Votes given by Cunigghio Mannaro

  1. .
    Ovviamente si pensa sempre che se una ragazza dica certe cose sugli uomini il padre e gli eventuali fidanzati siano stronzi.
    Non si pensa mai che certe cose siano vere.

    Fate un po' il conto di quante boiate hanno fatto gli uomini e quante le donne, dopo vediamo cosa viene fuori.

    E per la cronaca mio padre è sempre stato presente e non mi ha mai maltrattata, i fidanzati che ho avuto (anche se pochi) non sono mai stati stronzi. Perciò pensate prima di sparare boiate (ah già, siete uomini, non ne siete in grado).
  2. .
    Ecco un'altra prova del fatto che gli uomini sono l'unica e vera piaga del nostro mondo! E pensare che si credono degli esseri superiori, poi la maggior parte di loro non è capace a pulirsi il culo senza chiedere aiuto! Pretendono di essere serviti e riveriti solo perché hanno il pene.
  3. .
    CITAZIONE (DamaXion @ 16/7/2018, 20:57) 
    Forse è inteso che voleva avere rapporti pedofili ma l'età della bambina era troppo bassa anche per lui?

    No, li ha contattati per fare sesso a tre per quanto si sa e sinceramente penso che sia così, visto che ha denunciato la coppia quando molte persone probabilmente se ne sarebbero fregate comunque anche se non pedofile.

    Questo è un pezzo dall'articolo italiano linkato:

    Probabilmente l’utente, un uomo della contea di Madison, in Texas, aveva contattato Dolphin Pooh per un rapporto a tre, ma quando lei gli inviò 5 fotografie della bambina nuda in posizioni sessuali esplicite, l’uomo, seppur depravato

    Davvero, non voglio stare troppo a puntualizzare ma questa scelta di termini è inaccettabile. Provate a pensare se quest'uomo avesse pensato "se li denuncio poi però mi stigmatizzano come un depravato, meglio farmi i cazzi miei". Davvero, se non è illegale o immorale per quanto mi riguarda una persona potrebbe fare sesso con gli appendiabiti e non perdere per nulla il diritto ad essere rispettato.
  4. .
    #1

    Avevo dodici anni quando vidi per la prima volta un corpo morto. Era sepolto sotto un metro di terra, pochi chilometri fuori dal paese, sotto i binari di una ferrovia su cui passavano solo treni merci.
    Certi avvenimenti possono avere diversi effetti su un dodicenne, penso adesso. Prima ipotesi: nessuna conseguenza, almeno nell’immediato. La mente raccoglie quelle immagini, le isola in qualche angolo irraggiungibile dagli artigli della razionalità, e quelle rimangono lì, inerti… fino a quando qualcosa non le riporta in vita. Ma spesso quel qualcosa non arriva mai, e allora questa è l’ipotesi migliore che ci si possa augurare.
    Numero due: gli eventi popolano i tuoi incubi, aprono spifferi gelidi su pareti che dovrebbero rimanere chiuse. Mesi – no: anni di tormento, il timore di scovare un viso decomposto per metà nascosto tra i vestiti, l’impressione di scorgere il tremito di una mano proprio accanto al letto, quando le luci sono spente e chiudere gli occhi è la porta per un ricettacolo di pensieri bui. Poi, con il tempo, l’incubo si deteriora; le ombre sui muri smettono di somigliare al frenetico ticchettio di dita che non dovrebbero muoversi e i sogni non sono più così terrorizzanti. Ma c’è sempre un’eredità… un puzzo di foglie morte che ristagnano nel fondo dell’anima. Sepolte quanto basta per ignorare la loro esistenza, ma non abbastanza per evitare che i vapori fetidi ogni tanto risalgano e tornino a infettare la mente.
    E poi la terza opzione.
    Prima un grande senso di confusione. Le immagini si accavallano nella mente, si scompongono e assumono i contorni di un sogno, in cui tutto è sbiadito e lento e annebbiato. Dopo poco, però, la nebbia svanisce, e da questa viene fuori una domanda. Un dubbio che ti rosicchia man mano, il tarlo che si insinua nella pelle e risale fino al posto in cui giacciono i segreti inconfessabili… quelli, e i sensi di colpa.
    Credo che questo sia quello che è capitato a me. Che sta capitando a me: il tarlo è ancora vivo, e non dà segni di cedimento.
    Allora avevo dodici anni, l’anno prossimo ne compirò quaranta. Quasi trent’anni; un buon arco di tempo per dimenticare, sufficiente per acquietare le acque ribollenti della coscienza. Eppure a volte mi sembra ancora ieri.
    È che a volte non sono del tutto sicuro che fosse morto. Soprattutto quando, di notte, il suo urlo di terrore vibra ancora nei miei polpastrelli.

    Quando Nicola sbucò nel palchetto del paese, tutto trafelato ma bianco in viso, io e Marco ce ne stavamo stravaccati sotto l’ombra di una grossa quercia a torso nudo, con in mano una bottiglia di coca. Ancora di vetro, all’epoca.
    Era un pomeriggio di metà agosto. L’aria era pesante e umida, le erbacce incolte del prato non tremavano nemmeno un poco. Neanche un filo di vento. Sudavamo dalla fronte, dal naso, dal petto nudo su cui stava spuntando la prima peluria. Stavamo usando le magliette come degli asciugamani, ma in poco tempo quelle si erano inzuppate, e ora non riuscivano a detergere la pelle bollente.
    Ci stavamo annoiando. A metà degli anni Ottanta il paese era più popolato di adesso, certamente, ma rimaneva un centro di mille e cinquecento anime o poco più. C’era una buona percentuale di ragazzi – mentre adesso i giovani emigrano appena ne hanno la possibilità – ma la maggiore affluenza era a luglio. Ad agosto qualche famiglia andava via per le vacanze, e nel periodo di ferragosto c’era il picco di partenze. Restava qui solo chi non poteva permetterselo. Io e Marco, appunto. E poi Nicola, solo che il suo problema non era economico; nemmeno sognavamo di vedercelo sbucare così, apparentemente pieno di vita, nel mezzo di un pomeriggio in cui il sole prendeva a pugni sulla nuca.
    «Ragazzi» ansimò. Il collo era rosso e il cuoio capelluto pareva bruciare, ma le guance erano pallide. Riprese fiato per qualche secondo, piegato sulla bici, poi disse: «Dovete venire con me. Devo farvi vedere una cosa».
    «Cosa c’è, Calv?» disse Marco.
    Calvin era il soprannome di Nicola. Aveva i capelli che erano ispide setole bionde e la pelle lattiginosa proprio come l’eroe dei fumetti di Calvin & Hobbes.
    Nicola scosse la testa. Ora non sembrava più pallido: era cereo. «Non… non saprei spiegarvelo. Per favore, seguitemi. È importante». Notai che la voce gli tremava e che non riusciva a tenere ferme le mani.
    Io e Marco ci scambiammo uno sguardo. Nessuno dei due aveva voglia di mettersi a pedalare con quel caldo, verso chissà quale metà… ma si trattava di Calv. Dovevamo seguirlo, anche se si fosse rivelata l’idiozia peggiore del mondo. Ci scambiammo un cenno. «Andiamo» facemmo in coro. Ma a quel punto Nicola si era già avviato, e noi potevamo vedere la sua bici scintillare sotto il sole baluginante e il retro della sua maglietta inzuppato di sudore. Montammo su anche noi e lo seguimmo.
    «Dove ci porta?» mi chiese Marco.
    «Non ne ho idea». Nicola pedalava forte ed era già una cinquanta a di metri davanti a noi. Si dirigeva verso l’uscita a nord del paese, quella che porta verso le cascate.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Sfrecciavamo nell’aria immobile, e il movimento ci rinfrescava un po’ il viso. Il sudore si stava asciugando, ma sentivo il sole colare come un secchio di petrolio sulla mia schiena. Ne avrei ricavato qualche bruciatura dolorosa.
    «Sai, mi fa piacere che sia venuto. Era da tanto» dissi poi.
    «Anche a me. Forse questo vuol dire che si è ripreso… almeno un poco».
    Annuii.
    Eravamo usciti dal paese. Non c’erano macchine in giro, ed ero sicuro che non sarebbe passato nessuno: la strada era in genere poco trafficata, e quella era un’ora di quiete. La distanza tra noi e Nicola era diminuita – ora circa venti metri – e la sua pedalata si era infiacchita. Muoveva le gambe con fatica e solo allora notai come fossero secchi i suoi polpacci. Sotto l’orlo dei pinocchietti, le sue gambe erano un fusto leggero di legno morbido, e dalla pelle lattiginosa si intravedevano le vene verdi. Faceva quasi impressione.
    Poi Nicola svoltò a destra e imboccò una strada sterrata. La vegetazione ai lati era fitta, fronde verdi ci cadevano davanti agli occhi. Nell'aria, il ronzio di qualche insetto, e in lontananza si avvertiva già lo sciabordio delle cascate.
    Fu allora che capii. E anche Marco lo fece, perché mi disse: «Va alla ferrovia».

    #2

    Il fratello di Nicola era scomparso nel nulla un mese prima. Si chiamava Samuele. Era tre anni più grande di Nicola, e per il nostro amico Samuele non era solo un fratello maggiore: era un oggetto di divinazione. Quando non veniva in giro con noi, se ne andava a giocare alla campana con il fratello, o a vedere i suoi amici più grandi che succhiavano i primi tiri a qualche sigaretta spiegazzata, rubata dal pacchetto dei genitori. Quella era la prima volta, dal giorno della scomparsa, che Nicola tornava da noi. Allora pensavo fosse un buon segno. Ancora non si era ripreso, ma per quello avrebbe speso lunghe notti a sognare di ritrovare Samuele vivo in qualche angolo del mondo; però, pensavo, come inizio andava bene.
    Io e Marco ci eravamo fatti una nostra personale teoria sulla scomparsa di Samuele. Nei paesi ci si conosce un po’ tutti, e ogni gesto di rilievo si riempie di un’epicità che all’inizio non gli apparteneva. E allora il gesto si diffonde, nuovi eroi provano a replicarlo, la leggenda diventa vita. Dura qualche tempo, poi sopraggiunge la noia, ci si rende conto della banalità. Ma, per quel che dura, tutti la seguono. E quell’estate, in paese, andava forte lo scansa-treno.
    Il tutto era partito da un ragazzo più grande. Si era ritrovato, mezzo ubriaco con un gruppo di amici, a inciampare sui binari del treno proprio quando un mostro sbuffante correva a cento metri di distanza. Si era rialzato, poi era inciampato di nuovo… alla fine, con un balzo, era riuscito a scansare il treno merci di pochi metri. Era rotolato giù per un breve dirupo di terra e si era slogato una caviglia e lussato una spalla, ma giurava che quella fosse l’esperienza più esaltante mai fatta in vita sua. Allora anche gli altri ragazzi avevano cominciato con lo stesso gioco, prima saltando giù quando il treno si trovava a una decina di metri di distanza, poi azzardando sempre di più. Ancora nessuno si era fatto male, ma noi ragazzi avevamo scommesso che presto qualcuno si sarebbe procurato qualcosa in più che una semplice lussazione. Perdemmo. Il gioco durò una settimana sola: fino alla scomparsa di Samuele, appunto.
    Quello di cui ci eravamo convinti io e Marco era che Samuele fosse morto tentando questa prova. A convincerci era stata l’unica traccia lasciata da Samuele prima della sparizione: una Superga nera un po’ infangata e maciullata dalle rotaie, misura quarantatré. La polizia l’aveva ritrovata sui binari del treno. Ecco la nostra versione dei fatti: in piena notte, Samuele, sull’attenti da un lato del binario, aveva tentato di attraversare il passaggio proprio all’ultimo momento. Ma aveva calcolato male i tempi, o il suo balzo era stato goffo; fatto sta che la stringa della sua scarpa si era impigliata in una delle aste dei binari e gli si era sfilata. Allora il convoglio l’aveva travolto, trasportandolo per qualche chilometro e spappolando i suoi organi e le sue ossa sui binari.
    Ci sono alcuni dettagli che non tornano, ve lo concedo. Alcune mancanze si possono spiegare, altre sono completamente insensate. Prima di tutto: Samuele era solo quando aveva tentato il salto, perché nessuno affermava di averlo visto dopo le sei di quel pomeriggio. Ma una cosa del genere si tenta per la fama, per attirare gli sguardi persi delle ragazze. Non è un gioco da fare da soli. Ma forse Samuele si stava solo esercitando per una futura esibizione in pubblico, ci eravamo detti io e Marco. Seconda cosa: come mai nemmeno il conducente del treno merci colpevole del misfatto aveva avvisato la polizia? Avevamo dodici anni, ma già capivamo che per lui non ci sarebbe stato nessun problema dal punto di vista legale. Insomma, era stato Samuele a gettarsi sui binari all’improvviso. Quell’uomo era senz’altro innocente.
    Non avevamo considerato quanto fosse improbabile che un treno merci percorresse una ferrovia così isolata in piena notte, e nemmeno ci eravamo chiesti come potesse un corpo spappolarsi contro i binari di una ferrovia, quasi fosse fegato di vitello lasciato a marcire. E anche l’unico indizio a favore, quello della scarpa, ora mi sembra assurdo, se relazionato al resto della storia. Un treno che trascina un corpo intero non lascerà indietro solo una scarpa, no?
    Ma i dubbi non avevano scalfito la nostra convinzione. Era accaduto quello e, tralasciando il dispiacere per la scomparsa del fratello di Nicola, era divertente fantasticare su come le cose fossero andate, dettaglio per dettaglio, sempre più precisi. Pochi mesi prima avevo visto al cinema il primo Nightmare, ed era da lì che traevo le immagini per le nostre congetture. Samuele era uno dei matti del film che, sotto la spinta degli artigli di Freddy Krueger, attraversava i binari e si condannava a morte.
    Terribile, vero?
    Alle volte la realtà è peggio.
    Ovviamente non ne avevamo parlato con Nicola. Sarebbe impazzito dall’orrore, e nell’ultimo periodo la sua sanità mentale già vacillava. Anche se quel pomeriggio sembrava tutto a posto. Un po’ su di giri, eccitato forse senza motivo, ma era ammissibile. Noi due non avevamo idea di come fosse perdere un fratello.
    Arrivammo alla ferrovia e smontammo dalla bici. Nicola, che era arrivato da qualche decina di secondi, faceva ampi gesti con le mani. Grosse gocce di sudore gli imperlavano il collo e i capelli, la fronte aveva il colore del ferro rovente… ma le guance rimanevano biancastre, quasi tendenti al grigio. Lo raggiungemmo di corsa.

    #3

    Era in piedi tra i binari, ritto su una delle traversine. Guardava fisso davanti a sé, con gli occhi immobili, il sudore caldo che li faceva bruciare. Mi sembrava di vederlo ondeggiare e barcollare e pensai che sarebbe svenuto, ma probabilmente era solo l’afa che faceva tremolare l’aria.
    Marco lo affiancò, e io affiancai lui. Cominciammo a scrutare l’orizzonte, la terra secca tagliata dalla ferrovia. Procedeva dritta e scintillante, si avvertiva il calore accumulato dai binari risalire lungo le cosce. Dopo un centinaio di metri, spariva, inghiottita da una galleria, ma mi immaginavo procedesse ancora per decine e decine di chilometri, sempre riflettendo il sole alto… e anche chiudendo gli occhi i binari non scomparivano. Solo che, invece che di un bianco abbagliante, diventavano blu e freddi, appena intiepiditi da una luce violacea che premeva sulle palpebre.
    Ma non vedevamo niente oltre a quelli e alla terra arsa che continuava per chilometri.
    «Calv? Perché ci hai portati qui?» chiese Marco.
    Nicola si girò di scatto. Per un attimo, colsi nei suoi occhi lo sguardo appannato di chi si è appena svegliato. Poi cambiò, e ora c’erano solo due pupille tremolanti in un oceano vasto. Si chinò e tese l’orecchio verso la terra. «Sentite?»
    «Calv, di cosa cavolo stai…» feci io, poi mi zittii. Avevo avvertito qualcosa.
    Mi chinai e tesi le orecchie. Per qualche secondo ci fu silenzio, e un leggero rumore di terra che si sollevava. La cascata, in lontananza, continuava con lo sciabordio, ma non era che una carezza ai timpani. Poi lo sentii.
    Il terreno vibrava. Non era un tremore continuo e regolare. Qualcosa di diverso… quasi dei colpi. Ce ne furono tre, un suono deciso e secco.
    Afferrai un binario. Era bollente, e presto il calore si diffuse lungo tutto il braccio, ma non lasciai la presa. Volevo capire se quelle vibrazioni erano dovute all’arrivo di un treno, anche se a diversi chilometri di distanza. Ma il binario rimaneva immobile.
    Poi, quando il mio sforzo per cogliere qualche movimento era massimo, il suono ricominciò. Proveniva dal terreno. Mi distaccai dal binario, per lo spavento e perché il palmo della mano mi si stava arrostendo, e ascoltai la terra. Questa volta i colpi furono due: uno secco, come quelli precedenti, e un altro più cupo. Questo mi echeggiò nelle orecchie per qualche secondo.
    «Lo sentite anche voi, vero?» domandò Nicola. Si era rialzato.
    «Sì» dissi io. Solo allora mi accorsi di quanto la mia gola fosse secca, e di come i rivoli di sudore lungo il mio corpo si fossero infittiti.
    Marco annuì. «Cos’è?»
    Il viso di Nicola riprese un po’ di colore. Sulle sue labbra si disegnò un breve sorriso, ma gli occhi erano ancora sperduti e l’effetto fu sinistro. Si passò due volte la lingua sulle labbra. «Conoscete il codice Morse?»
    «Io sì!» esclamai. Ci avevo fatto una ricerca per la scuola.
    Marco era perplesso. «Di che cosa parli?»
    «È un codice di comunicazione» dissi io. «Ci sono dei punti e delle linee combinati tra di loro, e a ogni combinazione corrisponde una lettera o un numero».
    Marco reclinò il viso e corrucciò le labbra. Non aveva capito.
    «Ti faccio un esempio» disse Nicola. «La lettera a si può scrivere così». Si inginocchiò e, con un dito, disegnò sulla terra un punto e un trattino. Sotto il simbolo, incise la lettera a. Poi segnò una lineetta seguita da tre puntini. «Questa invece è la b. E così via. Ci sono le lettere, puoi comporre le parole. Di solito però non si usano questi segni, ma dei segnali acustici».
    «Ho capito. Tranne la parte sui segnali acustici».
    «Un bip più corto per il puntino, uno più lungo per la linea. La lettera a sarebbe: bip biiiip. Più o meno» spiegai io.
    Nicola ridacchiò, ma il terrore non gli scomparve dagli occhi. «Sì, più o meno».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi Marco chiese: «E questo cosa c’entra?»
    «Io e Samuele comunichiamo con questo codice» cominciò Nicola. «La sua camera è a fianco alla mia, e perciò quando dobbiamo dirci qualcosa di importante usiamo il Morse. Solo che, invece dei bip, diamo dei colpi sul muro. Con la nocca per il punto, con il palmo per la linea».
    Tacemmo. Io avevo intuito dove voleva arrivare Nicola, e pensavo l’avesse capito anche Marco.
    Infatti fu lui a parlare. «Quindi tu pensi che a fare quel suono sia stato Samuele».
    Per un attimo l’idea dovette sembrare folle anche a Nicola, perché sgranò gli occhi e tirò la testa all’indietro, come se colpito da un pugno.
    «È così, Calv?»
    Nicola annuì. In faccia aveva di nuovo quel colorito smorto.
    «Ma è una cosa folle!» disse Marco.
    «Cos’altro potrebbe essere, se no?» ringhiò Nicola.
    «Qualunque cosa!»
    «Un treno?» suggerii io. Non avevo sentito nessuna vibrazione nei binari, ma non potevo escluderlo.
    «No. Hanno chiuso la ferrovia dal giorno… da quando Samuele è scomparso. E non può essere nemmeno un treno a parecchi chilometri di distanza, perché i binari non vibrano» rispose Nicola, deciso.
    Era vero, dovetti riconoscere.
    «Allora un animale» disse Marco.
    «Un animale sotto il terreno? Che fa dei suoni del genere? Quanti ne conosci, eh, Marco?» La sua voce ora si era incrinata ed era diventata quasi femminea.
    «Ma Calv…» cominciò Marco.
    «Non chiamarmi così, cazzo!» sbraitò Nicola. Teneva le mani strette a pugno e aveva indurito la bocca.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Io e Marco facemmo un passo indietro. Ero spaventato. Nicola mi sembrava così… fuori. Un matto nel manicomio di Nightmare. Ciuffi di capelli mi ricadevano davanti agli occhi e il sudore mi velava lo sguardo. Sentii il mondo fare le giravolte attorno a me.
    «Ascoltatemi. Per favore» mormorò Nicola. Sembrava spossato e disperato. Non potevo esserne sicuro, ma assieme al sudore, dagli occhi parevano colare lacrime. «So che sembra assurdo. Ma ho passato tutta la mattina qui e sentivo questi suoni... ogni tanto. Ho pensato di essere pazzo. Ma adesso so che lo sentite anche voi, e sono sicuro che non potrebbe essere nient’altro. Samuele sta cercando di parlarmi». Rise e singhiozzò insieme, poi si passò un braccio sugli occhi. «Aiutatemi a decifrare il suo messaggio. Vi prego».
    Io e Marco ci guardammo. Il mondo smise di girarmi intorno, e all’improvviso mi sentivo solo stanco. Stanco e terribilmente convinto. Allora decidemmo, scambiandoci un cenno.

    #4

    Mettemmo su in pochi minuti un piano.
    Io avrei ascoltato il suono e riferito a Nicola. Lui avrebbe decifrato la combinazione su un foglio che aveva portato con sé. A Marco, invece, sarebbe toccato segnare le lettere sulla terra. Era un ruolo quasi inutile, ma non volevamo escludere nessuno, e Marco era quello che ne sapeva di meno di codice Morse.
    «Non metterti sui binari» mi suggerì Marco, spostandosi su un lato. «Mettiti qui, a lato. Si sente meglio. Credo… credo provenga da qui giù».
    Mi chinai nel punto che mi aveva indicato e accostai l’orecchio al suolo.
    «Stai attento a distinguere il colpo con le nocche da quello con il palmo. Quello con le nocche è secco, l’altro rimbomba di più».
    Per qualche minuto non sentii niente. Il sole si stava abbassando, ma l’aria era ancora insopportabile, e in quella posizione il sudore mi entrava nelle orecchie. Mi sembrava di avere un mare che galleggiava nel cervello.
    «Allora? Non senti niente?» chiese Nicola, la voce nervosa.
    Feci di no con il dito: non volevo spostarmi. Il suono poteva arrivare da un momento all’altro.
    E fu così. Tre tocchi secchi in serie mi esplosero nell’orecchio. «Tre punti!» esclamai.
    Nicola fece frusciare il suo foglio. «Tre punti… esse. Segna, Marco».
    Qualche secondo di silenzio. Poi un altro colpo secco e, dopo un attimo, un altro più cupo. «Un punto e un trattino».
    «Lettera a» fece subito Nicola. La sua voce tremava.
    Poi un colpo deciso, uno ovattato, altri due decisi. «Punto, trattino, punto punto».
    «Elle».
    Sorrisi, la testa nella terra, e un po’ di polvere mi entrò in bocca e nel naso. Mi fece prurito alla gola, ma continuai ad ascoltare. «Punto punto punto e trattino».
    «La vi».
    «Punto e trattino. Di nuovo la a» dissi io. Il prurito, adesso, era diventato uno sfregamento violento alla base della gola.
    Mi feci ancora più vicino alla sorgente del suono. Terra secca si appiccicava alla mia guancia bagnata. Il cuore galoppava nel petto, potevo sentire i meccanismi del mio cervello ruotare e cigolare. Ci fu un colpo sordo, rimbombante, e poi…
    E poi lo sfregamento si fece insopportabile e mi ritrovai a cacciare fuori la terra che si era infiltrata nel naso e in bocca. L’accesso di tosse durò qualche secondo, giusto in tempo per udire l’ultima combinazione. Due colpi secchi, questa volta. Questa la ricordavo: era la i.
    Nicola si era chinato su di me e mi scuoteva per le spalle. «Allora? Hai sentito altro?» Urlava, ai lati del collo spiccavano i tendini tesi.
    Io mi scrollai la terra dal viso e sfregai le mani per togliere quello che ne era rimasto appiccicato. «L’ultima era la i. Due puntini. La penultima…» Avevo sentito un suolo suono cupo, prima che il bruciore mi scoppiasse in gola. Ma non potevo essere sicuro che ci fosse stato solo quello, perché il suono della mia tosse avrebbe coperto quello proveniente dal terreno.
    «Due colpi profondi, vero?» La sua voce ora era al massimo dell’eccitazione e gli occhi scintillavano. Non erano più quelle biglie trasparenti di prima, no.
    Sì, era probabile, decisi. Non mi era parso di avvertire l’inizio di un nuovo suono rimbombante, appena prima dell’accesso di tosse? Mi pareva di sì. Non potevo esserne sicuro, ma… «Sì, due colpi profondi».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Nella concentrazione che avevo messo nell’ascolto, e poi per l’attacco di tosse, avevo dimenticato la sequenza di lettere.
    «La parola allora è...» disse Marco, scavando le ultime due lettere nella terra.
    Fu Nicola a mormorarlo. «Salvami».

    #5

    «Che si fa adesso?» chiesi dopo diversi secondi di silenzio. Mi sembrava di avere un oceano di sangue nel cranio, e quel sangue velava e confondeva ogni mio pensiero. La voce mi venne fuori esile e nessuno mi udì.
    Marco passeggiava in cerchio intorno al punto dove mi trovavo io, le spalle ciondolanti. Scalciava, sollevava manciate di terra, stringeva e apriva le mani. Biascicava qualcosa tra sé, ma riuscii a udire solo qualche parola atona. «Salvami salvami da che».
    «Allora? Che facciamo adesso?» ripetei. Avevo la voce acuta di un bambino spaventato, e, be’… adesso penso che lo fossi. Ma trent’anni fa quella voce mi parve ridicola, e mi schiarii la gola, tentando di darmi un contegno.
    Ancora nessuna risposta.
    Nicola, accucciato sui polpacci, aveva portato le mani agli occhi e ne stava massaggiando la parte inferiore, muovendo piano i polpastrelli. Respirava a fondo; un respiro irregolare e asmatico. I gomiti sembravano lance appuntite a bucare la pelle.
    Durò per qualche minuto. Il mondo sembrava assorto nello stesso monotono ritornello: Marco che camminava e scuoteva la testa e mormorava parole insensate, Nicola che si massaggiava gli occhi, come a volersi schiarire i pensieri. Io ripetei ancora due volte la stessa domanda, ma con voce sempre più flebile.
    Poi Nicola si alzò, barcollando sulle gambe secche. Alla destra dei binari, camminando verso la cascata, c’erano dei rovi secchi e folti. Fu verso quelli che Nicola cominciò a camminare. Aggirò gli arbusti e sparì dal nostro sguardo; quando vi ritornò, dopo qualche secondo, trasportava con entrambe le mani un borsone nero. Aveva la bocca contratta in un’espressione di sforzo. Lo lasciò cadere di fronte a noi, e dall’interno provenne un cozzare metallico.
    «Ch-che roba è?» chiese Marco. Si era allontanato di un passo dal borsone.
    Nicola si chinò e fece scorrere la cerniera. «Samuele è là sotto».
    Marco scosse il capo. «No… Non lo so, non lo so, cavolo. Che c’è lì dentro?»
    «Ecco» disse Nicola mentre si tirava su. Teneva in mano una pala. «Scaviamo».
    «Cosa?» chiesi io. Quasi lo urlai: ero già inquietato, e l’idea di scavare per andare alla ricerca di un morto… di qualcosa che chiedeva aiuto, là sotto, mi terrorizzava.
    «Cosa pensate di fare? Ci sta chiedendo aiuto!»
    «Sì, ma... Nicola, pensaci, potrebbe essere altro. Forse ci stiamo sbagliando» disse Marco. Aveva fatto un altro passo indietro.
    «Cosa?»
    «Non lo so. Ma, anche se fosse vero, perché dobbiamo farlo noi? Possiamo chiamare la polizia». Prese un respiro e sussurrò: «Non è per niente rassicurante».
    «E secondo te non ci ho pensato? E cosa gli diciamo? C’è mio fratello che cerca di parlarmi. È sepolto sotto terra e mi chiede aiuto. Davvero?» Nicola guardava Marco con aria torva, il naso arricciato e gli occhi come fessure.
    «E poi potrebbe essere troppo tardi…» mormorai io.
    «Come?» dissero Nicola e Marco, in coro.
    «Ho detto che potrebbe essere troppo tardi. Se Samuele fosse allo stremo…»
    «Tu ci credi?» mi chiese Marco, con gli occhi strabuzzati.
    Io scrollai le spalle. «Cos’altro potrebbe…» Mi bloccai. Un brivido mi attraversò dalla nuca alle ginocchia. All’improvviso, mi ero reso conto che non volevo immaginare cosa altro potesse essere.
    Il sole stava cominciando a scendere. Non avevamo orologi ai polsi – roba da grandi, all’epoca – ma dalle ombre che, lentamente, cominciavano a strisciarci attorno, potevo desumere che fossero circa le sei. Più o meno. Avevamo due ore abbondanti prima del tramonto.
    «Facciamolo» dissi io. Pensavo che avevamo l’occasione per salvare una vita. Saremmo diventati eroi.
    Nicola mi fece un sorriso largo. Questa volta, anche i suoi occhi sorrisero e si illuminarono, e l’effetto non era più sinistro. Solo d’incommensurabile, tenera felicità.
    «Non ha senso…» sussurrò Marco. Si passò una mano tra capelli, li scompigliò, chiuse per un attimo gli occhi.
    «Devi aiutarci, Marco» disse Nicola. «Ci sono due pale. Le ho portate qui stamattina. Potemmo alternarci… uno riposa e gli altri due scavano, sapete, e poi si fa il cambio».
    Marco sospirò. «Va bene. Ma fino al tramonto. Poi io vado, e se volete continuiamo domani». Scosse la testa, come per scacciare qualche ultimo dubbio.
    Sulla bocca di Nicola si allargò lo stesso sorriso. «Grande!»
    Facemmo la conta per chi doveva iniziare a scavare. Nicola disse che lui non si sarebbe fermato in nessun caso, e che quindi solo noi ci saremmo alternati. Venne fuori che io dovevo scavare per primo.
    E ci mettemmo all’opera.
    Per Dio, cominciammo a scavare.

    Edited by RàpsøÐy - 20/12/2017, 16:22
  5. .
    CITAZIONE (Barachiel @ 17/9/2017, 21:17) 
    Cioè stiamo parlando di stupro ed è andata all' ospedale con dei danni, non esiste lo stato menefreghista in quel caso, sei tu che guardi troppa TV, ma non credi di star giustificando troppo questa donna ? Ti faccio un esempio un po' OT, l altro serial killer che veniva preso per culo dall' infanzia e accoppava i bambini che gli facevano scherzi poiché non ce la faceva più, giustificheresti anche lui ? Come scritto nell articolo lo hanno internato dopo 20 anni di carcere a causa della pressione del popolo, un trattamento ingiusto oltre che illegale, e credo che anche tu non ci penseresti due volte a condannarlo; eppure è esattamente lo stesso discorso di questa donna. Se ti senti di giustificare anche quell'uomo, allora amen abbiamo visioni della giustizia diverse, ma se giustifichi lei e non lui ricadi nell'ipocrisia del femminismo moderno come ho detto sopra

    Non si tratta di "ipocrisia del femminismo moderno".
    In Italia, nel 1995, lo stupro era ancora ritenuto un reato contro la morale, non contro la persona. Nemmeno dieci anni prima si sarebbe potuto ricorrere al matrimonio riparatore, solo un anno dopo lo stupro sarebbe diventato reato contro la persona. E certe cose faticano a entrare nella testa della gente cresciuta con una certa mentalità, tanto che ancora oggi leggiamo commenti di cinquantenni che "se l'è cercata, la prossima volta non si veste così attillata e in minigonna". Oggi, eh, 2017. Lì stiamo parlando del 1995.
    Poi, certo, uccidere è sbagliato. Ma io lo dico seduto sul divano, distante con la testa da ciò che è accaduto a quella ragazza. Diverso è vivere quella situazione, ritrovarsi le mani di un vecchio che ti frugano ovunque e sentirsi dire "se ti pago devi lasciarti scopare". In quel caso prima penso a difendermi, poi considero se rivolgermi allo stato o meno.
  6. .
    CITAZIONE (kimotori @ 25/10/2017, 17:00) 
    scusa l' ignoranza, ma Stanger Things? gore gore significa?

    É una serie tv di Steven Spielberg. É dei nostri giorni, ma ha l'ambientazione degli anni 80. Un gruppo di ragazzini avventurosi, vanno alla ricerca di un loro amico "misteriosamente" scomparso. Non ti voglio anticipare niente.
    1 - Perché ha una lunga trama e complessa.
    2 - C'é dell' altro ed é piena di sorprese.
    Se ti piace il regista o il "genere" te la consiglio.
    Uno dei ragazzini del gruppo recita la parte del fratello di Georgy in IT.
  7. .
    Un ragazzo, con corti capelli neri e occhi azzurri, vestito con una maglietta dalle maniche corte e jeans anch'essi corti- dopotutto era estate, e faceva davvero caldo- stava camminando per la strada. Il suo nome era Mark. Si stava dirigendo verso il parco dietro casa, per incontrarsi con una sua amica; dopotutto, non aveva nulla di meglio da fare. Era il 15 Agosto, alle ore 9:00 del mattino.
    Arrivò al parco. Lei, ovviamente, era già là, seduta su una panca. Accarezzava un gatto- il suo gatto, lo stesso a cui era tanto affezionata, da cui faceva fatica a separarsi anche solo per andare a scuola- ma non appena vide Mark, lo salutò.
    Lei, che di nome faceva Jane, era un po' più bassa di Mark, e aveva capelli biondi che arrivavano circa fino alle sue spalle. I suoi occhi erano azzurri, un azzurro leggero, quasi come il colore del cielo sopra di loro, scoperto e del tutto esente da nuvole, in quella afosa estate.
    Mark si sedette di fianco a lei, e i due iniziarono a parlare del più e del meno- di quanto caldo facesse, di cosa avrebbero fatto e avevano fatto durante le vacanze estive, di come Jane preferisse l'inverno, che almeno era fresco- ed andarono avanti a parlare per un bel po'.

    Ma, improvvisamente- forse attirato da qualcosa visto in lontananza, forse spaventato dal rumore di un'auto appena passata- il gatto di Jane sfuggì dalle sue mani e corse verso la strada. D'istinto, senza nemmeno pensarci, la ragazza si alzò per rincorrerlo, senza nemmeno prestare attenzione a ciò che c'era intorno a lei. Dopotutto, cosa mai sarebbe potuto accadere?
    La risposta arrivò, molto semplicemente, sotto forma di un camion- uno apparentemente guidato da un camionista distratto- che non riuscì a vedere la ragazza in tempo, e dunque a frenare.
    Mark era rimasto lì, inerte. Avrebbe voluto muoversi, vedendo il camion, ma il suo corpo non aveva risposto in tempo.
    Avrebbe voluto urlare vedendo il sangue volare per aria, vendendolo spargersi per la strada, formare una pozza sotto il corpo della ragazza, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un rantolo.
    Tutto stava divenendo sfocato. Non riusciva più nemmeno a respirare. Cadde per terra- o meglio, si sentì cadere- e perse conoscenza.

    Quando aprì gli occhi, si ritrovò in un letto- il suo letto nella sua camera- madido di sudore. Si guardò intorno lentamente: era notte fonda, e guardando il suo telefono, lasciato in carica di fianco al suo letto, scoprì fossero le 3:00 del mattino del 15 Agosto. Tra sé e sé, tirò un sospiro di sollievo. Non era stato altro che un incubo. Ma che incubo realistico! Scosse le spalle, e tornò a dormire. Aveva, dopotutto, appuntamento con la sua amica Jane il mattino dopo.
    Il sonno passò senza altri incubi o sogni degni di nota, e arrivò il momento in cui i due dovevano incontrarsi.
    Jane propose di andare al parco dietro casa; Mark, che seppur non fosse molto superstizioso preferiva non rischiare, obiettò, e propose invece di dirigersi verso il laghetto, di fianco al cantiere dove si stava lavorando per costruire il nuovo centro commerciale.
    Camminarono per un po', parlando del più e del meno. Ma ad un tratto, a causa probabilmente di un operaio sbadato che non vedeva l'ora di andare in pausa pranzo e riposarsi- giustamente, tra l'altro, dato il caldo atroce che faceva- una trave di acciaio cadde dalla gru che la stava sollevando per portarla a svolgere il suo ruolo di sostegno del tetto.

    Sotto di essa, ovviamente, c'era la povera Jane, che ebbe appena il tempo di guardare in su, prima di essere trafitta da parte a parte dal pesante acciaio. Non fece in tempo nemmeno ad urlare.
    Mark avrebbe voluto gridare un avvertimento, ma non ne aveva avuto il tempo.
    Avrebbe voluto correre e spingerla via dalla traiettoria del palo di ferro, ma non riuscì a muoversi abbastanza in fretta.
    Il sangue di Jane, insieme a frammenti delle sue cervella e dei suoi organi, era volato dappertutto, e tutto sembrava essersi fermato, in un attonito silenzio.
    Mark urlò. Si sentiva male, si sentiva salire il vomito, e le sue gambe, le sentiva deboli, incapaci di sorreggerlo- e difatti cadde a terra, perdendo i sensi.

    Quando aprì gli occhi, si ritrovò in un letto- il suo letto nella sua camera- madido di sudore. Guardò il telefono. Le 23:15 del 14 Agosto.
    Un altro incubo? Era possibile? Aveva quindi sognato di svegliarsi? Scosse le spalle. Era l'unica spiegazione logica. Dopotutto, il tempo non funzionava in quel modo. Il tempo andava avanti. Non poteva saltare in qua e in la. Era la fisica a dirlo, no?
    Rincuorato dunque da questi pensieri, tornò a dormire. La mattina dopo voleva chiamare la sua amica Jane, era da tanto che non si vedevano. Chissà se avrebbe portato con sé il suo gatto?
    Come scoprì il giorno dopo, si. Lo aveva portato con sé. Quella volta, andarono, sempre su suggerimento di Mark, a fare una gita in barca sul laghetto. Lontano dalle strade, e lontano da cantieri. Cosa poteva succedere?

    Era molto rilassante, stare in barca così. Mark e Jane, sdraiati, su una barchetta a remi che il gestore del parco contenente il lago noleggiava, lasciandosi trasportare dalle onde, con il gatto che zampettava in giro, cercando di sfuggire all’acqua attorno a quel legno che docilmente vagava.
    Ad un tratto però, mentre passavano sotto ad una zona alberata, che avrebbe avuto la funzione di ripararli dal sole, si sentì un rumore forte, come un qualcosa che si spezzava bruscamente, seguito dallo staccarsi dall’albero di un ramo, che cadde nell’acqua.
    Spaventati, i due remarono via in fretta, ma il gatto di Jane, spaventato dall’acqua, le balzò addosso, facendola sbilanciare e cadere in acqua.
    Ciò non sarebbe stato un problema- le bastava risalire a bordo, no?
    Ma mentre lo faceva, si sentì di nuovo quel rumore.
    Di nuovo, un ramo cadde.
    L’acqua formò delle onde, colpita da un oggetto avente una certa velocità.
    Ma questa volta, le onde non avevano più quel colore blu cristallino che di solito si associa con esse, ma rosse; e Jane, ancora con le mani e metà del busto issato sulla barca su cui stava risalendo, era ferma il volto contratto in una smorfia di sforzo, con, nella schiena, il ramo che l’aveva colpita, che l'aveva trafitta, impalandola e uccidendola sul colpo.
    Mark urlò. Come già due volte prima di questa perse i sensi.

    E come già due volte prima di questa, quando aprì gli occhi, si ritrovò in un letto- il suo letto nella sua camera- madido di sudore.
    Guardò il telefono. Era l’una e 35 di notte del 15 Agosto. Questo non era un incubo. Ne era certo. C'era qualcosa di più sinistro sotto. Cosa, non lo sapeva né tantomeno voleva saperlo. Ma a quanto pareva, c'entrava il vedersi con Jane. Bene, avrebbe posto rimedio anche a quello.
    Prese il telefono, e mandò un messaggio alla ragazza, dicendo che si era sentito male durante la notte e dunque il giorno dopo non sarebbe potuto uscire.
    Dunque, si rimise a dormire.

    Quando si svegliò, alle 7:43 del 15 Agosto, si sentiva tranquillo. Non sarebbe successo nulla, quella volta, no? Con un sorriso, guardò il suo smartphone.
    E come un fulmine a ciel sereno, squarciando la quiete e significando una imminente disgrazia, vide un messaggio di Jane, in cui la ragazza gli diceva di non preoccuparsi, ma che dato che comunque aveva saputo di dover andare a fare dei giri, sarebbe passata di lì.
    Normalmente, un messaggio come quello avrebbe fatto piacere a Mark, ma in quel momento, tutto ciò a cui poteva pensare era la catastrofe imminente, catastrofe di cui non aveva alcuna prova, ma che si sentiva era imminente e impossibile da evitare. Il messaggio era di pochi minuti prima che si svegliasse, e una rapida occhiata al suo telefonino gli rivelò fossero passati già dieci minuti.
    Prese il telefono di fretta, e già stava per comporre il numero, quando lo sguardo si soffermò sulla finestra nella sua camera, quella dall'altra parte rispetto al letto, e su ciò che vedeva al di fuori di questa.

    E ciò che vedeva era la strada di fronte a casa sua, un vialetto alberato, dove ovviamente c'era anche la ragazza. Se non altro, non vedeva macchine o altre possibili fonti di incidenti. Ma non riusciva ancora a tranquillizzarsi. Qualcosa, non sapeva cosa, qualcosa continuava a minacciarlo, lo sapeva, lo sentiva. Un imprevisto improvviso e terribile.
    Ma la ragazza camminava tranquilla, avanzando tranquillamente tra gli alberi. Sembrava in pace, sotto il sole, nell’afoso caldo d'agosto che faceva sudare il ragazzo che osservava dalla finestra.
    Eppure la ragazza era ancora del tutto incolume, uscendo dall'alberato vialetto. Ormai era sotto casa sua, sotto al condominio in cui viveva.
    Nel cuore di Mark stava quasi nascendo una tenue speranza, che tutto fosse andato bene, che non fosse successo nulla, che quell’incubo fosse finalmente finito.

    Avrebbe dovuto sapere che non era possibile.
    Improvvisamente, si sentì da un piano sopra Mark un rumore sordo, come un urto, seguito da una imprecazione esclamata a volumi decisamente alti.
    E l'istante dopo, Jane era stesa a terra, un vaso contenente una pianta attorno a lei, il terriccio marroncino iniziando già ad assorbire il sangue che usciva copiosamente dalla sua testa, della ragazza che, senza dubbio, non aveva avuto alcuna possibilità di sopravvivere.
    Mark si sentì venire su un conato di vomito. Le sue gambe, come aveva previso, si stavano indebolendo. Cercò di mantenere la presa sulla sua coscienza che stava lentamente fuggendo, ma come una bestia che cerchi di agguantare, ma si dimena fino a scappare, essa fuggì e Mark svenne.

    Quando aprì gli occhi, si ritrovò in un letto- il suo letto nella sua camera- madido di sudore, per ormai la quarta volta. Guardò il telefono. Le 5:12, 15 Agosto.
    Anche quella volta aveva fallito.
    Ma non aveva intenzione di lasciare che tutto ciò continuasse.
    Basta.
    Se doveva essere condannato ad un’eternità di tutto ciò, allora…! Allora, ciò che andava fatto era nella sua mente chiaro, chiaro come la luce del giorno, come la luce che il sole, alto nel cielo, mandava, che illuminava quella calda giornata.
    Anche quel giorno- “anche” per modo di dire, era alla fine sempre lo stesso giorno- si sarebbe visto con la sua amica Jane.
    Si preparò, con calma- non sarebbe arrivata se non fra un paio d’ore, e aspettò, ingannando il tempo con qualche giochino per cellulare.
    L’appuntamento era al parco, ed egli vi si recò, trovando Jane già seduta su una panca da qualche minuto. Le sorrise, salutandola. Lei ricambiò il saluto, accarezzando il gatto che teneva in grembo.
    Si sedette di fianco a lei, e per qualche minuto parlarono. Eppure, c’era qualcosa di strano. Mark sembrava stare aspettando qualcosa. Jane ignorò quel pensiero. Era probabilmente la sua immaginazione.
    E d’improvviso, il suo gatto saltò via dal suo grembo, allertato da chissà quale stimolo, e corse verso la strada trafficata, dove le macchine sfrecciavano senza sosta.
    Jane non fece nemmeno in tempo ad alzarsi che Mark era già in piedi- e dopo un gesto che voleva significare “Non preoccuparti, ci penso io”, stava già correndo alla rincorsa del gatto.

    Tutto ciò che seguì, Jane lo vide come al rallentatore. Mark che camminava, stando attento alle auto attorno a lui. Il gatto che ancora correva, per motivi che solo egli conosceva. Il camionista distratto, che non vide Mark.
    E la testa di Mark che di netto si staccò dal suo corpo che cadde a terra quasi senza rumore, testa che vomitava sangue, testa sulla quale si era disegnata una smorfia che sembrava un sorriso, un sorriso sporco di sangue, un sorriso di libertà.
    Jane non resse quello spettacolo. Le sue gambe si indebolirono, e svenne.



    Quando aprì gli occhi, si ritrovò nella sua camera, madida di sudore. Il suo gatto le era in grembo, tranquillo come sempre. Guardò il suo telefono. Erano le 4:45 del 15 Agosto.
    Mentre accarezzava il suo gatto, Jane mormorò un’imprecazione.
    Anche quella volta, aveva fallito.

    Ispirato da: X


    Edited by DamaXion - 20/10/2017, 15:58
  8. .
    "Figliolo, devo parlarti a proposito d'internet"

    Questo è ciò che dissi a mio figlio un giorno che stava sul suo computer. Stava giocando a Minecraft, su un server pubblico. Era assorbito nel gioco, fissando lo schermo. Si potevano vedere le conversazioni scorrere sulla finestra di chat.

    "Figliolo, puoi smettere di giocare per qualche minuto?"


    Per una volta, accettò di lasciare il gioco e spegnere il computer. Mi chiese se gli avessi ancora raccontato una delle mie "storie banali". Finsi di avere il cuore spezzato facendogli capire che di solito avesse l'aria che gli piacessero le mie storie banali.
    Era cresciuto ascoltando le mie storie che parlavano di bambini che incontravano streghe, fantasmi, lupi mannari, troll... Come molti genitori, usavo queste storie per insegnargli, in qualche modo, la prudenza. Padri single come me hanno bisogno di utilizzare tutti gli strumenti a propria disposizione per l'educazione dei propri figli.

    Mi disse gentilmente che a sei anni amava le mie storie, ma ora che era cresciuto, non ne aveva più paura e le trovava anche un po' stupide. Aggiunse che era comunque disposto ad ascoltare ogni cosa riguardo internet, ma solo se lo avessi reso spaventosa la storia .

    Ero un po' titubante, ma mi ricordò che aveva 10 anni e lui non era un fifone, così dissi che ci avrei provato.

    Scendemmo in salotto e iniziai il racconto.

    "C'era una volta, un bambino di nome Colby..."

    Si poteva vedere la delusione sul suo volto. Sembrava dire "Un'altra storia per bambini."


    "Colby si era collegato a internet e aveva navigato su diversi siti per bambini. Dopo un po' aveva iniziato a parlare con altri bambini attraverso dei giochi online, o su dei forum. Era divenuto amico di un altro ragazzo di 10 anni, soprannominato Helper23. Amavano gli stessi videogiochi e le stesse serie tv. Ridevano alle battute l'uno dell'altro. Scoprirono nuovi giochi insieme.

    Dopo diversi mesi di amicizia, Colby gli aveva regalato 6 diamanti nel gioco in cui stavano giocando in quel periodo. Era un regalo molto generoso. Il compleanno di Colby si stava avvicinando, Helper23 voleva fargli un bel regalo e consegnarglielo nella vita reale. Colby pensò che non fosse un problema se avesse dato il proprio indirizzo all'amico a condizione che avesse promesso di non dirlo ad estranei, o adulti. Helper23 giurò di non dirlo a nessuno, nemmeno ai suoi genitori e spedì il pacchetto."

    Interruppi il racconto per domandare a mio figlio cosa ne pensava, se per lui era stata buona idea che il bambino avesse dato il proprio indirizzo a Helper23. Rispose di no. A suo malgrado era finito per farsi trasportare dalla storia.


    "Beh, nemmeno Colby trovò buona la propria idea . Si sentiva in colpa per aver dato il suo indirizzo, il suo senso di colpa non fece che aumentare, sempre di più. Quando indossò il pigiama la sera successiva, il suo senso di colpa e la sua paura erano tali che non aveva mai provato nulla di simile prima. Si era convinto a dire la verità ai suoi genitori. La punizione sarebbe stata pesante, ma almeno avrebbe avuto la coscienza a posto. Si infilò nel letto, in attesa che i genitori andassero ad augurargli la buona notte."


    Mio figlio comprese che la parte spaventosa stesse per arrivare. Nonostante quello che aveva detto prima, era ancora un po' ansioso e si aggrappò al mio braccio.

    "Colby sentiva i soliti rumori in casa sua. Lavatrice nella stanza accanto, i rami degli alberi che colpivano la finestra, il suo fratellino che dormiva nella stanza accanto. E altri rumori... che non riusciva ad identificare. Alla fine sentì i passi di suo padre che si avvicinavano alla porta della sua stanza.


    "Papà?" Chiese nervosamente. "Ho qualcosa da dirti."


    Il padre infilò la testa attraverso porta, ma l'angolo con cui lo fece era strano. Nell'ombra, sembrava che la sua bocca non si muovesse e che i suoi occhi non fossero come al solito.


    "Sì, figliolo?"


    Neanche la sua voce era normale.

    "Va tutto bene, papà?" chiese Colby.


    "Sì, sì", rispose il padre, sempre con voce strana. Colby si strinse nelle coperte, preoccupato.


    "Uhm... c'è mamma?"


    "Eccomi!" La testa di sua madre emerse sotto quella del padre. La sua voce era strana, forzata.
    "Stavi per dire che hai dato il nostro indirizzo di Helper23? Non avresti dovuto farlo! Ti abbiamo sempre detto di non rivelare i dati personali su internet!"

    Continuò.

    "Non era un bambino! Ha solo fatto finta di esserlo. Sai cosa ha fatto? È venuto da noi, è entrato in casa, ci ha ucciso! Solo per avere un po' di tempo con te!"

    Un uomo emerse da dietro la porta della sua stanza, tenendo in mano le due teste mozzate. Colby urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre l'uomo lasciava cadere le teste sul pavimento, sguainando un grosso coltello. Entrò nella stanza e si diresse verso il piccolo."

    Mio figlio urlò. Si stava coprendo gli occhi con le mani. Ma la storia era solo all'inizio.

    "Dopo diverse ore, il bambino era quasi morto, le sue urla si erano trasformate in lacrime. L'assassino notò il pianto di un neonato provenire dalla stanza accanto. Fu come un dono per l'uomo, che non aveva mai ucciso un neonato, era entusiasta all'idea. Helper23 ritirò dal ventre di Colby il coltello lasciandolo agonizzante, prima di seguire il pianto per la casa, come il richiamo di una sirena.

    Nella stanza del neonato, si avvicinò alla carrozzina e prese il piccolo tra le braccia. Si diresse verso la luce per vedere meglio. Mentre lo teneva tra le braccia, il pianto del bimbo cessò. Sorrise. Helper23 non aveva mai tenuto un bambino in braccio, ma lo cullò come se lo avesse fatto per tutta la vita. Si asciugò le mani insanguinate su una coperta, così da poter accarezzare la guancia neonato.
    "Ehi, cucù!"

    Il bagliore di sadismo nei suoi occhi si spense, lasciando posto ad uno sguardo dolce e caldo. Uscì dalla stanza, aveva deciso di chiamarlo William e di portarselo a casa per crescerlo come figlio suo."

    Quando terminai di raccontare la storia, mio figlio era visibilmente turbato. Stava ansimando, balbettò: "Ma papà... anch'io mi chiamo William!".

    Gli feci un occhiolino d'intesa, mentre gli accarezzavo i capelli.

    "Lo so, figlio."

    William ritornò nella sua stanza di corsa, piangendo tutte le lacrime che aveva in corpo.
    Ma in fondo... Credo che gli sia piaciuta la storia.



    Edited by InKubus - 11/11/2016, 11:52
  9. .
    Immagino già di vedere sto bambino compagno di corso all'università di medicina, chi sa cosa accadrebbe ?
  10. .
    Sara odiava tutti gli insetti, ma in particolar modo le zanzare. Non le dava fastidio il prurito della puntura, ma sentir ronzare vicino al proprio orecchio quei mostriciattoli mentre cercava di dormire non le era sopportabile. Avrebbe voluto mettere uno scaccia-zanzare elettronico in camera, ma quell'hippie della sua coinquilina glielo aveva impedito. "Il sangue degli umani le serve per nutrire le uova" - diceva quella stupida animalista - "non possiamo uccidere una futura mamma".
    Sara odiava la sua coinquilina tanto quanto le zanzare.
    Accadde che, quella notte d'estate, Sara era da sola in casa, la sua coinquilina aveva finito di frequentare i corsi universitari di quel semestre ed era partita.
    Sara era seduta sul letto a ripetere velocemente ciò che aveva studiato per l'esame del giorno dopo. Prese il cellulare e controllò l'ora, era mezzanotte, decise di prepararsi per andare a letto.
    Andò in bagno e, mentre si lavava i denti, sentì la porta d'ingresso aprirsi.
    "E' tornata la figlia dei fiori" - pensò. Andò a controllare, la porta era chiusa e non vide nessuno. Perlustrò tutte le stanze, ma non trovò nessuno.
    Ritornò in camera da letto chiedendosi se avesse sentito male. Si lanciò sul letto e fissò il soffitto.
    In quel momento la vide.
    Una zanzara.
    Una maledetta zanzara.
    Lentamente prese il libro dell'esame e si mise in piedi sul letto, cercò di colpire la zanzara ma questa scappò via. Sara la perse di vista.
    Decise che era troppo stanca per iniziare una caccia alla zanzara. Chiuse la porta della camera, aprì la finestra, spense la luce e si rimise a letto.
    Chiuse gli occhi e ripeté nella mente il discorso che si era preparata nel caso di una domanda a piacere all'esame.
    I suoi pensieri vennero interrotti da un ronzio. Un ronzio fastidioso, potente, che la fece sobbalzare. Accese la lampadina, ma non vide la zanzara. Spense la luce.
    Nonostante il caldo, Sara decise d'immergersi completamente nelle coperte. La zanzara non si sarebbe avvicinata.
    Stava per prendere finalmente sonno quando sentì degli strani rumori provenienti dalla porta della camera. Sembrava come se qualcuno stesse cercando di entrare.
    Sara cominciò a tremare, rimase sotto le coperte finché il rumore non cessò.
    Con un coraggio che sorprese anche lei, Sara accese la luce e andò ad aprire la porta.
    Non vi era nessuno, si affacciò, controllò a sinistra e a destra, ma non c'era nessuno.
    Chiuse la porta e tornò al letto, pensò che lo stress pre-esame la stesse facendo impazzire.
    Spense la luce.
    Di nuovo il ronzio.
    Accese la lampadina, non vide nessuno, la spense.
    Il ronzio si fece più forte.
    Sara si nascose di nuovo sotto le coperte, ma fu inutile.
    Sentì ancora il ronzio. Ancora più forte.
    Cacciò un urlo, alzò di scatto le coperte e accese la luce della lampada.
    Non vide alcuna zanzara, ma vide qualcosa che la spaventò ancora di più.
    Il pomello della porta che si muoveva.
    Sara rimase come paralizzata a guardare la porta che lentamente si apriva.
    D'istinto spense la luce della lampada e si rimise sotto le coperte.
    Sentì dei passi avvicinarsi al letto.
    Cominciò a piangere, ad urlare.
    Sentì che qualcuno si era seduto ai piedi del letto.
    Sentì qualcosa attraversare le coperte e sentì un dolore atroce alla gamba.
    Alzò con fatica le coperte e con le mani che le tremavano cercò di accendere la luce della lampada.
    La sua gamba era intatta, vi era solo uno strano punto nero, si avvicinò per vedere meglio cosa fosse.
    Una zanzara, una minuscola zanzara l'aveva appena punta.
    Sara cercò di schiacciarla con la mano, ma l'insetto volò via. Si asciugò le lacrime e tornò a sdraiarsi. Lasciò la luce accesa, ma non riuscì a prendere sonno. Fissò il soffitto e pensò a quello che aveva sognato. I passi, il ronzio, la porta che si apriva.
    La porta. Sara trasalì.
    La porta era aperta. Chi l'aveva aperta?
    Sentì di nuovo un dolore atroce alla gamba. La osservò.
    Vide del sangue colare giù dal letto e con orrore si accorse che proveniva dalla sua gamba.
    Cacciò un urlo, cercò di alzarsi ma non ci riuscì, il dolore era troppo forte.
    Cercò per la stanza il cellulare e il suo sguardo incontrò quella di una donna.
    Era pallida in viso, gli occhi erano spalancati, le labbra erano sporche di sangue e con un gesto lento si accarezzava il pancione.
    Si avvicinò alla terrorizzata Sara e le sussurrò queste terribili parole all'orecchio:
    "I miei piccoli hanno ancora fame"

    Edited by Pasta Alla Creepy - 24/6/2016, 10:37
  11. .
    Immagino la mia mente come un grande locale notturno. Non come strip club o night club, piu un locale stile rock anni '60.
    Un'atmosfera gradevole. Un piccolo palcoscenico dove le band possono esibirsi. Al centro un grande spazio per ballare e ai bordi della sala, delle poltrone in pelle rossa a semicerchio con un tavolo di fronte.
    L'illuminazione classica di luci al neon e qualche lampada old style sparsa quà e là.
    Ci sono tante persone che conversano e bevono tranquillamente.
    Dietro le quinte però è tutto più movimentato. Persone che litigano e ubriachi che vomitano.
    C'è una netta differenza fra i due spazi, ma nessuno sembra rendersene conto.
  12. .
    CITAZIONE (EruRoraito @ 25/7/2012, 01:08) 
    non sarebbe in AC adesso.

    La Creepy può anche non piacerti, ma non puoi dire che non rispecchia tutti i canoni di una Creepypasta. Voi nuovi utenti siete tutti convinti che le creepypasta sono quelle lunghe in cui non si capisce una sega di quel che sta accadendo e che finiscono in uno splatter insensato o in un finale poetico con una parola chiave che viene utilizzata per tutto il racconto.
    Non può essere cosa più sbagliata. Una Creepypasta deve essere veloce, corta che fa crescere l'ansia sempre di più e soprattutto senza un finale alcuno che faccia capire come si concluda la vincenda, è proprio quello il trucco: il finale viene creato dalle nostre menti, che s'immaginano i peggiori scenari ed è questo che causa quel brivido che ci percorre lungo la schiena.

    Una creepypasta non va "sviluppata un poco più", ma tutto il contrario, la creepypasta deve essere un fottutissimo concentrato di paura in poche righe.
12 replies since 8/11/2016
.