Il passaggio

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    Ricordo bene una cosa: erano le dieci di sera ed ero sovraeccitato.
    Eravamo in ritardo per la festa delle nozze di Carla. Aveva da poco finito di piovere, il furgone correva forte sulla strada bagnata, e spesso avevo la netta sensazione che a quella velocità ci saremmo schiantati se Aspen non avesse rallentato. Alle mie spalle, il suo compagno Allen continuava a mettere insieme i fiori per intrecciarli in delle corone colorate bellissime. Non vedevamo l'ora di arrivare al ricevimento per mostrare a Carla la sorpresa. Tutti quei fiori erano il nostro omaggio per lei, e per augurarle un felice matrimonio con il suo nuovo compagno Davide.
    Sempre ammesso che saremmo arrivati sani e salvi, visto che Aspen guidava come un matto. Io stringevo forte con le dita il tessuto del sedile quando il veicolo sbandava un po', e mi pentivo di essere salito con loro due.
    "Quanto manca ancora?" domandai, sempre più irrequieto.
    "Ci siamo quasi, ancora pochi kilometri." mi rispose Aspen.
    "Vai più piano, per favore. Sto intrecciando gli ultimi fiori." disse Allen dal vano posteriore del furgone. Aspen non lo ascoltò, e proseguì come una furia per svariati metri, finché non mi accorsi che aveva iniziato a rallentare.
    "Che succede, siamo arrivati?" domandai. Aspen non disse nulla, si limitò a indicare qualcosa con la testa fuori, nella strada buia dall'asfalto luccicante. Mi voltai, cercando con lo sguardo a cosa stesse alludendo quella mimica corporea, e all'inizio non vidi niente. Solo casette basse sul lato destro della carreggiata, alcune delle quali visibilmente abbandonate da anni. Eravamo finiti in una frazione sconosciuta di un paesino di campagna, dove il numero di anime che lo abitavano si poteva contare sulle dita di una mano. Feci per ripetere ad Aspen la domanda di prima, quando ebbi una sensazione piuttosto sgradevole che percorse i peli delle mie braccia e raggiunse il centro del mio petto. Fu una sensazione che sembrava priva di causa, ma che iniziò ad assumere senso quando puntai i miei occhi nuovamente sulle case abbandonate alla mia destra. Fra le costruzioni ce ne era una che sembrava abitata da qualcuno, pur essendo fatiscente e mezza crollata. Aguzzai la vista e finalmente capii cosa aveva causato quella orrenda sensazione di prima: le persone che si trovavano nel cortile di quella casa sudicia ci stavano fissando in silenzio da diversi secondi, senza mai sbattere le palpebre. La loro pelle era pallidissima, quasi trasparente. Avevano facce smagrite e coperte di bende. I loro occhi spalancati puntati su di noi erano grossi e sporgenti. Le bocche sottili e inespressive. I corpi denutriti e spigolosi. Alcuni stavano in piedi, altri erano stesi per terra, ma non dormivano. Ci fissavano da ogni posizione.
    Aspen all'improvviso fece la scelta peggiore della sua vita: abbassò il finestrino e si accostò a loro col furgone.
    "Va tutto bene, signori?" domandò, ma loro non risposero. Solo un paio di quegli esseri si avvicinarono a noi, in maniera fluida e innaturale.
    Quando i loro visi furono a mezzo metro da me, volevo urlare. Avevano un'espressione indefinita, coperta com'era da tutte quelle garze mediche.
    "State bene? Volete che vi chiami qualcuno?" insistette Aspen. Effettivamente avevano l'aria malaticcia, di chi ha appena subito qualcosa, forse un incidente. Di nuovo non ci fu risposta, ma ancora una volta ebbi quella terribile sensazione che mi mise in allerta. Quando abbassai lo sguardo, infatti, mi accorsi che lo sportello del mio lato passeggero era stato aperto, e nel varco in basso si era infilata la faccia bianchiccia di uno di loro.
    Sentii Allen urlare dietro di me, ma ero paralizzato. Cosa stava succedendo?
    Aspen invece era ancora stranamente calmo, ma potevo sentirlo gorgogliare fuori dal mio campo visivo, mentre un fluido porpora macchiava il parabrezza.
    Vidi gli esseri avvicinarsi, e poi finalmente uno di loro parlò.
    "Vieni a scavare." mi disse, con voce roca.

    (dal web)

    Edited by TACET - 26/4/2024, 10:09
     
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