La Maschera della Morte Rossa

Edgar Allan Poe

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    Traduzione di G.A. Santini.


    La Maschera della Morte Rossa:



    fujAOqJ


    (Illustrazione di Henry Clarke)



    La Morte rossa aveva per parecchio tempo devastato la regione. Non si vide mai peste così fatale e orribile. Il suo emblema era il sangue - il rossore e l’orridezza del sangue. Cominciava coi dolori acuti, una vertigine improvvisa e poi una stillazione abbondante attraverso i pori, la dissoluzione dell’organismo. Delle macchie rosse sul corpo e specialmente sul viso della vittima, la mettevano al bando dell’umanità e le precludevano ogni soccorso a ogni simpatia.
    Il contagio, il progredire, i risultati della malattia erano questione di una mezz'ora.
    Ma il principe Prospero era felice e intrepido e sagace. Quando i suoi domini furono per metà spopolati, convocò un migliaio di amici vigorosi e di umore gaio, scelti fra i cavalieri e le dame della sua corte e con essi fece di una delle sue abbazie fortificate un ritiro profondo. Era un vasto e magnifico edilizio, una creazione del principe, di un gusto eccentrico eppure grandioso. Un muro spesso e alto gli faceva cintura.
    Questo muro aveva delle porte di ferro. I cavalieri una volta entrati, con bracieri e solidi martelli saldarono i catenacci. Risolvettero di barricarsi contro le subitanee irruzioni della disperazione esterna e di chiudere ogni sbocco agli accessi interni.
    L’abbazia fu abbondantemente approvvigionata. Grazie a queste precauzioni i cortigiani potevano sfidare il contagio. Al di fuori il mondo si aggiusterebbe come potrebbe. Intanto sarebbe stata una pazzia affliggersi e darsi pensiero. Il principe aveva pensato a tutti i mezzi del piacere. C'erano dei buffoni, degl’improvvisatori, dei ballerini, dei musicisti, il bello sotto tutte le forme e il vino. Dentro dunque, tutte queste belle cose e la sicurezza. Di fuori la Morte rossa.
    Verso la fine del quinto o sesto mese mentre il flagello infieriva fuori più rabbiosamente che mai, il principe Prospero regalò i suoi mille amici di un ballo mascherato di una magnificenza rara.
    Che quadro voluttuoso quella mascherata! Ma dapprima lasciate che vi descriva le sale nelle quali ebbe luogo. Ce n’erano sette: una sfilata imperiale in molti palazzi questa serie di sale formano una lunga prospettiva in linea diretta quando i battenti delle porte sono spalancati e accostati al muro da ogni parte, di modo che lo sguardo si spinge sino in fondo senza ostacolo. Qui la cosa era molto differente come c’era da aspettarsi dal gusto vivissimo del bizzarro che aveva il duca. Le sale eran disposte così irregolarmente che l’occhio non poteva abbracciarne più d’una alla volta. Uno spazio dai venti ai trenta yards e poi una brusca svoltata e ad ogni gomito un nuovo aspetto. A destra e a sinistra in mezzo al muro una finestra gotica alta e stretta dava su un corridoio chiuso che seguiva le sinuosità dell’appartamento. Ogni finestra aveva dei cristalli di colore in armonia col tono dominante nella decorazione della sala. Quella elle occupava la estremità orientale, per esempio, era parata di azzurro — e le finestre erano di un azzurro profondo. La seconda stanza era ornata e parata di rosso e i vetri eran pure rossi. La terza tutta verde come verdi le finestre. La quarta decorata in arancione era illuminata da una finestra arancione; la quinta bianca, la sesta violetta, la settima sala era sepolta letteralmente sotto dei panneggiamenti di velluto nero che coprivano il soffitto e i muri, e ricadevano in pieghe pesanti su un tappeto della stessa stoffa e dello stesso colore. Ma in questa camera solamente il colore delle finestre non corrispondeva alla decorazione. I vetri erano scarlatti, di un intenso color sanguigno.
    Ora, in ciascuna delle sette sale, a traverso gli ornamenti d’oro qua e là sparsi a profusione, o pendenti dalle soffitte, non si scorgeva verun lampadario, né un solo candelabro. Né lampade né candele; nessuna luce di questo genere in quella lunga sfilata di stanze. Ma nei corridoi che le recingevano proprio in faccia ad ogni finestra, era piantato un enorme treppié con un braciere ardente che proiettava la sua luce attraverso ai vetri di colore e illuminava sfolgorantemente la sala. Così si produceva una moltitudine di aspetti fantastici e mutevoli. Ma nella camera di ponente, la camera nera, la luce del braciere che si spandeva sotto le tende nere a traverso ai vetri sanguigni era spaventevolmente sinistra e dava alla fisionomia degl'imprudenti che vi entravano un aspetto talmente strano che pochi fra i ballerini si sentivano il coraggio di mettere i piedi in quel magico ridotto.
    In questa sala pure, addossato al muro di ponente si ergeva un gigantesco orologio d’ebano. Il pendolo andava e veniva con un tic-tac sordo, pesante, monotono; e quando la lancetta dei minuti aveva fatto il giro della mostra e l’ora stava per suonare, dai polmoni di bronzo del meccanismo sorgeva un suono chiaro, squillante, profondo e straordinariamente musicale; una nota così speciale e di una tal forza che i musicanti dell’orchestra eran costretti a interrompere un momento i loro accordi per stare a sentire la musica dell’ora; i ballerini allora smettevano necessariamente le loro evoluzioni; e finché vibrava la suoneria si poteva vedere i più matti diventar pallidi, e i più anziani e calmi passarsi la mano sulla fronte come in una meditazione o nel delirio di un sogno. Ma quando anche l'eco si era dileguata, una lieve ilarità circolava in tutta l’ assemblea; i musicanti si guardavano fra loro sorridendo della loro impressione e della loro sciocchezza e si giuravano sotto voce gli un gli altri che non proverebbero la stessa emozione al prossimo batter delle ore; e poi, scorsi che erano i sessanta minuti che comprendono i tre mila seicento secondi dell’ora, il fatale orologio suonava nuovamente ed era lo stesso turbamento, lo stesso brivido, le stesse meditazioni.
    Ma nonostante ciò era una gaia e magnifica orgia. Il gusto del duca era del tutto speciale. Aveva l’ occhio sicuro per i colori e per gli effetti. Egli disprezzava il decorunz della moda; i suoi progetti eran temerari e selvaggi, le sue concezioni avevano uno splendore barbaro. Qualcuno l’avrebbe giudicato pazzo. I suoi cortigiani sapevan bene che non era tale; ma bisognava sentirlo, vederlo, toccarlo per esserne sicuri.
    In occasione di quella festa aveva presieduto lui in gran parte alla scelta dei mobili nei sette salotti e lo stile delle maschere era stato osservato secondo il suo gusto. Erano certo delle invenzioni grottesche. Era abbagliante, sfavillante — c’era anche del piccante e del fantastico — molto di ciò che poi abbiamo veduto in Ernani. C’erano delle facce arabe, ornate in una maniera assurda; invenzioni mostruose e pazze; c’era del bello, del licenzioso e del bizzarro in quantità; dell’orrido, ma poco; e cose ributtanti a volontà. A dirla in breve era come una folla di sogni che si pavoneggiassero qua e là per le sette stanze. E questi sogni si contorcevano in tutti i sensi, prendendo il colore delle stanze; si sarebbe detto che eseguissero della musica camminando, e che le arie strane dell’orchestra fossero un’eco dei loro nasi.
    Di tanto in tanto si sente suonare l’orologio di ebano nella stanza dei velluti. E allora per un momento tutto si ferma e tace, eccetto il suono dell’orologio. I sogni sono irrigiditi, paralizzati nelle loro posizioni. Ma l’ eco della soneria si dilegua — non dura che un istante — e appena cessato un’ilarità leggera e mal contenuta circola dappertutto. E la musica respira di nuovo e i sogni rivivono e si contorcono qua e là più allegramente che mai, riflettendo il colore delle finestre per le quali passano a torrenti i raggi dei treppiedi.
    Ma nella camera che è laggiù a ponente ora nessuna maschera ha l’ ardore di avventurarcisi; perché la notte è avanzata e una luce più rossa affluisce traverso ai vetri color sangue e il nero dei drappi funebri è spaventoso e allo spensierato che metta i piedi sul funebre tappeto, l’orologio d’ebano manda un suono più pesante, più solennemente energico che quello da cui son colpiti gli orecchi delle maschere che turbinano nella lontana noncuranza delle altre sale.
    Quanto alle altre stanze quelle formicolavano di persone e il cuore della vita vi batteva febbrilmente. La festa tumultuava sempre quando finalmente l'orologio diede il suono della mezzanotte. Allora la musica cessò; la danza fu sospesa e per tutto si fece, come prima un’immobilità ansiosa. Ma la suoneria dell’orologio questa volta aveva dodici colpi da battere; perciò è probabile che s’insinuasse un pensiero più lungo nella meditazione di quelli che in mezzo a quella folla festosa erano già pensosi. Per questo forse avvenne anche che molte persone di quell’ accolta prima che l’ultima eco dell’ultimo colpo fosse profondata nel silenzio avevano avuto il tempo di accorgersi della presenza di una maschera che fino allora non aveva punto attratto l’ attenzione. E la nuova di questa intrusione si era tosto sparsa con un bisbiglio all’intorno, poi con un brusio di tutta l’ assemblea ed un mormorare significativo di meraviglia, di disapprovazione e quindi di terrore, di disgusto.
    In una riunione di fantasime quale l'ho descritta ci voleva certo un’ apparizione straordinaria per produrre un tale effetto. La licenza carnevalesca di quella notte era, è vero, quasi senza limiti; ma il personaggio suddetto aveva oltrepassato la stravaganza di un Erode e superati i limiti — pure larghissimi — della convenienza imposta dal principe. Ci sono nel cuore dei più spensierati delle corde che non possono esser toccate senza produrre emozione. Anche nei più pervertiti, in quelli che tengono come un gioco la vita e la morte, ci sono delle cose colle quali non si può scherzare. Tutta l’assemblea parve sentire profondamente il cattivo gusto e la sconvenienza della condotta e del travestimento dello straniero. Il personaggio era alto e scarno, avvolto dalla testa ai piedi in un sudario. La maschera che celava il viso rappresentava così bene la rigidità della fisionomia di un cadavere che la più minuziosa analisi difficilmente avrebbe scoperto l’inganno. Eppure tutti quei pazzi gai avrebbero forse sopportato se non approvato quel brutto scherzo. Ma la maschera era arrivata fino a prendere il tipo della Morte rossa. Il vestito era chiazzato di sangue e la sua larga fronte come del resto tutta la faccia erano cospersi di quel terribile color scarlatto.
    Quando gli occhi del principe Prospero si posarono su quella figura di spettro — il quale con un mover lento, solenne, affettato, girava qua e là fra i ballerini— esso fu visto dapprima sconvolgersi in un brivido violento di paura o di ripugnanza; ma subito dopo la fronte gli s’ infiammò di rabbia.
    — Chi osa, — domandò con voce roca ai cortigiani ritti intorno a lui — chi osa insultarci così con questo scherno che pare bestemmia ? Impadronitevi di lui e toglieteli la maschera, che sapremo chi dovremo appiccare ai merli della torre, al levar del sole. —
    Quando il principe Prospero pronunziò queste parole era nella camera Est, o azzurra. La sua voce rimbombò forte e chiara a traverso le sette stanze, perché il principe era un uomo imperioso e robusto, e la musica ad un suo cenno di mano s’ era taciuta.
    Il principe dunque era nella camera azzurra con un gruppo di cortigiani ai suoi fianchi. Dapprima, mentre parlava, ci fu nel gruppo un leggero movimento innanzi verso l’intruso, che per un momento fu vicino a loro quasi da toccarli, ed ora con passo sicuro e maestoso si avvicinava sempre più al principe. Ma quel certo terrore indefinibile ispirato a tutta la compagnia dall’audacia insensata dalla maschera fece sì che nessuno osò mettergli le mani addosso; cosicché non trovando nessun ostacolo, passò a due metri dalla persona del principe e mentre l’immensa assemblea, come obbedendo a un sol movimento indietreggiava dal centro della sala verso i muri, continuò la sua strada senza fermarsi, collo stesso passo solenne e misurato che subito da principio l’aveva contraddistinta, andando dalla camera azzurra alla camera rossa — da questa a quella verde — dalla verde all’arancione da quella alla bianca — e poi alla violetta, prima che nessuno avesse fatto un movimento decisivo per fermarla. Tuttavia il principe Prospero esasperato dalla rabbia e la vergogna della sua momentanea debolezza si slanciò precipitosamente traverso alle sei stanze, dove nessuno lo seguì; perché un nuovo terrore si era impadronito di tutti.
    Egli brandiva un pugnale e si era avvicinato impetuosamente al fantasma che batteva in ritirata, quando quest’ultimo, arrivato in fondo alla sala dai velluti, si volse bruscamente e fece fronte a quello che lo inseguiva. Un grido acuto si levò, e il pugnale scivolò con un lampeggiamento sul tappeto funereo sul quale il principe Prospero un secondo dopo cadeva, morto.
    Allora, chiamando a raccolta il coraggio violento della disperazione, una folla di maschere si precipitò nella sala nera; ma afferrando lo sconosciuto che stava diritto e immobile come una grande statua nell’ombra dell’orologio di ebano, tutti si sentirono soffocati da un terrore indicibile, vedendo che sotto il lenzuolo e la maschera cadaverica che avevano abbrancata con sì violenta energia non si trovava nessuna forma tangibile.
    Allora fu riconosciuta la presenza della Morte rossa. Come un ladro, di notte essa era sopraggiunta. E tutti i convitati caddero uno ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno morì nella disperata positura in cui era caduto soccombendo. E la vita dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la rovina e la Morte rossa distesero su tutte le cose il loro dominio sconfinato.

    Edited by DamaXion - 14/4/2019, 22:42
     
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