzio innaturale aleggiava furtivo su ogni cosa, rendendo lugubri persino le torce ardenti senza le quali non si sarebbero distinte le piccole abitazioni scure sparse nei dintorni. Le ombre della notte si allungavano e la luce delle fiaccole legate ai paletti di legno conficcati nella terra non riusciva a contenerle. La brace del sigaro, ardente nell’oscurità, era paragonabile alla flebile speranza che restava per la mia anima e stanco di tutto ciò che stava accadendo lo lanciai via in un gesto disperato. La vita che avevo condotto sino al momento dell’arrivo sulla montagna sembrava ormai il lontano ricordo di un’infanzia felice. Notai che al centro della piazza era presente una grande lastra di marmo, probabilmente una specie di monumento. Mi avvicinai e un terrore acuto quanto quello che avrebbe provato un giovane corvo alla vista di uno spaventapasseri, si impadronì del mio corpo: davanti a me si trovava una bara di acero, il mio legno preferito, adagiata su un lastrone di pietra rettangolare, grande più o meno quanto la stessa.

    Non ebbi tempo di formulare neanche la più ridicola delle ipotesi, che un verso profondo squarciò il silenzio, dapprima molto basso e poi sempre più forte. Guardandomi intorno non riuscii a capirne la provenienza, sembrava diffondersi da tutto ciò che mi circondava; ma quando le porte delle abitazioni si spalancarono e cominciarono a fuoriuscire uomini, donne e bambini con la testa bassa e le mani giunte, diretti verso di me e intenti a comporre un’orrenda litania di morte con le bocche chiuse, mi fu tutto più chiaro. Cominciai a scappare, ma purtroppo il passo delle mie gambe diventò presto un miraggio e costringendo le articolazioni ad un ultimo sforzo raggiunsi la scalinata più vicina, lasciandomi cadere stremato in un angolo nascosto, poco distante, che permetteva una visuale sulla scena. Tutte quelle persone, una trentina al massimo, erano in realtà dirette verso la tomba e fui felice nel notare che nessuno mi aveva seguito durante la piccola fuga.
    Il verso gutturale che producevano dava la sensazione che l’ambiente circostante, scarsamente illuminato, tremasse. Uomini imponenti dai lunghi capelli grigi, vestiti alla maniera dei cacciatori o dei boscaioli e donne anziane piene di rughe che mantenevano i più piccoli per le spalle, alzarono lo sguardo al cielo all’unisono, incuranti della mia presenza. Io, non molto lontano dall’ultima fila di squatter, cercai di guardare al centro della piazza, dove stava avvenendo qualche misteriosa operazione. Mi fu ben chiaro che doveva trattarsi di un rito funerario, ma perché mai veniva celebrato nel cuore della notte? Un’occhiata più attenta alle persone conteneva la risposta: i volti, tutti molto simili tra loro, non erano rivolti ad un punto casuale nel cielo, ma bensì alla luna, la luna più piena che avessi mai visto. Ne dedussi che probabilmente era necessaria per lo svolgimento della cerimonia. Il silenzio che regnava prima del rito funerario si ripresentò, fatta eccezione per qualche respiro rauco, probabilmente dei più anziani. La situazione bizzarra in cui mi trovavo non mi spaventava in modo esagerato, poiché ripensando al culto di Kokuzhan, avevo compreso che, per quanto grotteschi potessero sembrare a prima vista certi riti primitivi, non dovevano essere necessariamente collegati a ciò che di più maligno e orrendo esista al mondo.

    Cominciai a farmi strada nella folla, avanzando con fatica e reggendomi talvolta alla gente, che al mio tocco si girava stranita e dopo un’occhiata veloce tornava a celebrare il rituale con lo sguardo rivolto alla luna. Mentre mi avvicinavo, notai che la bara era stata aperta. Un uomo che pareva vecchio quanto la montagna si occupava di spargere sul corpo nudo del cadavere misteriosi sali e spezie. Il morto era magro e aveva un’aria conosciuta: “È Amber”, pensai. Così superai altre persone, incurante del rito, ma giungendo in prossimità della tomba il viso del cadavere assimilava un’aria terribilmente familiare, tanto che mi sentii stupido ad aver alluso al notaio. La vista era ancora troppo sbiadita per stabilirne il sesso e presi in considerazione l’idea che potesse trattarsi di zia Josephine: come suo discendente non ci sarebbe stato nulla di strano se la donna avesse avuto i miei stessi tratti somatici, tuttavia era morta già qualche settimana prima che giungessi a Wilbury. La curiosità mi spinse a precipitarmi verso il centro e caddi pericolosamente a pochi passi dalla lastra di marmo, ma ciò nonostante restarono tutti inspiegabilmente immobili.

    Indugiai parecchio prima di rialzarmi e guardare finalmente nella bara, perchè stavo morendo dal dolore provocato dalle fitte allo stomaco. E quando lo feci, mi resi conto di essere già morto: il cadavere ero io stesso.

    Tutto sembrò smettere di avere un senso. Non potevo crederci davvero. E non riuscendo ad accettare l’idea, mi rifugiai nei boschi. Il magnetismo morboso della terra dagli alberi scuri, non si poteva definire influenzante al punto da farmi impazzire; poiché in quel caso, anche il resto degli abitanti, sarebbe stato composto da folli totali. Piuttosto, si trattava di una sorta di seducente richiamo della natura, a cui seguiva un’ondata di energia spirituale, che risvegliava il lato più selvaggio di ogni uomo: qualcosa di simile all’essenza primitiva di tutti gli esseri viventi che avevano accettato il cambiamento e che, negli esseri umani, aveva decretato la possibilità di sopravvivenza attraverso la capacità di adattamento. Quel suolo sacro aveva fatto sì che dimenticassi persino la disperazione dovuta alla mia morte, avvenuta in circostanze misteriose che non avrei mai scoperto.

    Col passare del tempo arrivai alla conclusione che a Wilbury Mountain, la montagna maledetta dalle proprietà inspiegabili, doveva aver messo radici un male antico, molto tempo prima, attraverso gli usi e i costumi di una qualche tribù nativa; poiché nemmeno i morti potevano riposare in pace in quel luogo e ne fui una prova io stesso: il dolore fisico che mi stava uccidendo pur essendo già morto era una conseguenza del digiuno che stavo praticando dal momento in cui avevo esplorato la natura per la prima volta. Avevo imparato a cacciare e smembrare ogni animale che mi capitasse a tiro per soddisfare il desiderio incessante di carne e la sofferenza era svanita. L’animo di un essere umano, fatto da sentimenti e logica, mi aveva abbandonato. In fondo, chiunque avrebbe scambiato un uomo sporco dalla testa ai piedi, con degli artigli cresciuti a dismisura e capace solo di uccidere, per una bestia. Tant’è che arrivai a credere d’esser diventato un Wendigo.

    Tuttavia, in una giornata di sole cocente, dall’unico taschino intatto della mia giacca ridotta a brandelli, cadde un pezzo di carta, con delle iscrizioni in lingua Zulu. Mi sforzai di leggere, ma la mia capacità intellettiva era atrofizzata e ci volle un po' prima che la frase: “Isikhathi asilungile Angikho”, uscisse interamente dalla mia bocca.

    Mi sveglia di buon’ora e spalancai le finestre della mia abitazione a Savannah, in Georgia: era una mattinata fresca e soleggiata del 1967. Un languorino allo stomaco confermò i miei dubbi: avevo dormito di un sonno pesante. Accesi la televisione e ruppi due uova nella pentola. Il telefono di casa cominciò a squillare, ma aspettai che finisse il servizio sul meteo: una grande tempesta proveniente dalla Virginia stava per abbattersi sullo Stato. Non me ne curai e andai a rispondere. Alzai la cornetta e una voce dalla parvenza familiare rispose: “Salve, sono Amber. Si ricorda di me?”. Aggiunsi che non rammentavo di conoscere nessuna persona che si chiamasse “Amber”. “Oh non faccia lo sciocco!”, disse. “La chiamo per informarla che, in mancanza della sua decisione, la proprietà sarà presto venduta allo Stato”. Non capivo di cosa stesse parlando. Poi continuò: “Capisco che Wilbury Mountain sia un luogo selvaggio e la comunità degli abitanti possa sembrare così bizzarra da farla scappare via. Ma credo sia giusto farle sapere che si è scordato qualcosa qui”. Quella voce bassa e profonda diceva cose tanto assurde da farmi ridere, così decisi di stare al gioco: “On no! Cosa ho dimenticato?”. E Amber rispose: “La sua auto”. Abbassai la cornetta e scossi il capo. Ciò nonostante, quando nacque l’esigenza di prendere il mio mezzo di trasporto fui sorpreso nel notare che non si trovava dove ricordavo di averlo parcheggiato. E nemmeno in nessun’altra parte della Georgia.



    Edited by @AnthonyInBlack - 19/11/2018, 21:41
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    “Quando calava la notte e il mondo raggiungeva l’apice dell’oscurità, talvolta mi pareva di avvertire qualcosa di strano nella mia stanza: una presenza poco definita dal chiarore lunare, ma terribilmente familiare da sembrare quasi una parte di me stessa rimasta repressa per tanto e tanto tempo.

    Non sapevo cosa volesse e ogni volta che provavo anche solo a pensare di stabilire un contatto, cominciavo a tremare così forte che mi era impossibile non rifugiarmi sotto le coperte del letto, in preda al terrore più acuto che il mio corpo avesse mai provato. Se chiudevo gli occhi, l’orrore senza nome iniziava ad assumere una forma nella mia mente: da un buco nero cominciava a fuoriuscire una creatura dalle sembianze di un uomo terribilmente magro e pallido, in cerca di anime perdute da divorare senza pietà con i suoi lunghi artigli e i pochi denti marci rimasti.

    A volte, anche se per pochi attimi, usciva completamente dal buio e mentre un brivido gelido attraversava la mia schiena, come la pericolosa saetta che dà il via ad una tempesta durante un autunno pieno di precipitazioni, l’uomo anoressico si alzava in piedi e il mio cuore iniziava a scalpitare. Ansimavo in preda al panico e la mia fronte si imperlava di sudore, mentre le convulsioni attaccavano il mio corpo come avrebbe fatto uno sciame d’api con l’artefice della distruzione del proprio alveare. L’umanoide si avvicinava sempre più e riuscivo a scorgerne meglio i lineamenti: la superficie della sua pelle era trascurata e rugosa come quella di un lebbroso, ne deducevo che probabilmente era malato e il gelido fuoco della paura ardeva sempre più intensamente dentro al mio petto.

    Ero assalita da una sensazione di impotenza assoluta e non potevo fare a meno di credere che tutte le speranze per la mia salvezza fossero svanite. Così aprivo gli occhi e rimanevo in attesa di una conferma della presenza del mostro nel mondo fisico, o meglio, della mia fine. A volte restavo con lo sguardo immobile al soffitto e un ronzio che diventava gradualmente più acuto si faceva strada nelle mie orecchie, poi abbassavo lo sguardo e inevitabilmente era lì, di fronte al mio letto: un’orribile volto anziano senza pupille, con la lingua schiacciata a forza dagli incisivi troppo distanti tra loro, intento a farci passare aria dall’interno della bocca, producendo una sorta di sibilo simile ad un palloncino che si sgonfia.”

    Anne terminò il suo racconto e seguì un applauso d’incoraggiamento. I membri dell’Help-club non assistevano ad una simile testimonianza da molto tempo e il fondatore, un ometto dalla corporatura massiccia di nome Bob, colse l’occasione per dedicarle un discorso in cui promise la massima negligenza nei suoi confronti. Nonostante ciò, la donna pareva incurante e impassibile, come se l’unica cosa che contassero fossero l’esperienze terrificanti vissute circa dieci anni fa, che si era prodigata a raccontare nella speranza che qualcuno l’avesse sostenuta, o meglio, che si fosse interessato per davvero; poiché, per trovarsi in quel cerchio di persone a raccontare dei propri tormenti interiori dopo tutto quel tempo, c’era un motivo. Quel giorno, tra le larghe pareti affrescate dell’edificio in cui avvenivano gli incontri dell’Help club, erano presenti almeno venti volti, molto diversi tra loro. La discriminazione non era tollerata in quella piccola chiesa dimenticata e vi si recavano, per parlare dei propri problemi o semplicemente per sfogarsi, persone di ogni etnia e classe sociale.

    Quando il vociare confuso provocato dalla storia di Anne terminò, prese parola un uomo di mezza età, dai lunghi baffi grigi e un naso aquilino che spuntava sotto un paio di occhiali da sole coprenti: doveva essere cieco. Raccontò della sua paura per i canidi, che aveva preso forma quando, all’età di otto anni, era stato rincorso da un bastardino per un lungo tratto di strada. “Spero che averne fatto parola con tutti noi possa aver alleviato le tue sofferenze, figliuolo”, aggiunse poi una voce bassa e profonda proveniente dal centro della chiesa, dove si trovavano le panche malridotte che una volta avevano ospitato decine e decine di fedeli rivolti all’altare. Un uomo imponente entrò nella stanza, richiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. “Salve Padre Jacek”, disse Bob, seguito dal resto dei presenti.

    L’uomo, anziano e stempiato, non aveva la parvenza di un prete, se non nel modo di parlare. “Apprezzo i vostri saluti più di quelli di chiunque altro, poiché senza di voi questo edificio sarebbe vuoto e consumato come l’anima di Caino, ma non chiamatemi ancora Padre; da quando la vecchia generazione è scomparsa e l’ondata di ateismo è giunta in questo paesino, persino la mia fede è a repentaglio. Non celebro messa ormai da anni”. Un silenzio di tomba calò nella sala. Alcuni si guardarono attorno imbarazzati. Si poteva respirare la stessa aria di un aula scolastica piena di bambini innocenti che non vogliono essere interrogati. Anne, tuttavia, se ne stava seduta leggermente lontana dal cerchio, con lo sguardo fisso sul pavimento e il viso tremendamente pallido semi coperto dai lunghi capelli scarlatti. Bob l’agganciò con lo sguardo e corrugò la fronte, ma preferì non interrompere la seduta.

    Fu il turno di una ragazza adolescente, che narrò del suo tormento per il cinguettio degli uccelli, in particolare dei cardellini: qualche mese prima aveva assistito alla morte della madre e avrebbe giurato di aver sentito un cinguettio improvviso proprio mentre la donna era caduta a terra in preda alle convulsioni, per poi morire d’infarto il giorno dopo. “Oh cara, mi dispiace molto. Le vostre parole non stanno facendo altro che confermare ciò che disse Baudelaire: Il capolavoro di Satana, nell’era moderna, è di non far credere nella sua esistenza! Il maligno può assumere diverse forme e oggi, per quanto mi riguarda, siamo già a due!”, rispose il padre. Ma la ragazza si coprì la bocca, posseduta da un risolino isterico che fece fatica a trattenere, poiché divertita dall’esaltazione di Jacek. Bob continuava a fissare Anne che, sperduta e affranta da chissà quale demone, spostò lo sguardo sul prete, fino a incrociarlo: “Allora, mi dica, come pensa di poter fronteggiare il male, se il massimo che riesce ad ottenere da questa gente è una risata?”.

    L’uomo preso in causa focalizzò l’attenzione sull’interlocutrice, sentendosi sperduto, e cercò le parole giuste per ribattere, ma infine si passò una mano sulla fronte e sospirò. “Siamo giunti alla fine di un’era, mio caro, che non è possibile definire come Vostra: l’era della chiesa. Fin'ora avete prevalso soltanto perché vi è stato concesso: l’uovo del male doveva essere covato per bene prima di schiudersi. Guerre, carestie, epidemie e dolore di ogni tipo si abbatteranno su di voi più che mai” annunciò Anne, seguita da una folata di vento gelido che invase la stanza. Bob uscì dalla sala per assicurarsi che tutte le finestre dell’edificio fossero ben chiuse, approfittandone per tirarsi fuori da quella situazione spiacevole. Il prete, che aveva cominciato a balbettare subito dopo il discorso di Anne, riuscì finalmente a formulare una domanda: “Che motivo hai di dire… tutto ciò?”. La donna scoppiò in una risata talmente acuta che sarebbe stato possibile scambiarla per innaturale, spaventando i membri del club.

    Jacek stava per scappare in preda alla vergogna, ma le urla di Bob, provenienti da chissà quale angolo della chiesa, lo paralizzarono sull’uscio della porta. Uno degli uomini si accorse che uno strano odore, come di zolfo, inaspriva l’aria, ma la maggior parte dei presenti, occupati a raccogliere le proprie cose per andare via dall’edificio, sembrò non notarlo.
    Da quel giorno, gli abitanti delle case vicine dicono di sentire strani rumori provenire dal tenebroso edificio ogni notte, tra cui versi di animali e strani fischi di cui è impossibile stabilirne la natura. In pochi hanno avuto la fortuna, o se preferite la sfortuna, di notare Bob e i membri dell'Help club intenti a fuggire via quella notte, terrorizzati da un orrore sconosciuto, per poi dileguarsi come fantasmi in chissà quali remoti e oscuri antri del mondo. Tuttavia, nessuno tra i testimoni dice di aver visto Padre Jacek, pur conoscendolo, varcare lo soglia d'uscita della chiesa. Sembrava essere sparito nel nulla. O forse era il nulla, la forma apparente del male che più temeva, ad essere entrato dentro di lui.

    E riguardo l'accaduto si diffusero voci grottesche e assai bizzarre, poichè Padre Calmet, il primo ad essersi recato sul posto dopo la tragedia e ad essere partito per una vita eremitica subito dopo, lasciò un foglio con le seguenti parole:

    “Non era necessario entrare in chiesa per avvertirlo, ma ahimè, non potevo aspettarmi niente del genere; sono entrato, come ogni sera, per una chiacchierata con Padre Jacek e non ho trovato neanche un’anima! Neanche quella povera gente che si recava lì per discutere dei propri problemi…

    Sapevo che qualcosa era andato per il verso sbagliato, lo sentivo! Uno strano odore regnava nell’aria, ma la cosa peggiore doveva ancora accadere e mentre uscivo dall’edificio dopo averlo ispezionato da cima a fondo e aver spento le luci, mi voltai un’ultima volta: una figura sfuggente si stava muovendo su e giù per le panche.

    Non resistetti alla tentazione di avvicinarmi, ma sarebbe stato meglio non farlo e ora mi sento costretto ad abbandonare la città per riflettere su ciò che ho visto e capire se sono diventato pazzo. A pochi passi da me, illuminato dall’unico fascio di luce lunare che entrava dal portone della chiesa, si trovava un essere che un qualsiasi cristiano avrebbe definito demoniaco: un uomo dalla carnagione bianca come latte e distrutta dalla putrefazione, le orbite vuote e di una magrezza tale che attraverso i lembi della pelle era possibile notare Il riflesso delle ossa."

    Edited by @AnthonyInBlack - 19/11/2018, 21:42
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