Janet La Storta

R.L. Stevenson

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    Il reverendo Murdoch Soulis fu per lungo tempo curato della parrocchia di Balweary, nella valle del Dule, nella brughiera. Era un vecchio dall'aspetto severo, pallido in volto, che incuteva timore in chi lo ascoltava: trascorse gli ultimi anni della sua vita completamente solo, senza parenti né domestici, nel piccolo e isolato presbiterio sotto l'Hanging Shaw. Nonostante la ferma compostezza dei suoi lineamenti, aveva lo sguardo agitato, spaventato, incerto; e quando si soffermava, durante le confessioni, sul futuro dell'uomo impenitente, sembrava che il suo occhio penetrasse attraverso le tempeste del tempo fino ai terrori dell'eternità. Molti giovani che venivano a prepararsi alla Prima Comunione rimanevano terribilmente impressionati dai suoi discorsi. Ogni anno, la prima domenica dopo il diciassette di agosto, teneva un sermone sull'ottavo versetto della prima epistola di S.Pietro, "il diavolo come un leone ruggente", in cui superava se stesso nel commento al testo, sia per la terribile natura del soggetto, sia per il terrore che ispirava il suo atteggiamento dal pulpito. I bambini ne erano spaventati fino alle convulsioni, e i vecchi per il resto della giornata apparivano più sentenziosi del solito, pieni di tutte quelle allusioni tanto deprecate da Amleto. Lo stesso presbiterio, situato tra i folti alberi presso le acque del Dule, con il boschetto che lo sovrastava da un lato e dall'altro le fredde e brutte cime dei monti che si innalzavano numerose verso il cielo, aveva cominciato, fin dai primi tempi del ministero del reverendo Soulis, a essere evitato verso il crepuscolo da tutti quelli che si consideravano prudenti; e i capifamiglia, seduti nella birreria del villaggio, scuotevano la testa al pensiero di passare a tarda ora nei paraggi di quella località così sinistra. Anzi, per essere precisi, c'era un punto soprattutto che ispirava particolare timore. Il presbiterio sorgeva fra la strada maestra e il Dule, con una facciata su ciascuno dei due; il retro guardava verso il villaggio di Balweary, lontano circa mezzo miglio, e sul davanti un giardino spoglio circondato da siepi di rovo occupava il terreno tra il fiume e la strada. La casa era a due piani, ciascuno di due ampie stanze. Non si apriva direttamente sul giardino, bensì su una specie di viottolo o passaggio selciato, che da una parte dava sulla strada maestra e dall'altra era chiuso dagli alti sambuchi che crescevano lungo la riva del torrente. Ed era proprio questo viottolo ad avere una così brutta fama tra i giovani parrocchiani di Balweary. Il curato vi passeggiava spesso dopo il tramonto, talvolta gemendo ad alta voce nel fervore della sua orazione mentale, e quando egli si assentava e la porta del presbiterio era chiusa a chiave, solo gli scolaretti più coraggiosi si avventuravano, giocando a "seguire il capo", in quel luogo quasi leggendario, col cuore che batteva forte. Quest'atmosfera di terrore che circondava, di fatto, un ministro di Dio dal carattere e dall'ortodossia immacolati, era comunemente ragione di stupore e argomento di domande da parte dei pochi forestieri che il caso o gli affari conducevano in quel paese sconosciuto e fuori mano. Ma anche molta gente della parrocchia era all'oscuro degli strani eventi che avevano marcarto il primo anno del ministero del reverendo Soulis; e tra i meglio informati alcuni erano reticenti per natura, altri, invece, si mostravano particolarmente restii a parlare di quella faccenda. Solo di tanto in tanto qualcuno dei più vecchi, verso il terzo bicchiere, acquistava coraggio e cominciava a raccontare la causa dello strano aspetto e della vita solitaria del curato.

    Cinquant'anni fa, quando il reverendo Soulis venne per la prima volta a Balweary, era ancora un giovanotto - un ragazzo, diceva la gente - assai colto e bravissimo nel predicare, ma, com'era naturale in un uomo tanto giovane, senza alcuna esperienza vissuta in fatto di religione. I più giovani rimanevano incantati dalle sue doti e dalla sua eloquenza, ma le persone anziane, più serie e riflessive, si sentivano perfino spinte a pregare per quel giovanotto che consideravano un povero illuso e anche per la loro parrocchia che sembrava così mal fornita di una guida. Tutto questo avveniva prima del tempo dei "Moderati" - maledizione a loro! ma le cose cattive sono come quelle buone - vanno e vengono piano piano, un po' alla volta; già allora, comunque, c'era chi diceva che il Signore aveva abbandonato tutti i professori e che i ragazzi che andavano a studiare presso di loro avrebbero fatto di più e meglio restandosene seduti in una torbiera, come i loro antenati al tempo della persecuzione, con una Bibbia sotto il braccio e lo spirito della preghiera nel cuore. Ma insomma, senza dubbio il reverendo Soulis era rimasto troppo a lungo in collegio: si curava e si preoccupava di molte cose oltre alla sola necessaria. Aveva un mucchio di libri con sé, più di quanti se ne fossero mai visti in tutto il presbiterio; e il facchino ebbe il suo bel da fare a trasportarli fin lì, perché rischiarono di impantanarsi nella Palude del Diavolo, tra Balweary e Kilmackerlie. Erano libri di teologia, si capisce, o almeno così si diceva, ma le persone serie erano dell'opinione che fosse proprio inutile possederne così tanti quando tutti i Vangeli si possono portare nella cocca di uno scialle. E poi, se ne stava seduto a scrivere per metà della giornata e metà della notte, il che non stava neanche bene; sulle prime si pensò che stesse rileggendo i suoi sermoni, ma in seguito si seppe che stava scrivendo un libro egli stesso, il che non era davvero appropriato per uno della sua età e di così poca esperienza. Ad ogni modo, occorreva prendere una donna anziana e perbene, che si occupasse del presbiterio e provvedesse ai suoi pasti frugali; e gli fu raccomandata una vecchiaccia - una certa Janet Mc Clour - ed egli si lasciò persuadere troppo facilmente, facendo di testa sua. Furono in parecchi a metterlo in guardia, poiché quella Janet risultava più che sospetta alla gente migliore di Balweary. Diverso tempo prima aveva avuto un bambino da un soldato dei Dragoni, da circa trent'anni non riceveva la comunione ed i ragazzi l'avevano sentita borbottare qualcosa tra sé e sé, al buio, dalle parti del sentiero di Key, luogo poco adatto, a quell'ora, per una donna timorata da Dio. Comunque, era stato lo stesso signore del paese a parlare per primo di Janet al curato, e costui a quel tempo sarebbe andato molto più in là per far piacere al signore del paese. Quando la gente gli diceva che Janet era parente del diavolo, secondo lui si trattava soltanto di superstizione; e quando gli tiravano fuori la Bibbia e la strega di Endor, controbatteva con foga e ricacciava a tutti le parole in gola affermando che quei giorni erano ormai passati e che il demonio era, grazie alla misericordia divina, molto meno potente.

    Bene, quando per il villaggio si sparse la voce che Janet Mc Clour andava a fare la governante al presbiterio, la gente divenne furiosa sia con lei che con il curato, e alcune comari non trovarono di meglio da fare che piazzarsi di fronte alla porta della sua casa e accusarla di tutto ciò che si sapeva sul suo conto, dal figlio avuto col soldato alle due vacche di John Tomson. Janet di solito parlava poco. La gente, in genere, la lasciava andare per la sua strada e altrettanto faceva lei senza tanti buongiorno e buonasera, ma quando ci si metteva aveva una lingua da assordare un mugnaio. Saltò su, e spiattellò ai quattro venti tutti i vecchi pettegolezzi di Balweary, facendo inferocire le donne: se le dicevano una cosa, lei ne rispondeva due, finché a un certo momento le comari l'afferrarono, le strapparono i vestiti di dosso e la trascinarono per il villaggio, giù, fino alle acque del Dule, per vedere se era una strega o no, se restava a galla o se affogava. La vecchia urlava tanto che la si poteva sentire fino al boschetto, lottando come dieci persone, e ci furono parecchie di quelle comari che portarono addosso i suoi sdegni, il giorno dopo e molti altri ancora; ed ecco, proprio nel mezzo della mischia, arrivare (per sua sventura) il nuovo curato.
    «Donne», disse (e la sua voce era solenne), «nel nome del Signore io vi ordino di lasciarla andare.»
    Janet corse verso di lui, sconvolta dal terrore, e gli si aggrappò, e lo scongiurò, per amore di Cristo, di salvarla dalle comari; e quelle, da parte loro, gli dissero tutto ciò che sapevano sul conto di lei e forse ancora di più.
    «Donna», domandò allora lui a Janet, «è vero tutto questo?»
    «Come il Signore mi vede», rispose quella, «come è vero che mi ha creata, non una sola parola! A parte il bambino, sono sempre stata una donna a posto.»
    «Sei disposta», disse allora il reverendo Soulis, «nel nome di Dio e davanti a me, suo indegno ministro, a rinunciare al diavolo e alle sue tentazioni?»
    Bene, sembra che quando egli le pose questa domanda la vecchia fece una smorfia che mise abbastanza paura a quanti la videro, e la si udì battere forte i denti; ma non c'era altra scelta in quel frangente, e Janet alzò la mano e rinunciò al diavolo davanti a tutti.
    «E ora», dice il reverendo Soulis rivolto alle comari, «tornatevene a casa, tutte quante, e pregate Dio affinché vi perdoni.»
    E diede il braccio a Janet, nonostante avesse indosso sì e no la camicia, e l'accompagnò su per il villaggio fino alla porta di casa come se si trattasse di una gran dama, mentre lei gridava e rideva che era uno scandalo starla a sentire.

    Ci furono molte persone assennate che si trattennero a lungo a pregare quella notte: ma quando venne il mattino una tale paura si abbattè su Balweary che i bambini correvano a nascondersi e perfino gli uomini se ne stavano zitti a spiare dietro le porte. Perché c'era Janet che scendeva giù per il villaggio - lei o il suo fantasma, nessuno avrebbe potuto dirlo - col collo torto e la testa girata da una parte come quella di un impiccato, e sul viso una smorfia che la faceva somigliare ad un cadavere non ancora ricomposto. Col passare del tempo ci si fece l'abitudine, e ci fu perfino chi la interrogò per sapere cosa le fosse successo; ma da quel giorno in avanti non fu più capace di parlare come una cristiana: sbavava, i denti le battevano come un paio di cesoie e le sue labbra non riuscirono più, da allora in poi, a pronunciare il nome di Dio. Tentava a volte di pronunciarlo, ma non le era possibile. Chi più sapeva più taceva, ma nessuno chiamò mai quella cosa Janet Mc Clour, poiché la vecchia Janet, secondo loro, era sprofondata quel giorno nell'inferno. Il curato, tuttavia, non era tipo da lasciarsi influenzare dagli altri: andava dicendo che la crudeltà di quella gente le aveva fatto venire un attacco di paralisi; distribuiva scapaccioni ai bambini che la importunatavano e la notte stessa di quel famoso giorno la fece traslocare su al presbiterio, e abitò là, a Hanging Shaw, tutto solo con lei.

    Il tempo passò e la gente più superficiale cominciò a pensare sempre meno a quella brutta faccenda. Il curato godeva di buona stima: faceva sempre tardi a scrivere, è vero, e dal fiume si poteva vedere la luce della sua candela fino a mezzanotte passata, ma appariva soddisfatto e pieno di fiducia in se stesso come nei primi tempi, sebbene tutti si accorgessero che deperiva.
    Per quanto riguarda Janet, andava avanti e indietro: se prima non parlava molto, adesso aveva motivo di parlare ancora meno: non si impicciava di niente, ma era orribile a vedersi, e nessuno si sarebbe sognato di imbrogliarla nei conti dei terreni della parrocchia.

    Verso la fine di luglio venne un tempo come non se n'era mai visto da queste parti. L'aria era immobile, calda e opprimente: le greggi non ce la facevano a salire fin sopra la Collina Nera, i bambini erano troppo stanchi per giocare; pure, a tratti, si levava anche il vento, con raffiche roventi che brontolavano sordamente per le vallate e brevi acquazzoni che non riuscivano a mitigare la calura. Si pensava sempre che il giorno dopo dovesse scoppiare il temporale; ma veniva il mattino, ne veniva un altro ed era sempre quello stesso tempo spossante che affliggeva gli uomini e il bestiame. Fra tutti quelli che stavano peggio, nessuno soffriva come il reverendo Soulis; non riusciva né a dormire né a mangiare, come diceva ai suoi consiglieri parrocchiali, e quando non se ne stava a scrivere quel suo noioso libro vagava per la campagna come un ossesso, mentre chiunque altro era ben felice di starsene al fresco dentro casa.
    Al di sopra dell'Hanging Shaw, al riparo della Collina Nera, c'è un piccolo terreno recintato con un cancello di ferro: sembra che nei tempi andati fosse il cimitero di Balweary, consacrato dai Papisti prima che la luce benedetta splendesse sul regno. Ad ogni modo, era uno dei posti frequentati abitualmente dal reverendo Soulis: è lì che si sedeva di solito per pensare ai suoi sermoni, e in verità è un luogo ben riparato. Dunque un giorno, mentre superava la parte ovest della collina, egli vide prima due, poi quattro, poi sette corvi volare in tondo sopra il vecchio cimitero. Volavano bassi e pesanti, roteando e gracchiando tra loro. Era chiaro che qualcosa doveva aver disturbato le loro abitudini, ma il reverendo Soulis non era tipo da lasciarsi impressionare facilmente, e andò dritto fino al muretto di cinta, e cosa trovò? Un uomo, o qualcosa che ne aveva l'apparenza, seduto nel recinto sopra una tomba. Era alto di statura, nero come l'inferno e con degli occhi stranissimi. Il reverendo Soulis aveva sentito molte volte parlare di uomini neri, ma in quello lì c'era qualcosa di indecifrabile che lo intimoriva. Con tutto il caldo che aveva, provò come un gelido brivido d'orrore nel midollo delle ossa, ma riuscì lo stesso a dire con voce ben chiara: «Amico mio, non siete di qui, vero?». L'uomo nero non aprì bocca; si alzò in piedi e cominciò a camminare come strisciando, dirigendosi verso il lato opposto del muretto di cinta; e intanto non staccava gli occhi dal curato, e il curato rimaneva lì e lo fissava a sua volta. Poi, in un attimo, l'uomo nero fu con un balzo al di là del muretto e corse a rifugiarsi tra gli alberi. Il reverendo Soulis, quasi senza sapere perché, prese a rincorrerlo, ma era stanco morto per la camminata fatta poco prima con quel caldo terribile, e per quanto corresse riuscì appena a scorgere l'uomo nero tra le betulle, finché non arrivò ai piedi del pendio, dove lo vide ancora una volta mentre a passi e salti attraversava le acque del Dule dirigendosi verso il presbiterio. Il reverendo Soulis non fu molto contento che quello spaventoso vagabondo si pigliasse la libertà di entrare nel presbiterio, e corse ancora più forte, e traversò il torrente bagnandosi le scarpe, e si ritrovò finalmente sul viottolo; ma non c'era nessun uomo nero lì. Andò sulla strada maestra: nessuno; fece il giro del giardino: niente, nessun uomo nero. Alla fine, un po' spaventato, com'era naturale, tirò il saliscendi ed entrò in casa. E lì, davanti ai suoi occhi, ecco Janet Mc Clour, con il suo collo torto e non troppo contenta di vederlo. E il reverendo lo disse sempre in seguito, che appena pose gli occhi su di lei provò quello stesso brivido freddo e mortale di prima.
    «Janet», le disse, «hai visto un uomo nero?»
    «Un uomo nero?», ripetè lei. «Dio ci salvi tutti! Vi sbagliate, reverendo. Non c'è nessun uomo nero a Balweary.»
    Ma non parlava chiaro, lo capite bene: farfugliava come un cavalluccio col morso in bocca.
    «Bene», disse Soulis. «Janet, se non c'è nessun uomo io ho parlato col diavolo in persona.»
    E così dicendo cadde a sedere, battendo i denti come chi ha la febbre.
    «Sciocchezze», disse Janet, «dovreste vergognarvi, reverendo», e gli servì un sorso di acquavite che teneva sempre a portata di mano. Il curato se ne andò nello studio, tra i suoi libri. Questo studio è una stanza lunga, bassa e male illuminata, mortalmente fredda d'inverno e umida anche nel colmo dell'estate, poiché il presbiterio sorge vicino al torrente. Dunque, il reverendo si mise a sedere e pensò a tutto quello che era successo da quando era arrivato a Balweary, e pensò alla sua casa e ai giorni in cui era un bambino e correva per i prati; ma quell'uomo nero gli tornava sempre in testa come il ritornello di una canzone. Più pensava, più quell'uomo nero gli veniva in mente. Provò a pregare, ma non si ricordava le parole; cercò di mettersi a scrivere il suo libro, ma non riusciva ad andare avanti. Vi erano momenti in cui gli sembrava che l'uomo nero gli stesse accanto, e allora il sudore gli si gelava addosso come acqua di pozzo, e vi erano altri momenti in cui si riprendeva e non aveva più paura di nulla, come un bimbo appena battezzato. Infine andò alla finestra e se ne restò lì in piedi a osservare le acque del Dule con uno sguardo intenso e corrucciato. Vicino al presbiterio gli alberi sono particolarmente fitti e l'acqua è profonda e scura; e c'era Janet che lavava i panni, con gli abiti rimboccati: voltava le spalle al curato e questi, d'altro canto, si era appena accorto di starla a guardare. A un certo momento si voltò, mostrando la faccia, e il reverendo Soulis risentì ancora lo stesso brivido freddo che aveva già provato due volte quel giorno, e gli venne in mente ciò che la gente diceva: che Janet era morta da molto tempo e quella era soltanto una larva rivestita delle sue carni fredde come la terra. Si fece un po' indietro, osservandola attentamente: stava sbattendo i panni e canticchiava tra sé, ma oh! Dio ci guidi, aveva una faccia spaventosa. A tratti cantava più forte, ma nessuno al mondo avrebbe saputo ridire le parole della sua canzone; e poi, ogni tanto guardava in giù, di lato, sebbene non ci fosse nulla da guardare da quella parte. Il reverendo provò un moto di paura e di ribrezzo in tutto il suo essere, e di certo era un avvertimento del Cielo; ma invece si rimproverò di pensare così male di una povera vecchia malata senza altri amici che lui. Così, recitò una breve preghiera per lei e per sé, bevve un sorso d'acqua fresca - poiché gli si rivoltava lo stomaco solo al pensiero di mangiare - e salì a coricarsi nel suo semplice letto, mentre cadevano le ombre della sera. Quella notte, la notte del diciassette agosto millesettecentododici, non è mai stata più dimenticata a Balweary. Era stato caldo fino allora, come ho detto, ma quella notte era più calda che mai. Il sole tramontò fra nuvole mai viste e venne un buio fitto come la pece, senza una stella, senza un alito di vento; non avresti visto la tua mano davanti al viso: perfino i vecchi avevano gettato via le coperte dal letto e respiravano a fatica. Con tutto quello che aveva in mente era piuttosto improbabile che il reverendo Soulis potesse dormire molto. Si voltava e rivoltava di continuo: il buon letto fresco in cui era entrato sembrava che gli bruciasse le ossa; si assopiva per svegliarsi subito dopo; sentiva battere le ore, poi un cane ululare nella brughiera come se fosse morto qualcuno; a tratti credeva di udire dei folletti bisbigliargli qualcosa all'orecchio, poi gli pareva di vedere dei fuochi fatui danzare per la stanza. Pensò di essere ammalato; e lo era, infatti - anche se non sospettava neppure di quale malattia.
    Infine ebbe un momento di lucidità: si rizzò a sedere in camicia da notte sulla sponda del letto e cominciò di nuovo a pensare all'uomo nero e a Janet. Non avrebbe saputo spiegare come - forse fu il freddo del pavimento ai piedi - ma di colpo ebbe la sensazione che vi fosse un qualche nesso tra i due, e che l'uno o l'altra o forse entrambi, fossero dei fantasmi. E proprio in quel momento dalla stanza di Janet, che si trovava accanto alla sua, venne un tramestio come di persone che stessero lottando, poi un forte tonfo; quindi una folata di vento passò frusciando nelle quattro stanze della casa, e di nuovo tutto tornò silenzioso come una tomba.
    Il reverendo Soulis non aveva paura né degli uomini né dei diavoli. Prese l'esca e l'acciarino, accese una candela e fece qualche passo verso la porta di Janet. Il saliscendi era alzato: spinse l'uscio e guardò dentro risolutamente. La stanza era ampia, grande quanto la sua, piena di mobili imponenti, vecchi e solidi, dato che non ne aveva altri. C'era un letto con quattro colonne e il baldacchino di vecchia tappezzeria, un bell'armadietto di quercia pieno di libri di teologia del curato, messi lì perché non fossero di ingombro: le povere, poche cose di Janet erano sparse qua e là sul pavimento. Ma il reverendo Soulis non riusciva a scorgere né Janet né alcun segno di lotta. Entrò dentro (e pochi, credo, lo avrebbero seguito), si guardò intorno, ascoltò. Ma non c'era nulla da ascoltare, nulla dentro il presbiterio né in tutta la parrocchia di Balweary, e nulla da vedere, tranne le lunghe ombre che danzavano intorno alla candela. E poi, ad un tratto, il cuore del curato ebbe un violento palpito e si arrestò, mentre un vento freddo gli passava fra i capelli. Che triste visione fu quella per il poveretto! C'era Janet, lì, appesa a un chiodo accanto al vecchio armadietto di quercia: la testa sempre piegata sulla spalla, gli occhi stralunati, la lingua tutta fuori dalla bocca e i piedi a due palmi dal pavimento.
    «Dio ci perdoni tutti!», pensò il reverendo Soulis, «La povera Janet è morta.»
    Fece un passo verso il cadavere e il cuore gli sussultò nel petto perché, per qualche stregoneria incomprensibile a mente umana, la vecchia era appesa a un unico chiodo, per un unico filo di lana ritorta, di quello da rammendare le calze.
    E' una cosa orribile trovarsi soli, di notte, con tali sinistri prodigi, ma il reverendo Soulis era forte nel Signore. Si voltò e uscì da quella stanza chiudendo la porta a chiave dietro di sé, poi, un gradino dopo l'altro, scese le scale sentendosi pesante come il piombo e posò la candela sul tavolino. Non riusciva a pregare, non riusciva a pensare: gocciava sudore freddo e non avvertiva altro che i battiti accelerati del suo cuore. Era lì forse da un'ora, forse da due, non ci aveva fatto attenzione, quando, all'improvviso, sentì un leggero, misterioso rumore al piano di sopra: un passo andava avanti e indietro nella stanza dove pendeva impiccato il corpo di Janet; poi la porta venne aperta, benché egli l'avesse chiusa a chiave, come ricordava bene, e si udì un passo sul pianerottolo. Gli sembrò che il cadavere si fosse affacciato alla ringhiera delle scale e guardasse in basso, verso di lui.
    Prese di nuovo la candela (non ce la faceva a stare senza luce) e facendo meno rumore possibile uscì fuori dal presbiterio e si diresse fino in fondo al viottolo. Era sempre buio come la pece: la fiamma della candela, quando la posò in terra, brillò ferma e chiara come in una stanza chiusa. Nulla si muoveva, tranne le acque del Dule che scorrevano pigre singhiozzando giù per la valle, mentre quel passo infernale scendeva lentamente le scale all'interno del presbiterio. Era un passo che il curato conosceva fin troppo bene, poiché era quello di Janet, e man mano che si faceva più vicino il gelo gli penetrava sempre più nelle viscere. Raccomandò la sua anima al Creatore che lo teneva in vita: «O Signore», diceva, «dammi questa notte la forza per combattere contro le potenze del male». In quel momento il passo stava percorrendo l'andito verso la porta di casa: si poteva sentire una mano che strusciava lungo il muro, come se quella cosa spaventosa stesse cercando la strada a tentoni. I salii si agitarono gemendo, un lungo sospiro venne dalle colline, la fiamma della candela vacillò; ed ecco, lì, in piedi sulla soglia del presbiterio c'era il cadavere di Janet, la storta, col suo vestito di percalle e la cuffia nera, la testa sempre piegata verso la spalla e quella smorfia ancora scolpita sul viso - viva, avresti detto - morta, come il reverendo Soulis ben sapeva.
    E' strano come l'anima dell'uomo sia così legata alla sua spoglia mortale: pure, il curato vide tutto questo e il suo cuore non venne meno.
    Essa non rimase a lungo lì in piedi: cominciò di nuovo a muoversi, dirigendosi lentamente verso il reverendo Soulis che era rimasto fermo sotto i salici. Tutta la vitalità del suo corpo, tutta la forza della sua anima gli risplendevano negli occhi. Sembrò che essa stesse per parlare, ma fece solo un cenno con la sinistra, come se le mancassero le parole. Venne una raffica di vento, come il soffio di un gatto; la candela si spense, i salici mandarono un lamento simile a una voce umana, e il reverendo Soulis a un tratto comprese che, ne uscisse vivo o morto, era qui che si doveva concludere la sua storia.
    «Strega, maga, diavolo!», urlò. «Io ti ordino, in nome di Dio, di andartene - se sei morta alla tomba - se sei dannata all'inferno.»
    E allora la mano stesa del Signore colpì dall'alto dei Cieli l'Orrore lì dove si trovava: il vecchio, morto, sconsacrato corpo della strega, così a lungo sottratto alla tomba e portato in giro dai diavoli, prese fuoco come uno zolfanello e cadde a terra ridotto in cenere; seguì, vibrante, il tuono, un rombo dietro l'altro, poi la pioggia scrosciante. Il reverendo Soulis attraversò con un balzo la siepe del giardino e corse urlando verso il villaggio.
    Quella stessa mattina, John Christie vide l'Uomo Nero passare vicino il Muckle Cairn mentre rintoccavano le sei; prima delle otto, passò accanto alla locanda di Knockdow; poco dopo Sandy Mc Lellan lo vide correre giù per la discesa di Kilmackerlie. Non ci sono dubbi che fosse stato lui ad abitare per tanto tempo nel corpo di Janet, ma era andato via, finalmente, e da quel giorno il diavolo non è più tornato a Balweary.
    Ma fu una prova assai dura per il curato: rimase molto, molto a lungo delirante nel suo letto, e da quel momento è divenuto l'uomo che oggi conoscete.

    [SPOILER]Traduzione tratta da "Lo Strano Caso del Dr.Jekyll e Mr.Hyde e altri racconti" di R.L. Stevenson Pagine 98-108, è meno del 20% del libro in questione.


    Edited by ;Isabel - 4/11/2018, 21:33
     
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    Smisto :)
     
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