Storia d'autunno

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.      
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Member
    Posts
    263
    Creepy Score
    +17

    Status
    Offline
    In una notte d’autunno del 2009 mio padre mi chiese se conoscessi il senso della morte. Avevo nove anni; abitavamo tra i boschi del Wisconsin, in una piccola casetta di legno. Quella notte ero terribilmente assonnato ed ero sul punto di spegnere la piccola lampada sul mio comodino, quando papà, che prima mi aveva raccontato alcune meravigliose fiabe, mi afferrò la mano, scuotendo la testa. «No, Pete» sussurrò, fissandomi dritto negli occhi. I suoi erano occhi che trasmettevano tristezza ma anche malinconia, ma anche una felicità oscura… la felicità che provano certe persone in punto di morte, quando la loro vita è a pezzi e morire sembra l’unica alternativa alla sofferenza. In quel momento, con la mia innocenza di bambino, non capii tutto questo, e solo più tardi avrei capito cosa davvero volevano dire quegli occhi. Le mie mani tremano ogni volta che ci ripenso.

    «Perché non posso dormire, papà?» chiesi sbadigliando. Papà mi accarezzò sulla guancia e disse: «Voglio farti una domanda, Pete. Una sorta di indovinello… solo che sarà un indovinello strano, senza alcuna ricompensa. Ti piacciono le domande; Pete?» Se mi piacevano le domande? All’epoca le adoravo! Ero un bambino con molta logica: amavo i problemi di matematica che ci davano a scuola e risolvevo con un nonnulla situazioni molto imbarazzanti. Le domande (certe domande, sia chiaro) erano, per me, un allenamento; papà sapeva sempre cosa chiedermi. Mi aspettavo, tutto entusiasta, l’ennesima domanda sulla matematica, sulla storia o sulla filosofia. Ciò che mi chiese, però, andava ben oltre ogni mia aspettativa.

    «Pete, tu… concepisci la morte?»

    La mia anima sprofondò. Per un secondo il mio cervello andò in tilt, come in uno dei cartoni animati che guardavo all’epoca. La parola “morte” non mi piaceva, la detestavo… ma lo facevo soltanto perché i miei genitori mi avevano insegnato a disprezzarla, a vederla come un qualcosa di estremamente pericoloso. Tuttavia, il significato preciso di questa parola mi era ignoto: sapevo che se una persona moriva non c’era più, ma nient’altro. Chiesi delucidazioni a mio padre, e lui riformulò la domanda: «Voglio dire… cosa pensi che succeda a una persona quando muore, Pete?»

    «Va in paradiso, papà.»

    «E come fai ad esserne sicuro, ragazzo mio?»

    «Perché me l’avete detto voi e…» Mi fermai. Provai a riflettere per qualche secondo e mi accorsi che sì, papà aveva ragione. Non potevo sapere se il paradiso esistesse davvero; nessuno, d’altronde, era mai tornato indietro per dimostrarlo. Tornare indietro. Queste parole risuonarono nella mia testa, e per la prima volta mi accorsi del vero significato della morte. Se morivi, non c’era alcuna garanzia di continuare ad esistere: potevi sparire, diventare un vuoto senza senso.

    Iniziai a tremare, e papà se ne accorse. «Ora dimmi, Pete: tu credi che la morte sia dovunque intorno a noi?» Qualche minuto prima avrei risposto di no, ma adesso, assorto in mille pensieri, mi accorsi che la risposta era sì. La morte era tra noi, in tutte le sue oscure forme, dai piccoli animali morti che trovavo in giardino fino alle terrificanti notizie che davano in televisione e che i miei genitori mi vietavano di guardare.

    Papà si alzò in piedi, mi diede un bacio sulla fronte (stavo tremando) e spense la luce. Prima che se ne uscisse dalla stanza, però, chiesi: «Papà… perché mi hai fatto questa domanda?»

    Lui si fermò di colpo. «Lo capirai a tempo debito» disse. «A tempo debito.» E uscì dalla stanza.

    ---

    Mio padre morì quello stesso autunno.

    Avevo iniziato a notare dei segni, ma solo dopo molto tempo: dopo quella discussione, ero troppo impegnato a pensare alla morte che lentamente iniziava a incombere su di me. Ogni giorno mi sentivo più vecchio, e quando guardavo il mio riflesso vedevo l’orrore: un bambino che non era un bambino, con le mani rugose e i denti marci, i capelli quasi inesistenti e la pelle che cadeva. Era una visione che mi tormentava anche nei sogni, quelli che facevo quando il vento soffiava all’esterno e la luna era alta in cielo.

    Devo dire che la tristezza dell’autunno ha decisamente avuto un impatto sui miei pensieri. Quando vedevo le foglie autunnali cadere dai loro alberi e finire al suolo, secche e fragili, non potevo fare a meno di trovare analogie con la morte di malati e vecchi quando finalmente si spengono. Provavo a pregare Dio di farmi vivere a lungo, ma quel discorso con papà fece germogliare in me i primi semi dell’ateismo: se non siamo sicuri che esista un paradiso, dicevo, come possiamo essere sicuri che esista un Dio? E per questo le mie preghiere non erano rivolte al dio biblico, ma a me stesso, a una parte di me che voleva covare speranza. Forse è questo che fanno i credenti, in fondo: pregano rivolti a se stessi, non a una qualche divinità.

    “Pregavo” per tutti i membri della mia famiglia, e quando notai i segni che mio padre stava per morire, iniziai a farlo solo per lui. Vi starete chiedendo di quali segni io stia parlando, giusto? Ve ne parlerò ora, dall’inizio.

    Ogni autunno io e mio padre andavamo a caccia di funghi nei boschi. Adoravo quei posti: il vento fresco, il profumo di alberi e piante, gli animali… tutto faceva scaturire nel me bambino una vivacità impressionante. Tuttavia, quell’autunno il bosco mi sembrò un luogo triste. Il vento fresco era diventato la voce dei morti, il profumo delle piante mi provocava un sentore di marcio e decadenza, e gli animali sembravano stanchi e soli.

    Quel giorno trovammo molti funghi, anche se ce n’erano di meno rispetto all’anno prima perché aveva piovuto poco. Trovai perfino un fungo velenoso, uno di quelli rossi con puntini bianchi, e lo mostrai a mio padre. «Dovresti buttarlo, Pete: sai che questo tipo di funghi non è commestibile.» Lanciai il fungo contro un albero sul cui ramo uno scoiattolo stava mangiando una noce. Quando il fungo colpì l’albero, lo scoiattolo scappò via, spaventato dal suono dell’urto, e tornò al suo nido. Per un secondo ammirai quel bellissimo animale che coi suoi occhietti curiosi fissava il mondo intorno a lui. Pensai: è incredibilmente vivo, non ha paura della morte. Forse è vero. Forse gli animali non si preoccupano di quello che c’è dopo la morte, forse la evitano solo per istinto. La loro è un ignoranza che invidio.

    Cominciava a fare buio e dovevamo tornare a casa. Il bosco ora non era più triste, ma minaccioso; le sensazioni che provavo non mi trasmettevano felicità o tristezza, ma solo paura. D’altronde, ero un bambino, no? Mentre camminavamo, mio padre si fermò vicino a un albero, piantò nel terreno il bastone che aveva nella mano destra e prese a respirare profondamente. Sembrava stare molto male: non l’avevo mai visto così. Era come se stesse lottando per mantenersi in forma, per restare quell’uomo forte che si era sempre preso cura di me.

    Qualcosa si accese, nella mia testa.

    Fu una semplice intuizione, ma dolorosa come mille aghi nello stomaco. Qualcosa iniziò a farsi strada dentro di me, qualcosa che mi implorava a gran voce di abbracciarlo e chiedergli: «Tutto bene, papà?» Ma decisi di non fare niente, di restare lì fermo a osservare quel pover’uomo che lottava contro un mostro che si annidava dentro di lui.

    Ormai i suoni del bosco iniziavano a tacere, e gli animali andavano a dormire. I fiumiciattoli si facevano anch’essi stanchi e sembrava che si fossero d’improvviso ghiacciati: anche loro, evidentemente, provavano profondo rispetto per mio padre. A volte la natura riflette ciò che proviamo.

    Questo silenzio fu rotto da mio padre, che tossì aspramente. Mi avvicinai a lui lentamente, e a terra vidi del sangue. Raggelai. Mio padre aveva sputato sangue. Non sapevo che sintomo fosse, ma ero abbastanza intelligente da sapere che non era una cosa positiva. A quel punto fui certo che mio padre stesse morendo. Durante quelle settimane i suoi movimenti mi erano parsi lenti, meccanici: si muoveva a fatica e la sua vitalità stava scomparendo. Avevo però dato la colpa a un semplice malanno; d’altronde, in quel periodo era normale, visto il freddo che veniva da Nord. Gesù, come avevo fatto a essere così ingenuo? Avevo solo nove anni, ma dovevo pur capire qualcosa! Ormai era troppo tardi, lo sapevo.

    Le lacrime cominciarono a sgorgare dai miei occhi, e lo abbracciai. Lui sussultò e fece cadere il bastone a terra. «Papà…» In lontananza, un gufo cantò una melodia triste, che trasmetteva un po’ di paura, ma anche affetto. Affetto per le persone ormai defunte a cui hai voluto bene.

    «Tranquillo, Pete, è tutto a posto.» Iniziò ad abbracciarmi. «Tutto a posto.» Cominciò a tossire.

    La notte scese sulle nostre teste. Adesso c’eravamo solo noi due, in quel bosco silenzioso. E quel buio scese anche sul mio cuore, coprendolo per sempre.

    ---


    Papà aveva un tumore maligno al fegato. Gliel’avevano diagnosticato qualche giorno prima, e lui e la mamma s’erano messi d’accordo di non dirmi niente. Ora che ci ripenso, la domanda di mio padre in merito al senso della morte acquisisce un certo significato. Ogni giorno si svegliava e vedeva, allo specchio, la morte che lo attendeva. Forse aveva cercato di farmi abituare alla morte, smuovendo la mia innocenza di bambino. Forse era così disperato che non aveva avuto altre idee. Sono domande che mi pongo in continuazione, ma che non hanno molta importanza rispetto alla grande vera domanda: perché a mio padre? Perché la morte, dannata bastarda, deve colpire le persone migliori su questo pianeta? Me lo chiedevo sempre, quando non riuscivo a dormire e le lacrime, fredde e amare, inzuppavano il cuscino, mettendo a nudo tutta la mia paura di bambino.

    Paura che mi accompagnò per le ultime settimane di vita di mio padre. La cosa che davvero temevo era quel momento, il momento in cui avrebbe esalato l’ultimo respiro, fissandomi dritto negli occhi. Si sarebbe proteso ad accarezzarmi, non ci sarebbe riuscito e poi, dopo aver detto: «Ti voglio bene, Pete» sarebbe morto. Una visione terribile che governava i miei sogni e mi faceva dire: «Papà, no! Torna qui, ti prego!»

    Io e mamma provammo a trattarlo il meglio possibile. Ci occupavamo di ogni cosa: eravamo noi a pulire i piatti; eravamo noi ad occuparci delle faccende di casa; eravamo noi ad accudire il nostro bel cagnolino, Rusty. Papà diceva di volerci aiutare, ma quando provava a fare qualcosa tossiva sangue e la mamma si faceva pallida, un pallore simile a quello che avrebbe poi assunto papà da lì a pochi giorni, insieme al suo aspetto cadaverico che mi avrebbe sempre fatto venire la pelle d’oca.

    Parlavo di tutte queste mie paure a Rusty: non avevo nessun altro con cui parlare, poiché ero un bambino molto solitario. Il mio cagnolino era silenzioso e ascoltava con passione ogni mia parola; a volte percepiva la mia tristezza e mi toccava la guancia con una sua zampetta morbida che mi dava calore. Solo Rusty conosceva le parole esatte con cui ho espresso il mio dolore, ed è inutile chiedergliele: è morto anche lui, ormai. Quelle parole sono adesso perdute nel tempo, e nessuno le ritroverà più.

    I giorni passarono, e mio padre dovette andare in ospedale. Il tumore si era evoluto con una velocità straordinaria: gli rimaneva solo una settimana. Gli portammo fiori, dolci e parlai con lui di tutti i momenti che avevamo avuto, e di come fosse stato un ottimo padre. «Ne sei proprio sicuro, Pete?» mi chiese. «Certo, papà. Sei stato il miglior padre del mondo.» Lo abbracciai con tutta la forza che avevo a nove anni, e quasi gli feci male, tanto era debole. Nulla era rimasto del grande uomo che avevo sempre ammirato: il tumore l’aveva totalmente divorato.

    E la prospettiva più spaventosa era che, una volta morto, forse non avrebbe nemmeno continuato ad esistere.

    In quel periodo volli credere a Dio, alla sua esistenza, al paradiso e altre stronzate. Volli sperare che mio padre sarebbe finito in un posto migliore, in cui avrebbe potuto continuare a osservarmi, augurandomi il meglio. E per un po’ ci credetti… solo per un po’, ma fu sufficiente a farmi sentire meglio.

    Mio padre morì il 12 novembre 2009, dopo tante sofferenze. Quel giorno pioveva a dirotto e il vento sbatteva contro le finestre dell’ospedale. Ero seduto davanti al letto di papà; in mano avevo un fiore che avevo deciso di portargli. Mia madre era fuori a parlare con alcuni suoi medici e amici. Non prestavo molta attenzione a ciò che stava succedendo: ero chiuso nella mia mente, a ripensare al giorno in cui papà mi aveva fatto quella strana domanda sulla morte. D’improvviso, mio padre disse: «Pete…» Alzai gli occhi, lo fissai e, con una lancia emotiva che mi attraversava il petto, capii che quel giorno sarebbe morto. Provai a chiamare mia madre, ma dalla bocca non uscì nulla. Riuscii solo a piangere, mentre mio padre esalava l’ultimo respiro, incapace di parlare. Capii presto cosa avrebbe voluto dirmi: «Pete, sei stata la cosa più bella che mi sia capitata, il figlio migliore al mondo.» Capite? La morte – quella puttana – l’ha preso prima che potesse dirmi addio. È morto con le parole bloccate in gola: un’agonia che nessuno dovrebbe mai provare.

    Uscii dalla stanza, in lacrime. Il corridoio dell’ospedale era d’un bianco nauseante, un bianco che cozzava con l’orrore che mi stava assalendo. Mia madre stava parlando con un medico, un suo amico di nome Fred che io conoscevo di vista. Mia madre si voltò verso di me e le bastò vedermi piangere per capire cos’era successo. Nel corridoio si diffuse un silenzio irreale, e anche il mio pianto divenne lontano.

    ---

    Tutto questo accadeva dodici anni fa. La mia vita è andata tutto sommato bene: mia madre ha fatto un ottimo lavoro nel crescermi come unico genitore, ho continuato a studiare, mi sono fatto una cerchia di amici e adesso sono all’università. Studio per diventare professore di scienze. È passato molto tempo, ora non sono più un bambino, eppure mi sembra ancora di vedere il volto di mio padre consumato dal tumore, quando mi guardo allo specchio. Solo che, ad un’attenta occhiata, noto che quello non è il volto di mio padre: è il mio volto… quando sarò sul punto di morte.

    Eh sì, la paura della morte non mi ha ancora abbandonato. Ripenso a mio padre ogni giorno; ripenso alle sue mani, alla sua gentilezza, alla sua forza. Mi chiedo: ora dov’è? Non esiste più, oppure è in paradiso, se esiste? Sono domande a cui non troverò mai una risposta, ma mi aiutano a sperare che esista qualcosa di meglio di questo mondo: un posto in cui i morti vivono in pace.

    Oggi sono andato alla tomba di mio padre. Di nuovo. Ci vado ogni mese: con l’università e lo studio, ho poco tempo per tornare nella mia città natale. Ho posato i fiori sulla tomba e ho detto: «Buonanotte, papà. Spero che tu riesca a sentirmi.»

    ---

    E buonanotte anche a me. Sono le tre del mattino e devo dormire per essere ben riposato. Quanto tempo ho speso a scrivere questo testo tutto sommato breve? Non lo so e non mi interessa. Voglio solo dormire, ora.

    Dormire e sognare il volto di mio padre, che mi ha accompagnato su quella accidentata strada chiamata vita per ben nove anni.

    È il periodo giusto: è autunno.

    Buonanotte a tutti.
     
    .
  2.     +1    
     
    .
    Avatar

    Nothing To See

    Group
    Member
    Posts
    870
    Creepy Score
    +52
    Location
    Napoli

    Status
    Anonymous
    Allora, cercherò di essere breve non essendo il più portato a correzioni dettagliate.

    La storia sembra scritta in fretta, i dialoghi sono come forzati e situazioni irrealistiche, la cosa più reale che ho letto è stato solo il padre che chiedeva al figlio che pensava della morte ma pure quel dialogo poteva essere introdotto meglio. Hai come cercato di dare un senso di inquietudine e ansia, ma dovevi puntare a un senso di debolezza, il tempo che logora e un effetto quasi nostalgico per ciò che presto non ci sarà più.

    Queste cose le hai anche inserite nel racconto, ma sono così brevi da essere praticamente inesistenti o hanno il problema che ho menzionato prima. Io so bene cosa si prova a perdere un caro per colpa di un tumore a tenera età. Se desideri un parere più dettagliato specificami su cosa e te lo dico
     
    .
  3.     +1    
     
    .
    Avatar

    Ser Procrastinazione

    Group
    Veterano
    Posts
    14,730
    Creepy Score
    +425
    Location
    Da qualche parte in Italia

    Status
    Anonymous
    CITAZIONE (Stefy983 @ 31/7/2023, 23:23) 
    Allora, cercherò di essere breve non essendo il più portato a correzioni dettagliate.

    La storia sembra scritta in fretta, i dialoghi sono come forzati e situazioni irrealistiche, la cosa più reale che ho letto è stato solo il padre che chiedeva al figlio che pensava della morte ma pure quel dialogo poteva essere introdotto meglio. Hai come cercato di dare un senso di inquietudine e ansia, ma dovevi puntare a un senso di debolezza, il tempo che logora e un effetto quasi nostalgico per ciò che presto non ci sarà più.

    Queste cose le hai anche inserite nel racconto, ma sono così brevi da essere praticamente inesistenti o hanno il problema che ho menzionato prima. Io so bene cosa si prova a perdere un caro per colpa di un tumore a tenera età. Se desideri un parere più dettagliato specificami su cosa e te lo dico

    In linea di massima concordo con te. La storia non è scritta male, tuttavia trovo che le reazioni dei personaggi siano un po' troppo stoiche, ad esempio nel momento della diagnosi del tumore e nel momento della morte del padre. Io ho un'amica che ha sperimentato la morte di un suo caro e che ne ha sofferto tanto (ne soffre pure oggi), sebbene ciò le sia avvenuto più recentemente (un paio di anni fa). Potrei interpellarla, in caso se la sentisse. :o:
     
    .
2 replies since 31/7/2023, 19:03   83 views
  Share  
.