Votes taken by Shira™

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    Non so se c'era già, ho usato la funzione "cerca" e non l'ho trovata, comunque è presa da qui: Xl


    Quando ti ricoverano in un ospedale ti mettono un braccialetto bianco con su scritto il tuo nome. Ma ci sono anche braccialetti di colori diversi, che simboleggiano altre cose. Ad esempio, i morti portano braccialetti rossi.

    C’era un chirurgo che lavorava nel turno di notte in un ospedale scolastico. Aveva appena concluso un’operazione, e stava scendendo al piano terra. Si fermò davanti all’ascensore, schiacciò il pulsante e le porte si aprirono. Dentro l’ascensore c’era solo una persona, una donna, con cui il medico scambiò due chiacchiere. Arrivati a destinazione, le porte si aprirono di nuovo, rivelando una figura femminile che si accingeva ad entrare nell’ascensore. Al che, il dottore chiuse le porte e mandò l’ascensore al piano più alto, impedendo all’altra ragazza di entrare. La donna chiese freddamente al chirurgo il motivo di tanta scortesia.

    “Quella era la donna che stavo operando. È morta durante l’intervento. Non ha visto il braccialetto rosso che portava?”
    Al che, la donna sorrise e mostrò il polso. “Simile a questo?”
  2. .
    “Vorrei tanto morire, non capisco perchè devo essere costretto a vivere questa fottuta vita”
    Con un sorriso finisci di scrivere la frase, per poi lasciare che diventi la tua firma msn. Nel giro di poco tempo tutti la vedranno, penseranno che qualcosa non va e saranno solerti nell'occuparsi di te. Potrai sentirti al centro dell'attenzione, importante...amato. Solo per questo lo fai, per questo scrivi certe frasi, ovunque. Su msn, su facebook, sul banco di scuola. E poi, anche quella stronza della tua ex le vedrà, sicuramente. Magari si sentirà in colpa, magari penserà che è colpa sua. Un sorriso si fa strada tra le tue labbra, mentre annuisci appena. Sì, probabilmente ti chiederà scusa, vorrà tornare con te...gliela farai pagare, dovrà supplicare, e lo farà solo perchè convinta di essere la causa di qualcosa che, in fondo, nemmeno esiste.

    Spegni il computer, per poi dirigerti a scuola, quasi allegro, chissà quanti compagni ti staranno vicino, ti riempiranno di attenzioni. Ti siedi, e subito tutti si avvicinano, si offrono di comprarti la merenda, di offrirti un caffè alla macchinetta nel corridoio, ti invitano a qualsiasi festa possibile, si offrono di accompagnarti, ovunque tu voglia andare. Scorgi la tua ex che fa capolino dalla porta dell'aula, ti sorride e con un rapido segnale delle dita ti fa capire che vi vedrete dopo, durante la ricreazione.
    Un nuovo sorriso sboccia sul tuo volto. Tutto sta andando secondo i piani, basta fingere di essere stanchi e subito tutti si premurano di farti sentire allegro e felice. Una pacchia!
    La porta dell'aula si apre di nuovo, questa volta per lasciar passare il professore. Ti alzi in piedi, salutando così il suo ingresso, e con la coda dell'occhio noti qualcosa di strano. Un essere nero si muove nel corridoio, in un angolo, vicino alla porta della tua aula. Una figura che considereresti simile a quella di un gatto, facendo uno sforzo per riportarla a qualcosa di tua conoscenza.
    Ti siedi insieme a tutti i tuoi compagni, quindi getti una nuova occhiata nel corridoio: la figura nera è sparita. Scuoti le spalle con noncuranza: un semplice effetto di luce. Solo fervida immaginazione.

    La lezione scorre tranquilla, mentre giocherelli con la matita, incurante di quello che sta dicendo il professore. Pensi solo al tuo nuovo gioco, il tuo nuovo passatempo: sentirsi amato da tutti. Decidi di rincarare la dose e con calma, tenendo ben salda la matita, scrivi sul banco “Vorrei tanto morire in questo momento”. Il tuo compagno di banco legge e ti sorride, posandoti una mano sul braccio; sorridi a tua volta, ma il sorriso ti muore in gola quando scorgi la cosa nera sulla cattedra. Ciò che ti inquieta maggiormente è che solo tu sembri farci caso, scorri lo sguardo sul viso dei compagni e del professore, ma nessuno sembra essersi accorto di nulla, neanche il tuo compagno, che ti guarda preoccupato.
    Focalizzi di nuovo gli occhi su quella specie di animale: due puntini rossi si accendono, i suoi occhi, probabilmente, sembrano due fanali abbaglianti, e ti senti mancare il respiro.
    Porti una mano alla gola, come se questo potesse aiutarti a respirare meglio, ma non funziona. Senti il cuore che manca dei battiti, mentre gli occhi di quello strano animale si fanno sempre più rossi, più ardenti. Sai che la tua fantasia può giocarti brutti scherzi, ma in quell'istante sei sicuro che lui ti abbia sorriso, un sorriso sornione e quasi malizioso. E' durato un istante ma ti è sembrato che il tempo si dilatasse all'infinito.

    Con un flebile gemito strozzato esali il tuo ultimo respiro...

    ...tra gli sguardi invidiosi di chi, in silenzio, vorrebbe morire davvero.

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    Benvenuta :tapir:
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    A me non sembra affatto scialba. Anzi, è carina!
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    CITAZIONE (Violent World @ 19/5/2012, 19:25) 
    io non mi sono mai sentito del tutto etero. Però non lo dico a nessuno nella vita fuori internatz (senza contare faceboobs)

    Abbè, idem.
    Io sono bisex, ma le persone che ho conosciuto fuori rete (ex compagni di classe, nuovi compagni di uni) non lo sanno. Forse solo perchè non mi fido completamente di nessuno di loro (ossia perchè per vie traverse potrebbero farlo sapere a persone che non devono saperlo :look:)
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    Veramente per "ragazzo serio" intendo solo uno che cominci una storia con l'intenzione di continuarla a tempo indeterminato, e non che parta con l'idea "vabbè, un mesetto e poi ne trovo un'altra" oppure "vabbè, mi metto con questa in attesa di trovare di meglio".
    E no, non se ne trovan tantissimi :lol:
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    CITAZIONE
    E se c'è una cosa che so è che molte ragazze, in un ragazzo cercano solo due cose: figoneria e un sacco di soldi pronti per essere spesi.

    Adesso non fare di tutta l'erba un fascio :lol:
    Ci sono ragazze così esattamente come ci sono ragazzi che se non hai le classiche misure 90-60-90 manco ti cagano :lol:
    Ma sono convinta che sia impossibile per una persona conoscere SOLO gente appartenete a una di queste due categorie. Soprattutto considerando che chiunque, grazie a internet, allarga di molto la cerchia delle amicizie.
  8. .
    Da ragazza posso dire che se una tipa preferisce uno stronzo a un ragazzo serio...ha dei problemi di tipo mentale
    Quindi non ne vale neanche la pena starle dietro
    Si intende che l'amore è cieco, ma a un certo punto il cervello dovrebbe dare il segnale d'allarme anti-stronzo :siga:

    tita: sembrerà strano, ma...scegli quella che ci sta :lol:

    Edited by ~Shira - 19/5/2012, 16:47
  9. .
    Altro racconto tratto dal libro "L'autobus del brivido"


    “Ehi, Kika, vieni anche tu?” gridò Jessica dall'angolo della via dove si era fermata a chiacchierare con altre due bambine e tre ragazzi.
    Kika, un po' distante da loro, era ferma sull'orlo del marciapiede, in attesa di poter attraversare. Scosse la testa in segno di diniego, e la sua lunga coda di cavallo le danzò a destra e a sinistra sulle spalle.
    “Devo andare in un posto” disse.
    “Non è che hai paura di noi?” gridò Erik, uno dei ragazzi, levando in aria un dito segnato da una lunga cicatrice bianca. Gli altri sogghignarono.
    “Erik non ti mangia mica!” gridò uno di loro, e tutti sogghignarono di nuovo.
    “Dai, Kika, vieni” tentò di nuovo Jessica, ma Kika era già scesa dal marciapiede. “Ho promesso a zia Dora di andare a trovarla” gridò.
    “Ma insomma” sospirò annoiata Jessica “chi te lo fa fare di andar sempre da quella vecchia? Con noi non vieni mai!”
    Senza rispondere, Kika proseguì verso l'incrocio. Non aveva la minima voglia della compagnia di Jessica e dei suoi amici. E soprattutto non si fidava di quell'Erik. La squadrava sempre da capo a piedi con un'aria così strana!
    “E' pericoloso andare da soli per quei vicoli deserti!” gridò Jessica, che ora sembrava un po' seccata.
    “Eppure, da quando Bastiaan è scomparso, a scuola ci hanno avvertito di stare il più possibile in gruppo!”.
    Bastiaan era un loro compagno misteriosamente scomparso da alcuni giorni. Nessuno aveva più saputo niente di lui, e a scuola si sussurrava di un ladro di bambini, o addirittura di un assassino. Alcuni ragazzi si divertivano a spaventare le bambine con storie truculente, ma Kika non li prendeva sul serio. Salì con decisione sul marciapiede opposto e proseguì a passo svelto lungo i negozi, verso il fondo della strada.
    Non le importava gran che della scomparsa di Bastiaan: in realtà l'aveva sempre trovato detestabile. A volte le tirava forte la coda di cavallo, o le gridava dietro delle porcherie che la costringevano ad arrossire. E una volta aveva anche provato a baciarla in presenza dei suoi amici. Lei si era liberata con uno strattone ed era corsa via col viso in fiamme, mentre loro le fischiavano dietro. Uno come Bastiaan andava semplicemente in cerca di guai, e Kika aveva respirato segretamente di sollievo nell'apprendere che era sparito. “Spero che non torni più” aveva addirittura pensato.

    Zia Dora abitava nel centro storico della città, dove le strade erano strette e silenziose, fiancheggiate da casette basse. Viveva in una di quelle casette, in fondo a una strada così stretta che le auto non potevano sorpassarsi. Kika andava volentieri da zia Dora. Al contrario dei suoi compagni, non trovava che la vecchia signora fosse una mentecatta, anzi era sempre molto amabile con lei.
    L'aveva vista per la prima volta mentre gettava da mangiare alle anatre al parco. Un gruppo di ragazzi “tra cui anche il detestabile Erik) dava la baia a quella piccola donna sola. D'impulso, senza pensarci due volte, Kika l'aveva presa sottobraccio e le aveva detto: “Su, zietta, andiamo a casa”. Così era nata l'amicizia tra Kika e zia Dora.
    E ora Kika andava a trovare zia Dora due o tre volte la settimana. Prendevano insieme tè e biscotti, e Kika raccontava a zia Dora che cosa aveva fatto a scuola e fuori. Zia Dora era un'ottima ascoltatrice e godeva della compagnia di Kika, partecipando intensamente a tutto ciò che lei le raccontava. Quando era sfuggita a Bastiaan, Kika, sconvolta, si era rifugiata da zia Dora per raccontarle tutto. La vecchia signora aveva ascoltato in silenzio, ma i suoi occhi sembravano lanciare fiamme.
    “Non te la prendere, piccola” le aveva detto “I ragazzo come Bastiaan raccolgono sempre quel che hanno seminato”. E aveva avuto ragione, pensava Kika percorrendo la viuzza silenziosa.
    Alcune delle case avevano le porte mezze scardinate e le finestre rotte. In quella strada erano rimasti solo pochi abitanti, e il silenzio era sepolcrale. Kika si guardò intorno, poi proseguì in fretta verso la piccola casa di zia Dora. Al trillo del campanello, la porta si aprì immediatamente, come se la vecchia signora fosse stata ad attenderla dietro i battenti.
    “Ciao, piccola. Che piacere rivederti!”
    Zia Dora era una donnetta rotonda con vivaci occhi celesti e una corta zazzera grigia. La sua faccia liscia era cordiale.
    “Salve zia Dora”
    Kika seguì la vecchia signora lungo il breve corridoio fino al soggiorno che profumava di tè e wafer appena sfornati.
    Poi andò a sedersi sul divano dal coprispalliera di pizzo all'uncinetto.
    La parte superiore della grande finestra era un mosaico di vetri colorati, attraverso i quali penetrava nella stanza una blanda luce rosso-gialla.
    Zia Dora uscì dalla cucinetta con un vassoio di wafer, poi da una teiera di porcellana azzurra versò il tè in due tazze a fiorellini, e finalmente, con un sospiro, prese posto a sua volta sul sofà e posò una mano sottile sul ginocchio di Kika.
    Zia Dora doveva essere un po' ammalata, pensò Kika. Le mani le tremavano, e la testa le tentennava senza posa, come accennando continuamente di no.
    Questo era uno dei motivi per cui i ragazzi la tormentavano, chiamandola per scherno “Zia no”. Ma gli occhi della vecchia signora guardavano il mondo con un'espressione sorprendentemente acuta e maliziosa.
    Zia Dora non era sicuramente una mentecatta, si disse ancora una volta Kika.

    “Racconta, piccola: com'è andata oggi?”
    Kika bevve un sorso di tè e diede un morsetto a un wafer.
    “Oh, una barba come sempre, zia Dora. Però è successo un fatto misterioso. Hai presente Bastiaan? Quel ragazzo detestabile che mi dava sempre fastidio?”
    Zia Dora si portò cautamente la tazzina alle labbra.
    “Sì, me ne hai parlato”. Mentre sorbiva il tè, i suoi occhi fissavano Kika al di sopra dell'orlo della tazza.
    “Insomma, Bastiaan è scomparso. Così...puff, via dal mondo. Lo stanno già cercando da un paio di giorni”.
    “Davvero?” fece zia Dora interessata, sgranocchiando il suo wafer.
    “Sì, non c'è più. Tutta la scuola ne parla. Si sospetta di un rapitore, o di un assassino di bambini”.
    Kika fissò negli occhi zia Dora.
    “Se devo essere sincera” soggiunse arrossendo “io personalmente non lo trovo un gran male, zia Dora. Anzi, sono quasi contenta che l'abominevole Bastiaan non mi tormenti più. Sono cattiva a pensare così, zia Dora?”
    La vecchia signora mise giù la tazza e tornò a posare la mano sul ginocchio di Kika.
    “Se c'è al mondo una persona senza cattiveria, quella sei tu, bambina mia. Dedichi addirittura il tuo tempo libero a una vecchia noiosa come me...No, non sei cattiva. Bastiaan ha raccolto quel che si meritava. Del resto te l'avevo detto. E' così che finiscono i ragazzi come lui”
    Kika sorrise.
    “Tu non sei una vecchia noiosa, zia Dora, e io vengo a trovarti volentieri. Sai cosa trovo curioso? Che mentre i miei compagni hanno paura di un maniaco a piede libero e non si azzardano più a girare da soli, io invece sono tranquilla. Quando c'era Bastiaan, allora sì che avevo paura di incontrarlo. Ora invece mi sento come sollevata. Se non fosse...” esitò, poi proseguì: “se non fosse per Erik, quella peste, che mi guarda sempre in un modo così strano. Anche lui mi sta sullo stomaco”
    “Erik? E chi è?” chiese interessata zia Dora.
    “E' quel ragazzo che è stato così villano con te al parco”
    “Oh, quello!” fece zia Dora, continuando a girare il cucchiaino nella sua tazza. “Non aver paura” disse.
    “Tu sei una cara e brava bambina. A te non può succedere niente. Ma quel Bastiaan era un poco di buono, e sono i cattivi soggetti come lui a fare una brutta fine”
    “Forse è stato soltanto rapito” disse Kika “Chissà che domani non torni a farmi la posta davanti a scuola”
    “Non credo proprio, piccola” disse zia Dora “Non darti pensiero”. Poi, alzandosi in piedi: “Oh, prima che me ne scordi” soggiunse “domani, se non sbaglio, è il tuo compleanno. Quanti anni compi?”
    “Dodici, zia Dora”
    La vecchia signora annuì “Bene: se domani passerai di qui, ci sarà una sorpresa per te”
    “Che pensiero gentile, zietta” disse Kika con un'occhiata al suo orologio.
    Il tempo volava in compagnia di zia Dora. Già le sette e mezza! Non si erano accorte che era quasi buio. Kika si alzò in fretta. “Ora devo veramente andare a casa, prima che venga buio del tutto”.
    Aiutò zia Dora a sparecchiare tazze e piattini, poi se ne andò. Zia Dora la seguì con lo sguardo finchè non la vide scomparire dietro l'angolo.
    “Che brava bambina” mormorò la vecchia signora. “Carina da mangiarsela” aggiunse con un sorriso sulla bocca grinzosa.
    Poi chiuse la porta e, strisciando i piedi, si diresse in cucina.

    Kika camminava svelta lungo le strade buie. Dietro le finestre delle case le luci erano accese: quasi tutte le famiglie erano sedute a cena. Si era fermata davanti alla vetrina di una libreria, quando, a un tratto, sentì un lieve picchiettio. Sul vetro erano comparse delle gocce di pioggia.
    Aveva appena ripreso frettolosamente il cammino, quando avvertì un rumore di passi alle sue spalle. Si voltò. A circa dieci metri da lei veniva avanti un uomo che indossava un impermeabile col bavero rialzato e teneva le mani sprofondate nelle tasche.
    “Non è niente” pensò Kika tornando a guardare davanti a sé “E' solo qualcuno che sta rincasando, proprio come me!”.
    La pioggia 'infittiva, e Kika affrettò il passo. Svoltò un angolo e attraversò la strada. Ma quando fu sul marciapiede opposto, tornò a sentire i passi alle sue spalle. Le strade, ora, erano lucide di pioggia. Kika accelerò l'andatura. Era ancora a qualche isolato di distanza da casa, e i passi sul marciapiede bagnato non accennavano a dileguarsi. Ora, anzi, l'avevano quasi raggiunta. Il cuore di Kika prese a martellare furiosamente. “Non ho nessun motivo di aver paura” disse a se stessa. Zia Dora l'aveva detto: era una cara e brava bambina, dunque non poteva accaderle niente di male.
    Sull'orlo del marciapiede si fermò per attraversare di nuovo. Un'auto le passo davanti, schizzandole acqua sulle scarpe. Quando l'auto fu passata, l'uomo dall'impermeabile le era accanto, la testa china su di lei. Kika s'irrigidì.
    “Oh, sei tu, Kika? Perchè te ne vai in giro da sola?”
    Kika gli sbarrò gli occhi in faccia, ma quando lo riconobbe tirò un gran sospiro. Era Harri Herriman, l'insegnante di ginnastica.
    “Sembri spaventata, Kika” disse Herriman “Comunque non dovresti andare sola per queste vie. Soprattutto quando è buio. Lo sai, no, che Bastiaan è scomparso?”
    Kika annuì. “Sì, ma sono appena stata a fare una visita”.
    Harri Herriman la guardò con severità. “Devi essere prudente, Kika. Finché non si saprà cos'è successo a Bastiaan, è necessario stare all'erta. Immagina se io fossi un rapitore o un assassino di bambini! Ora potrei acchiapparti senza che nessuno si accorga di niente”
    “Sissignore” mormorò Kika
    “Hai ancora molta strada da fare?” chiese Harri Herriman.
    “No, abito a un paio di isolati da qui”.
    “Allora ti accompagno fino a casa” disse l'insegnante di ginnastica.
    Camminarono insieme in silenzio nella pioggia fin davanti alla casa di Kika. Kika infilò di corsa il vialetto del giardino, e Harri Herriman rimase a seguirla con lo sguardo. Poi proseguì, la testa affondata nel bavero dell'impermeabile.

    Quel lunedì la scuola sembrava di nuovo un alveare ronzante. I bambini sostavano a gruppetti sul piazzale, bisbigliando e mormorando. L'argomento del giorno era la scomparsa di un altro alunno. Subito dopo la scuola, Kika si diresse correndo verso la casa di zia Dora. Doveva vedere la sua sorpresa di compleanno e riferire a zia Dora le ultime novità.
    Appena entrata nel piccolo soggiorno si lasciò cadere ancora ansante sul divano.
    “Zia Dora, è successo qualcos'altro”
    “Ah sì? E che cosa?” chiese la vecchia signora dalla cucina.
    “Ricordi Erik, l'altro ragazzo cattivo, quello che mi stava tanto sullo stomaco? E' scomparso anche lui”.
    Zia Dora entrò nel soggiorno e posò sul tavolo due piattini da dolci con due forchettine d'argento. “Li uso solo nelle grandi occasioni, piccola. Ma oggi è un giorno speciale: compi dodici anni!”
    “Hai sentito quel che ti ho detto, zietta? Erik è scomparso”.
    Zia Dora sorrise. “Sì, sì, ho sentito, cara. Ecco quel che succede ai ragazzi discoli. Vedi bene che non devi mai aver paura di loro”.
    Tornò strisciando i piedi in cucina e un minuto dopo ne rispuntò con un vassoio su cui troneggiava una magnifica torta guarnita di panna montata.
    Zia Dora guardò Kika con occhi raggianti. “Tanti auguri, cara piccola. Spero che ti piaccia. Ho fatto del mio meglio”
    “Oh, è fantastica!” esclamò Kika “Che pensiero gentile hai avuto!”
    La torta, a giudicare dall'aspetto, doveva essere squisita, L'abbondante strato di panna montata era ornato di foglioline di cioccolato e di ciliegine rosse elegantemente disposte in forma di cuore. E sopra la torta c'erano dodici candeline in circolo.
    Kika tardò un po' ad accorgersi che in quelle candeline c'era qualcosa di strano. Non erano tutte uguali, ed erano anche un po' storte. E il più curioso era che non avevano stoppino per accenderle.
    Kika avvicinò gli occhi alla torta per osservarla meglio. E il fiato le si fermò in gola. Le candeline infilate nella panna non erano candeline. Erano dita!
    Dodici sottili dita di ragazzo, con le unghie tagliate e lucidate con cura. Intorno a un dito luccicava un anello: lo stesso che portava sempre Bastiaan! E un altro dito era segnato da una lunga cicatrice.
    Dall'altro lato del tavolo, zia Dora guardava Kika con un sorriso raggiante, mentre la sua testa continuava a dondolare: no-no. Poi si tolse dalla tasca del grembiule un lucente coltello e con la destra tremolante tagliò una bella fetta di torta: “Non vuoi assaggiarla, piccola mia?”



  10. .
    Anche io l'ho preso lì, infatti xD

    Forse posterò anche quella della poltrona, ma non sono sicura xD
  11. .
    Questo racconto fa parte del libro "L'autobus del brivido" di Paul van Loon. Si tratta di una serie di racconti tenuti insieme da una cornice (per la preicisione: un viaggio in autobus di un gruppo di ragazzi. L'autista comincia a mostrare loro una serie di oggetti e per ogni oggetto ha una storia). Io vi posto solamente i racconti più belli.



    Il papà di Max tornò a casa con un pacco piatto, di forma quadrata.
    "Guardate che cosa ho trovato" disse.
    Max e sua madre fissarono incuriositi l'involucro di carta marrone.
    Il papà si tolse di tasca il temperino, tagliò lo spago, strappò via la carta e indicò sorridendo il quadro che vi era stato nascosto.
    “Che ne dite?”
    Max e sua madre lo guardarono con l'aria di chiedersi: “Che roba è mai questa?”. Sapevano che il papà era un appassionato di pittura e che di tanto in tanto arrivava a casa con un dipinto. Ma questo esemplare era il più strano di tutti.
    “Raccapricciante!” disse finalmente la mamma.
    “Come hai potuto comprare una cosa del genere?”
    La scena raffigurata era a dir poco singolare. Sullo sfondo di una campagna brulla si levava un alto patibolo di legno. Uno stormo di uccelli neri volava nel cielo grigio. Dalla forca pendeva un uomo con gli occhi sgusciati e un aspetto feroce. Una folta barba gli copriva quasi tutta la faccia. A qualche passo di distanza dalla forca, un ragazzino biondo levava la testa verso l'impiccato con un'espressione leggermente ironica.
    “Raccapricciante!” ripeté la madre. “Non voglio vedere quella roba nel mio soggiorno. Fa venire gli incubi.
    “Ma è arte, mia cara!” protestò offeso il marito.
    “Guarda com'è dipinta bene questa scena. E oltre tutto si riferisce a un fatto storico. L'uomo che pende dalla forca era un assassino, vissuto più di tre secoli fa. Questo individuo, che aveva venduto l'anima al diavolo, di notte si trasformava in un mostro sanguinario. Il ragazzino sulla sinistra del quadro era suo figlio, che un giorno lo denunciò alla gendarmeria. Per questo l'uomo finì sulla forza”.
    Il papà tolse con un dito un po' di polvere dagli angoli del quadro. “E' dipinto in modo egregio. A guardar bene, il ragazzo assomiglia un poco a Max: è soprattutto per questo che l'ho trovato bello”
    “Chiamalo bello!” intervenne la mamma “E oltre tutto non assomiglia affatto a Max. A volte, Simon, hai delle idee veramente bislacche!”
    Ma Max dovette dar ragione a suo padre. Il ragazzino del quadro gli assomigliava per davvero. Gli stessi capelli biondi, e perfino le stesse lentiggini ai due lati del naso, proprio come lui.
    “Ad ogni modo” concluse il papà, leggermente irritato “questa tela aveva un prezzo irrisorio, e io non potevo rinunciare all'affare. L'ho comprata dal rigattiere sulla piazza del mercato. A quanto pare, il proprietario voleva disfarsene a ogni costo: difatti l'ho pagata un terzo del suo valore”.
    “Strano” osservò la mamma “Perchè quel tale l'ha data via per così poco, se è un pezzo così straordinario?”
    Il padre si strinse nelle spalle “Pretendeva che questo dipinto nascondesse un maleficio. Sciocche superstizioni: sai com'è la gente”.
    Max non sapeva com'era la gente, ma quel dipinto aveva un effetto strano su di lui. Doveva assolutamente guardarlo da vicino. Era come se gli occhi sgusciati dell'impiccato lo fissassero, tenendolo avvinto con uno sguardo feroce, come bramoso di sangue.
    Max, d'un tratto, ebbe la sensazione che tutto si annebbiasse intorno a lui, e non rimanessero che quegli occhi sbarrati. Avvertì come un'improvvisa folata di vento, e gli sembrò di udire un rauco gracchiare di corvi.
    “E va bene” sentì dire, come in un vago sottofondo, dalla voce di sua madre “ma quell'affare non starà mai nel nostro soggiorno. Cosa penserebbero i nostri amici al vederlo appeso in bella vista sopra il divano? Mettilo tutt'al più in qualche punto poco illuminato del pianerottolo, in modo che non si noti troppo. E spero per te che non sia stato rubato, perchè in tal caso ti accuserebbero di ricettazione e un giorno potremmo trovarci la polizia sulla porta di casa”.
    Il padre mormorò qualcosa a mezza bocca, ma si piegò alla decisione della moglie, e si avviò su per le scale col quadro sotto il braccio.
    Max sentì dileguarsi il suo strano malessere e tornò a vedere chiaramente il soggiorno.
    “Sarà bene che mangi qualcosa” pensò “Forse mi sono sentito debole perchè oggi non ho fatto merenda”. Andò in cucina e si spalmò di butto di noccioline una grossa fetta di pane.
    Era già da un paio di giorni che il quadro stava appeso a una parete in penombra del pianerottolo accanto alla camera di Max, dove lo si notava appena. Ma tutt'ora Max, per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, non osava quasi guardarlo. Quando saliva al piano superiore si muoveva il più svelto possibile, voltando via la testa dal quadro. Gli occhi sgusciati dell'impiccato gli facevano impressione.
    “Sei un fifone!” si diceva “Come puoi aver paura di un quadro?”
    E tuttavia, ogni volta che arrivava sul pianerottolo, veniva preso da una sottile angoscia. E di notte faceva spesso sogni strani, in cui grossi uccelli neri volavano gracchiando per la sua camera.
    Così un bel giorno Max disse a suo padre: “Papà, quel quadro mi disturba troppo. Me lo sogno addirittura. E' tremendo!”
    Suo padre lo guardò come se volesse incenerirlo.
    “Ti ci metti anche tu, adesso? Si può sapere che cosa ti prende? Non posso neanche più appendere un'opera d'arte in casa mia? Il quadro resta dov'è e basta! Non voglio più sentirne parlare”
    Max si spaventò di quella violenta reazione. Normalmente il papà non se la prendeva così con lui. Ma da quando aveva comprato il famoso quadro, sembrava cambiato. E per di più sembrava seriamente intenzionato a lasciarsi crescere la barba, perché erano già due giorni che non si radeva e aveva le guance e il mento fitti di spunzoni neri.
    Quella notte Max sognò di nuovo gli uccelli neri che volavano in cerchio nella sua camera: li sentì gracchiare così forte da sembrare veri. Si svegliò di soprassalto, drizzandosi a sedere sul letto.
    Un attimo dopo, nel silenzio assoluto della camera, Max credette di udire uno strido acuto, quasi un'eco del sogno. Si asciugò la fronte sudata, e sentì il bisogno di andare al gabinetto. Con gli occhi assonnati, uscì barcollando dalla sua camera verso la stanza da bagno, al capo opposto del pianerottolo. Ascoltò lo scroscio della pipì nel water, poi tirò lo sciacquone e tornò sui propri passi. Ma a metà del pianerottolo dovette fermarsi. Da qualche parte, nel buio, veniva uno strano luccicore. A fatica, Max aprì del tutto gli occhi per capire da dove provenisse.
    Dovette trattenersi dal gridare forte. Il luccicore proveniva dal quadro. Gli occhi dell'assassino impiccato erano, nell'oscurità, due punti infuocati che lo fissavano pieni di odio.
    Max si precipitò in camera, richiuse con violenza la porta e si rannicchio nell'oscurità protettrice delle coperte, Poi rimase immobile e muto ad ascoltare, col fiato sospeso e il cuore in tumulto.
    Dopo quella che gli parve un'eternità, finì per calmarsi. Quel che aveva visto, o pensava di aver visto, era così inverosimile che Max si persuase di aver sognato ogni cosa. E con la testa piena di pensieri confusi, ricadde addormentato.

    La mattina seguente, uscendo di camera, Max gettò una fugace occhiata al dipinto. Sembrava sempre il solito, e gli occhi dell'assassino, naturalmente, non fiammeggiavano. “E' stato soo uno scherzo della mia fantasia” pensò Max “E probabilmente mi sono anche sognato di andare in bagno mentre non mi sono mai mosso dal letto”. Così scacciò dalla mente tutta la faccenda e scese a far colazione.
    “Stt! Non così forte!” lo ammonì la madre, quando sentì sbattere lo sportello del frigorifero.
    “Che succede?” chiese stupito Max.
    “Papà dorme ancora” rispose la madre “E' malato: ha la tosse e la febbre alta”.
    “Papà ha un brutto aspetto da qualche giorno” disse Max dando un morso a una fetta di pane spalmata di crema al cioccolato, e proseguì a bocca piena: “Secondo me è colpa del quadro. Gli rincresce così tanto che a noi due non piaccia, che se n'è fatto un'idea fissa. Non si rade neanche più”.
    “Che razza di discorsi!” protestò la mamma “Ha solo un'infreddatura. E io trovo che la barba gli stia bene, o almeno gli dà un aspetto diverso”
    “E invece io trovo che con quella faccia pelosa sembra un bandito, proprio come quell'orrendo personaggio del quadro”.
    La madre gli lanciò un'occhiata di traverso.
    “Cosa vorresti dire?”
    “Non lo so” disse Max stringendosi nelle spalle.
    “Niente, penso. Forse papà teme che si tratti realmente di un quadro rubato e che un giorno o l'altro la polizia lo scopra”.
    Prese lo zaino, diede un bacio alla madre e uscì.
    “A presto, mamma”
    “Sii prudente” raccomandò lei in tono distratto, poi restò immobile e pensierosa a guardarlo allontanarsi.

    Quando Max tornò da scuola, il papà era ancora a letto, mezzo sepolto sotto un mucchio di coperte.
    Max fece capolino dalla porta. Il papà dormiva, mugolando inquieto nel sonno. Fra gli spunzoni neri della barba, il volto febbricitante appariva terreo e smunto.
    “Lasciamolo tranquillo” disse la mamma “Domani la febbre gli sarà scesa di certo. Vedrai che dopo sarà come rimesso a nuovo”
    “Speriamo” mormorò Max.
    Quella giornata di scuola era stata faticosa, con parecchie interrogazioni, così Max, dopo cena, salì di buon'ora in camera, senza rivolgere il pensiero al quadro. Buttò sbadigliando gli abiti su una sedia, poi s'infilò a letto e cadde addormentato come un sasso.

    Suoni rauchi, raspanti. Occhi gialli di uccelli neri. Un'indefinibile sensazione di catastrofe imminente. Nel buio della camera, Max si agitava inquieto sotto le coperte, mentre gli uccelli sfrecciavano a volo radente sulla sua testa. Un cappio dondolava vuoto nel vento.
    “Nooo” gemette Max nel sonno, agitando la testa sul cuscino “L'assassino si è liberato. E' fuggito!”
    Rumore di passi. Strida di uccelli dentro la testa. Il tonfo di una porta. Un altro tonfo. “Lasciami in pace!” gemette Max “Sei soltanto un morto!”.
    Un tonfo rimbombante. La porta si spalancò di colpo. Max sbarrò gli occhi. Era sveglio.
    Accanto al suo letto, nell'oscurità, c'era una sagoma scura. Ringhiante, sbuffante, come uscita direttamente dal sogno di Max.
    Due mani forti come l'acciaio afferrarono Max alla fola e lo strapparono dal letto.
    “Traditore!” ringhiò l'ombra “Tu! Mio figlio! Ora tocca a te pendere dalla forca col cappio al collo”.
    Max cacciò un urlo e protese le braccia per scacciare quel sogno, ma le sue mani incontrarono un volto barbuto. Con un ruggito, l'ombra trascinò Max attraverso il pavimento della camera e oltre la soglia del pianerottolo buio.
    “Sarai impiccato!” ringhiò “Traditore del tuo stesso sangue!”
    Max tirava calci e pugni alla cieca, ma quelle mani poderose non lo lasciavano: stringendogli la gola in una morsa d'acciaio, continuarono a trascinarlo lungo il pianerottolo.
    “Alla forca!” gridò il bruto. In quel buio pesto, Max non vedeva il suo avversario. Sentiva solo quella stretta mortale che gli mozzava il respiro. Con un grido soffocato, cominciò a perdere i sensi.
    D'un tratto una porta si spalanco. Nella forte luce che proveniva dall'apertura, Max, quasi incosciente, vide sua madre, in veste da camera. Per un attimo lei rimase paralizzata, una foto scattata controluce. Poi si girò, si precipitò oltre la soglia, strappò il quadro dalla parete e lo abbatté con un colpo secco sulla testa dello sconosciuto che tentava di strangolare Max. Si udì un rumore di tela lacerata, la cornice si ruppe e simultaneamente la stretta intorno alla gola di Max si allentò.
    Con un gemito rauco, Max rotolò via dall'aggressore, che si accasciò sulle ginocchia, intrappolato nel quadro rotto. La madre cercò a tastoni, freneticamente, l'interruttore della luce. Il buio si dileguò di colpo.
    Max, disteso sul pavimento, si massaggiava la gola con entrambe le mani, fissando incredulo la figura inginocchiata al centro del pianerottolo.
    Era il papà!
    Con la testa e le spalle conficcate nella tela strappata del quadro, il papà teneva gli occhi annebbiati fissi davanti a sé, come qualcuno che si risvegliasse da una narcosi. Poi sulla sua faccia apparve un'espressione sconcertata.
    “Cosa ci faccio qui?” mormorò.

    “Te l'avevo detto, che era un quadro malefico!” disse la mamma “Perchè non mi hai dato ascolto?”
    Sedevano tutti e tre in vestaglia intorno al tavolo di cucina, le facce grigie sulle ciotole di cioccolato fumante. Max tremava ancora un po', ma aveva ormai superato il primo choc. Il papà guardava con aria colpevole i segni rossi sulla gola del figlio. Avevano dovuto raccontagli che cos'era accaduto, perchè lui non era in grado di ricordarlo.
    “E neanche so spiegarmi che cosa mi era preso in questi ultimi giorni” disse “Come se non fossi più io. O come se qualcosa di estraneo si fosse insinuato nella mia testa. Una voce mi sussurrava che mio figlio mi aveva tradito e che io dovevo ucciderlo. Da allora un buco nero nella mia memoria. Mi dispiace, Max” soggiunse con un profondo sospiro “di non aver voluto darvi ascolto. Pende veramente una maledizione su quel dipinto”.
    “Ma ora è tutto passato” disse la mamma “Quello spaventoso quadro adesso s ne sta là fuori, in pezzi, nel cassonetto della spazzatura. Domani il furgone lo porterà via. Fine della storia”.
    Il papà allungò una carezza a Max al di sopra della ciotola di cioccolato. “Che ne diresti di una bicicletta nuova, Max? Te la sei meritata, dopo tutto quel che ti ho fatto passare”.
    “Perbacco! Una bicicletta!” esclamò Max, gettandosi fra le braccia di suo padre.

    “Ehi, Kobus, guarda cosa ho trovato!” esclamò la mattina seguente uno dei due netturbini, estraendo un quadro malconcio dal cassonetto e mostrandolo al suo collega.
    “Peccato buttarlo via. E' una vera pittura ad olio”.
    L'uomo esaminò con sacro rispetto la tela strappata.
    “Sai cosa faccio, Kobus?” soggiunse poi. “Me lo prendo io e lo faccio sistemare da mio fratello, che fa il restauratore ed è bravissimo. E poi lo appenderò a casa mia, sopra il caminetto”.
    Guardò ancora una volta il quadro e sorrise.
    “Curioso. Quel ragazzino con la zazzera bionda somiglia un po' a mio figlio. Mia moglie lo troverà certamente bellissimo. Un'autentica opera d'arte”.
  12. .
    Sono contenta vi piaccia ^^
  13. .
    La cenere cade, finendo sul tappeto. Quello nuovo, per giunta. Immagino che dovrei scattare verso l'alto, saltare giù da questo divano, togliere la cenere sul tappeto e magari anche gettare via la sigaretta, già che ci sono.
    Sì, in una situazione normale lo farei, ma questa non lo è.
    Lei è morta, ed oggi, esattamente oggi, ho dovuto assistere ai funerali: sarei rimasta volentieri a casa, ma non potevo, per rispetto dovevo presentarmi, o i suoi genitori non mi avrebbero mai perdonato.
    Un po' li capisco: vediamo i fatti, ero io alla guida dell'auto, sono stata io a decidere di accellerare per lasciarmi indietro la campagna, sono stata io a perdere il controllo del mezzo. E -anche se ancora non ho capito bene come- sono io che mi sono salvata con soli pochi graffi. D'accordo, la colpa non è interamente mia, lei non portava la cintura, io sì...ma questo non mi fa sentire meglio.
    Immagino non faccia sentire meglio nemmeno suo padre e sua madre. Probabilmente è per questo che loro non sanno la verità...o forse semplicemente perchè, alla fine, sono solo una vigliacca incapace di affrontarli.

    Mi alzo a fatica dal divano, cercando di liberarmi da quella coltre di pigrizia che mi avvolge da quando è morta. La chiamo pigrizia, mi illudo sia quello, solo per non ammettere con me stessa che è una vera e propria depressione, ma ho paura degli psicanalisti, forse per questo preferisco mentire.

    Il campanello della porta suona, mentre io inarco un sopracciglio. Chi accidenti è?!
    Non amici o parenti, visto che ho espressamente fatto sapere ad ognuno di loro che disturbarmi avrebbe significato sicura morte. Tanto avevo già ucciso una volta, no? Non volontariamente, ma fa davvero differenza quando avevo io il volante in mano?
    Mi incammino verso la porta, pensando possa trattarsi del mio capo: quello lutto o non lutto non perde mai l'occasione di rompermi le palle.
    Apro e mi trovo davanti uno strano signore mai visto prima: è abbastanza alto, almeno più di me -ok, non che ci voglia molto-, indossa uno smokin nero, porta una bombetta ed ha anche degli irritanti baffetti spuntati. Un misto tra un perfetto gentleman inglese e il successore dei Moschettieri.
    Ma quello che mi colpisce non è tanto il suo aspetto -non solo, almeno- quanto la valigetta nera in cuoio che regge con la mano destra, e immediatamente dopo noto il foglio che tiene nella sinistra.
    Ah, no, no. Conosco il tipo: quello è un assicuratore!
    Bè, lo è anche mio fratello, quindi se voglio una polizza posso occuparmene anche da sola, inoltre conoscendo l'ambiente so bene che in quel foglio ci saranno più fregature che altro.
    Meglio anticiparlo, quindi, così potrò tornare al mio dolore e alla mia colpa.
    "No, guardi, non mi interessa. Conosco anche io il campo delle assicurazioni, quindi so bene che vuole solo fregarmi"
    Cerco di richiudere la porta, e pace se è maleducato sbattergliela in faccia. Purtroppo lo sconosciuto è più veloce e riesce a bloccarla, infilandoci un piede. A questo punto ho due possibilità: o apro, o chiudo con forza e glielo spacco. Peccato non si tratti di una vera e propria scelta.
    Con muta rassegnazione riapro la porta, e lo invito ad accomodarsi con un cenno della mano. Piuttosto stranamente lui non dice nulla, semplicemente entra in casa mia come se appartenesse a lui, quindi con comodità si siede sul divano, quello stesso divano dove mi trovavo prima.

    "Buongiorno, signorina Coletti"
    Ecco, adesso la cosa sta cominciando a diventare inquietante. Come fa a sapere il mio nome? Questa casa non è intestata a me, non c'è neanche il mio nome sul campanello!
    Non dico niente, qualcosa, nel suo aspetto, mi suggerisce che è meglio tacere. Non che ci sia qualcosa di veramente strano, in lui, sembra un tipo eccentrico, ma ne ho incontrati tanti. L'ultimo signore che si è fatto assicurare da mio fratello ha preteso una polizza contro gli attacchi da parte di mostri demoniaci, quindi...
    "Come sa il mio nome?"
    mi siedo sull'altro divano, guardandolo con attenzione, e, al tempo stesso, con circospezione.
    Lo sconosciuto sorride, mostrando una fila di denti bianchissimi, forse anche troppo. Che razza di dentifricio usa?
    "Oh, ma io so tante cose di lei..."
    Non dico niente, limitandomi a fissarlo. La mano sinistra scivola nella tasca dei jeans, e da lì estraggo il mio cellulare, tenendolo in mano con finta tranquillità. Se cercherà di fare qualcosa di strano, chiamerò la polizia: il Commissariato è vicino, arriveranno in un lampo.
    "...per esempio so di quell'incidente. Deve essere davvero brutto essere l'involontaria assassina della propria fidanzata, vero?"
    Spalanco gli occhi e perdo la presa sul cellulare, che cade per terra. Abbasso lo sguardo, quasi in trance: lo schermo si è fracassato, e probabilmente anche il resto del cellulare è ormai inutilizzabile...maledetti telefoni moderni, con i vecchi modelli Nokia non sarebbe mai successo.
    Ma non è questo il momento di preoccuparmi del cellulare, quello che l'uomo ha appena detto è molto più preoccupante. Nessuno sa di quell'incidente. O, meglio, nessuno sa che al volante c'ero io!
    Ho mentito, ho detto che guidava Rob, non ho ammesso con nessuno che la colpa è interamente mia, neanche i suoi genitori lo sanno.
    "...lei...lei...c...come lo sa...?"
    Le parole quasi mi muoiono in gola, e trovo difficile parlare. Quello sconosciuto è a conoscenza del mio segreto, allora forse anche altri lo sanno. E i genitori di Rob? Cosa penseranno? Cosa faranno quando verranno a sapere che io ho ucciso la loro unica figlia?
    "Gliel'ho detto, io so tante cose. So che si sente in colpa, che crede di averla uccisa, esattamente come un comune assassino. Vorrebbe che tutto questo non fosse mai successo, non è vero?"
    Non rispondo, non so se perchè trovo tutto questo spaventoso o se semplicemente credo che la risposta sia scontata.
    Lo sconosciuto non sembra dare troppa importanza al mio silenzio, e preferisce andare avanti nel suo discorso.
    "Io posso aiutarla..." una pausa "Vede, la mia Ditta è molto interessata alle persone defunte. Capisce, uccidendo la sua fidanzata ci ha omaggiato di un inaspettato introito. Era ancora molto giovane, e in salute, ci sarebbero voluti anni prima che si decidesse finalmente a morire"
    Sgrano gli occhi, incredula. Quel tipo è un folle, se avessi ancora il cellulare chiamerei un Manicomio, ma non ce l'ho, e in fondo mi sento quasi obbligata a restare lì seduta, ad ascoltarlo, come se decine di mani oscure mi impedissero di alzarmi e buttarlo fuori a calci.
    "Tuttavia, per noi è una mera faccenda di numero. La sua fidanzata o un'altra persona per noi non fa differenza..." si ferma un istante, cominciando a tormentarsi quei corti baffetti, che mi irritano ogni secondo di più.
    Sorride, un sorriso malvagio che assomiglia più a un ghigno, quindi posa il foglio che ha con sè sul tavolinetto che ci divide, spingendolo con le dita nella mia direzione.
    "Basta una firmetta, vede. Una firmetta e tutto questo non sarà mai accaduto. Nessun incidente, nessuna morte, nessuna colpa. Tutto come prima. Non è magnifico?"
    Il suo sorriso si apre ancora di più, rivelando una fila infinita di denti, sono troppo lontana per contarli, ma giurerei che siano di più dei trentadue dei comuni mortali.
    Lanciò un'occhiata al foglio, sicura che sia tutto uno scherzo, o quell'uomo è pazzo, o mi sta prendendo in giro. Magari si tratta dello scherzo di qualche collega: uno scherzo crudele.
    Tuttavia la situazione è strana, l'intera atmosfera è strana, c'è persino un innaturale silenzio. E quando lhai l'autostrada che passa dietro la casa e vivi in un quartiere industriale quasi ti scordi cosa sia, il silenzio.
    Ma sono un'affarista, non mi faccio incastrare, e di certo non firmo contratti che non conosco: terrestri o spirituali che siano. Lo ammetto, non credo al paranormale, e la parte razionale di me è convintissima di avere di fronte un pazzo...ma c'è anche una parte di me che si sta disperatamente nutrendo di speranza. Magari è tutto vero, magari si tratta di un miracolo, anche se lo sconosciuto non ha esattamente l'aria di un cherubino.
    "Cosa vuole in cambio?"
    domando, scrutandolo con serietà. Lui prende una penna dal taschino, nera, con i bordi in oro, la posa sul tavolino, accanto al contratto.
    "Bè, vede, signorina, io non ho il potere di lavare interamente la sua colpa. Inoltre, mi capisce, io sono un uomo d'affari, non posso rinunciare a un introito senza ottenere niente"
    Resto immobile, con la faccia di una perfetta giocatrice di poker, anche se perdo quasi tutte le partite. Non voglio incalzarlo, voglio che sia lui a dirmi cosa vuole da me. Ci sono centinaia di persone che hanno perso dei cari, c'è chi ha perso addirittura dei figli...perchè è venuto da me? Solo questo vorrei capire.
    "Quindi, l'affare che le propongo è molto semplice. Lei firma, in questo modo riottiene la sua fidanzata e non ci sarà alcun incidente. La sua vita potrà trascorrere in tranquillità...ma, in cambio, quando lo riterrò opportuno, lei dovrà pagare il suo debito"
    Forse è la mia immaginazione che mi gioca qualche scherzo, ma giurerei di aver visto brillare i suoi occhi, a quelle parole. Qualcosa non torna, a conti fatti lui non mi ha risposto.
    "Come dovrei pagare?" chiedo quindi, circospetta. Secondo dopo secondo cresce in me la consapevolezza di quello che sto facendo: un patto con il diavolo, ecco cos'è. Che quello sia lui in persona o un suo emissario poco conta.
    Ecco che il ghigno si fa di nuovo strada nella sua bocca, mentre lui si china verso di me, diminuendo la distanza tra noi.
    "Come le ho detto, è una questione di numeri. In cambio della vita della sua fidanzata, lei prenderà, al momento opportuno, due vite. Per me"
    Resto in silenzio qualche secondo, mentre la mia mente elabora le informazioni raccolte. Devo essere cauta, non devo farmi fregare come una pivella.
    "Chi mi garantisce che non mi chiederai di ucciderla e di suicidarmi, per ottenere quelle due vite?"
    lo guardo con attenzione, ma già la mia mano destra scatta verso il tavolino, afferrando la penna. Mi basta quella risposta, quell'unica risposta per firmare.
    Forse non dovrei, mi sta chiedendo di uccidere due persone, so che non laverei affatto la mia colpa, piuttosto ne creerei una più grande. Ma si tratta di Lei. Non sono un'ipocrita, non posso dire che per me la Sua vita valga come quella degli altri.
    Lui sorride e porta le mani di fronte al petto, cominciando a muoverle, come per scacciare quel sospetto.
    "Ma no, no, suvvia, non sono così meschino" sono convinta che potrebbe esserlo molto di più, se volesse "Le assicuro che non sarà così. Anzi, le dirò di più, sarà lei stessa a decidere quali vite prendere. Io le indicherò solo il momento" una piccola pausa accompagna le sue parole "Allora...affare fatto?" con un gesto della mano mi indica il foglio, che aspetta ancora una mia firma.
    La mano mi trema, ma riesco comunque a vergare nome e cognome in quello spazio. Non appena stacco la penna dal foglio, dopo aver ultimato la stipulazione del contratto, la testa comincia a girarmi e la vista si offusca. Cado sul pavimento, battendo la testa e l'ultima cosa che vedo è lo sconosciuto, che prende il foglio firmato e lo sistema nella sua borsa. Mentre chiudo gli occhi riesco a vedere che ha decine di contratti, lì dentro.

    Apro gli occhi, la testa mi scoppia, e mi sento a pezzi. Dove sono? Mi metto a sedere, ancora intontita. Sono nel letto, questo posso vederlo. Mi volto alla mia sinistra e sgrano gli occhi, incredula.
    Roberta è lì! Ed è...viva! Ne sono sicura, è viva, sta solo dormendo, posso vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo respiro. Lancio un leggero grido, stupefatta, e lei apre gli occhi, guardandomi con curiosità.
    "Amore, che succede?" mi guarda come se fossi pazza, forse lo sono davvero. Le sorrido appena, cercando di comportarmi in modo naturale.
    "Niente, niente. Solo un brutto sogno". Con un sorriso si alza, dirigendosi verso la cucina, e lasciandomi lì, preda dei miei pensieri.
    Stordita mi alzo di scatto, correndo fino alla finestra e spalancandola.
    Osservo le casette di legno intorno, gli alberi, la natura, i cani del proprietario dello chalet accanto, che corrono nel prato, i bambini dei vicini che mi salutano con grandi schiamazzi.
    Siamo ancora in montagna, non siamo mai tornate a casa, l'incidente...non esiste!
    Sorrido, felice, ispirando a pieni polmoni quell'aria limpida: era tutto un brutto sogno. L'incidente, il funerale, quello strano tipo...solo un incubo.
    Ho ancora un sorriso entusiasta stampato sulla faccia mentre abbasso lo sguardo, per salutare a mia volta i bambini...ma ecco che il sorriso mi muore sul volto.
    Seduto su una panchina, poco distante, lo sconosciuto mi guarda, arricciandosi i baffetti e con il suo classico ghigno.
    E in quello stesso istante sento la sua voce nella mia testa.

    "Si ricordi, signorina...al momento più opportuno..."

    Edited by Shira™ - 3/7/2014, 17:25
  14. .
    CITAZIONE
    na creepypasta sarebbe più: "marco va al parco" poi "marco viene ucciso dal mostro" e infine "marco se lo meritava, aveva letto questa storia". Questa è una creepypasta, perchè tenta di farti pensare di aver letto qualcosa di vero e quindi aver paura della tua fine imminente.

    Il punto è che una creepypasta si chiama "creepy" proprio perchè dovrebbe angosciarti/spaventarti/inquietarti.
    Quanta inquietudine lasciano le creepypasta del tipo "oh, guarda, mentre tu sei al pc è appena arrivato uno stormo di demoni dietro di te"? Eppure oggettivamente sono creepypaste anche quelle.

    Non vedo perchè una creepypasta come quella del clown o della tizia a cui viene leccata la mano non dovrebbero essere considerate creepypasta solo perchè non ti da l'idea di morte imminente.

    A me sinceramente una creepypasta come "Noci" spaventa/inquieta/angoscia molto di più di quella dei vari demoni/spettri/zombie/vattelapesca che dovrebbero stare tutti dietro di me mentre chatto.
    Soprattutto perchè uno può pensare molto di più che sia "vera". Non nel senso che sia esistita la persona di cui si parla, ma perchè persone del genere esistono e puoi trovartene uan davanti quando meno te l'aspetti.

    E credo che sia per tutti molto più "creepy" l'idea di uno psicopatico che ti si para davanti che non l'idea del fantasmino che esce dalla doccia con il solo scopo di rompere l'anima a te.
    Quindi credo proiprio che le creepypasta con killer e psicopatici vari siano molto più verosimili di quelle con i demoni, e di conseguenza ti danno più un'idea di morte.

    Per riprendere il tuo esempio, se fosse del tipo
    Marco va nel parco della sua città (città sconosciuta), incontra qualcosa (psicopatico o demone che sia, anche se secondo me la prima fa più paura), muore, e poi sul finale
    "C'è un parco nella tua città...vero?"
    non vedo perchè non dovrebbe essere considerata una creepypasta, eppure se non vado al parco non muoio :lol:

    CITAZIONE
    Non importa se ti fa paura o no, un racconto di fantascienza non diventa horror perchè mi inquieto io anche se non ha elementi di soprannaturale o dell'orrido

    Ma vale anche il contrario.
    "The ring O" (versione originale) non diventa un film comico solo perchè a me fa ridere.
  15. .
    ...sono l'unica che non l'ha capita? *si vergogna*
150 replies since 22/7/2006
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