L'abbraccio di Medusa - Parte 7

H. P. Lovecraft

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    Ser Procrastinazione

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    Non era piacevole attraversare di nuovo quei corridoi polverosi, ma i miei scrupoli furono vinti dal fascino del mistero. Le tavole scricchiolavano sotto i nostri piedi e una volta fui scosso da un brivido, perché nella polvere ai piedi della scala mi era parso di vedere la traccia di qualcosa che somigliava a una corda.

    I gradini che portavano verso l'attico erano incerti e rumorosi, e mancavano parecchie assi. In un certo senso fui lieto di dover badare a dove mettevo i piedi, perché questo mi evitava di guardarmi intorno. Il corridoio dell'ultimo piano era immerso in un buio impenetrabile, in un tappeto di polvere spesso qualche centimetro e festonato di ragnatele; c'era solo un tratto relativamente sgombero, ed era quello che conduceva a una porta in fondo al corridoio, sulla sinistra. Notai un tappeto quasi marcito che un tempo doveva essere stato folto, e pensai ai piedi che l'avevano calpestato in anni ormai lontani... ma anche alla cosa che non aveva piedi. Il vecchio mi fece strada verso la porta sul fondo e armeggiò per qualche secondo con il chiavistello arrugginito. A pochi passi dal quadro mi sentii invadere da un profondo senso di terrore, ma ormai non osavo ritirarmi.

    Ancora un attimo e il mio ospite mi fece entrare nello studio abbandonato. La luce proiettata dalla candela era debole, ma bastava a illuminare gli elementi fondamentali dell'ambiente. Notai il soffitto basso e inclinato, l'imponente abbaino ingrandito, le curiosità e i trofei appesi alle pareti e soprattutto il gran cavalletto che occupava il centro della stanza, coperto da un drappo.
    De Russy si diresse verso il quadro, tolse la copertura e mi fece segno di avvicinarmi. Dovetti chiamare a raccolta tutto il mio coraggio per obbedirgli, anche perché mi ero accorto che alla vista del quadro scoperto la mia guida aveva sbarrato gli occhi. Ma ancora una volta la curiosità ebbe la meglio e girai intorno al quadro, mettendomi nella stessa posizione di de Russy. Allora, alla luce tremolante della candela, vidi quella cosa maledetta.

    Non svenni, anche se nessun lettore potrà immaginare lo sforzo che feci per evitarlo. Urlai, ma mi interruppi quando vidi lo sguardo terrorizzato del vecchio. Come avevo temuto la tela era incrostata e distorta dall'umidità e dall'abbandono, ma questo non toglieva nulla alla mostruosa ricostruzione d'una scena di puro orrore cosmico, la cui atmosfera diabolica era suggerita tanto dal soggetto che dalle sue perverse geometrie.

    Era proprio come aveva detto il vecchio, un inferno di volte e colonne fra le quali si celebravano sabba e messe nere; non riuscivo assolutamente a immaginare cosa il pittore avrebbe potuto aggiungervi se avesse avuto il tempo di finirlo. La rovina non aveva fatto che aumentare l'orrore del suo malvagio simbolismo e delle cose terribili che la scena evocava; e le parti più colpite dal passare del tempo corrispondevano esattamente a quelle che in natura (o meglio, nella parodia della natura che trionfava in quel mondo extra-cosmico) vanno incontro davvero a corruzione e disintegrazione. Ovviamente l'orrore più grande era Marceline, e quando vidi la figura gonfia e cadaverica immaginai che la creatura dipinta sulla tela avesse un occulto legame con il corpo che il vecchio aveva sepolto in cantina, sotto la calce. Forse proprio la calce aveva conservato il cadavere invece di distruggerlo... ma come avrebbe potuto conservare gli occhi neri e maligni che mi fissavano e si facevano beffa di me da quell'inferno dipinto? C'era un altro particolare che non potei fare a meno di notare: qualcosa che riguardava la donna del quadro e che de Russy non era riuscito a esprimere a parole, ma che spiegava il desiderio di Denis di uccidere chiunque fosse stato a contatto con lei. Impossibile dire se Marsh se ne fosse reso conto o il suo genio avesse colto anche quell'aspetto inconsciamente; certo Denis e suo padre non se n'erano accorti fino a quando avevano visto il quadro.

    Si trattava dei capelli neri, l'orrore più grande: i capelli che coprivano il corpo in decomposizione ma che non sembravano assolutamente toccati dalla corruzione. Tutto quello che avevo sentito sul loro conto era provato. Non aveva nulla di umano quella cascata oleosa, sinuosa, appena increspata di serpenti color della notte. Ogni ricciolo, ogni ciocca proclamava la sua vita blasfema e indipendente e la sensazione di infinite teste di serpente, alle estremità, era troppo accentuata per potersi definire illusoria o accidentale.

    L'orrenda visione mi teneva prigioniero come una calamita. Nessuno poteva aiutarmi e ripensai allo sguardo della gorgone, capace di trasformare in pietra tutti gli uomini. In quel momento mi accorsi che qualcosa stava cambiando: il ghigno della donna mi parve alterato, la mascella decomposta si abbassò e le labbra spesse, simili a quelle di una bestia, scoprirono una fila di zanne gialle e appuntite. Le pupille degli occhi diabolici si dilatarono, gli occhi stessi parvero uscire dalle orbite. E i capelli, i maledetti capelli cominciarono ad agitarsi e frusciare percettibilmente, mentre le teste di serpente puntavano de Russy e vibravano, pronte a colpire!

    Persi completamente la ragione, e prima di rendermi conto di quel che facevo estrassi la pistola automatica e sparai dodici proiettili d'acciaio nell'orrenda tela. Andò immediatamente in pezzi, e la stessa sorte toccò alla cornice che sporgeva dal cavalletto e che si infranse sul pavimento coperto di polvere. Ma se un orrore era annientato, un altro sorgeva alle mie spalle nella forma del vecchio de Russy: le sue urla per la perdita del quadro erano quasi altrettanto orribili del dipinto in sé.

    Il vecchio gridò con voce strozzata: «Dio, l'hai distrutto!»; poi mi afferrò il braccio con forza disperata e mi trascinò fuori della stanza, giù per le scale. Nel panico aveva fatto cadere la candela, ma l'alba era vicina e dalle finestre coperte di polvere filtrava una debole luce grigia. Inciampai e rischiai di cadere più volte, ma la mia guida non si fermò un momento.

    «Corra!» gridò. «Corra se tiene alla vita! Non sa che ha fatto! Non le avevo detto tutto, c'erano cose che dovevo fare... il quadro parlava e me le diceva. Dovevo curarlo, preservarlo... adesso succederà il peggio. Lei e i suoi capelli usciranno dalla tomba, per fare Dio sa cosa!

    «Corra, le dico! Andiamo via di qui finché c'è tempo. Ha una macchina, ha detto: mi porti a Cape Girardeau con lei. Può darsi che sia capace di seguirmi ovunque, ma almeno la farò correre un poco. Andiamo, si sbrighi!»

    Arrivati a pianterreno sentii un lento e bizzarro rumore che proveniva dal retro della casa: come un passo strascicato seguito dal rumore di una porta che si chiudeva. In un primo momento de Russy non se ne era accorto, ma quando la porta sbatté lanciò l'urlo più orribile che sia mai uscito da una gola umana.

    «Dio, gran Dio, era la porta della cantina... Sta arrivando!»
    Io lottavo con il paletto arrugginito della porta d'ingresso e i cardini che cedevano a fatica. Ero in preda a un panico assoluto, proprio come il mio ospite, perché sentivo il tonfo sordo di qualcosa che strisciava nelle stanze della casa maledetta. La pioggia della notte aveva gonfiato il legno della porta, che resisteva anche più tenacemente della sera prima.
    Da qualche parte un'asse cigolò sotto la cosa che camminava verso di noi, e questo spense l'ultimo barlume di sanità del vecchio. Con un urlo da animale infuriato abbandonò la stretta con cui mi teneva avvinto e si precipitò sulla destra, in una stanza che secondo me doveva essere il salotto. Un attimo dopo, proprio mentre spalancavo la porta d'ingresso e mi precipitavo all'esterno, sentii un fragore di vetri rotti e mi resi conto che era saltato dalla finestra. Abbandonai il portico fatiscente e mi lanciai disperatamente sul lungo viale coperto di erbacce; alle mie spalle risuonava il passo cadenzato di qualcosa che non era più vivo e che non seguiva me, ma si trascinava sul pavimento polveroso del salotto.

    Solo due volte mi girai indietro mentre affrontavo i rovi e le lappe che soffocavano il vialetto abbandonato, e mi lasciavo alle spalle i tigli morti e le querce grottesche che si stagliavano nel nuvoloso mattino di novembre. La prima volta fu perché avevo sentito un odore penetrante: ripensai alla candela che de Russy aveva fatto cadere nello studio del pittore, ma ormai ero vicino alla strada e da quel punto leggermente elevato distinguevo bene il tetto della casa sugli alberi che la circondavano. Proprio come mi ero aspettato, spesse nuvole di fumo uscivano dagli abbaini e salivano verso il cielo plumbeo. Ringraziai le potenze del creato perché una maledizione antichissima stava per essere purgata dal fuoco e cancellata dalla faccia della terra.

    Ma un attimo dopo, lanciando una seconda occhiata alle mie spalle, vidi altre due cose e il sollievo che avevo provato in un primo momento scomparve cedendo il posto a uno spavento dal quale non mi riprenderò mai più. Ho detto che mi trovavo nella parte alta del viale, da cui era visibile la maggior parte della piantagione dietro di me. Il panorama non comprendeva soltanto la casa e gli alberi, ma una parte del pianoro abbandonato e semiallagato dal fiume e un buon tratto del viale che curvava verso la villa, lo stesso che stavo attraversando a perdifiato. Sia nel piano che sul viale vidi, o credetti di vedere, qualcosa che mi piacerebbe ardentemente poter negare.

    Quel che mi aveva indotto a girarmi la seconda volta era stato un grido lontano: nel farlo mi apparve qualcosa che correva sul tratto paludoso alle spalle della casa. A quella distanza le figure umane sono molto piccole, ma nonostante la confusione del movimento pensai che fossero almeno due: un inseguitore e un inseguito. Quest'ultimo, vestito di scuro, fu raggiunto e afferrato dalla creatura calva e nuda che gli stava alle calcagna, e portato violentemente verso la casa in fiamme.

    Non saprò mai come sia andata a finire, perché uno spettacolo a me più vicino cancellò quello che avveniva sullo sfondo: era un misterioso movimento dei cespugli in un punto non molto lontano dal viale deserto. Non c'era possibilità di sbagliarsi, le foglie e le erbacce si agitavano in un modo che non si poteva attribuire al vento, ma come se un grande, velocissimo serpente si fosse lanciato al mio inseguimento, protetto dalla vegetazione.
    Non potei reggere oltre. Mi lanciai a corsa pazza verso l'arco di pietra, incurante dei rami che mi graffiavano e strappavano i vestiti; poi saltai nella macchina scoperta che avevo lasciato sotto il sempreverde. Era ancora bagnata e piuttosto malconcia, ma il motore funzionava e non ebbi difficoltà ad avviarlo. Seguii la strada senza pensare; non desideravo altro che allontanarmi da quella spaventosa regione d'incubi e demoni, e farlo il più presto possibile.

    Cinque o sei chilometri dopo un contadino mi fece segno con la mano: era una persona gentile, di mezza età e a quanto pare di notevole intelligenza. Approfittai dell'occasione per rallentare e chiedere indicazioni, anche se sapevo che il mio aspetto doveva essere abbastanza strano. L'uomo mi indicò la strada per Cape Girardeau e mi chiese come mai fossi in giro tanto presto e in quello stato. Pensai che la cosa migliore fosse dire il minimo indispensabile e raccontai che, sorpreso dal temporale della notte, avevo chiesto asilo in una casa nei paraggi e mi ero perso cercando di ritrovare la macchina.

    «Una casa, eh? Mi domando quale. Non ce ne sono fino a quella di Jim Ferris oltre Barker's Creek, ma di qui saranno almeno trenta chilometri.»
    Trasalii, chiedendomi che razza di mistero fosse quello. Dissi al mio informatore che probabilmente aveva dimenticato la vecchia casa padronale in mezzo alla piantagione, il cui arco d'ingresso si trovava non molto più indietro.

    «È strano che un forestiero come voi ne sappia qualcosa! Forse abitate da queste parti già da un po', ma ad ogni modo la casa di cui parlate non esiste più. È bruciata cinque o sei anni fa, si raccontano storie strane.»

    Rabbrividii.

    «Perché certo vi riferite a Riverside, la gran villa del vecchio de Russy. Da quelle parti sono successe cose molto strane, quindici o vent'anni fa. Il figlio del padrone aveva sposato una straniera e la gente pensava che fosse un tipo strano. Non piaceva, ma del resto il marito se la portò via presto. Qualche tempo dopo il vecchio fece sapere che il figlio era morto in guerra, ma i negri della piantagione la pensavano diversamente. Alla fine venne fuori che il vecchio si era preso una cotta per la ragazza e aveva ammazzato sia il figlio che lei. Dicevano che il posto era infestato da un serpente nero, ma non so davvero cosa può significare.

    «Poi, cinque o sei anni fa, il vecchio scompare e la casa brucia: qualcuno dice che lui è rimasto dentro ed è andato a fuoco con tutto il resto. Era una mattina proprio come questa, dopo una notte di pioggia; la gente sentì urla terribili in mezzo a i campi, ed era proprio il vecchio de Russy. I curiosi si fermarono e videro che la casa se ne andava letteralmente in fumo: era tutta di legno, e pioggia o non pioggia ci fu poco da fare. Nessuno ha più visto il vecchio, ma ogni tanto mormorano di un fantasma che sembra un serpente nero e che va in giro nella proprietà.

    «Be', che ne dite? A quanto pare conoscete il posto. Avete mai sentito parlare dei de Russy? Chissà cosa aveva, la moglie del giovane Denis. Alla gente venivano i brividi solo a vederla, insomma era odiosa anche se non si riusciva a capire perché.»

    Cercavo di pensare, ma era quasi impossibile. La casa era bruciata anni fa? Ma se le cose stavano così, dove e in che condizioni avevo passato la notte? E come mai sapevo quel che sapevo, a proposito della tragedia? Mentre riflettevo vidi un capello sulla manica della mia giacca: il corto capello grigio di un vecchio.

    Ripresi a guidare senza rispondere alle domande del mio interlocutore, ma prima di andarmene feci un commento sulle voci esagerate che calunniavano il vecchio piantatore, già così provato dalla sorte. Sottolineai (come se ne avessi la certezza da racconti degni di fede, magari fatti da amici) che se nella tragedia di Riverside c'era qualcuno da biasimare si trattava della donna, Marceline. Non era abituata al modo di vivere del Missouri, conclusi, ed era un peccato che Denis l'avesse sposata. Non aggiunsi altro perché ero sicuro che i de Russy, orgogliosi dell'onore del casato e uomini di sensibilità squisita, non avrebbero voluto che aggiungessi altro.
    Avevano già sofferto abbastanza e non c'era alcun bisogno che i pettegolezzi della gente di campagna infangassero un nome antico e senza macchia, trascinato nell'abisso suo malgrado da un demone infernale, da una gorgone di età maledette.

    Non era giusto, del resto, che i vicini venissero a sapere l'altro orribile particolare della vicenda, quello che il mio ospite non era riuscito a dirmi a parole; l'orrore che doveva aver appreso, proprio come me, dai particolari del capolavoro perduto di Frank Marsh. Sarebbe stato terribile se quella gente avesse saputo che la signora di Riverside - la maledetta gorgone o lamia dalla chioma serpentina, che ancor oggi stringeva come un vampiro lo scheletro dell'artista in una tomba riempita di calce sotto le fondamenta della casa bruciata - apparteneva, sia pur in modo non evidente, alla razza dei primitivi abitanti di Zimbabwe. Non c'era da stupirsi che avesse legato così bene con la vecchia strega, Sofonisba: perché, anche se solo in parte, Marceline era una negra.

    Nota: in questo racconto, i caporali («) indicano la narrazione di de Russy, mentre gli apici (") sono usati per i dialoghi dei personaggi coinvolti nella tragedia.


    Edited by & . - 21/7/2020, 09:39
     
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