| Il mio inglese non era molto comprensibile a quei bifolchi russi, ma qualche parola il locandiere la capiva. Tradusse il poco che aveva compreso urlandolo a tutti i presenti, cioè che cercavo la Foresta d’Assenzio a nord di Kiev. Nella stanza calò un silenzio agghiacciante. Tutti si girarono verso di me, tutti tranne un mazziere che continuava a mescolare le sue carte, in tranquillità, nello sgomento generale. Avevo affrontato un lungo viaggio per arrivare fin lì e non mi sarei tirato indietro facilmente. Ero disposto a pagare, pagare bene, per ricevere un passaggio fino a destinazione. Il locandiere mi guardò di sbieco e si avvicinò un poco. In un inglese che era tutta una sua opinione, mi disse in modo molto serio e lentamente, quasi come se spiegasse ad un bambino che gli asini non volano, che non avrei potuto ottenere quel passaggio. Chiunque andasse in quella foresta non faceva più ritorno. In un attimo capii che mi trovavo in un guaio ancora peggiore di quanto non lo fosse già in partenza. La mia famiglia morta, la mia vita in pericolo e l’unica chiave per risolvere l’enigma (forse) si trovava in quella foresta… dalla quale nessuno era mai tornato. Presi un respiro profondo, ma non fu sufficiente a calmarmi. Allora chiusi gli occhi e ne presi altri due, cercando di riflettere. Quando li riaprii il mazziere flemmatico che avevo notato prima era seduto accanto a me. In breve il resto della locanda tornò ai suoi affari, e un chiasso ordinario si fece risentire, sciogliendo la tensione che si era venuta a creare. «Raccontami la tua storia, straniero» disse il mazziere. «Un attimo, lei parla inglese?» risposi io, pieno di sorpresa. «È quello che sembra, e non è l’unica cosa che so fare… o che posso fare» mi disse, accennando un sorriso. Questo russo mi stava forse cercando di dire che mi avrebbe dato un passaggio? No aspetta, non sembrava proprio un russo. Era vestito alla moda degli altri, ma aveva i capelli e gli occhi neri come il fondo di un pozzo, la carnagione leggermente scura. Chiaramente anche lui era uno straniero, questo mi tranquillizzò un poco. Eravamo entrambi di origini estranee a questo posto, anche se lui era chiaramente più integrato di me. «Sono maledetto» me ne uscii in un modo decisamente diretto, ma neanche questo lo scosse. «È interessante quello che dici, continua» «Vengo da lontano, da Londra per essere precisi. Mi ero appena trasferito in quella capitale con mia moglie e mio figlio. Pensavamo sarebbe stato l’inizio di una vita felice per noi, dopo anni di duro lavoro e sacrifici… invece è tutto finito, molto prima che iniziasse» a questo punto mi misi una mano sul volto per coprire una lacrima. «Mi dispiace per le tue disavventure, straniero» disse il mazziere, con un tono più coinvolto di quello che mi aspettassi. «Dorian, mi chiamo Dorian» aggiunsi. L’uomo semplicemente annuì e stette in silenzio. Dunque continuai: «Vedi, io ho fatto fortuna. Ho abbandonato la mia penosa attività di famiglia dandomi al mercato delle locomotive a vapore. È stato un colpo da maestro, non credevo sarei riuscito a raggiungere certi traguardi!» dissi con una punta di orgoglio, ma il mazziere non sembrava colpito. A quel punto mi pentii di aver accennato questa cosa su di me ad uno sconosciuto. Adesso sapeva che ero ricco, e sì forse mi avrebbe dato il passaggio ma… a quale prezzo? «Come ti chiami?» gli chiesi, come se fare la sua conoscenza riparasse a ciò che avevo rivelato. «Non è importante il mio nome, ma puoi sempre chiamarmi Ivan» disse sorridendomi. «Dunque, Ivan, questo è quello che è successo» presi un respiro profondo: «Progettando il trasferimento a Londra richiesi che ogni pezzo di arredamento fosse nuovo, molti di essi erano importati. Come i mobili. Mobili russi in pino silvestre arredavano tutta la casa, rendendo l’ambiente elegante e leggermente stravagante. Le mie disavventure incominciarono una notte» presi un altro respiro profondo… «Vedi, in quella notte, mi ero semplicemente alzato per andare in bagno. Tenevo la lanterna alta, sopra la testa, per farmi luce lungo il breve tratto che dovevo percorrere. Mi guardavo intorno, ammirando quello che era uno dei miei splendidi risultati dopo lunghi sforzi: la mia nuova casa. In quel momento mi girai verso la pendola per vedere che ore fossero...» «Sì, era uno dei mobili russi?» disse Ivan, vedendomi titubante. «Esatto, beh stava sanguinando». Stettimo un attimo in silenzio. Ivan si mise una mano sul mento, sembrava assorto in profonda riflessione. Alzò lo sguardo verso di me, dicendomi: «Sicuramente non è per questo che sei qui, io al posto tuo lo avrei buttato via e non avrei più voluto sentirne parlare. Cos’è successo dopo?». Dopo, di fronte a quella visione orribile, tutti i liquidi che avevo in corpo li svuotai sul posto... ma evitai di menzionare questo dettaglio: «Dopo, restai fermo attonito a guardare le lancette che ad ogni ticchettio gocciolavano abbondante sangue. Abbassai la lanterna per osservare che il mobile grondava da ogni fessura. Seguii con lo sguardo un rivolo di sangue che piano scendeva fino al pavimento creando una pozzanghera rossa, proprio sotto quella pendola. Chiusi gli occhi prima di girarmi e guardarmi attorno: l’angoliera sanguinava, come il mobile dell’argenteria, la cassettiera... Non urlai, interiorizzai tutto e poi svenni». «Che storia incredibile!» esclamò Ivan, ma c’era qualcosa nel modo in cui lo diceva che mi fece dubitare fosse realmente colpito. «Il giorno dopo fui svegliato dalla voce di mia moglie e dal pianto di mio figlio. Ero ancora sul pavimento ma il sangue era sparito dai mobili. Fortunatamente la casa non era andata a fuoco a causa dell’urto della lanterna col suolo, semplicemente non si era rotta. Pensai fosse stata tutta un’allucinazione, finché Clare non mi disse che nostro figlio stava male, che gli stava succedendo qualcosa di orribile. Ancora tramortito, mi alzai per precipitarmi a controllare nella camera del bambino che piangeva. Grondava sangue da ogni orifizio, dagli occhi, dal naso, dalla bocca… la situazione era agghiacciante, ma capii subito che se avesse continuato così sarebbe morto dissanguato. Chiamai il medico e fu portato in ospedale, ma non ci fu niente da fare» «Sono molto addolorato per la tua perdita, Dorian» anche adesso, non sembrava sincero. «Purtroppo le mie disgrazie non finiscono qui, Ivan. Passò diverso tempo, i medici non avevano capito di che morte era stato vittima mio figlio. Tenni per me quello che avevo visto quella notte, forse era solo un’allucinazione e avrei rischiato di essere preso per pazzo. Mia moglie perse il sonno, e io con lei. Clare, che fino a qualche tempo prima era sempre stata allegra e vitale, era caduta in profonda depressione. Facevo fatica a pensare al lavoro, distratto dalla profonda sofferenza per la perdita di mio figlio che, vederla concretizzata in lei, mi toglieva il respiro. Non sapevamo perché era successo tutto questo, era successo e basta. Poi, un’altra notte, questa disgrazia ricominciò. Questa volta fummo in due a vedere il sangue colare dai mobili, e fu lei ad… ammalarsi. Morì tra le mie braccia alla stessa maniera di mio figlio. Le dissi quanto la amavo, quanto non potevo sopportare di non essere riuscito a proteggerli, che questa maledizione esoterica devessere fermata per fare giustizia a loro e, a questo punto, salvare me, dato che sono sicuro che sarò il prossimo… Clare… Tom...» scoppiai in un pianto strozzato. Ivan, a questo punto, mi mise una mano sulla spalla: «Di cosa hai bisogno, dunque, Dorian?» «Siamo a Kiev, servirebbe qualcuno che mi portasse alla Foresta d’Assenzio a nord di qui. Quella dalla quale nessuno ha fatto più ritorno… perché è con quegli alberi che sono stati fatti i mobili che hanno maledetto la mia casa. Devo investigare, tanto la mia vita è condannata lo stesso. Conosci qualcuno disposto a...?» «Posso portartici io, Dorian» «Davvero? Quanto chiedi?» «Niente, lo faccio perché la tua storia mi ha toccato il cuore» «Grazie! Tu sì che sei un amico!» dissi infine, a questo sconosciuto. Saremo partiti quella sera stessa. Avevo già con me un borsone attrezzato sia per il viaggio che per ispezionare la foresta. Ivan salutò i suoi amici al tavolo da gioco con parole in russo che non capii e uscimmo nella gelida aria di una notte giovane a Kiev. Non c’era neve, ma l’aria fredda era sufficiente a farmi battere i denti, mentre Ivan sembrava perfettamente a suo agio in un clima che conosceva bene. La sua carrozza era poco distante, un bel modello con in testa due cavalli neri. «Perché mi accompagni, non è pericoloso per te?» gli chiesi, poco prima di salire nell’abitacolo. «Perché io vado spesso là, e sono sempre tornato» mi disse, con un mezzo sorriso. Probabilmente erano solo leggende locali dunque. Quando mi trovai dentro ebbi diverso tempo per riflettere da solo. Ormai ero lì e sarei andato fino in fondo. Pensai che, nonostante le prime impressioni iniziali, questo Ivan si stava rivelando una brava persona che mi avrebbe aiutato a scoprirne di più sulla maledizione che pendeva sulla mia testa. Feci diversi respiri profondi mentre guardavo fuori dal finestrino: c’erano poche luci ad illuminare il circondario, tuttavia si leggeva tra le ombre un paesaggio di steppa, formato da varie erbe ed arbusti nani. Quando la carrozza si fermò ci trovammo ai margini della foresta di pini silvestri tanto temuta dagli abitanti del posto, contenente il segreto dei mobili che sanguinano. O almeno speravo. Scesi col mio borsone e un brivido mi assalì. Non era solo il freddo, ma anche la visione della foresta oscura che avevo davanti agli occhi. Alberi alti e neri nella penombra delle nostre lanterne, al di là di essi il buio. Sarei dovuto andare lì dentro. Presi un respiro profondo. «I tuoi respiri sono sempre così drammatici, Dorian» disse Ivan sorridendomi. «Mi aiuta a controllare le emozioni» spiegai. «Hai una lanterna per farti luce?» me ne porse una spenta. Lo ringraziai, mi disse di cercare una casa nel profondo della foresta, qualcuno mi avrebbe quindi ospitato per la notte. Disse, inoltre, che il mattino dopo sarebbe tornato a prendermi. La carrozza si stava allontanando quando rivolsi lo sguardo a quel muro di tronchi e buio che avrei dovuto oltrepassare. Feci un altro respiro profondo, accesi la lanterna e mi addentrai nella foresta. Sembravano pini ordinari, nulla di particolare da notare ad una prima occhiata. Le foglie a forma di ago mi solleticavano il volto mentre camminavo con passo non troppo sicuro in quella tetra natura. Decisi di soffermarmi su un albero per esaminarlo. Staccai un pezzo di corteccia per vedere se aveva qualcosa di particolare, ma niente di fatto. Presi un metro da sarto dal borsone e misurai la circonferenza del tronco, già a occhio si vedeva non particolarmente spesso. Ebbi dunque l’idea di abbattere l’albero per vederne l’età tramite i cerchi all’interno del tronco. Presi un’accetta dal borsone e diedi un colpo. Dal legno un fiotto di sangue schizzò in direzione opposta al mio taglio, mollai immediatamente l’accetta là dove stava. Il cuore mi martellava nel petto, sentivo gocce di sudore scendermi dalla fronte mentre la violenza del getto accennava a diminuire. Chiusi gli occhi. C’ero, avevo trovato qualcosa… ma adesso? Cosa c’è dentro quell’albero? Presi l’accetta tra le mani e con tutta la forza che avevo in corpo ricominciai ad abbattere l’albero. Ad ogni colpo lo schizzo di sangue riprendeva vigore, sentii qualcosa all’interno dell’albero che faceva meno resistenza del tronco, ma sanguinava di più. Cadde, e ne uscirono visceri e sangue: in una posizione contorta ed innaturale c’era un cadavere all’interno di quel tronco. Le mani incominciarono a tremarmi, l’accetta mi cadde al suolo. Dove cazzo mi ero andato a cacciare? Vuol forse dire che questa distesa sconfinata di arbusti era ricolma di morti, ero in una specie di cimitero? Proprio in quel momento, la lanterna si spense. L’afferrai immediatamente per controllarla: l’olio era finito. Perché Ivan mi aveva dato una lanterna scarica? Incominciai a correre verso l’uscita, ma nonostante pensassi di star tornando sui miei passi così non era. Rapidamente mi resi conto di essermi perso. Ansimavo, i respiri erano rapidi e sconnessi, le gambe erano molli e tremavano ogni volta che mi fermavo per guardarmi intorno: buio e silenzio. Non si sentiva neanche una civetta stridere. Era come aver perso il senso della vista e dell’udito. Ricominciai a corre disperato e senza meta, sperando di trovare l’uscita da quel labirinto silvestre. Battei contro tronchi, inciampai cadendo in avanti tanto forte da mozzarmi il fiato, presi storte e facciate contro gli alberi. Ma dovevo continuare a cercare, sentivo che se mi fossi fermato sarei probabilmente morto. Vidi una luce nel folto della foresta. Ivan era tornato indietro a prendermi e quella era il lume della sua lanterna? Forse sarei uscito vivo da lì… e la maledizione? Non potevo non pensare che, tutti questi alberi intorno a me, erano probabilmente ricolmi di cadaveri. Mi avvicinai sempre di più alla luce. Non era Ivan, ma un piccolo edificio tra gli alberi. La casa che diceva appunto, dove mi sarebbe stato offerto un letto per la notte. Sembrava piccola e modesta, costruita con gli stessi pini che mi circondavano, con gli stessi pini dei miei mobili. Rabbrividii al pensiero, ma dietro di me c’era l’oscurità e davanti a me la luce. Dunque accorciai le distanze con la porta della casupola, a piccoli passi, col timore infondato che da lì a poco sarebbe esplosa in un lago di sangue. Era davvero così infondato questo pensiero? Bussai alla porta. «Entra pure, Dorian» era una voce di vecchia che… conosceva il mio nome? Girai la maniglia, avrei fatto ancora in tempo a scappare, ma dovevo andare fino in fondo. Presi un respiro profondo. All’interno la casa aveva un odore rancido, illuminata da candele nere con lo stesso tipo di mobili in pino silvestre che avevo nella mia abitazione. Si poteva udire un cigolio, dunque mi girai verso di esso per capire da cosa provenisse. Era una sedia a dondolo a causarlo e, seduta sopra di essa, una vecchia signora mi guardava nella penombra. «Chi sei tu? Come fai a sapere il mio nome?» le chiesi, senza nascondere un po’ di timore. «Oh, io so molte cose. So perché sei qui ad esempio, perché credi che su di te ci sia una maledizione» mi disse, sorridendomi con la bocca aperta. Le mancava qualche dente. «Come me ne libero?» «Uff quante domande. Potrebbe darsi che tu non abbia una maledizione, che i tuoi cari siano morti perché era giusto così» mi rispose, questa volta aveva un tono più serio. «Giusto?! Com’è possibile? Una donna ed un bambino innocenti morti in modo orribile, a causa… a causa tua» dissi l’ultima frase in modo molto naturale e tranquillo, mi stupì la mia fermezza. «Mia?» era quasi sorpresa. «Sì, tua. Questi mobili sono uguali a quelli che avevo io, la maledizione non può che esser stata fatta da te!» «Sì, i mobili erano i miei, ma qualunque cosa facciano le mie creature una volta fuori di qui non è affar mio, bello» disse, non si sentiva responsabile di nulla. «Tu sei malefica!» «Io sono malefica e faccio cose orribili, bla bla bla» si alzò dalla sedia uscendo dalla penombra. A quanto pare le mancava un occhio, due dita e qualche unghia; aveva cicatrici in tutta la pelle visibile. Indosso aveva abiti estremamente larghi di colore nero, con uno scialle intorno al collo. «Guarda cosa mi avete fatto voi uomini» disse, togliendosi la veste superiore. Il seno le era stato asportato con violenza, cicatrici spesse un dito le correvano lungo la pancia. Per fortuna, la vetusta signora si rivestì subito. «Fu l’Inquisizione a farmi questo» asserì. «L’Inquisizione? C’è ancora nel diciannovesimo secolo?» ero confuso. «No» disse semplicemente. Aveva forse questa vecchia più di cinquecento anni? Continuò: «Nacqui come contadina. Dopo pochi anni di vita già si poteva osservare che intorno a me succedevano cose non ordinarie. Molti animali avevano paura di me, le cose sparivano dalla casa senza una ragione, c’è chi diceva di avermi visto in strada quando in realtà non ero uscita dalla mia camera. Ero speciale, un po’ come quel ragazzo che lavora per me, quello che si fa chiamare Ivan» disse, sorridendomi in modo malizioso. Mi tremarono le gambe e mi sentii mancare. Ero in trappola, nessuno sarebbe tornato a prendermi il giorno dopo. Dovevo scappare. Mi girai rapidamente cercando di aprire la porta, ma era misteriosamente chiusa a chiave. Sentii una risata agghiacciante alle mie spalle. Avrei potuto tirarle un pugno, ma avevo ormai troppa paura. Io non sono un tipo avventuroso, come potevo essere stato tanto scemo da condannarmi da solo in questa maniera? «Dove ero rimasta? Ah già. I miei genitori avevano paura di me e fui abbandonata per la strada. Crebbi come mendicante e ladra, mentre coltivavo il mio dono. Ero una bella ragazza ma non vollì vendere il mio corpo per soldi. Giunse il giorno in cui un manipolo di soldati reali arrivò nella città in cui operavo. Uno di loro mi approcciò e fu il mio primo amore. Mi diede una casa dove stare, cibo di cui nutrirmi, un letto dove dormire. Ero felice, ma un giorno scoprì i poteri che nascondevo. Fui inquisita come strega, i miei giorni allegri erano finiti. Fui torturata, mutilata e stuprata da uomini che si definivano al servizio del bene e della misericordia. Quando riuscii a fuggire feci lunghi viaggi alla ricerca di un luogo dove stare, finché non giunsi qui. Ero ormai stracolma solo di un senso di odio e vendetta verso coloro che mi avevano tradita: cioè voi, l’umanità intera. Attualmente gestisco una rete di rapitori al mio servizio, che lavorando per soldi, mi procurano carne fresca con la quale arricchire la mia foresta» finito di raccontare mi guardò in modo divertito, con quel suo singolo occhio. Come avrei fatto ad uscire da lì? Si avvicinò ad una scopa e, una volta afferrata disse: «Vuoi vedere una strega volare?». Sorrideva. Si avvicinò alla porta che si aprì di scatto senza intervento alcuno e uscì. Potevo scappare, era la mia occasione. Mi precipitai fuori ma, come misi un piede oltre la soglia, la strega mi colpì col bastone della scopa in pieno volto, e svenni.
Ivan non è il mio vero nome, ma poco importa. La mia vita procedette tranquilla dopo la scomparsa di Dorian. Probabilmente stette diverso tempo a dimenarsi all’interno di uno dei tanti alberi della Foresta d’Assenzio. Foresta che non si chiama più così, ormai. Questa parte della Russia passò all’Ucraina e dopo il disastro di Chernobyl quell’area boschiva fu investita da scie radioattive e il suo colore divenne rosso. Forse gli alberi acquistarono il colore rosso solo per le radiazioni, oppure perché ognuno di essi aveva almeno un cadavere al suo interno. Mi ha sempre inquietato quello che poteva fare quella strega di cui adesso, comunque, ho perso le tracce. Ad oggi il nome di quell’area è Foresta Rossa ed è inaccessibile al pubblico, quindi i suoi segreti non saranno mai più svelati.
Edited by Faust Redrose - 3/9/2017, 00:49 |
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