Votes taken by Pixel.

  1. .
    Guardati attorno.
    Chiudi il giornale e posalo.
    Alzati dalla panchina.
    Percorri il sentiero, fino all'uscita.
    Passi lenti, uno, due, tre, stop.
    Guarda a destra, poi a sinistra.
    Attraversa.
    Macchina che accelera.
    Passo svelto, marciapiede.
    Passa a sinistra del palo della luce, spostati a destra.
    Sorridi.
    Schiva la donna con il passeggino.
    Attenzione, signore troppo vicino, collisione imminente.
    Contatto.
    Chiedi scusa e prosegui.
    Non rallentare.
    Passo svelto, quattro, cinque, sei, stop.
    Premi il bottone e aspetta.
    Verde, attraversa.
    Gira a sinistra, saluta il fioraio all’angolo.
    Cerca le chiavi nella tasca destra della giacca.
    Arriva alla porta.
    Inseriscile nella toppa, gira.
    Accendi la luce.
    Sali le scale, una rampa, due rampe, tre rampe, ultimi gradini. Sette, otto, nove, stop.
    Apri la porta, entra.
    Chiudi la porta.
    Girati, vai al centro della stanza.
    Prendi la seconda sedia da destra, spostala.
    Mettici un piede sopra, salici.
    Prendi il cerchio alto.
    Incoronati.
    Sei il re.
    Il re dei robot.
    Fai un passo in avanti, dieci.
    Penzola.

    Uscire dall'alienazione umana, spesso richiede un sacrificio. Estremo.
    Siamo così alienati alla nostra stessa natura, che non ci accorgiamo di essere finti, programmati, senz'anima.
    Viviamo di gesti meccanici, di azioni vuote, di sentimenti inesistenti.
    Fuggite, fermatevi, guardatevi attorno, respirate un po' di autenticità, in un mondo di cartapesta.


    Edited by Pixel. - 12/11/2020, 18:36
  2. .
    Per accompagnare la lettura [ www.youtube.com/embed/RIFoJf3Maik ].


    Il mio nome è Andy e ho ventidue anni.
    Fin da piccolo sono sempre stato un tipo strano, diverso dagli altri bambini.
    Poco più avanti mi è stato diagnosticata una rara forma di schizofrenia indifferenziata, ovvero una particolare patologia che mi mostra cose che non esistono, mi fa sospettare delle persone, presento disturbi motori e mi fa chiudere in me stesso.
    Io non ci credo, tutto quel che vedo è reale.

    Tutto risale al mio dodicesimo compleanno, undici anni fa.
    Mamma mi volle portare al parco a giocare, con i miei pochi amici.
    Ma, allontanandomi troppo, mi persi.
    Vagando tra gli alberi incontrai un uomo, avanti con gli anni. Puzzava di alcol e, mettendomi la mano destra sulla spalla mi disse "Ti sei perso? Hai bisogno di aiuto?"
    La sua voce tremava ed emanava un odore fetido.
    Corsi, ma lui era più veloce, provai a fuggire, morsi, graffiai e mi liberai.
    Arrivato ad un cancelletto, che separava la zona del giardino botanico da quella panoramica, lo chiusi con forza e l'uomo, subito dietro di me, non fece in tempo a togliere la mano.
    Tranciata di netto. Vidi la sua espressione, inorridita e allo stesso tempo furibonda.

    Corsi e arrivai all'uscita, chiedendo aiuto.
    Raccontai l'accaduto e portai sul posto tutti gli uomini che riuscivo a trovare.
    Non vi era nulla, né sangue, né mani mozzate; il cancelletto era spalancato.

    Da lì nacque il mio calvario. Mi portarono da uno psichiatra e mi marchiarono a vita, schizofrenico.
    Ma io non ci credo. Tutto quel che che vedo è reale.

    Fui preso in giro, da tutti. Mi chiamavano Handy, il senza mano.
    Nessuno mi credeva, e persi i miei pochi amici.
    Mia madre piangeva ogni notte.
    Così, una volta compiuti ventuno anni, scappai di casa e imboccai la strada principale.

    Ora cammino per la strada, e osservo la gente.
    Vivono tutti in una realtà virtuale, cellulari, cuffiette, tablet. E poi sarei io quello malato?
    Sono diverso, è vero, ma è per questo che vogliono farmi fuori?
    Come schizofrenico non ho la possibilità di portar con me una pistola.

    Vogliono uccidermi.

    Cammino per la strada, e osservo la gente.
    Ma qualcuno osserva me, ne sono certo, ma loro non sanno che io sono pronto.
    Una pistola infilata tra i pantaloni, carica.
    Nessuno può uccidermi.
    Lui mi sta cercando.

    Cammino per la strada, e osservo la gente.
    Si allunga, la gente.
    La sera sta calando, le ombre ti salutano.

    I suoi occhi sono puntati su di me, mi ha trovato.
    Estrassi la pistola e tolsi la sicura, accelerai il passo.
    Sentivo i suoi passi, correva.

    Sentii una mano toccarmi una spalla, ma non vidi nessuna mano.
    Mi girai e sparai, sei colpi.
    Nessuno può uccidermi.

    Andy fu arrestato e condannato per omicidio volontario, sconta la sua pena in un ospedale psichiatrico.
    La sua vittima si chiamava Gary Burton, ventisei anni, morto per aver provato a restituire un portafoglio, caduto a Andy.


    Edited by Pixel. - 22/6/2015, 20:37
  3. .
    Ha il suo perché.
    Gioca sul "Questa sarà la solita Creepypasta nella quale spunterà lo spoiler dal buio con una faccia terrificante"
    e invece è qualcosa di completamente diverso.

    Mi è piaciuto, ottimo +1
  4. .
    Ora.
    La storia è scritta bene, anche se avrei modificato leggermente alcuni passi per rendere l'atmosfera più teatrale. Mi piace la spiegazione della meccanica di chiusura della porta.
    La cosa che non mi piace è l'immagine. Troppo scontata, troppo spinta al "omfg una sagoma che paura!"
    L'avrei sfumata leggermente o addirittura cambiata.
    L'avrei resa così:
    [IMG][/IMG]


    o così:
  5. .
    Cammino per la via centrale della città, è quasi Natale. Si sentono intonare canti in tutti gli angoli, in tutte le chiese. I commercianti ti accolgono con un sorriso ed i negozi di caramelle sono strapieni di bambini che cercano di racimolare il loro bottino.
    Sono stata anch’io bambina, ma non ricordo bene la mia infanzia, sembra quasi una stanza buia della mia vita, un posto nel quale tutte le mie azioni siano state cancellate, tutto il mio tempo sia passato senza che mi rendessi conto di nulla.
    Continuo a camminare in quella via gremita di gente. Genti di ogni nazione, costumi e lingue camminano uno a fianco all’altro con quello stupido sorriso stampato in faccia.
    Non li odio, ma non capisco perché il Natale renda tutto così lucente e trasformi le persone nelle personificazioni della gentilezza e della cortesia.

    Decido di fermarmi, c’è qualcosa che mi attira: una vetrina. Vendono libri, ma sono libri vecchi, smessi. Non vi è nessuna ghirlanda o decorazione natalizia all’esterno, solo un’insegna logora, della quale si distinguono solo le prime due lettere: fa.
    Titubante, decido di entrare. L’aria all’interno è polverosa, la luce che proviene dall’esterno è filtrata dalla forte presenza di acari.
    Alla cassa, un vecchio signore, con una lunga barba bianca e quattro denti, mi sorride. Ricambio con un timido sorriso e mi metto alla ricerca di una lettura leggera, interessante e poco impegnativa. Decido di cercare nel reparto fantasy, non il mio genere, ma comunque pieno di volumi interessanti.
    La polvere regna sovrana negli scaffali, l’odore di legno ammuffito rimarca tutto il negozio.
    Cerco di smuovere la polvere e noto un libro, con la copertina gialla. Mi colpisce, come un fulmine a ciel sereno, mi smuove qualcosa dentro la testa, i ricordi iniziano a emergere come un vulcano in eruzione, come se il tappo fosse rimasto lì per troppo, troppo tempo.

    Un lampo e tutto sparisce. Mi ritrovo in una casa familiare quanto sconosciuta.
    Sono io, alla finestra, con quel libro in mano, ma non sono io.
    Sono, diversa. Sono una bambina.
    La storia mi prendeva tanto che non riuscivo a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre seguivo con attenzione la trama, la quale assorbiva tutta la mia attenzione, sentii un improvviso rumore che saliva dalla strada. Sarà stato un incidente, pensai. E ripresi a leggere. Ma subito dopo ecco un altro colpo. Il vetro della finestra tremò. Perfino il libro tremò tra le mie mani. Ma non volli a nessun costo staccarmi da quella pagina. Che m’importa di quello che succede in strada! Mi dissi. Al terzo colpo però è la casa intera che si scosse e traballò. E non riuscii a non alzarmi ed avvicinare la faccia al vetro. Quello che vidi mi fece cadere il libro dalle mani.

    Una macchina era appena esplosa, poi un’altra, ed un’altra ancora.
    Poi, il silenzio più assoluto, piangevo. Raccolsi il libro da terra, tremavo come una foglia nuda d’inverno, una foglia secca che ormai non ha più valore. Non sapevo il perché, le lacrime scendevano da sole, lasciai il libro lì, sul davanzale di quella finestra, non l’avrei più rivisto.
    Aprii la porta, e corsi giù per le scale, un altro boato mi fece sobbalzare. Cercavo mia madre, o mio padre, ma non riuscivo a trovare nessuno. Urlavo, ma qualcuno, la fuori, urlava più di me. Le sirene si facevano più vicine, ma un rombo simile ad un tuono fece esplodere i vetri del piano terra.
    Fui scaraventata contro il muro, battei la testa e svenni.

    Mi risvegliai all’inferno, vi era fumo ovunque, ero sola.
    Mi faceva male la gamba, era calda, pulsava, era bagnata.
    Provai ad alzarmi ma caddi a terra, e di nuovo, fino a quando sentii due braccia forti sollevarmi e portarmi fuori.
    Non era mio padre, era un ragazzo giovane, avrà avuto trent’anni. Mi sorrise, ma io non riuscii a cambiare la mia espressione facciale. Ero impietrita, ero spaventata, volevo i miei genitori.
    Mi curò la ferita alla gamba come meglio poté e sparì in mezzo alla folla.

    Ero sola, nuovamente, non sapevo dove fossero i miei genitori, avevo fame; non potevo restare lì. Mi alzai con molta fatica, avevo bisogno di trovare un posto dove mangiare.
    Camminai per non so quante strade, sembravano tutte uguali, erano tutte uguali.
    Trovai un piccolo bar, il gestore, spaventato almeno quanto me, mi fece entrare e mi diede una cioccolata calda.
    Piansi, come non avevo mai pianto. Volevo tornare a casa, volevo il mio libro, volevo sapere dove il coniglietto sarebbe finito, volevo sapere se e quando sarebbe riuscito a tornare a casa.

    Camminai tutta la notte. Perché erano esplose quelle macchine? Perché davanti a casa mia?
    Dovevo tornare lì. Dovevo trovare tutte quelle vie che mi avevano portato via dal mio libro, quelle vie che mi avevano allontanato da mia madre, quelle vie, tutte così uguali.
    Seguii i rumori, seguii le sirene che non smettevano di suonare. Erano blu come il cielo, forse un po’ più blu, e rosse, rosse come il sole quando sparisce dietro la montagna.
    Tornai a casa, ma non la trovai, non c’era più casa, né mamma, né papà.
    Non c’era il coniglietto rosa, dove era la mia casa?

    Sentii tante persone piangere quella notte, vidi tante lacrime scendere.
    C’era una radio accesa, una voce parlava, era una voce triste, fredda, quasi meccanica.
    “E’ scoppiata la guerra” diceva la voce “E’ iniziata la guerra per avere il potere.
    Signore e signori, questa è la guerra dei poveri, poiché solo i poveri perderanno tutto. Signore e signori, questa è la guerra degli innocenti, poiché solo gli innocenti…”
    Non potevo ascoltare ancora, mi venivano le fitte allo stomaco.
    Vomitai più volte e piansi.

    Camminai per uno o due isolati, o forse dieci. Dormii in piedi, ma non dormivo realmente. Pensavo a cosa fare, a dove andare, ma la mia testa era vuota, non avevo più nulla.
    Avevo solo quattordici anni e tanta paura.
    Mi fermai davanti ad un negozio di elettronica, aveva una tv accesa in vetrina.
    Mostravano le foto di chi aveva perso la vita nelle esplosioni della notte.
    I miei genitori non c’erano, magari erano sopravvissuti, magari mi stavano cercando.
    Un barlume di speranza comparve nel mio cuore, forse potevo ancora riempire quell’angosciante vuoto che mi logorava dall’interno.
    Ma tutto si distrusse all’improvviso.

    La guerra era alle porte, e i rumori iniziavano ad essere chiari: spari, spari in lontananza, grida.
    Grida di donne, grida di madri, di uomini che cercano di salvare le proprie vite, di salvare le vite di chi amano, di cercare un riparo, di scappare dalle proprie invenzioni malsane.
    Passi, urla, esplosioni, sempre più vicini, venivano a prendermi nella notte più buia della mia vita.
    Iniziai a correre, nelle gambe avevo una forza mia vista prima, la forza della paura.

    Corsi per metri, chilometri, senza fermarmi. Corsi verso mia madre, corsi verso il cielo, il vento mi trasportava, mi cullava e mi allontanava dalle mie paure.
    Ma non ero abbastanza veloce, come si può essere più veloci della luce, pensai.
    Le luci mi raggiungevano, luci rosse, luci di morte; una mi passò così vicina che potevo sentirne il calore.
    Poi vidi un’altra luce, piccola, poi sempre più grande. Veniva verso di me, voleva darmi il suo caldo abbraccio.
    Poi nero.

    Mi svegliai in ospedale, era tutto così, bianco.
    Mi faceva male tutto, dal bacino in su, impazzivo dal dolore.
    Provai a muovermi ma l’unica cosa che riuscii a muovere fu il quinto dito della mano destra, e subito mi si avvicinò un infermiere. Mi cambiò la flebo e andò via con un sorriso.
    Passarono velocemente i giorni, ma non riuscivo a sentire le mie gambe. Dove erano le mie gambe?
    Le avevo perse, insieme a tutta la mia vita. Avevo perso la voglia di vivere, avevo perso il mio libro, la mia famiglia, la mia casa, la mia terra.

    All’improvviso, eccomi di nuovo fuori dal libro.
    Sono in una libreria, polverosa e ammuffita. Spingo la mia carrozzella fino al bancone, e mostro il libro.
    Il vecchio sorride e mi dice “Quel vecchio ammasso di pagine ammuffite, seriamente? Te lo regalo, non vale nulla!”
    “Grazie, lei è veramente gentile, ma questo ammasso deforme di pagine è la mia vita, tutta la mia vita, quindi vorrei che mi dicesse il prezzo.”
    Una volta pagato, esco all’aria aperta. Strano quanto la mia vita costi così poco, ma una vita può valere davvero qualcosa?
    Continuo a muovermi tra la folla, avvicinandomi ad un parco e, cercando, riesco a trovare riparo sotto un grosso albero, una quercia credo.
    Apro finalmente il libro, sento l’odore di vecchio salirmi in testa, e inebriare i miei sensi.
    Pagina sessantatré, capitolo nove, il coniglietto rosa torna a casa.
    Forse la mia vita non era finita.

    Edited by Pixel. - 17/3/2014, 20:18
  6. .
    Perlato.
    Questo è un racconto, perlato.
    Che vuol dire?
    Beh, non c'è molto da dire.
    È come se fosse stato modellato per il lettore, è come se tu sapessi già come spalmare tutti i dettagli addosso ai personaggi, addosso agli scenari.
    Lavoro eccellente, stile ricercato ma al contempo semplice ed efficace, lettura scorrevole.
    Forse, il tuo migliore.
    Anche se credo non sia il tuo genere, con applicazione sei riuscita a raggiungere un livello alto.
    Bene.
    Brava, hai il mio +1
  7. .
    Curioso.
    Ho scritto un racconto estremamente simile, mai letto da nessuno.
    Io non riesco a criticare la struttura del racconto, anche se magari più dettagli avrebbero arricchito il racconto.
    Questo tipo di racconti si devono apprezzare per la loro essenza.
    L'essenza di un sentimento che riesce a vincere il patriottismo e la fedeltà alla propria nazione.
    Good Job, Mari.
    +1
  8. .
    Curiosa, anzi curioso.
    Curioso quando veramente poco sappiamo di noi stessi.
  9. .
    Cercate di inventare una storia sul momento.
    Con questi dettagli.
    -Banana.
    -Tavolo.
    -Tette.
    -Eiaculazione precoce.
    -Maglietta verde.
    -Dio.
    -Trigonometria.
  10. .
    Non male, veramente non male.
    Più che altro è curioso lo stile con cui l'hai voluta stendere.
    Lo trovo meccanico, quasi robotico.
    +1 per me.
  11. .
    K, ci siamo. Eccoci arrivati, qui, alla fine.
    O all'inizio?

    L'ho letto, tutto. Ho letto la tua mente, ho letto la tua persona, la tua donna.
    Ho letto i tuoi silenzi, ho letto ciò che sei, ciò che ami, ciò che temi.
    Cosa è un racconto? Cosa sono se non parole messe in fila?
    Oh no, un racconto è come un film, se non migliore.
    Un racconto è un pensiero scritto su carta.
    Son mille pensieri, sono mille ricordi.
    La piazza, il bosco, il bar, la montagna, la carrozza.
    Io, ero lì, era il mio racconto. L'ho immaginato io, il colore della carrozza, i capelli di lei, la spada.
    È questo un racconto.
    È lasciare spazio all'immaginazione del lettore, è prendere per mano e condurre alla fine, ma lasciando libero di muoversi.
    È condurre con un filo sottile.

    Mi piace lo stile, mi piace il linguaggio.
    È il tuo miglior racconto.
    Hai lasciato una parte di te, hai lasciato qualcosa.
    Tu eri il mio cocchiere, mi hai portato a spasso per i tuoi pensieri.

    +2 ma non fa a metterlo.
    Questo vale doppio, e consiglio a tutti una lettura lenta, lenta e dettagliata, perchè nulla qui, è lasciato al caso.

    Bravo, K.
  12. .
    La presentazione migliore, benvenuta, anche se qualcosa mi dice che non starai qui per molto
  13. .
    Ho trovato questo racconto in una bottiglia di vino,
    questo racconto in rima è quasi divino:
    divino è il drammatico in rima scritto,
    grazie a te ora ho il pelo dritto.

    Ho pensato a questa bottiglia di vino,
    il tuo stile è assai carino:
    assai carino, ma anche rapito e diretto,
    sono compiaciuto, il confronto con gli altri hai retto.

    Ogni volta c'è questa bottiglia di vino,
    Mi son ritrovato al moribondo vicino:
    vicino nella sua triste sofferenza,
    che del racconto è tutta l'essenza.

    Finalmente ho finito la bottiglia di vino,
    Il mio pollice va verso il mattino:
    il mattino è finalmente arrivato,
    per te, il mio pollice in su si è alzato.

    Brava fanciulla, davvero.
  14. .


    Camminavo lungo il litorale, ad ogni passo mi appoggiavo su un bastone di mogano nero, zoppicavo.
    Davanti a me vedevo bambini rincorrersi con in mano palette e secchielli, ragazzi correre con il fiatone, una donna con il telefono tra l’orecchio e la spalla mentre cercava di caricare le buste della spesa in macchina.

    Prima o poi si arriva ad un punto nella nostra vita in cui tutto il mondo attorno a noi sembra accelerare, mentre noi rallentiamo, fino a fermarci. Come la pioggia che dopo aver colpito violentemente la terra rallenta fino a smettere, lasciando il posto alla pace, così la nostra vita prosegue fino a quando decide di fermarsi.

    Continuai per qualche metro fino ad arrivare ad una panchina di pietra. Era fredda ma accogliente. La pietra mi cingeva in una morsa, probabilmente fatale.
    Di fronte a me il mare, che nella sua immensità abbracciava tutto il mio orizzonte.
    Il sole era ancora basso: saranno state le nove, forse le nove e mezzo.
    Avere in faccia quei primi tiepidi raggi di luce non m'infastidiva, anzi, mi accarezzavano dolcemente dandomi quel calore che il tempo mi aveva tolto lentamente: il calore di una famiglia.

    Chiusi gli occhi per un momento, ma nel riaprirli feci fatica.
    Dovevo riuscirci, dovevo resistere, dovevo battere la malattia almeno un’ultima volta.
    L’Alzheimer è la malattia peggiore che si possa avere perché non ti crea lesioni fisiche ma mentali, ti logora dall’interno, mangiandoti pian piano, fino a farti perdere la cosa più importante: la tua vita.
    Chiusi ancora gli occhi. Sentivo le risate dei bambini, i passi pesanti di chi corre ormai da ore, il fragore delle onde che s'infrangono contro le rocce, il batter d’ali dei gabbiani.

    Tornai indietro con i ricordi di settant'anni, era il mio sesto compleanno e avevo davanti una semplice torta con sei candeline posate delicatamente sulla cialda da mia madre.
    Mio padre non c’era, ma in fondo lui non c’è mai stato; non ho mai saputo neanche come fosse la sua faccia, il suo sorriso. Non ho mai avuto nessuno che mi portasse allo stadio, nessuno che m’insegnasse come attaccare bottone con una ragazza, nessuno che fosse lì quando presi il mio primo pugno o ruppi il primo vetro con il pallone.
    Mia madre non me lo ha fatto mai pesare, ma per lei non deve essere stato facile tirarmi su da sola, ma l’ha fatto, e per questo le sarò sempre grato.

    I ricordi scorrevano via velocemente: la prima pedalata in bicicletta, la prima nuotata, il primo giorno di scuola, la prima giornata di lavoro, la prima ragazza, il primo bacio, la prima scopata. Tutto mi passava davanti come un fiume in piena, travolgendomi.
    Era da molto che non provavo questa sensazione, la sensazione di essere padroni della propria vita, del proprio passato. Quel fiume sfociava in un lago, non molto grande ma profondo; è il lago di Lara, la mia prima cotta.


    Decisi di tuffarmi, di rivivere quel momento, pur non avendo molto tempo.

    Avevo quattordici anni, e mia madre mi aveva affidato per la prima volta il compito di comprare il pane. Con i miei pantaloni marroni a pinocchietto e una canottiera bianca mi presentai dal fornaio del mio paese saltellando felice; finalmente mi ritenevano abbastanza grande per fare qualcosa.
    Entrai e vidi un omone con i folti baffi ed un grembiule bianco sporco di farina. Appena mi vide mi sorrise e mi chiese chi fossi. Risposi alla domanda e accertate le mie “credenziali” mi chiese che pane volessi.
    Stavo per uscire quando la vidi, forse attirata in quella stanza dalla mia voce piena d’entusiasmo o forse complice il destino. Era bellissima, bionda, con una treccia adagiata con cura sulla spalla destra.
    Aveva gli occhi nocciola e una voce dolce come lo zucchero filato. Da quel giorno andai ogni mattino per almeno tre mesi a prendere il pane, nella speranza di incontrarla. La vedevo quasi tutti i giorni, quando sentiva la mia voce, affacciarsi dalla porticina che collegava la bottega ad un’altra stanza; si affacciava, arrossiva e spariva lasciando solo l’immagine della sua figura fissa nella mia mente. Pensavo in continuazione a lei, quando un giorno, mi decisi a rivolgerle la parola.
    Ma entrando non trovai il solito omone allegro con i suoi folti baffi, né sua figlia affacciata alla porticina. Trovai il garzone, e in risposta alla mia faccia stranita mi disse che il fornaio e sua figlia stavano partendo per andare in un altro paese.
    Corsi come non avevo mai corso, la stazione distava solo tre chilometri, ma a me sembravano mille.
    Correvo scalzo e caddi; mi rialzai ed arrivai con il fiatone, giusto in tempo per salutarli. Il fornaio mi sorrise e mi strinse forte, quasi soffocavo. Ma appena sentì il treno fischiare si staccò, prese i due borsoni e disse a Lara che era tardi, che stavano per partire. Lei si avvicinò e mi stampò un bacio sulla guancia; m’infilò la mano nella tasca destra e fuggì. Mi aveva lasciato una …


    Non feci in tempo a guardare cosa avevo in tasca che fui sospinto fuori dal laghetto, da una corrente d’acqua e riportato in superficie; era ora di andare avanti, non c’era molto tempo.
    Continuai a percorrere il fiume: il primo stipendio, il primo regalo che comprai a mia madre, i miei diciotto anni. Vidi un altro ricordo e decisi di seguirlo, era la mia anima gemella, Camilla. Io ero lento e pesante, lei veloce e schivava facilmente gli altri ricordi minori. Ma ero deciso a ricordare e neanche la malattia sarebbe riuscita ad impedirmelo.
    Con un balzo vi entrai dentro e la prima cosa che vidi fu il suo viso.

    Felicità, sconforto, nostalgia, dolore, stupore; provai tutto insieme, come uno schiaffo che non fa male, non lo senti sulla pelle, ma lo senti dentro, come una morsa d’acciaio che ti stritola.
    Avevo vent’anni, lei diciannove; la conobbi un anno prima di partire per la leva obbligatoria. Ero ad una festa, nulla di speciale, qualche amicizia e qualche imbucato. Musica lenta, luci soffuse, alcool. Me la ritrovai davanti e senza esitare mi presentai, progettando già al dopo-festa. Ma lei non era una di quelle, tant’è che come avvicinai troppo la mia faccia alla sua mi diede uno schiaffo così forte che si sentì in tutta la sala. Bofonchiai delle scuse forse incomprensibili e me ne andai sconfitto verso il parcheggio. Ero seduto lì, sul cofano della mia auto, quando la vidi uscire. Pensai “Oh merda, ora questa si fa sentire.” Invece si avvicinò lentamente e mi baciò. Fu il momento più bello della mia vita, il primo momento in cui non ebbi bisogno di nient’altro, come quando finisci di mangiare e guardi il piatto vuoto, con la pancia piena. Stemmo insieme un anno e quando dovetti partire, lei mi promise che mi avrebbe aspettato.


    Continuai su quel fiume che diveniva via via più magro, più vuoto; dovevo resistere.
    Ad un certo punto vidi l’acqua sporca, quasi nera, mi avvicinai e ricordai qualcosa che avrei voluto non ricordare mai.

    Dopo undici mesi dal mio arruolamento fui richiamato dal servizio. Inizialmente non mi dissero il perché, ma dopo aver visto le facce cupe, capii che era successo qualcosa. Mia madre era morta nel sonno, a soli quarantanove anni.
    Mi crollò il mondo addosso, ero appena riuscito a dare un senso alla mia vita, a costruire un castello di carte, ed il vento senza preoccuparsene me lo aveva spazzato via. Rimaneva solo una carta, la regina di fiori, Camilla.


    Uscii a fatica da quell’acqua sporca. Ero stanco, molto stanco.

    ..In quella panchina fredda sul litorale era seduto un vecchio, con gli occhi chiusi, immobile, mentre il sole era alto..

    Continuavo a seguire il fiume, ma non riuscivo a vedere più il fondo, avevo la vista appannata, cercai e trovai un ultimo barlume di lucidità e mi gettai nel ricordo più grande, nella pozza più profonda.

    Una casa familiare, un bambino che correva scalzo sul pavimento di legno, una donna bella, bionda che cucinava. Un uomo con il mio viso, ringiovanito di quarant’anni, con la mia voce, ripeteva la frase “Marco, il pranzo è pronto”. Il bambino arrivò con un aeroplanino in mano e un sorriso stampato sul viso. Era una famiglia felice, c’erano maccheroni al formaggio quel giorno.
    C’era un’altalena nel giardino, era sospinta dal vento e cigolava; era la stessa nella quale passai tanti pomeriggi a ripetere l’alfabeto con mia madre che, vigile, mi spingeva dolcemente. Ora era lì, arrugginita, ma sempre in piedi, sorretta da quell’albero che mi ha visto crescere, ridere, correre, sbucciarmi le ginocchia.
    Avevo trentacinque anni, una carriera come giornalista davanti, una moglie perfetta, un figlio di cui ogni padre dovrebbe essere orgoglioso; avevo una vita, nonostante tutte le difficoltà incontrate da bambino ci ero riuscito, ero riuscito a costruire il mio sogno.


    L’acqua però iniziava a farsi fredda e riuscivo a stento a stare dentro il ricordo, ma strinsi i denti e resistetti.

    Era il 26 aprile, sembrava una giornata come le altre, solita doccia, solita colazione con cornetto e cappuccino. Marco doveva andare allo zoo nel paese vicino e Camilla lo avrebbe accompagnato. Marco voleva lo portassi io, ma avevo una riunione importante e gli dissi che ci saremmo andati un’altra volta. Mi guardò dritto negli occhi e mi fece promettere che quella settimana lo avrei portato al circo a vedere i clown; mi strinse il dito indice come sigillo per la promessa e andò via sgambettando.
    Mentre andavano allo zoo, un grosso camion perse il controllo e andò a sbattere violentemente contro la macchina dove viaggiavano Camilla e Marco.
    Mi chiamarono e mi dissero quanto era accaduto; mi precipitai lì ma quando arrivai, non c’era altro che pezzi di lamiera, vetri infranti e un aeroplanino, sulla strada.
    Mi dissero che l’impatto era stato così violento che non mi sarebbe stato possibile neanche andare a vedere le salme in obitorio .
    Il mio castello crollò definitivamente, ma questa volta sul tavolo non rimanevano carte, solo l’immagine di quello che era e che non potrà più essere.
    Iniziai a bere, a trascurare il lavoro, a dimenticarmi degli articoli, delle interviste, dell’altalena, del viso di mia moglie, di Marco, del circo, l’aeroplanino.
    Vivevo solo, senza nessuno ad aiutarmi, nessuno con cui parlare.
    Vivevo con le foto, ma quando anche le foto iniziarono a sbiadire, rimaneva solo quel sapore di amaro in bocca, lo stesso sapore che si ha quando si viene superati all’ultimo secondo, lo stesso sapore che ha chi un momento prima toccava il cielo con un dito ed un secondo dopo il suolo con il culo.
    Quando arrivò l’Alzheimer, avevo solo cinquantotto anni; dimenticavo le chiavi, di pagare le bollette, di spegnere la luce, di chiudere la porta. Peggiorai ed iniziai a dimenticare come si cambia la marcia, come si nuota, come si accende la radio. Vivevo tra libri, libri e nient’altro, leggevo storie di altre persone, arrivando a credere che fossero le mie storie, le tante storie della mia vita.
    Ero morto, morto dentro, vivo solo nel corpo, l’anima lacerata da tanti episodi orribili. Continuavo a sopravvivere, ma ero stanco e così un giorno decisi di farla finita.
    Salii sul tetto e mi gettai di sotto; ma non trovai il suolo, solo un ramo dell’albero che era cresciuto con me. Era il ramo dell’altalena, che si spezzò e cadde con me, salvandomi la vita. Ero vivo e con stupore guardavo quell’altalena a terra, quasi volesse parlarmi, dirmi che prima dovevo fare ancora qualcosa: ricordare.


    Aprii gli occhi e mi ritrovai al litorale, il sole era come l’avevo lasciato, non saliva più, ma scendeva, lentamente, come se mi stesse aspettando da ore, il tempo si era quasi fermato e non c’era nessuno sulla spiaggia.
    Capii che era giunto il momento; lo sentivo, lo desideravo.
    Avevo la mia vita, ne ero il padrone.
    Finalmente potevo lasciare quello scrigno pieno di dolore e sofferenza. Potevo andare da mia madre, da Marco e Camilla, potevo conoscere mio padre ed andare allo stadio con lui a vedere gli angeli giocare.
    M’infilai la mano nella tasca destra e tirai fuori tre oggetti: la prima moneta che mi aveva lasciato mia madre per comprarmi un gelato, una vecchia foto in bianco e nero di una bambina con una treccia e un sorriso più grande del cielo, il terzo oggetto era un aeroplanino, piccolo e ammaccato, un aeroplanino che non sarebbe dovuto stare nelle mie mani.

    Alzai lo sguardo e lo vidi. Vidi un gabbiano planare sull’acqua maestoso come una montagna, ma leggero come una piuma. Veniva verso di me con calma, sapeva che l’avrei aspettato.
    Chiusi gli occhi, ma nonostante ciò riuscivo ancora a vederlo, nel cielo nero, nel grande cielo nero della mia mente. La morte aveva vinto, ma io non avevo perso. Cavalcavo il gabbiano felice, andavamo verso il sole, verso il suo caldo abbraccio.
    Sorrisi e chiusi gli occhi.
    Mamma, Camilla, Marco, Papà, arrivo.



    Edited by Pixel_Etrom™ - 19/9/2013, 20:24
  15. .
    Carina, anche se molto usata:)
    Per avere il mio APPROVED dovrai impegnarti di più:)
35 replies since 3/8/2013
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