Il Picchio

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.      
     
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Member
    Posts
    1
    Creepy Score
    0

    Status
    Offline
    L’Arrivo

    28 Ottobre 2004

    “Qui è perfetto”

    Il sole stava già svanendo dietro l’orizzonte boscoso, nascosto dalle fitte fronde dei pini.
    Martin si sporgeva in avanti sul bordo di un dislivello coperto da un arido tappeto di erba, indicando uno spiazzo circolare di modeste dimensioni poco più in là, incastonato come una gemma nel paesaggio all’imbrunire della foresta autunnale.

    “Direi che va bene”, si fece strada dietro di lui una voce esausta.

    Balzò giù dall’argine della sua torre di osservazione improvvisata e lasciò cadere in terra i due zaini che aveva portato con sé fino a quel momento, uno per spalla, da quando avevano lasciato il rifugio Vora, una baita in legno di pino ai piedi dei Carpazi, circa 6 ore prima.

    Erano già due ore che cercavano uno spiazzo per la notte.
    I locali gli avevano detto che la foresta era particolarmente fitta in quella zona e che non era consigliata per il diletto di turisti occasionali, ma loro sapevano il fatto loro.

    “Adesso la mamma ti fa fare la pappa”.

    Gloria stese prontamente un asciugamano nero al centro della piazzola e delicatamente pose Isaac sopra di esso, dopo averlo estratto dal marsupio verde.

    Isaac avrebbe compiuto un anno tra una settimana.
    I suoi genitori avevano scelto per l’occasione di portarlo in Romania, da dove i nonni di Gloria, quasi 70 anni prima, erano emigrati in cerca di un futuro migliore, alla volta della Germania post-bellica.

    Un ritorno alle origini.

    “Amore, mi passeresti la mela nella vaschetta verde? Dovrebbe essere nella tasca esterna del mio zaino”.

    Pochi istanti dopo i dentini da latte di Isaac avevano già cominciato ad affondare nella scorza rossa e croccante.

    Martin e Gloria lo osservarono in silenzio qualche istante, poi il loro sguardo si incrociò e sorrisero.
    Entrambi sapevano che portare un bambino di 11 mesi in un’escursione in mezzo alle foreste vergini dei Carpazi era una scelta azzardata ed il motivo era piuttosto chiaro anche a loro. Il viaggio non era stato dei più semplici del resto, Gloria era una donna atletica e in salute, ma Isaac incominciava a pesare parecchio e presto non sarebbe più stato possibile portarlo nel marsupio, cosa che in fondo, per quanto non lo ammettesse, le dispiaceva.


    Ad un certo momento una nuvola di passaggio li aveva colti alla sprovvista mentre risalivano una collina fangosa ed erano stati costretti a ripararsi sotto un enorme tiglio, in attesa che la pioggia cessasse.

    Il rombo dei tuoni e lo scroscio sommesso dell’acqua parevano ormai lontani ricordi mentre riprendevano fiato accanto al loro bambino, intento a sgranocchiare la merenda nella rossastra luce autunnale del tardo pomeriggio.


    La Casa

    Nonostante la scarpinata, Martin non si sentiva stanco, ma piuttosto elettrizzato.
    Le foreste gli facevano uno strano effetto sin da quand’era bambino.

    A 10 anni era solito passare i pomeriggi a giocare nel bosco di faggi dietro casa sua in compagnia dei suoi fratelli e spesso, tornato a casa, non si addormentava prima di alcune ore.
    Una volta era persino sgattaiolato fuori dalla sua stanza nel bel mezzo della notte, una coppia di cacciatori lo aveva ritrovato il mattino seguente, addormentato tra le frasche.
    Ne aveva prese talmente tante che al solo pensiero di quell’episodio il sedere gli bruciava ancora.

    Tuttavia questo suo particolare stato d’animo aveva anche dei vantaggi.
    Dopo neanche mezz’ora da quando erano arrivati, le due Quechua già ondeggiavano nella leggera brezza serale, pronte per la notte.

    Da quel momento aveva girovagato senza metà tra faggi e abeti, con le mani in tasca e la testa tra le nuvole com’era solito fare mentre Gloria allattava loro figlio al campo, finché non si era imbattuto in qualcosa di decisamente fuori dall’ordinario.

    Alle spalle delle loro tende, a qualche decina di metri di distanza, nascosta da una parete di rovi e cespugli rossastri, si celava una piccola casa in legno scuro.


    Cadeva in un evidente stato d’abbandono: l’unica finestra era sprangata da alcuni assi di legno, inchiodate alla rinfusa, e l’insolito tetto a punta, coperto da strati di foglie e incrostazioni di muffa verdastra, si stagliava sul cielo bruno, che andava intorbidendosi.

    Sembrava uscita da un racconto dei fratelli Grimm, pensò.



    Fu solo in quel momento che si rese conto del silenzio tombale che avvolgeva la foresta intorno a loro.

    Nè il frinire di un grillo, nè il cinguettio di un uccello.

    Niente.

    Deve essere uno scherzo.

    “Gloria!”

    Un flebile eco risuonò tra gli alberi: “Che c’è?”

    “Ho trovato una cosa assurda! Venite a vedere!”

    ---

    Gloria se ne stava accanto al suo uomo in religioso silenzio, sul suo volto lo sguardo confuso, Isaac in braccio, anche lui ammutolito davanti alla decadente regalità di quel vecchiume marcescente.

    Dopo qualche istante, la ragazza ruppe il silenzio con voce incerta.

    “Secondo te è abitata?”

    “No, è praticamente impossibile”, rispose Martin, quasi ridendo.

    Si trovavano a una dozzina di km dalla strada più vicina e diverse decine dal rifugio Vora.
    Inoltre non vi erano cortili, recinti, bivacchi o qualunque altro elemento che facesse pensare ad una presenza umana recente.

    Nessuno avrebbe mai potuto vivere in un posto simile.

    Martin era consapevole che la foresta in cui si trovavano risaliva ad un tempo precedente all’uomo, era rimasta incontaminata per decine di migliaia di anni, tant’è che quando le prime popolazioni nomadi si stanziarono nell’area, trovarono già alberi secolari ad aspettarli.

    Per questa ed altre ragioni, imbattersi in un insediamento umano in quel posto era molto più che strano.

    A quel punto ormai, l’entusiasmo di Martin era quasi del tutto svanito e aveva lasciato il posto ad un crescente senso di disagio.

    “Entriamo.”

    Quell’unica parola,dotata di vita propria, si era fatta strada attraverso la sua gola ed era fuggita dalla morsa delle sue labbra che non avevano potuto far altro che schiudersi e lasciarla passare, quasi senza che Martin se ne accorgesse.

    Il portone mezzo scardinato veniva tenuto fermo da un grosso e gelido sasso ricoperto da uno strato di muschio nerastro. Martin lo raccolse con entrambe le mani e lo spinse di lato, quanto bastava per farsi strada.

    Chi ce lo ha messo?

    Martin fece il suo ingresso nel ristretto e angusto ambiente che si celava dietro quelle pareti legnose e venne travolto da un fetore ristagnante.
    Una ferita nel tetto, in corrispondenza della quale le assi del pavimento avevano ceduto , lasciava filtrare un filo di luce morente che bastava appena ad illuminare il massiccio tavolo di legno al centro della stanza, ricoperto di rami, foglie e sporcizia d’ogni tipo.
    Gloria ed Isaac rimanevano ben vicini all’ingresso, scrutando l’uomo muoversi lentamente nella polverosa penombra, con passo incerto.

    “Attento a dove metti i piedi, è tutto marcio qui.”

    Gloria avrebbe solo voluto prenderlo per un braccio e correre lontano da lì, ma un’insolita e morbosa curiosità la paralizzava, tutta la sua attenzione era concentrata su quell’anomalo spettacolo.

    “Guarda lì!”, indicò lei, puntando il dito indice su di un oggetto oblungo, appoggiato al muro in posizione verticale.

    Martin lo afferrò prontamente e lo portò sotto la luce per esaminarlo.

    “Un bastone da passeggio”, annunciò, con voce perplessa.

    Era piuttosto malmesso, in legno nero e ricoperto di muffa e grasso. La testa, placcata in metallo opaco, probabilmente argento od ottone, ed anch’essa ricoperta di sporcizia, raffigurava un imprecisato animale, forse un leone od un orso.

    Deve essere rimasto in questa catapecchia per un bel po’, pensò lui.

    Uno strato di terra umida ne ricopriva l’estremità inferiore, sulla quale era anche cresciuto uno strato di muschio e qualche minuscolo filo d’erba, a testimonianza del fatto che fosse stato usato per vagare nei dintorni.

    La cosa più strana era che tutto in quel posto dava l’idea di essere stato buttato alla rinfusa, abbandonato in fretta e in furia.

    Tutto tranne quel bastone, riposto con cura e metodo, come in attesa di essere recuperato da qualcuno.

    Martin lo rimise nell’esatto punto in cui lo avevano rinvenuto e si voltò verso il tavolo.

    “Vediamo cosa abbiamo qui…”, mormorò tra sè e sè, quasi scordandosi della presenza di sua moglie e suo figlio, ancora appoggiati all’uscio della porta.

    Rovistò tra i rifiuti del bosco e non gli ci volle molto per trovare qualcosa che alimentasse ulteriormente il loro interesse.

    Un campanello, questa volta chiaramente in argento, coperto da un mucchio di foglie imputridite e rami di pino ammorbiditi dall’umidità.

    L’uomo lo estrasse dalle macerie tenendolo tra l’indice ed il pollice e lo avvicinò al volto.

    “Ci sono delle scritte, sembra latino. Ab.. Abyssia..”

    “Fà vedere”, Gloria si avvicinò a gamba tesa, con il bambino in braccio.

    “Abyssus abyssum invocat”, pronunciò lei con voce sicura.

    Gloria per una frazione di secondo pensò che gli studi classici le stavano servendo per una volta nella vita, prima che la sua mente tornasse a concentrarsi sulla reliquia che aveva tra le mani.

    “Che vuol dire?”

    “Vuol dire l’abisso invoca l’abisso.”

    Ci fu un momento di silenzio.

    “Mi sembra una frase un po’ strana da scrivere su un campanello”, continuò lui.

    Era ben più che strana ed entrambi ne erano consapevoli ma nelle profondità della foresta all’imbrunire l’ultima cosa che potevano permettersi era di farsi suggestionare da una scritta su un campanello.

    Gloria annuì flebilmente, senza distogliere lo sguardo dall’incisione e poi con il dito indice sospinse delicatamente il batacchio che prontamente iniziò ad oscillare avanti ed indietro producendo uno squillante tintinnio, capace di squarciare con forza sorprendente il silenzioso riposare della foresta.

    Lo scampanellare si propagò lontano, nella fitta vegetazione, risuonando tra le fronde dei pini sospinti dal vento freddo e discendendo poi lungo i fossati, ricolmi di radici e cespugli, che segnavano il sottobosco come cicatrici e su cui l’oscurità della notte era già calata da un po’.

    “Non mi aspettavo funzionasse ancora, sembra parecchio malconcio.” sussurrò lei, con una punta di rimorso nella voce.

    “Cosa qui non lo è?” rispose lui, sorridendole flebilmente.

    Isaac li guardava spaesati con i suoi grandi occhi marroni, mentre si portava le dita alla bocca. Accennò anche lui un sorriso, senza saperne il motivo, ad imitazione del padre.

    Tornarono tutti e tre ad osservare il tavolo. Il bordo frastagliato di una foto segnalava l’ennesima scoperta.

    Questa volta Martin rovesciò tutto il lerciume giù dal tavolo, spingendolo con l’avambraccio, e quando vide cosa si celava al di sotto di esso, spianò la fronte e sentì il cuore mancare un battito.

    Decine di foto di bambini, sparse ovunque.

    Alcune in bianco e nero, altre color seppia e altre ancora a colori. Avevano attraversato i secoli e ora erano sotto gli occhi sgranati di quella famiglia a farsi ammirare in tutto il loro sbiadito fascino.

    L’uomo ne prese una tra le mani. Era gelida, più di ogni altra cosa avesse mai toccato in vita sua.

    Un gelo che non si può descrivere a parole.

    Raffigurava un bambino, avrà avuto sì e no 4 anni. Era seduto su un letto di foglie e guardava in alto con la bocca socchiusa e gli occhi pieni di lacrime, verso l’obiettivo della camera.

    Un’altra ritraeva un neonato, immerso in una brodaglia scura e melmosa, che ne ricopriva gran parte del corpo, nudo e rinsecchito.

    Non aveva mai visto un neonato così magro, se non in qualche vecchio documentario sulla malnutrizione infantile nei villaggi del Centrafrica.

    “Martin voglio andarmene. Andiamocene per favore”, supplicò lei.

    Isaac aveva cominciato a piangere e strillare come un ossesso, complice anche il ruggito del vento che si era improvvisamente ridestato dal suo torpore.


    Gli occhi stralunati dell’uomo si posarono su una foto, esattamente al centro del tavolo.

    Una bambina, con solo un maglione addosso. Seduta in mezzo ai rovi. Guardava nel vuoto con lo sguardo spento.

    Anzi no.

    Un bambino.

    Visti i lineamenti incerti del pargolo, il suo primo istinto era stato quello di guardare i genitali per apprenderne il sesso. Ad una prima occhiata gli era parso di vedere un pube liscio e scarno ma poi aveva notato qualcosa affiorare tra le gambe corte e pallide, martoriate dalle spine dei cespugli in cui erano avvolte.

    Una protuberanza, quasi impercettibile.

    L’estremità era frastagliata, irregolare.

    Tagliata.

    No, strappata.


    Martin trasalì.

    “Dobbiamo uscire di qui. Adesso”.

    Prese per mano Gloria e la condusse all’uscita, senza guardarsi indietro.

    Vennero sorpresi dal buio.

    Era calata la notte e dinanzi a loro si estendeva solo un mare di oscurità.

    “Come cazzo è possibile che sia già così buio”, borbottò lui.

    Lanciò una rapida occhiata al quadrante del Casio di seconda mano che portava al polso.

    “Le otto e cinquantratre..”

    Erano stati in quella baracca per più di quaranta minuti, ma lui avrebbe giurato che ne fossero passati meno di dieci.
    Risultava impossibile da credere, ma del resto lì nulla pareva avere più senso ormai.

    “Non ti fermare e guarda dove metti i piedi”, disse a sua moglie con tono deciso, senza mai osare voltarsi verso il rudere alle loro spalle, che via via veniva divorato dal buio che li circondava.

    Isaac piangeva. Le sue urla disperate riecheggiavano nelle tenebre e si propagavano per centinaia di metri nel silenzio assordante della notte, annunciando la loro presenza alla foresta.

    Tre piccole figure, illuminate dal gelido bagliore di una torcia LED.

    Martin guardava dritto davanti a sé mentre il freddo pungente incominciava a intorpidirgli le cosce e gli stinchi e l’odore freddo e umido del sottobosco gli penetrava nelle narici, nauseandolo.

    Quelle immagini continuavano a scorrergli davanti agli occhi.

    Il bastone.

    Il campanello.

    Tutte quelle foto.

    Chi erano quei bambini? Chi aveva scattato quella roba?

    Avrebbe giurato che alcune sembrassero risalire ad almeno un secolo fa.
    Non potevano essere state scattate tutte dalla stessa persona.

    Gloria si stava maledicendo per aver toccato quel campanello. Udiva ancora quel tintinnio così squillante ed anomalo torturarle i timpani, insieme al pulsare incessante e vigoroso del suo cuore.
    Con tutto ciò che avevano visto il campanello sarebbe dovuto essere l’ultima delle loro preoccupazioni, ma non riusciva a smettere di pensarci.

    Il bastone veniva usato per camminare.
    Le foto, per quanto perverse e folli, immortalavano un momento.
    Il campanello, tuttavia, non trovava spazio in questa razionalità.

    La ragazza si sforzò a lungo di dare un senso a quel ritrovamento mentre tornavano al campo, ma quando la sua mente offuscata le suggerì una risposta, si pentì amaramente di averla cercata.

    Annunciare la propria presenza a qualcuno.

    Un richiamo.


    Strinse con forza i denti, fino a sentirli scricchiolare mentre gli occhi verdi e irrorati di sangue le si riempivano di lacrime.

    “No,no,no..”


    “Tranquilla, tranquilla, guarda siamo arrivati.”

    Martin la condusse fino alla tenda e subito si chinò per verificare come stessero lei ed Isaac.

    “Voglio andarmene. Ti prego andiamo via”

    Lui le prese dolcemente il volto tra le mani e la guardò dritta negli occhi.

    “Gloria, amore mio, non possiamo andarcene, non c’è nulla nel raggio di 10 chilometri. È troppo buio, rischiamo di perderci e rimanere bloccati qui. Il sole sorge tra 11 ore esatte, ti prometto che al primo filo di luce che vediamo impacchettiamo tutto alla velocità della luce e ce ne andiamo lontano da qui.”

    Lui cercava di rassicurarla con tutta la sicurezza che poteva darle in quel momento, ma era visibilmente sconvolto e sia lei che loro figlio lo percepivano.


    “Martin che cazzo erano quelle foto. C’era un bambino con una catena al collo in una di quelle foto, Gesù Cristo, Martin.” Lei ricominciò a piangere, ancora più forte di prima.

    Isaac strillava senza sosta, incitato da sua madre, ormai completamente in preda al panico.

    L’uomo sapeva che avrebbe dovuto calmare Gloria se voleva avere una chance con loro figlio.

    “Ascolta. Io non so cosa siano tutte quelle cose, ma sono in una catapecchia abbandonata in mezzo al nulla. Qui non ci viene nessuno da parecchio tempo e lo sai anche tu. Ora mi segno anche le coordinate e domani quando torniamo al villaggio vado a segnalarlo alla polizia ok? Adesso per precauzione prendo le tende e le giriamo in direzione di quella merda di casa così la teniamo d'occhio, poi voi vi chiudete nella tenda e cercate di prendere sonno. Io terrò gli occhi aperti. Non vi accadrà nulla, ve lo prometto.”


    La Notte

    Gli servirono più di venti minuti per calmare Gloria e altrettanti a lei per calmare Isaac.

    Alla fine, dopo più di un’ora, calata l’adrenalina e complice l’enorme stanchezza fisica che si portavano addosso da quella mattina, mamma e figlio si erano addormentati abbracciati, chiusi in una delle due tende.

    Martin invece ancora non dormiva. Sperava di riuscire a rimanere vigile fino all’alba, ma gli ultimi giorni erano stati estremamente spossanti e aveva diverse ore di sonno arretrate.

    Quando era in procinto di crollare addormentato si stringeva con forza la mano destra, gonfia e pulsante e si ridestava immediatamente, almeno per qualche altro minuto. Gloria l’aveva stretto così forte di ritorno al campo che gli aveva lasciato diversi segni, a tal punto che sembrava quasi che ci fosse passata sopra una bici.

    Si allungò ad afferrare il thermos grigio nel suo zaino, lo aprì e lo portò alla bocca. Era avanzato un po’ di caffè dal giorno prima e non ci mise molto a sparire tra le sue labbra socchiuse.

    Si pulì la bocca con il dorso della mano sinistra e tornò a scrutare le tenebre. Scandiva continuamente con la luce a LED la folla di pini, faggi e abeti che li scrutavano silenziosi, sospinti dal vento della notte.

    Uno strano odore si era diffuso, proveniente dalle profondità del bosco. Un odore acidulo, di latte materno, stagnante e putrido. Martin aprì la tenda per un istante, per assicurarsi che non provenisse da sua moglie.

    Niente da fare.

    Dormivano entrambi, i loro volti corrucciati sotto il peso di ciò che avevano vissuto quel giorno.

    Richiuse la tenda e tornò a guardare il bosco.

    Se non fosse stato così stanco e annebbiato avrebbe notato l’istante in cui un luccichio argentato sospeso nel buio aveva fatto capolino brevemente dall’oscurità, illuminato dal riflesso tenue della torcia, per poi svanire velocemente dietro un grosso abete, in prossimità di quella strana casa con il tetto a punta e le pareti putride.

    Quel fetore aveva silenziosamente invaso il campo e stagnava ora tra le pieghe dei k-way, sui tessuti sintetici e brillanti delle Quechua, nei loro capelli, sconvolti e spettinati, sotto le unghie piene di terra e nelle loro narici.

    Latte acido.

    Latte acido e zolfo.


    Martin non poteva fare a meno di contemplare quei miasmi, ma i suoi sensi erano ormai in declino, gli occhi si stavano chiudendo inesorabilmente e il cervello andava via via spegnendosi.

    Fu in quel momento, quando cadde addormentato, che il sottobosco iniziò a sussurrare.

    Un fruscio di rami spezzati e foglie sbalzate via ad un ritmo claudicante ed incerto, ma regolare.

    Si avvicinava sempre più.


    Il Mattino

    Quando Martin aprì di nuovo gli occhi, complice la luce del giorno che già da un po’ filtrava dalle palpebre e gli illuminava le cornee, era già fatto mattino da un pezzo.

    All’attimo del risveglio, il cervello ha sempre bisogno di qualche istante per rendersi conto del contesto. Con chi si è, dove si è dormito, cosa è successo la notte precedente e così via.

    Quando tutti quei ricordi frammentati si accesero nella testa di Martin il suo primo istinto fu quello di mettersi in piedi con un scatto fulmineo e aprire la tenda alle sue spalle, dove suo figlio e sua moglie riposavano.

    A pochi secondi dal risveglio, il cuore aveva già cominciato a premere con forza contro lo sterno e le pupille ad allargarsi vistosamente.

    Con un gesto frenetico e tremolante abbassò la cerniera.

    ZIP

    I suoi occhi si posarono sui due bozzoli, imboscati sotto due coperte viola in pile, distesi al centro della tenda.

    Il cuore rallentò.

    Si avvicinò lentamente e vide il volto di Gloria, disteso e rilassato.

    In pace.

    Con le braccia teneva stretto a sé loro figlio, immerso fino sopra la testa dalla trapunta colorata.

    Spuntavano soltanto due ciuffi di capelli neri, irrigiditi dal freddo della notte appena passata.

    L’uomo allungò la mano destra, ancora un po’ dolorante, e la poggiò su quel mazzetto sconvolto, passandoci in mezzo le dita per qualche istante. Era tiepido, denso e vagamente viscido, forse a causa delle condizioni igieniche a dir poco avventurose di quegli ultimi giorni.

    Serviva a tutti e tre una doccia calda.

    In quel momento si udiva solo un flebile respiro a scandire quell’istante di sollievo.

    Andrà tutto bene Martin, si disse.

    Poi uscì dalla tenda, la richiuse dietro di sé e si alzò in piedi, sgranchendosi le gambe.

    Si guardò intorno e non notò nulla fuori posto. L’unica cosa in grado di turbarlo in quel momento era la vista di quell’orrenda casa, che lo osservava dalla distanza con il suo unico occhio sbarrato dalle assi putrescenti e nascosta quasi completamente dalla fitta vegetazione.

    Si sentiva terribilmente in colpa per essersi addormentato. Aveva fatto del suo meglio, ma in circostanze simili, fare del proprio meglio diventa il minimo sindacale.

    Sarebbe potuto accaderli qualcosa di orrendo se qualcuno li avesse sorpresi nel sonno.
    Così lontani dalla civiltà nessuno li avrebbe sentiti chiamare aiuto.

    Martin rabbrividì.

    Improvvisamente qualcosa scosse il silenzio del bosco e attirò la sua attenzione.


    TRRRR



    TRRRR



    “Un picchio.” Mormorò tra sè e sè.

    Era il primo animale che udiva da quando erano arrivati, il giorno prima.

    Non era mai stato particolarmente intrigato dal bird watching ma in quel momento, svanita la minaccia e volendo lasciar dormire sia Isaac che Gloria ancora un po’, decise di seguire quel suono alquanto insistente, nella speranza di vedere il picchio appollaiato su qualche ramo, intento a battere con il suo becco nero contro la corteccia di un abete.


    TRRRR



    TRRRR



    Non sembrava troppo lontano, forse qualche decina di metri, sul versante opposto alle tende probabilmente.

    Martin girovagò per un po’, inseguendo quel sussurro insistente e ben presto si rese conto di star andando in direzione della casa.

    Tra tutti i posti, si è messo proprio qui, pensò stizzito ma anche vagamente incoraggiato.

    Sperava che rivedere da vicino quel posto, immerso nella luce calda e rassicurante del giorno, avrebbe esorcizzato la paura che ancora infestava il suo cuore.


    TRRRR



    TRRRR



    Non gli ci volle molto però per capire che il verso del picchio proveniva proprio dalle immediate prossimità della casa.

    E a quel punto comprese immediatamente che non si trattava di un picchio.

    Il portone dell’abitazione era spalancato e si muoveva in avanti, sospinto dal vento, per poi ritornare nella sua posizione originale, supportato solamente da un cardine, arrugginito e ricoperto di grasso.

    TRRRR



    TRRRR



    Martin smise di respirare per un istante.

    Rimani calmo

    Il masso, che era stato posto come stipite della porta, era svanito.

    Qualcuno lo aveva portato via.


    “Ma che cazzo…”


    L’uomo sondava freneticamente la sua mente, in cerca di una risposta razionale che lo rassicurasse, così il suo cuore avrebbe smesso di battere così forte e il suo respiro affannoso si sarebbe acquietato.

    Forse l’avrebbe trovata, ma non fece in tempo.

    Un urlo straziante alle sue spalle lo raggiunse come un dardo rovente alla schiena.

    Era Gloria.

    Martin si precipitò al campo. I piedi doloranti, la mente invasa dai pensieri, la gola rinsecchita di colpo.

    Tutto intorno a lui il pianto di sua moglie riecheggiava tra le mute fronde degli alberi, frantumando la quiete del mattino.

    Non l’aveva mai sentita urlare così.

    Non aveva mai sentito nessuno urlare così.

    Quando arrivò, la tenda era spalancata.

    Sua moglie se ne stava sdraiata per terra. Il volto coperto di lacrime e muco. Gli occhi come due biglie insanguinate incastrate tra i lineamenti, contriti in una smorfia di terrore e disperazione senza fine.

    “TI SEI ADDORMENTATO!”

    Martin era in preda al panico.

    “G-Gloria dov’è Is..”, le parole gli morirono in gola quando i suoi occhi si posarono su ciò che sua moglie teneva tra le mani.


    Un grosso sasso, ricoperto da uno strato di muschio nerastro, denso e viscido, avvolto da una coperta viola in pile.

    Edited by Frizio - 31/8/2023, 13:00
     
    .
0 replies since 28/8/2023, 14:57   77 views
  Share  
.