L'abbraccio di Medusa - Parte 6

H. P. Lovecraft

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    Ser Procrastinazione

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    «La treccia intorno al cadavere di Marsh era una cosa terribile. La toccai con la punta di una spada che avevo preso dal muro ed ebbi la sensazione che la stretta intorno al morto aumentasse. Non osavo toccarla, e guardandola notai una serie di particolari terribili. Una cosa, in particolare, mi fece trasalire: non dirò di che si tratta, ma spiegava almeno in parte il bisogno di nutrire i capelli con gli strani unguenti che usava Marceline. Finalmente decisi di seppellire i tre cadaveri in cantina e di coprirli con la calce che avevamo in magazzino. Fu una notte di lavoro infernale. Scavai tre tombe, quella di mio figlio lontana dalle altre due perché non volevo che fosse vicino al corpo della donna e neppure ai capelli.

    Mi dispiacque di non poter liberare Marsh dall'abbraccio dell'orribile serpe, ma portarli tutti e tre in cantina fu già un'impresa estenuante. Per facilitarmi il compito avvolsi la donna e il povero Frank in due coperte, che trascinai giù un poco alla volta. Fatto questo andai nel magazzino a prendere la calce. La forza deve avermela data il Signore, perché non solo riuscii a trasportarne due barili in cantina, ma riempii le tre tombe senza perder tempo.

    «Diluii una parte della calce e me ne servii per imbiancare il soffitto macchiato di sangue, operazione per cui dovetti adoperare una scala. Bruciai quasi tutto ciò che si trovava nella stanza di Marceline, strofinai le pareti, il pavimento e la pesante mobilia. Lavai anche lo studio di Marsh, eliminando la traccia di sangue e le impronte che portavano lassù. La vecchia Sofonisba continuava a lamentarsi nella sua capanna con un'energia che solo il diavolo poteva darle. D'altra parte lo aveva sempre fatto, e per questo i negri della piantagione non si allarmarono in modo particolare. Chiusi la porta dello studio e portai la chiave nella mia stanza, poi bruciai nel camino i miei vestiti macchiati di sangue. All'alba la casa aveva un aspetto quasi normale, almeno per un osservatore casuale. Non avevo toccato il cavalletto coperto dal drappo di velluto, ma a questo avrei pensato dopo.

    «Quando arrivò la servitù dissi che i tre ragazzi erano andati a St. Louis; nessuno dei braccianti aveva visto o sentito niente e i lamenti della vecchia Sofonisba si erano interrotti al sorgere del sole. Per quanto la riguardava rimase muta come una sfinge, e non lasciò trapelare una parola di ciò che ribolliva nel suo cervello di strega.

    «In seguito dissi che Denis, Marsh e Marceline erano andati a Parigi e incaricai una discreta agenzia di spedirmi lettere da laggiù: lettere che io stesso avevo scritto, alterando la mia grafia. Dovetti mentire e trincerarmi nella reticenza persino con gli amici, e ora so che la gente mi sospetta di aver nascosto qualcosa. Durante la guerra feci in modo che si venisse a sapere della morte di Marsh e Denis, e in seguito dissi che Marceline si era ritirata in convento. Per fortuna Marsh era orfano e i suoi modi eccentrici gli avevano alienato le simpatie dei parenti in Louisiana. Se avessi avuto il buon senso di bruciare il quadro, vendere la piantagione e rinunciare alla mia vita qui, che oltre tutto mi aveva stancato e disgustato, tutto sarebbe andato molto meglio. Può vedere da sé a cosa mi ha portato la mia ostinatezza. Raccolti sempre meno abbondanti, braccianti licenziati uno a uno, la casa che cade a pezzi e io stesso ridotto a un eremita su cui la gente delle campagne si diverte a costruire favole. Non troverà nessuno disposto a venire qui dopo il tramonto, né a nessun'altra ora. Non c'è voluto molto a capire che lei fosse uno straniero.

    «Perché rimango qui? Non glielo so dire: mi sento legato a qualcosa di insano, di irreale; forse non sarebbe andata così se non avessi guardato il quadro. Avrei dovuto fare come aveva detto il povero Denis, e giuro che la mia intenzione era quella, ma una settimana dopo la tragedia andai nello studio chiuso a chiave e scoprii la tela... Questo, naturalmente, ha cambiato tutto.

    «No, è inutile che le dica ciò che vidi. In un certo senso può constatare da sé, anche se il tempo e l'umidità hanno danneggiato i colori e la tela. Non credo che dargli un'occhiata le farà del male... per me era diverso, io sapevo esattamente che cosa significava.

    «Denis aveva ragione, era il più grande capolavoro della pittura dai tempi di Rembrandt, anche se non era ancora finito. Me ne resi conto immediatamente: il povero Marsh era riuscito a esprimere appieno la sua filosofia decadente. È stato nell'arte quello che Baudelaire fu nella poesia, e Marceline è la chiave che ha permesso al suo genio di esprimersi.

    «Quando tolsi il drappo il quadro mi colpì immediatamente, o forse dovrei dire che mi stordì. In un primo momento rimasi disorientato, perché non era soltanto un ritratto. Marsh era stato sincero quando aveva detto che non intendeva dipingere solo Marceline, ma ciò che vedeva in lei e oltre di lei. Naturalmente la sua figura c'era, e in un certo senso formava la chiave di volta del dipinto, ma era solo un elemento di una composizione più vasta. Era nuda, a parte l'orrenda ragnatela dei capelli che l'avvolgevano; se ne stava un po' seduta, un po' abbandonata su una specie di panca o divano i cui fregi erano estranei a qualsiasi tradizione conosciuta. In mano teneva una coppa dalla forma mostruosa da cui traboccava un liquido di un colore mai visto, e che ancora oggi non sono riuscito a identificare. Non riesco a immaginare dove Marsh si fosse procurato il pigmento.

    «La donna e il divano si trovavano in primo piano, sulla sinistra della scena più fantastica che abbia visto in vita mia. Qualcosa faceva pensare che la visione fosse un'emanazione della mente di Marceline, ma altri elementi lasciavano supporre esattamente il contrario: che lei fosse un'immagine malefica o un'allucinazione evocata dallo sfondo.

    «Non so dirle nemmeno se fosse un interno o una scena all'aperto, se quelle volte gigantesche fossero viste da dentro o da fuori; non so se erano di pietra o piuttosto orribili escrescenze fungoidi: la geometria di quegli edifici è folle, angoli acuti e ottusi si mescolano a piacere.

    «E le forme d'incubo che fluttuano in quell'eterno crepuscolo dei demoni! I mostri che strisciano, ghignano, celebrano il sabba di cui la donna è senz'altro la gran sacerdotessa... gli animali neri e pelosi che non sono esattamente capri, la belva con la testa di coccodrillo, tre zampe e una fila di tentacoli sul dorso... gli egipani dal naso camuso che eseguono una danza maledetta già dai sacerdoti dell'antico Egitto!
    «Ma la scena non rappresentava l'Egitto, era più antica: persino più antica di Atlantide, della favolosa Mu e di Lemuria, il continente leggendario. Era la sorgente di tutti gli orrori del mondo, ed era fin troppo evidente che Marceline ne era parte integrante. Penso che quel luogo fosse l'immemorabile città di R'lyeh, non costruita da creature del nostro pianeta... il segreto di cui Marsh e Denis parlavano a volte a bassa voce. C'è qualcosa nel quadro che fa pensare a una scena subacquea, benché tutte le creature respirino normalmente.

    «Bene, non potei far altro che guardarlo e rabbrividire, perché Marceline mi fissava malignamente con gli occhi mostruosi e dilatati che le aveva dato il pittore. Non era soltanto un'impressione, Marsh aveva colto una parte della sua orribile vitalità e l'aveva trasferita nei suoi tratti e nei suoi colori: lei guardava, pensava, odiava come se non fosse seppellita in cantina sotto la calce. Ma la cosa peggiore fu quando i capelli simili a serpenti, quell'orribile chioma degna di Ecate si staccò dalla superficie del quadro e avanzò verso di me!

    «Fu allora che conobbi l'orrore finale e mi resi conto di essere non solo un custode, ma anche un prigioniero. Quello era l'essere da cui avevano tratto origine le antiche leggende di Medusa e delle gorgoni; la mia volontà, già scossa, era stata catturata e trasformata definitivamente in pietra. Non sarei mai stato al sicuro dai capelli simili a serpenti, quelli che si agitavano nel quadro e quelli che avevo seppellito sotto la calce vicino alle botti di vino. Troppo tardi ricordai le storie che avevo udito sui capelli dei morti: sono virtualmente indistruttibili, anche per secoli.

    «Da allora la mia vita non è stata che orrore e schiavitù, e la paura di ciò che si nascondeva in cantina cominciò presto a diffondersi. In capo a un mese i negri raccontavano storie misteriose sul serpente nero che strisciava intorno alle botti dopo il tramonto: qualunque cosa fosse, dopo un po' sembrava dirigersi verso un punto che distava circa tre metri dal deposito del vino. Alla lunga dovetti spostare le botti in un'altra parte della cantina, perché non c'era un sol negro disposto ad avvicinarsi al punto dove appariva il serpente.

    «Poi i braccianti cominciarono a parlare del rettile scuro che ogni notte si avvicinava alla capanna di Sofonisba, dopo la mezzanotte. Uno di essi mi mostrò le tracce della creatura, e non molto tempo dopo scoprii che zia Sofia aveva preso l'abitudine di visitare le cantine di casa mia, borbottando per ore nel punto al quale nessuno degli altri negri osava avvicinarsi. Fui contento quando la vecchia strega morì; credo fermamente che fosse la sacerdotessa di un antico e terribile culto dell'Africa e deve aver avuto quasi centocinquant'anni.

    «A volte ho l'impressione di sentire qualcosa che si aggira per casa, di notte. Un rumore sulle scale, dove le assi sono sconnesse, o magari una leggera pressione contro la porta della mia stanza, in modo che il lucchetto cigoli. Dormo sempre con la porta chiusa, è ovvio. A volte, al mattino, avverto nel corridoio un malsano odore di muffa e mi accorgo che sulla polvere del pavimento è apparsa una traccia che sembra lasciata da una corda. So che devo far la guardia ai capelli raffigurati nel quadro, perché se dovesse andare distrutto le entità che si nascondono in questa casa scatenerebbero una terribile vendetta. Non oso cercare scampo nella morte, perché vita e morte sono la stessa cosa per chi è dominato dagli esseri di R'lyeh. Sono certo che qualcuno o qualcosa punirebbe la mia negligenza. Le spire di Medusa si sono impadronite di me, e così sarà per sempre. Non cerchi mai di immischiarsi nell'occulto e nei supremi orrori dell'esistenza, giovanotto, se tiene alla sua anima immortale.»
    Quando il vecchio finì il racconto mi accorsi che la piccola lampada si era prosciugata e la più grande era quasi vuota. Doveva essere quasi l'alba ed ebbi l'impressione che il temporale fosse passato. Il racconto mi aveva assorto e stupito, e quasi temevo di guardare la porta nel timore che una forza innominabile la spingesse dall'esterno. Era difficile stabilire quale fosse il mio sentimento predominante: orrore puro e semplice, incredulità o una sorta di morbosa e fantastica curiosità. Non riuscivo a parlare e dovetti aspettare che fosse il mio ospite a rompere l'incantesimo.

    «Vuole vedere... il quadro?»

    Parlava con voce bassa ed esitante e mi resi conto che era in preda a un'ansia terribile. La curiosità ebbe la meglio sulle altre emozioni e annuii.

    Il mio ospite si alzò, accese una candela che era sul tavolo accanto e aprì la porta, tenendo la fiamma davanti a lui.
    «Venga con me, è di sopra.»

    Parte 7 >

    Nota: in questo racconto, i caporali («) indicano la narrazione di de Russy, mentre gli apici (") sono usati per i dialoghi dei personaggi coinvolti nella tragedia.


    Edited by & . - 19/7/2020, 12:36
     
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