L'abbraccio di Medusa - Parte 2

H. P. Lovecraft

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    Ser Procrastinazione

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    < Parte 1

    Il mio ospite mi guidò in una stanza d'angolo al primo piano che pareva meno malconcia del resto della casa; qui depose la piccola lampada e ne accese una più grande.
    A giudicare dalla pulizia della camera, dal suo contenuto e dai libri allineati alle pareti, era evidente che il vecchio signore era effettivamente un gentiluomo colto ed educato: senz'altro un eremita e un eccentrico, ma uno che difendeva i suoi valori e aveva degli interessi intellettuali. Mi fece segno di accomodarmi su una sedia e io avviai la conversazione su argomenti di carattere generale, scoprendo con piacere che il mio interlocutore non era un uomo taciturno. Anzi, gli faceva piacere parlare con qualcuno e non tentò di sviare il discorso da argomenti più personali.

    Appresi che si chiamava Antoine de Russy e discendeva da un'antica, nota e distinta famiglia di piantatori della Louisiana. Suo nonno, un figlio cadetto, era emigrato nel Missouri meridionale più di un secolo prima e aveva costruito la nuova dimora con lo sfarzo a cui erano abituati i suoi antenati; così era sorta la grande magione ornata di colonne che il fondatore aveva circondato di tutti gli accessori necessari a una grande piantagione.

    C'era stata un'epoca in cui le capanne che sorgevano nella parte posteriore della proprietà - su un tratto pianeggiante ora sommerso dal fiume - avevano ospitato fino a duecento schiavi negri; sentirli cantare, ridere e suonare il banjo di notte equivaleva a cogliere il fascino di una civiltà e un ordine sociale purtroppo estinti. Davanti alla casa, dove sorgevano grandi querce simili a guardiani e tigli imponenti, un tempo si estendeva un prato che somigliava a un immenso tappeto verde, innaffiato e tenuto con la massima cura e attraversato da vialetti pavimentati in pietra e fiancheggiati dai fiori.

    La proprietà si chiamava Riverside, e ai suoi tempi era stara ridente e piacevole; il mio ospite ricordava ancora l'epoca in cui non erano del tutto scomparse le tracce del periodo migliore.

    La pioggia si era fatta violenta, e grandi scrosci d'acqua si riversavano sul tetto malsicuro, le pareti e le finestre, mentre da mille pertugi e fessure qualche goccia filtrava anche all'interno. Tracce di bagnato coprivano il pavimento nei punti più impensati, e all'esterno le imposte marcite che a malapena si reggevano sui cardini sbattevano al vento. Nulla di tutto ciò mi preoccupava, nemmeno il pensiero della mia macchina sotto gli alberi, perché sentivo che il mio ospite stava per raccontarmi una storia memorabile. Invogliato ad abbandonarsi ai ricordi, fece il gesto di accompagnarmi in camera da letto, ma poi ricominciò a parlare dei giorni migliori. Presto avrei saputo come mai vivesse da solo in un posto del genere, e perché i vicini avessero un'opinione tanto sgradevole della casa. La voce del mio ospite era musicale, e in breve il racconto giunse a un punto che non mi avrebbe più permesso di appisolarmi.

    «Sì, Riverside fu costruita nel 1816 e mio padre nacque qui nel 1828. Se fosse vivo avrebbe più di cent'anni, ma morì giovane... così giovane che appena mi ricordo di lui. Fu nel '64... venne ucciso in guerra, perché era tornato nella terra dei suoi padri per arruolarsi nella Settima Fanteria della Louisiana. Mio nonno era troppo vecchio per fare la guerra, ma visse fino a novantacinque anni e aiutò mia madre a crescermi. Devo tutto a loro e mi hanno allevato nel migliore dei modi. Abbiamo sempre avuto forti tradizioni e un alto concetto dell'onore; mio nonno, in particolare, ha fatto in modo che io crescessi come tutti i de Russy dai tempi delle crociate. Dopo la guerra non fummo travolti dal disastro economico e riuscimmo a cavarcela bene. Io sono andato a scuola in Louisiana e poi a Princeton; in seguito sono riuscito ad amministrare la piantagione con profitto... anche se ora vede come si è ridotta.

    «Mia madre morì quando avevo vent'anni e mio nonno due anni dopo. Da allora in poi sono stato piuttosto solo e nell'85 ho sposato una lontana cugina di New Orleans. Se fosse sopravvissuta le cose sarebbero andate diversamente, invece morì dando alla luce mio figlio Denis. Mi rimase soltanto lui e non cercai di sposarmi ancora; dedicai tutto il mio tempo al ragazzo, che mi somigliava e aveva i caratteri tipici dei de Russy: alto e piuttosto bruno, magro e con il temperamento di un diavolo. Lo educai come mio nonno aveva educato me, ma nelle questioni d'onore non aveva bisogno di nessun incitamento. Non ho mai visto uno spirito nobile come il suo e ho dovuto tenerlo con la forza per evitare che a undici anni scappasse di casa per dare il suo contributo nella guerra spagnola! Un giovanotto romantico e ribelle, pieno di sentimenti che probabilmente lei definirebbe antiquati... E le assicuro che non era facile tenerlo lontano dalle ragazze negre! Lo mandai alla stessa scuola che avevo frequentato io, poi a Princeton. Si diplomò nel 1909.

    «Decise di studiare medicina e frequentò per un anno la Medical School di Harvard, poi lo prese la smania di ravvivare le tradizioni francesi di famiglia e mi convinse a mandarlo alla Sorbona. Lo accontentai con orgoglio, anche se sapevo che una volta partito lui sarei rimasto solo. Volesse il cielo che non l'avessi fatto! Ritenevo che fosse abbastanza maturo per cavarsela a Parigi; aveva una stanza in Rue St. Jacques, vicino all'università e nel Quartiere Latino, ma stando alle sue lettere e a quello che dicevano gli amici non faceva lega con i perdigiorno. Frequentava soprattutto i compatrioti, studenti e artisti seri che davano più importanza al proprio lavoro che alle mode stravaganti e bislacche.
    «Ma ovviamente c'erano parecchi individui che vivevano sulla linea di demarcazione che separa gli studi seri dalle tentazioni del diavolo: insomma esteti, decadenti, conosce il tipo. Cercatori di sensazioni nuove, un po' alla Baudelaire. Com'è naturale Denis frequentò un certo numero di questi individui e si fece un'idea del loro stile di vita. C'erano ogni sorta di circoli e culti esoterici: pseudo-adorazione del diavolo, pseudo-messe nere e altre cose del genere. Dubito che gli nuocessero, e penso che in un paio d'anni dimenticò quasi tutto ciò che aveva visto. Ma a scuola Denis aveva preso a frequentare un giovanotto che era più versato degli altri in queste faccende arcane; era figlio di un uomo che io stesso conoscevo e si chiamava Frank Marsh. Veniva da New Orleans ed era un seguace di Lafcadio Hearn, Gauguin e Van Gogh, insomma il classico prodotto dei ruggenti anni Novanta. Poveraccio, aveva anche del talento.

    «A Parigi Marsh fu il primo amico di Denis e quindi si vedevano spesso; ne approfittavano per parlare dei vecchi tempi all'accademia di St. Clair e altre cose ancora. Mio figlio mi scrisse parecchio sul conto dell'amico e non trovai nulla di strano nel fatto che Marsh facesse parte di una setta esoterica. A quanto ne sapevo si trattava di un culto magico derivato da antiche credenze cartaginesi ed egiziane, e furoreggiava fra gli scapigliati della riva sinistra. Pure e semplici assurdità che pretendevano di attingere alle arcaiche fonti di sapienza di perdute civiltà africane: la grande Zimbabwe e le morte città di Atlantide nella regione di Hoggar, in mezzo al deserto del Sahara; assurdità, come ho detto, imperniate su uno strano feticismo dei serpenti e dei capelli umani. A quell'epoca mi sembravano pure e semplici fandonie, ma Denis diceva che secondo Marsh la leggenda della capigliatura serpentina di Medusa nascondeva misteriose verità, e così il mito tolemaico di Berenice che aveva offerto i suoi capelli per salvare lo sposo-fratello, e di cui rimane un'eco nella costellazione della Chioma di Berenice.

    «Non credo che Denis si lasciasse impressionare eccessivamente da queste eccentricità, almeno fino alla notte in cui Marsh organizzò nel suo appartamento un rito più bizzarro del solito e mio figlio conobbe la sacerdotessa del culto. Per la maggior parte gli adepti erano giovanotti, ma il capo della setta era una giovane donna che si faceva chiamare "Tanit-Iside", pur non facendo mistero che il suo vero nome (o meglio, per dirla con le sue parole, il nome della sua più recente incarnazione) fosse Marceline Bedard. Affermava di essere figlia morganatica del marchese di Chameaux e prima di adottare il nome d'arte con cui era nota nel circolo, certo più redditizio, era stata pittrice e modella per gli amici pittori, o almeno così si diceva. Secondo alcuni aveva vissuto per un certo periodo nelle Indie Occidentali, credo nella Martinica; ma era piuttosto reticente su tutto ciò che la riguardava personalmente. Si dava grandi arie di austerità e santità, ma era solo il tocco finale della sua posa: non credo che gli studenti più smaliziati la prendessero troppo sul serio.

    «Denis, tuttavia, non era smaliziato e mi scrisse un'ode di dieci pagine sulla dea che aveva appena scoperto. Se avessi immaginato quanto era vulnerabile avrei preso provvedimenti, ma non pensavo che un'infatuazione da ragazzi potesse avere grande significato. Mi sentivo assurdamente sicuro che il vivo senso dell'onore di Denis e l'orgoglio familiare lo avrebbero tenuto alla larga dalle peggiori complicazioni.

    «Col passare del tempo, tuttavia, le sue lettere cominciarono a inquietarmi. Parlava sempre più di Marceline e sempre meno degli amici e cominciò a criticare il modo "crudele e fanatico" con cui essi rifiutavano di presentarla alle rispettive madri e sorelle. Penso che Denis non le facesse domande imbarazzanti sul passato e non ho dubbi che la signorina gli riempisse la testa di favole romantiche che riguardavano le sue origini e le divine rivelazioni che aveva ricevuto, ma anche il modo in cui la gente diffidava di lei. Alla lunga mi resi conto che Denis aveva virtualmente rinunciato agli amici e passava la maggior parte del tempo con la seducente sacerdotessa. Dietro richiesta della ragazza evitò di far sapere ai conoscenti che si vedevano tanto spesso, quindi nessuno fece il minimo tentativo di dividerli.
    «Lei dovette pensare che fossimo ricchissimi: Denis aveva l'aspetto di un gentiluomo e un certo tipo di persone crede che tutti gli americani di buona nascita siano milionari. Comunque, Marceline ritenne che quella fosse l'occasione d'oro per sposare un ottimo partito. Quando, spinto dall'inquietudine, mandai a mio figlio tutta una serie di consigli, ormai era troppo tardi: il mio ragazzo l'aveva sposata con tutti i crismi e scrisse che aveva intenzione di abbandonare gli studi per condurre sua moglie a Riverside. Aggiunse che per Marceline era un gran sacrificio rinunciare alla guida della setta magica, ma che d'ora in poi si sarebbe limitata a vivere da gentildonna di campagna, futura signora di Riverside e madre dei suoi figli.

    «Ebbene, signore, la presi nel miglior modo possibile. Mi rendevo conto che gli europei più sofisticati hanno valori diversi da quelli di noi americani, ma non avevo nulla contro quella donna. Probabilmente era una ciarlatana, ma perché supporre di peggio? In quel momento cercai di essere il più delicato possibile per rispetto verso il mio ragazzo. Per un uomo di buon senso non c'era altro da fare: Denis doveva condurre la sua vita in piena responsabilità e sua moglie doveva imparare a conformarsi ai valori della famiglia. Bisognava darle una possibilità, forse non avrebbe recato danno alla nostra casa come qualcuno temeva. Per tutte queste ragioni non feci obiezioni e non posi alcuna condizione; la cosa era fatta ed ero pronto ad abbracciare mio figlio, da chiunque fosse accompagnato.

    «Arrivarono qui tre settimane dopo il telegramma che annunciava il matrimonio. Marceline era bella, inutile negarlo, e potevo capire che il ragazzo se ne fosse infatuato. Sembrava una persona di buona nascita e sono tuttora convinto che in lei scorresse una parte di sangue nobile. L'età che dimostrava non era di molto superiore ai vent'anni; di altezza media, piuttosto magra, negli atteggiamenti del corpo e nei movimenti dimostrava la grazia d'una tigre. La carnagione era olivastra ma di tono scuro, come avorio antico; gli occhi erano grandi e neri. Aveva lineamenti minuti, regolari in modo classico, benché un po' troppo sfuggenti per i miei gusti. I capelli erano neri come giaietto, i più neri che abbia visto in vita mia.

    «Non c'era da meravigliarsi che fossero diventati uno dei punti centrali del culto di Marceline: con una chioma simile l'idea doveva esserle nata spontaneamente. Raccolti all'insù come una torre la facevano sembrare una principessa orientale dipinta da Aubrey Beardsley; quando li scioglieva le arrivavano sotto le ginocchia e brillavano come se possedessero una vitalità propria, misteriosa. Anche se le lettere di mio figlio non mi avessero dato l'imbeccata, avrei pensato senz'altro a Medusa o a Berenice: bastava la vista di quei capelli per suggerire l'idea.
    «A volte mi pareva di vederli muovere, come per sistemarsi in nuovi intrecci o disegni, ma probabilmente era un'illusione. Marceline li pettinava si continuo e credo che li nutrisse con una lozione speciale. Una volta immaginai - fu uno scherzo della fantasia - che più che una capigliatura si trattasse di un animale che aveva bisogno di una dieta particolare. Sciocchezze, naturalmente, ma che non contribuirono a bendispormi verso mia nuora e la sua acconciatura.
    «Non posso negare che la detestassi, nonostante i miei sforzi in senso contrario. All'epoca non riuscivo ad immaginare quale fosse il problema, ma c'era: qualcosa in lei mi ripugnava profondamente e cedevo a fantasie macabre o morbose ogni volta che pensavo a qualcosa che la riguardava. La carnagione evocava pensieri di Babilonia, Atlantide e Lemuria, i terribili imperi dimenticati che un giorno avevano dominato il mondo; gli occhi mi facevano pensare a quelli di una creatura sacrilega della foresta o di una dea animalesca troppo antica per poter essere del tutto umana. I capelli - quella massa densa, esotica, supernutrita e nera come l'inchiostro - mi dava i brividi come se fosse un pitone scuro. Non c'è dubbio che mia nuora si rendesse conto dei sentimenti che provavo per lei, e come io cercavo di nasconderli così lei tentava di nascondere che ne era consapevole.

    «Quanto all'infatuazione di mio figlio, non accennava a diminuire. La covava letteralmente con gli occhi e spingeva le piccole galanterie di ogni giorno a estremi imbarazzanti. Lei gli restituiva la cortesia, anche se mi rendevo conto che rispondere all'entusiasmo e alle stravaganze del marito le costava uno sforzo di volontà. Fra l'altro, credo che fosse amareggiata dalla scoperta che non eravamo ricchi come pensava.

    «Le assicuro che non era una situazione piacevole. Mi rendevo conto che si preparava qualche brutta sorpresa; Denis era ipnotizzato dal suo amore immaturo, e quando si rese conto che Marceline mi dava fastidio cominciò a staccarsi da me. La cosa andò avanti per mesi e capii che stavo perdendo il mio unico figliolo, il ragazzo che per venticinque anni aveva costituito il centro di tutti i miei atti e pensieri. Confesso che mi sentivo piuttosto amareggiato, e quale padre non lo sarebbe stato? Tuttavia non potevo fare niente.

    Parte 3 >

    Edited by & . - 13/7/2020, 21:40
     
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