L'abbraccio di Medusa - Parte 4

H. P. Lovecraft

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    Ser Procrastinazione

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    «Scrissi una lunga lettera al mio agente finanziario a New York e feci in modo che mio figlio venisse chiamato laggiù per affari. Organizzai le cose in modo che l'agente richiedesse la presenza di un membro della famiglia sulla costa orientale, e poiché ero malato non si poteva pensare che partissi io. Fu deciso che Denis sarebbe andato a New York e si sarebbe occupato degli affari per tutto il tempo che avrei ritenuto necessario.

    «Il piano funzionò perfettamente e mio figlio partì senza il minimo sospetto; Marceline e Marsh lo accompagnarono in macchina a Cape Girardeau, dove prese il treno del pomeriggio per St. Louis. Mia nuora e il mio ospite tornarono verso sera, e mentre McCabe guidava la macchina in garage li sentii chiacchierare sul terrazzo: si erano sistemati sulle stesse poltrone dove Marsh e Denis avevano parlato alcuni giorni prima, quando avevo ascoltato la loro conversazione. Parlavano del ritratto e io ero deciso a non farmi sfuggire una parola: andai in salotto e mi sistemai sul divano vicino alla grande finestra.

    «In un primo momento non sentii niente, ma presto ci fu il rumore di una sedia spostata e poi un sospiro improvviso, brevissimo, seguito da un'esclamazione dolorosa di Marceline. Finalmente colsi la voce di Marsh che parlava in tono formale ma con una punta di tensione.

    «"Mi piacerebbe lavorare stasera, se non sei troppo stanca."
    «Marceline rispose nello stesso tono offeso della battuta precedente. Continuava a parlare in inglese, come aveva fatto fino a quel momento.

    «"Oh, Frank, è solo a questo che pensi? Lavoro e sempre lavoro! Non possiamo goderci questa luna meravigliosa?"

    «Egli rispose con impazienza, e sotto l'entusiasmo artistico avvertii una nota di disprezzo.
    «"Luna meravigliosa! Buon Dio, che razza di sentimentalismo. Sei un'intellettuale e usi le più trite espressioni dei romanzi popolari! Hai l'arte davanti a te e pensi alla luna, che del resto è a buon mercato come le luci del varietà. Ma forse il motivo è un altro: il chiaro di luna ti fa pensare alle danze rituali intorno alle colonne di pietra di Auteiul... Al diavolo, quegli imbecilli ti guardavano con la bocca aperta! Ma no, immagino che di questo non ti occupi più; addio magia di Atlantide, addio riti della chioma di serpenti: non fanno al caso di madame de Russy! Io sono l'unico che ricorda le antiche creature... le creature che si materializzavano nei templi di Tanit e urlavano sui bastioni di Zimbabwe, ma non mi farò ingannare da questi sogni. Sto cercando di esprimerli nel mio quadro, ed è lì che smaschererò l'essere portentoso, racchiudendo in una sola figura i segreti di settantacinquemila anni..."

    «Marceline lo interruppe con una voce in cui si mescolavano emozioni contrastanti.
    «"Sei tu che fai il romantico da quattro soldi, adesso. Sai benissimo che è meglio lasciare in pace gli Antichi. Voi tutti dovreste stare molto attenti se cantassi le vecchie preghiere o cercassi di evocare ciò che dorme a Yuggoth, Zimbabwe e R'lyeh. Ti facevo più prudente.
    «"Invece non hai un grammo di logica. Pretendi che mi interessi al tuo preziosissimo quadro e non mi fai neppure vedere quello che stai facendo. Sempre quel telo nero per coprirlo! È un mio ritratto, credo che non avrebbe nessuna importanza se lo vedessi..."

    «Stavolta fu Marsh a interromperla, con uno strano accento di durezza e tensione.
    «"No, non ora. Lo vedrai a suo tempo. Dici che è il tuo ritratto, ed è vero, ma c'è dell'altro. Se sapessi non saresti così impaziente. Povero Denis, che vergogna!"
    «Le parole del nostro ospite si erano quasi trasformate in un grido e provai una stretta alla gola. Cosa voleva dire Marsh? All'improvviso mi resi conto che si era interrotto e stava rientrando in casa, solo. Sentii la porta d'ingresso che sbatteva e i suoi passi su per le scale. Sulla terrazza Marceline respirava pesantemente, infuriata. Mi allontanai con la morte nel cuore, convinto che bisognava risolvere gravi problemi prima di permettere a Denis di tornare a casa.

    «Da quella sera in poi la tensione, in famiglia, fu ancora più intensa. Marceline viveva per i complimenti e l'adulazione, e le parole brutali di Marsh le avevano aperto una ferita che il suo temperamento non riusciva a sopportare. Vivere con lei s'era fatto impossibile, perché una volta partito il povero Denis non aveva più frenato la sua insolenza. Quando non trovava nessuno con cui litigare in casa si recava alla capanna di Sofonisba, e a volte parlava per ore con la vecchia zulù. Zia Sofia, come la chiamavamo per brevità, era la sola persona che perseverasse nell'abietta devozione per mia nuora, e una volta che cercai di ascoltare la loro conversazione sentii che Marceline sussurrava di "antichi segreti" e dello "sconosciuto Kadath", mentre la negra si cullava incessantemente sulla sedia a dondolo e ogni tanto dava un verso inarticolato di devozione e ammirazione.

    «Ma niente poteva distruggere la servile infatuazione che Marceline provava per Marsh. A volte gli parlava con amarezza e risentimento, ma obbediva con sempre maggior rispetto ai suoi desideri. Per lui era una manna, poiché riusciva a farla posare tutte le volte che sentiva il desiderio di dipingere. L'artista tentava di mostrare una certa gratitudine per la buona volontà della modella, ma dietro la sua gentilezza mi parve di percepire una sfumatura di disprezzo, persino di ripugnanza. Da parte mia, odiavo Marceline con tutto il cuore: in un momento come quello era inutile mascherare i miei sentimenti con espressioni più tenui e limitarmi a dire che non mi piaceva. Di una cosa ero contento: che Denis non fosse a casa. Le sue lettere, per quanto non frequenti come avrei desiderato, mostravano qualche segno di stanchezza e di preoccupazione.

    «Dopo la metà di agosto capii dai commenti di Marsh che il ritratto era quasi finito. Il pittore aveva un atteggiamento sempre più beffardo, mentre la prospettiva di vedere l'opera finita solleticava la vanità di Marceline e migliorava il suo umore. Un giorno Marsh annunciò che il quadro sarebbe stato pronto fra una settimana e ricordo che Marceline si illuminò tutta, benché non mi risparmiasse un'occhiata velenosa. Ebbi l'impressione che i capelli raccolti sulla nuca fremessero, stringendosi intorno alla sua testa.

    «"Devo essere la prima a vederlo!" saltò su. Poi, con un sorriso all'indirizzo di Marsh, aggiunse: "E se non mi piace lo farò a pezzi!".

    «Nel risponderle Marsh assunse un'espressione curiosissima.
    «"Non voglio influenzare il tuo gusto, Marceline, ma ti giuro che sarà magnifico! Non è per trarne credito, l'arte si giustifica da sé, ma era una cosa che andava fatta. Aspetta e vedrai."

    «Nei giorni seguenti provai un vivo senso di disagio, come se la fine del ritratto potesse scatenare una catastrofe invece che darci sollievo. Denis non mi aveva più scritto e il mio agente a New York mi fece sapere che stava pensando di rientrare. Mi chiesi come sarebbe andata a finire, e certo gli elementi in gioco erano contrastanti: Marsh e Marceline, Denis e io...

    Quali reazioni avremmo innescato l'uno verso l'altro? Quando le mie paure si facevano opprimenti cercavo di attribuirle alla malattia di cui soffrivo, ma questa spiegazione non mi ha mai soddisfatto completamente.»

    La faccenda esplose un giovedì, il 26 di agosto. Mi ero svegliato alla solita ora e avevo fatto colazione, ma non stavo bene a causa del mal di schiena. Ultimamente mi aveva dato i tormenti e quando diventava insopportabile dovevo ricorrere agli oppiacei; a pianterreno non c'era nessuno tranne i domestici, benché sentissi Marceline che si muoveva nella sua stanza. Marsh dormiva nell'attico, vicino allo studio in cui lavorava, e ultimamente aveva preso l'abitudine di fare così tardi che non lo si vedeva quasi mai prima di mezzogiorno. Verso le dieci il dolore si fece fortissimo e dovetti prendere una doppia dose del mio calmante, dopodiché mi sdraiai sul divano in salotto. L'ultima cosa che sentii prima di addormentarmi fu Marceline che passeggiava al piano di sopra. Povera disgraziata, se solo avessi saputo!
    Probabilmente passeggiava davanti allo specchio e si ammirava, era tipico di lei. Vanitosa da capo a piedi, abituata a godere della sua stessa bellezza come dei piccoli lussi che Denis poteva concederle.
    «Mi svegliai che era quasi il tramonto, e le lunghe ombre che scivolavano intorno alla finestra rischiarata dalla luce d'oro mi dissero che avevo dormito molto. Sembrava che in casa non ci fosse nessuno e su tutto regnava un silenzio innaturale. Solo in lontananza mi parve di sentire qualcuno che si lamentava, disperatamente e interrompendosi ogni tanto, con un tono che aveva qualcosa di familiare ma che non riuscivo a identificare. Non credo alla premonizione, ma fin dal momento in cui aprii gli occhi provai un senso di disagio che si può ben definire paura. Avevo sognato, e i sogni erano stati anche più inquietanti di quelli che avevo avuto nelle settimane precedenti: questa volta era diverso, sembravano misteriosamente collegati a una realtà nera e ripugnante. Intorno a me aleggiava un'aria ammorbante, e in seguito riflettei che durante il sonno i rumori del mondo esterno dovevano essersi infiltrati nella mia mente drogata. Per fortuna il dolore era quasi scomparso e potei alzarmi e camminare senza difficoltà.

    «Mi resi subito conto che qualcosa non andava. Probabilmente Marsh e Marceline erano fuori a cavallo, ma almeno in cucina avrebbe dovuto esserci qualcuno che preparasse il pranzo. Invece, tutto era silenzio a parte il pianto o lamento lontano, e quando tirai il cordone del campanello per chiamare Scipione non rispose nessuno. Poi, dando un'occhiata verso l'alto, mi accorsi della macchia che si allargava sul soffitto: la vivida macchia rossa che filtrava dal pavimento della stanza di Marceline.

    «In un attimo dimenticai la schiena indolenzita e mi precipitai al piano di sopra, pronto al peggio. Mentre lottavo con la porta gonfia d'umidità della camera silenziosa, tutte le ipotesi plausibili sfrecciarono nella mia mente; ma la cosa più orribile era la sensazione che fossimo giunti a uno scioglimento inevitabile e che tutto, in qualche modo, fosse fatalmente preordinato. Da troppo tempo sapevo che si preparava qualcosa di orrendo, che un maleficio profondo e universale si era abbattuto sulla mia casa e che il risultato poteva essere solo sangue e tragedia.

    «Finalmente la porta cedette ed entrai barcollando nella stanza di Marceline, ombreggiata dai rami dei grandi alberi che sfioravano la finestra. Per un attimo fui respinto dall'odore debole ma tremendo che immediatamente mi arrivò alle narici; poi, accesa la luce elettrica, diedi un'occhiata intorno e vidi l'orrore sul tappeto giallo e azzurro.

    «Giaceva con la faccia riversa in una gran pozza di sangue scuro e raggrumato, e in mezzo alla schiena nuda spiccava l'impronta sanguinosa di un piede calzato. C'era sangue dappertutto: sulle pareti, i mobili e il pavimento. A quella vista le ginocchia mi tremarono, presi una sedia e riposai un attimo. Il cadavere rivoltante era stato un essere umano, benché sulle prime non fosse facile capirlo: completamente nudo, aveva i capelli strappati dalla testa in modo feroce. Si trattava di una chioma corvina, e mi resi conto che doveva essere quella di Marceline.
    L'impronta di scarpa sulla schiena rendeva la scena ancora più orrenda: non riuscivo a immaginare l'allucinante tragedia che si era svolta in quella stanza mentre io dormivo al piano di sotto. Quando alzai una mano per asciugarmi il sudore dalla fronte mi accorsi che le dita erano appiccicose di sangue: tremando mi resi conto che veniva probabilmente dalla maniglia della porta, chiusa dall'assassino quando se ne era andato. Sembrava che avesse portato la sua arma con sé, perché accanto al cadavere non c'era nessuno strumento di morte.

    «Osservando il pavimento vidi una scia di impronte sanguinose come quella lasciata sul cadavere, e che si allontanavano dalla scena del massacro dirigendosi alla porta. Un'altra striscia di sangue era meno facilmente spiegabile: si trattava di una linea continua, piuttosto ampia, come quella che potrebbe lasciare il passaggio d'un grosso serpente. In un primo momento conclusi che doveva trattarsi di qualcosa che l'assassino aveva trascinato con sé; poi, notando che alcune impronte sembravano impresse su di essa, dovetti convincermi che c'era già quando l'assassino si era allontanato. Ma quale essere strisciante si trovava nella stanza con l'assassino e la sua vittima? In che modo aveva potuto allontanarsi prima dell'omicida, e appena il delitto era stato compiuto? Non avevo finito di pormi queste domande che di nuovo riecheggiò il lamento in lontananza.

    «Finalmente riuscii a scuotermi dall'orrore e mi alzai, cercando di seguire le impronte. Non riuscivo a immaginare chi fosse l'assassino e l'assenza dei domestici era inspiegabile. Pensai che avrei dovuto recarmi nell'appartamento di Marsh, al piano di sopra, e non avevo finito di formulare il mio proposito che la traccia di sangue mi guidò in quella direzione. Era lui l'assassino? Era impazzito per la tensione che gli procurava l'assurda situazione con Marceline?

    Parte 5 >

    Nota: in questo racconto, i caporali («) indicano la narrazione di de Russy, mentre gli apici (") sono usati per i dialoghi dei personaggi coinvolti nella tragedia.


    Edited by & . - 17/7/2020, 17:18
     
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