Il nostro supervisore temporaneo

Thomas Ligotti

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    "Dal multiforme ingegno"

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    Spedisco questo manoscritto alla vostra pubblicazione oltreconfine confidando che arrivi a destinazione, perché credo che le conseguenze dei fatti narrati in questo aneddoto personale interessino anche chi vive altrove e sfugge, a quanto ne so, all'influenza della Quine. Queste due entità, la prima politica e la seconda puramente commerciale, vengono spesso accomunate, come fossero sinonimi, da chi come voi s'intende di approfondimenti giornalistici. Sapete quindi che al di qua del confine ci possiamo definire cittadini della Quine Organization o popolo della Q. Org, anche se dubito che voi e quelli come voi cogliate appieno il senso di questa identità, che nel corso della mia vita si è spinta oltre il limite dell'identificazione tra entità separate, raggiungendo la totale assimilazione dell'una con l'altra. Le mie opinioni sembreranno allarmiste o stravaganti a voi che abitate oltreconfine e che spesso, lo so, considerate i vostri vicini gente un po' arretrata che abita in città piccole e cadenti, sparpagliate su una piana bassa coperta quasi tutto l'anno da nebbie grigiastre e dense. Questa non è che l'ingannevole immagine che la Quine Organization, ovvero, come dire, la mia madrepatria, dà di se stessa al mondo, e questo è il motivo che mi rende ansioso (per ragioni che non sempre sono esplicite o minuziosamente dettagliate) di raccontare il mio aneddoto personale.

    Innanzitutto lavoro in una fabbrica situata nelle immediate vicinanze di una delle già menzionate città cadenti sulle quali buona parte dell'anno incombono strati di nebbia. La fabbrica è una struttura anonima, tutta su un piano, di calcestruzzo e cemento. È costituita da un unico grande locale con un piccolo ufficio d'angolo chiuso da finestre con vetri smerigliati opacissimi. Ai lati dell'ufficio d'angolo si trovano qualche schedario e la scrivania del supervisore, mentre i lavoratori, all'esterno, circondando diverse "stazioni di assemblaggio" quadrate. Ogni lato di ciascuna stazione accoglie un operaio la cui mansione è l'assemblaggio manuale dei pezzi di metallo che ci vengono consegnati da un'altra fabbrica. Ho provato a chiedere, ma nessuno ha mai saputo dirmi a quale macchinario, sempre che sia un macchinario, sono destinati i pezzi assemblati.
    Quando ho cominciato a lavorare qui in fabbrica non era mia intenzione rimanerci a lungo, perché un tempo nutrivo ambizioni più alte per la mia vita, ambizioni che nella mia giovane vita avevano contorni sempre vaghi. Il lavoro non era difficile, né i miei colleghi sgradevoli, ma non prevedevo di starmene per l'eternità impalato alla stazione di assemblaggio a fissare pezzi di metallo ad altri pezzi di metallo, fermandomi soltanto in occasione delle pause quotidiane per rinfrescarci la mente tediata dal lavoro o delle pause pranzo per nutrire il corpo. Per qualche motivo non mi è mai venuto in mente che la vicina cittadina dove io e gli altri colleghi vivevamo, da e verso la quale viaggiavamo percorrendo tutti la stessa strada nebbiosa per recarci al lavoro, non serbava opportunità migliori né per me né per nessun altro, cosa che senza dubbio giustifica la vaghezza, l'esile inconsistenza, delle mie speranze di gioventù.
    Per coincidenza, a pochi mesi dalla mia assunzione avvenne l'unico cambiamento capace di turbare la routine quotidiana di assemblaggio alla fabbrica, l'unica deviazione da un rituale che proseguiva da tempo immemore. Sulle prime il senso di questa divagazione nelle nostre vite lavorative non ci causò grosse ansie o apprensioni, niente che imponesse ai dipendenti della fabbrica di riconsiderare il tipo o il dosaggio di medicinali che si erano visti prescrivere, poiché al di qua del confine quasi chiunque, anche il sottoscritto, prende qualche tipo di medicina, un'abitudine che in qualche misura è dovuta alla norma che mette ogni dottore e farmacista a libro paga della ditta Quine Organization, proprietaria di una grande divisione chimica.
    Comunque, il cambiamento di routine al quale alludo ci fu annunciato il giorno in cui il supervisore della fabbrica uscì dall'ufficio d'angolo e fece una delle sue rare apparizioni nello spazio di lavoro dove eravamo collocati noialtri, gomito a gomito, ciascuno alla sua stazione d'assemblaggio. Per la prima volta da che ero stato assunto, il lavoro fu interrotto tra l'uno e l'altro dei momenti di pause che sfruttavamo per rinfrescarci la mente o nutrire il corpo. Il supervisore, un certo Frowley, era un individuo massiccio ma non minaccioso, si muoveva e parlava con una letargia che forse era semplice conseguenza della sua massa corporea, con l'ipotetica complicità, nell'indolenza, del farmaco che prendeva ogni ora con sé e dei suoi effetti collaterali o primari. Frowley arrancò fino alla zona centrale dello spazio di lavoro e si rivolse a noi col suo solito fare rallentato.
    - Questioni di lavoro mi impongono di allontanarmi - ci informò. - In mia assenza manderanno un nuovo supervisore a rimpiazzarmi in via temporanea. Questa situazione si verificherà a partire da domani quando verrete a lavoro. Non so dirvi quanto durerà. -
    Poi domandò se qualcuno di noi avesse dubbi riguardo quella che si annunciava un'occasione memorabile, anche se all'epoca la mia poca esperienza in fabbrica non mi consentiva di coglierne l'anomalia. Nessuno aveva domande per Frowley, o nessuno ne pronunciò, e il supervisore tornò nel piccolo ufficio d'angolo con le finestre di vetro smerigliato opacissimo.
    Ovviamente, subito dopo che Frowley annunciò che questioni di lavoro gli imponevano di allontanarsi e che la fabbrica sarebbe stata diretta da un supervisore temporaneo, tra i miei colleghi nacquero mormorii incerti su possibili ripercussioni. In fabbrica non era mai accaduto niente del genere, dicevano i dipendenti più di vecchia data, compresi alcuni che si avvicinavano all'età in cui, suppongo, sarebbero riusciti a lasciarsi il lavoro alle spalle ed entrare in un periodo di meritato riposo dopo aver passato la vita in fabbrica a montare pezzi di metallo alla stessa stazione di assemblaggio. Alla fine del giorno, tuttavia, questi mormorii erano lontani, mentre sfollavamo dalla fabbrica e ci mettevamo in marcia sulla strada nebbiosa che ci riportava a casa, nella cittadina.
    Quella notte, per ragioni poco chiare, non riuscii a chiudere occhio come di solito facevo senza fatica, reduce dalle giornate in piedi a montare pezzi su pezzi di metallo sempre nella stessa configurazione. Ora, mentre mi giravo e rigiravo a letto, il pensiero di questa attività di assemblaggio mi opprimeva con tutto il peso della sua ripetitività, infinitezza, sconnessione da qualunque immaginabile logica.
    Per la prima volta mi chiesi come venissero creati quei pezzi di metallo, tentai invano di inseguirli col pensiero fino alle loro origini nel cuore grezzo di una sostanza che, supponevo, era stata prelevata dalla terra e sottoposta a un processo di raffinamento e poi plasmata in una fabbrica o in una serie di fabbriche, prima di arrivare a quella per cui, al momento, lavoravo. Con aumentato senso di futilità cercai di immaginare dove andassero a finire i pezzi di metallo dopo che li avevamo montati com'eravamo stati addestrati a fare, e la mente si affannava nel buio a visualizzarne la destinazione, il fine ultimo. Fino a quella notte non ero mai stato turbato da domande di questo genere. Era insensato occuparmene, viste le grandi ambizioni personali che nutrivo per quando non fossi più stato costretto a sostentarmi lavorando in fabbrica. Alla fine scesi dal letto e presi una dose di medicinale in più. Ciò mi concesse almeno qualche ora di sonno prima che il lavoro mi chiamasse.
    Ogni mattina, quando entravamo in fabbrica, la procedura imponeva che al primo del gruppo che oltrepassava la soglia toccasse accendere le lampade coniche fissate al soffitto da lunghi bastioni. Un'altra serie di luci si trovava nell'ufficio d'angolo del supervisore, e ad accenderla era Frowley quando veniva a lavorare, all'incirca allo stesso orario di noialtri. Quel mattino, tuttavia, non vedemmo accendersi le luci nell'ufficio del supervisore. Poiché secondo i piani era il giorno in cui il nuovo supervisore avrebbe dovuto prendere il posto di Frowley, anche soltanto in via temporanea, demmo per scontato che per qualche motivo non fosse ancora arrivato in fabbrica. Ma quando la luce del giorno trapelò dalla nebbia al di là delle finestrelle rettangolari della fabbrica, comprese quelle dell'ufficio del supervisore, cominciammo a sospettare che il nuovo supervisore - cioè, il nostro supervisore temporaneo - fosse sempre stato nel suo ufficio. Dico "sospettare" soltanto perché in assenza di lampade accese nell'ufficio, con la sola luce diurna a splendere al di là della nebbia fuori dalla finestra, non era possibile stabilire se ci fosse o no qualcuno dentro i vetri smerigliati opacissimi che circondavano l'ufficio del supervisore. Forse il nuovo supervisore mandato dalla Quine Organization a rimpiazzare temporaneamente Frowley aveva già preso residenza nell'ufficio nell'angolo della fabbrica, ma di sicuro non stava facendo alcun movimento che ci permettesse di distinguerne la sagoma nella confusione di forme percepibile al di là del vetro smerigliato opacissimo.
    Nessuno in fabbrica disse nulla di specifico a riguardo della presenza o all'assenza del nuovo supervisore, ma nelle prime ore della giornata vidi che, dalle loro stazioni di assemblaggio, quasi tutti gettavano almeno un'occhiata in direzione dell'ufficio di Frowley. La stazione dove svolgevo le mie mansioni era tra le più vicine all'ufficio del supervisore, e noi che vi eravamo assegnati avremmo dovuto discernere meglio di chiunque altro la presenza di qualcuno al suo interno. Tuttavia, io e gli altri addetti alla stazione di assemblaggio alla quale ero assegnato non facemmo altro che scambiarci sguardi furtivi con gli operai di stazioni anche più vicine all'ufficio, come a chiederci: - Secondo te? -. Nessuno riusciva a dire nulla con certezza, o ad esprimerlo in termini sensati.
    Ciò nonostante ci comportammo come se l'ufficio d'angolo fosse davvero occupato e lavorammo come se le nostre azioni fossero oggetto di approfondito esame e accurata supervisione. Col passare delle ore risultò sempre più evidente che l'ufficio del supervisore era abitato, e gli unici eventuali dubbi riguardavano la natura del nuovo residente. Le voci che circolarono durante la prima pausa della giornata sostenevano che la figura nascosta dietro i vetri smerigliati opacissimi fosse priva di fattezze definite o non avesse una forma stabile o solida. Diversi miei colleghi parlarono di un'ondulazione scura scorta diverse volte dietro o dentro la superficie irregolare del vetro che circondava l'ufficio del supervisore. ma ogni volta che il loro sguardo vi si concentrava, questo movimento ondulatorio sembrava interrompersi all'istante o semplicemente disperdersi come un banco di nebbia. Quando fu l'ora della pausa pranzo circolarono altre osservazioni che in buona parte concordavano sull'apparizione di un profilo in lenta trasformazione, una forma cupa e globulante, un nembo che ribolle nel cielo fattosi scuro. Alcuni ipotizzavano che non avesse più sostanza di un'ombra, o forse lo era, benché a sentirli quest'ombra fosse diversa dalle altre, talvolta in perpetuo movimento sullo stesso percorso, avanti e indietro, al di là del vetro smerigliato, come una specie di creatura in gabbia. Altri giuravano di aver avvistato una configurazione corporea, ma elusiva e aberrante. Ne parlavano solo in termini di "parte-testa", e "protrusioni-braccia", mitigavano le descrizioni di natura più convenzionale ammettendo che queste componenti pseudoanatomiche non avevano alcuna parvenza di normalità.
    - Non sembra seduta alla scrivania dell'ufficio - affermò uno, - sembra più che ne spunti, quasi di sghembo. -
    Questo l'avevo notato anch'io dalla mia stazione di assemblaggio, e come me gli uomini che lavoravano alla mia sinistra e alla mia destra. Il collega che mi stava di fronte, un certo Blecher, che in fabbrica era uno dei più giovani e aveva pochi anni in più di me, non disse mai una sola parola di ciò che poteva aver visto nell'ufficio del supervisore. Anzi, quel giorno lavorò concentratissimo sull'assemblaggio del pezzi di metallo e tenne gli occhi bassi anche quando si allontanò dalla stazione di assemblaggio per le pause o per andare al gabinetto. Non una volta lo sorpresi a sbirciare in direzione dell'angolo di fabbrica dal quale noialtri, mentre le ore si trascinavano, faticavamo a tener lontani gli occhi. Poi, verso la fine della giornata di lavoro, l'atmosfera della fabbrica ormai appesantita dalle nostre parole dette e dai nostri pensieri non detti, quando la sensazione che fossimo sottoposti a una sconosciuta modalità di minacciosa supervisione incombeva su noi tutti oltre che dentro di noi (al punto che sentivo come dei ceppi interiori che mi impedivano di allontanarmi, con il corpo e con la mente, dal posto che occupavo alla stazione di assemblaggio), Blecher finalmente crollò.
    - Basta - disse, come parlasse soltanto a se stesso. Poi ripeté la parola a voce più alta e con una veemenza che solo in parte lasciava intuire cos'avesse trattenuto dentro di sé per l'intera giornata. - Basta! - gridò mentre si allontanava dalla stazione di assemblaggio e si girava a guardare la porta dell'ufficio del supervisiore che, come le finestre, era una struttura di vetro smerigliato opacissimo.
    Blecher corse svelto alla porta dell'ufficio. Senza fermarsi, neanche per bussare o annunciare in qualche modo la sua entrata, fece irruzione nella stanza cubica e chiuse la porta sbattendola. Tutti gli occhi della fabbrica, adesso, fissavano l'ufficio d'angolo. Al contrario della definizione fisica del supervisore temporaneo che tanta confusione e conflitti ci aveva provocato, non fu un problema scorgere la sagoma scura di Blecher dietro il vetro smerigliato opacissimo e seguirne i movimenti. in seguito tutto accadde molto rapidamente e il resto di noi rimase impietrito da una paralisi di quelle che normalmente sopravvengono nei sogni.
    All'inizio Blecher si fermò rigido davanti alla scrivania dell'ufficio, posa in cui riuscì a rimanere per un attimo solo. Subito prese a correre per la stanza come inseguito; sbatté contro gli schedari e infine cadde. Quando si rialzò sembrava volesse scacciare uno sciame di insetti, si sbracciava come un pazzo per prevenire l'assalto di una massa nebulosa e cangiante che incombeva su di lui come un'aura tremula. Poi il suo corpo si schiantò forte control il vetro smerigliato della porta, pensavo che sfondasse. Invece si rialzò con affanno e uscì malfermo dall'ufficio, fermandosi un secondo ad osservare noi che osservavamo lui. Negli occhi aveva un'espressione sconvolta, incredula, gli tremavano le mani.
    Dopo la sua uscita furiosa Blecher aveva lasciato la porta semiaperta, ma nessuno osò guardare dentro l'ufficio. L'operaio sembrava incapace di allontanarsi dal punto in cui era approdato, a poco più di un metro dalla porta dell'ufficio semiaperta. Poi finalmente la porta cominciò a chiudersi lentamente, girava lenta e precisa sui cardini malgrado l'apparente assenza di forze visibili a spingerla. Quando andò a toccare lo stipite si udì un lieve "clic". Ma fu il successivo suono della serratura che girava, dall'altra parte, a risvegliare l'impietrito Blecher, che uscì di corsa dalla fabbrica. Dopo neanche qualche secondo la campana di fine turno prese a squillare stridula come un allarme, nonostante l'ora di abbandonare le stazioni di assemblaggio fosse ancora lontana. Riportati alla piena lucidità dallo spavento, uscimmo dalla fabbrica compatti, misurando i passi, muti, fino a svuotare l'edificio. Fuori non c'era segno di Blecher, che peraltro nessuno, credo, si aspettava di ritrovare. In ogni caso, sulla strada che portava in città la nebbia grigiastra era particolarmente densa, e faticavamo a vederci l'uno con l'altro mentre raggiungevamo casa, senza parlare di ciò che era accaduto, come vincolati al silenzio da un patto. Avessimo detto anche una sola parola di Blecher, sarebbe stato impossibile, almeno per me, tornare in quella fabbrica. E non c'era altro posto a cui potessimo rivolgerci, per sbarcare il lunario.
    Quella sera andai a letto presto e presi una dose consistente di medicine, che mi garantisse di crollare subito addormentato senza passare ore a rincorrere i pensieri, come la notte prima, scervellandomi sulle origini (chissà dove, nella terra) e sulla successiva destinazione (in un'altra fabbrica o serie di fabbriche) dei pezzi di metallo che passavo i miei giorni ad assemblare. Mi svegliai più presto del solito, ma anziché indugiare nella mia stanza, dove rischiavo di tornare col pensiero agli eventi del giorno prima, raggiunsi un piccolo ristorante che a quell'ora del mattino sapevo essere aperto.
    Entrando vidi che era insolitamente affollato e che a occupare séparé, tavoli e sgabelli al bancone erano perlopiù i miei colleghi di fabbrica. Per una volta fui felice di vedere gli uomini che in precedenza avevo considerato "ergastolani" di un lavoro che non era mai stata mia intenzione sopportare a lungo, condiserato che ancora coltivavo certe vaghe ambizioni per il futuro. Mentre andavo verso uno sgabello libero al banco provai a salutarli, ma nessuno mi rivolse più di un cenno della testa e nessuno sembrava troppo desideroso di conversare.
    Occupato un posto al banco e ordinata la colazione, riconobbi nell'uomo seduto alla mia destro uno che lavorava alla stazione di assemblaggio vicina a quello dove giorno dopo giorno andavo a posizionarmi io. Ero abbastanza sicuro che si chiamasse Nohls, ma evitai di chiamarlo per nome e gli augurai un semplice "buongiorno" nel tono più basso che mi riusciva. Per un momento Nohls non rispose e si limitò a fissare il piatto che aveva davanti, dal quale lentamente, meccanicamente, raccoglieva con la forchetta bocconi di cibo. Senza voltarsi verso di me, a voce persino più bassa della mia, Nohls disse:
    - Hai saputo di Blecher? -
    - No - sussurrai. - Che gli è successo? -
    - Morto. - fece Nohls.
    - Morto? - risposi, a voce abbastanza alta da far voltare tutti i presenti. Ripresi la conversazione con estrema delicatezza e domandai a Nohls cosa fosse accaduto a Blecher.
    - Quella pensione dove abita. La donna che la gestisce ha detto che si comportava in modo strano dopo... dopo che è tornato dal lavoro, ieri. -
    In seguito, così mi disse Nohls, Blecher non si era presentato a cena. La donna che gestiva la pensione si era presa la briga di andare a chiamarlo, ma quando gli aveva bussato alla porta lui non aveva risposto. Preoccupata, la donna aveva chiesto a un altro ospite di controllare se Blecher stesse bene. Lo avevano trovato sdraiato a faccia in giù sul letto, con diverse scatole di medicinali che gli aveva dato il medico aperte sul comodino. Pur senza consumare l'intero contenuto, era morto per overdose. Forse voleva soltanto scacciare il pensiero di quella giornata e concedersi una notte di sonno come si deve. L'avevo fatto anch'io, dissi a Nohls.
    - Potrebbe essere andata così - rispose lui. - Dubito che lo sapremo mai con certezza. -
    Consumata la colazione continuai a bere caffè riempendone e scolandone tazze su tazze, come vidi fare anche ad altri, compreso Nohls. All'inizio della giornata lavorativa mancava ancora un po'. A un certo punto, comunque, cominciò ad arrivare la solita clientela e ce ne andammo a fare il nostro dovere. Qualche ora prima dell'alba giungemmo alla fabbrica avvolta dal buio e dalla nebbia e trovammo diversi altri dipendenti di fronte all'ingresso. Sembrava che nessuno volesse entrare per primo ad accendere le luci. Qualcuno si mosse soltanto quando l'ultimo gruppo, del quale facevo parte, giunse nei pressi della fabbrica. E lì scoprimmo che quel mattino qualcuno ci aveva preceduti e aveva acceso le luci. Era un volto nuovo. Occupava il posto di Blecher, di fronte a me alla stazione di assemblaggio, e aveva già concluso una notevole mole di lavoro maneggiando furioso i pezzi di metallo e attaccandoli insieme. Mentre raggiungevamo ognuno il proprio posto alle stazioni di assemblaggio distribuite nello spazio di lavoro della fabbrica, quasi tutti guardammo con sospetto il nuovo arrivato che occupava la posizione di Blecher e che, come dicevo, lavorava a ritmo furioso. A dirla tutta erano soltanto le mani a lavorare con furia, manipolando i pezzi di metallo come due grossi ragni che tessono la medesima tela. Per il resto ostentava una certa calma e sembrava la personificazione dell'operaio medio della fabbrica. Indossava abiti da lavoro d'ordinanza grigi e logori e non pareva né molto vecchio né molto più giovane degli altri dipendenti. La sua unica qualità di spicco era la furia che metteva nel lavoro, al quale dedicava tutta la sua attenzione. Anche quando la fabbrica cominciò a riempirsi di altri uomini in abiti grigi da lavoro, che per la maggior parte guardavano con sospetto il nuovo arrivato, quello non alzò mai gli occhi dalla stazione di assemblaggio dove manipolava i pezzi di metallo con una tale dedizione, con tale assoluto coinvolgimento da non accorgersi di chi gli stava intorno.
    Apparso com'era a sostituire Blecher di fronte a me, alla mia stazione di assemblaggio, proprio il mattino dopo che Blecher aveva fatto overdose di medicinali, il nuovo arrivato era una presenza che turbava ma che al tempo stesso riuscì a distrarci dall'ufficio buio abitato dal nostro supervisore temporaneo. Se il giorno prima eravamo preoccupati esclusivamente dalla figura superiore, oggi ad attirare la nostra attenzione era in primis il nuovo dipendente giunto tra noi. E benché ci riempisse la mente di speculazioni e sospetti, il nuovo non contribuì all'atmosfera di pensieri e percezioni da incubo che aveva spinto Blecher al delirio totale e ad agire come aveva agito.
    Ovviamente non potemmo trattenerci più di tanto prima di chiedere conto al nuovo arrivato della sua comparsa, proprio quel giorno, in fabbrica. Perché i colleghi che lavoravano alla mia destra e alla mia sinistra facevano del proprio meglio per ignorare la situazione, sentii che l'incombenza di cercare una risposta spettava a me.
    - Di dove sei? - domandai all'uomo che mi stava davanti, sul lato della stazione di assemblaggio che era stato di Blecher.
    - Mi ha mandato la ditta - rispose l'uomo con un tono di voce aperto e rilassato che mi sorprese, ma senza staccare neanche per un secondo lo sguardo dal lavoro.
    Poi presentai me stesso e i miei compagni di stazione di assemblaggio, che annuirono e mormorarono un saluto. Fu lì che scoprii i limiti della disponibilità a rivelarsi del nuovo arrivato.
    - Senza offesa - disse. - Ma da queste parti c'è un sacco di lavoro da fare. -
    Durante il breve scambio di battute, il nuovo arrivato aveva continuato a manipolare pezzi di metallo senza interruzione. Tuttavia, benché tenesse la testa bassa, come aveva fatto Blecher per buona parte del giorno precedente, vidi che si concedeva qualche rapidissimo sguardo verso l'ufficio del supervisore. A quel punto evitai di disturbarlo oltre, convinto che si sarebbe fatto più loquace durante l'imminente pausa. Nel frattempo lo lasciai continuare al suo ritmo di lavoro furioso, ben superiore alla soglia di produttività più alta mai raggiunta da qualsiasi operaio della fabbrica.
    Presto notai che i miei colleghi alla stazione di assemblaggio, sul lato destro e sul lato sinistro, tentavano di emulare lo stile e la notevole destrezza con cui il nuovo arrivato metteva insieme i pezzi di metallo, e persino di competere con il ritmo produttivo incredibile al quale egli lavorava. Io stesso li scimmiottai. Sulle prime l'esito dei nostri sforzi fu imbarazzante, le nostre mani si affannavano a imitare i movimenti delle sue così veloci che lo sguardo non riusciva a seguirle né la mente a decifrare una tecnica di lavoro diversissima da quella che avevamo sempre adottato. Tuttavia, senza capire in che modo, cominciammo ad avvicinarci, pur partendo da lontanissimo, alla velocità e allo stile con cui il nuovo arrivato metteva insieme i pezzi di metallo. I nostri sforzi e il nostro mutato modo di lavorare non sfuggirono agli operai delle stazioni di assemblaggio vicine. La nuova tecnica fu gradualmente adottata e imitata anche dagli altri. Quando ci fermammo per la prima pausa del giorno, tutti utilizzavano la metodologia del nuovo arrivato.
    Ma non smettemmo di lavorare troppo a lungo. Quando fu ovvio che il nuovo arrivato non aveva intenzione di fermarsi nemmeno un secondo per unirsi a noi nel consueto periodo di pausa, tornammo alle stazioni di assemblaggio e continuammo a lavorare più furiosamente che potevamo. Fummo i primi a sorprenderci di come eseguivamo quello che ci era sempre sembrato un lavoro banale e semplice, portandolo al livello di virtuosismo mostratoci da un uomo che non ci aveva neanche detto il suo nome. A quel punto non vedevo l'ora di parlargli del cambiamento che aveva portato nella fabbrica, immaginavo di farlo quando fosse venuto il momento della pausa pranzo. Come il resto dei miei colleghi, però, non potevo immaginare lo spettacolo al quale avremmo assistito allo scoccare del momento fatidico.
    Sì, perché al posto di abbandonare il posto alla stazione di assemblaggio durante l'usuale pausa pranzo concessa dalla fabbrica il nuovo arrivato continuò a lavorare consumando il pasto con una mano e assemblando i pezzi di metallo, a velocità leggermente inferiore, con l'altra. Tale impresa mostrò a noialtri della fabbrica un livello mai visto di virtuosismo al servizio della produttività. Sulle prime ci fu un po' di resistenza all'accresciuto livello di dedizione al lavoro verso il quale il nuovo arrivato, senza alcuna ostentazione, ci stava guidando. Ma presto il suo intento fu palese a tutti. Ed era semplice: i dipendenti che nel corso della pausa pranzo cessavano del tutto di lavorare si scoprivano di nuovo preoccupati, tormentati dall'atmosfera molesta che pervadeva la fabbrica, la cui origine era attribuita al supervisore temporaneo che abitava l'ufficio dalle finestre opacissime smerigliate. Al contrario, i dipendenti che continuavano a lavorare alle stazioni di assemblaggio sembravano relativamente immuni alle immagini e alle influenze che, malgrado non si fosse raggiunto un parere unanime riguardo alla loro natura, aveva afflitto tutti il giorno passato. Non passò molto tempo, quindi, prima che tutti imparassimo a consumare il pasto con una mano continuando a lavorare con l'altra. Inutile specificare che quando venne il momento dell'ultima pausa del giorno, nessuno si allontanò di un centimetro dalla stazione di assemblaggio.
    Soltanto al suono della campana di fine turno, che giunse diverse ore più tardi rispetto al consueto, riuscii a parlare con il nuovo dipendente. Quando fummo fuori dalla fabbrica e tutti si misero in marcia, muti e sfiancati, verso la città, feci di tutto per raggiungerlo mentre a passo svelto avanzava nella nebbia densa e grigiastra. Parlai chiaro. - Che succede? - pretesi di sapere.
    Lui mi sorprese fermandosi all'improvviso e voltandosi verso di me, benché nella nebbia faticassimo a vederci l'un l'altro. Poi vidi la sua testa voltarsi leggermente in direzione della fabbrica che avevamo lasciato a una certa distanza. - Ascolta, amico mio - disse con voce prega di solenne sincerità. - Non cerco guai, io. Spero neanche tu. -
    - Non ero anche io lì a lavorare con te? Non lo eravamo tutti? -
    - Sì. Siete partiti col piede giusto. -
    - Presumo quindi che tu collabori con il nuovo supervisore. -
    - No - disse lui con enfasi. - Non ne so nulla. Non so cosa dirti, al riguardo. -
    - Ma hai già lavorato in condizioni del genere, non è vero? -
    - Lavoro per la ditta, come te. Mi manda la ditta. -
    - Ma nella ditta dev'essere cambiato qualcosa - dissi. - Sta succedendo qualcosa di nuovo. -
    - Non proprio - rispose lui. - La Quine Organization esegue continue correzioni e perfezionamenti alla propria strategia commerciale. Ci è voluto un po' di tempo per arrivare qui da voi. Siete lontanissimi dal quartier generale, ma anche dal più vicino centro regionale. -
    - Siamo solo all'inizio, vero? -
    - Può darsi. Ma davvero, di certe cose non ha senso discutere. Non se vuoi continuare a lavorare per la ditta. Non se vuoi stare alla larga dai guai. -
    - Guai? -
    - Devo andare. Per favore, non venirmi più a parlare di queste cose. -
    - Stai dicendo che mi vuoi denunciare? -
    - No - disse lui, rivolgendo un altro sguardo alla fabbrica. - Non è più necessario, di questi tempi. -
    Poi si voltò e si addentrò a passo lesto nella nebbia.
    Il mattino seguente tornai in fabbrica con gli altri. Lavorammo a ritmo ancora più veloce e fummo ancora più produttivi. Parte del merito andò alla campana di fine turno, che squillò più tardi rispetto al giorno precedente. L'allungarsi del tempo che passavamo in fabbrica e la contemporanea e progressiva accelerazione dei ritmi a cui lavoravamo divennero una costante. Nel giro di non molto tempo potemmo disporre soltanto di poche ore di lontananza dalla fabbrica, soltanto poche ore tutte per noi; purtroppo potevamo sfruttarle in una sola maniera, godendoci il minimo riposo indispensabile per tornare alle estenuanti fatiche che la ditta, ora, pretendeva.
    Ma io nutrivo da sempre ambizioni più grandi per la mia vita, ambizioni che ogni giorno si facevano più vaghe.

    Devo licenziarmi dalla fabbrica.

    Queste parole mi risuonavano in testa mentre cercavo di godermi qualche ora di sonno prima di tornare al lavoro. Non riuscivo a immaginare le conseguenze di un simile passo perché non sapevo in quale altro modo mi sarei potuto guadagnare da vivere, e non avendo soldi da parte avrei perso la stanza nel condominio dove abitavo. Inoltre, a prescrivermi a vendermi le medicine di cui avevo bisogno, di cui quasi tutti al di qua del confine abbiamo bisogno perché l'esistenza ci risulti perlomeno tollerabile, erano solo e soltanto dottori alle dipendenze della Quine Organization e farmacisti che esercitavano con il tacito ma esclusivo assenso della ditta. Ciò nonostante, sentivo di non avere altra scelta che dare le mie dimissioni dalla fabbrica.
    Davanti al mio alloggio, in fondo al corridoio, c'era una minuscola nicchia con dentro il telefono pubblico a disposizione degli inquilini. Avrei usato quello per comunicare le mie dimissioni, perché mai e poi mai sarei riuscito a darle di persona. Non potevo certo entrare nell'ufficio del supervisore temporaneo come Blecher. Non potevo certo infilarmi in quella stanza circondata dai vetri smerigliati opacissimi dietro i quali io e i miei colleghi avevamo osservato qualcosa che appariva in varie forme e manifestazioni, dalla sagoma indistinta che sembrava raggrumarsi e mutare come una nuvola scura a qualcosa di più definito che sembrava possedere una "parte-testa" e "protrusioni-braccia". Considerata la situazione, decisi di usare il telefono, chiamare il più vicino centro regionale e comunicare le mie dimissioni al responsabile più competente in materia.
    La nicchia del telefono in fondo al corridoio fuori dalla stanza era così stretta che ci dovetti entrare di traverso. Lo spazio compresso del bugigattolo bastava giusto a inserire le monete nel telefono, la luce giusto a vedere quale numero stessi componendo. Ricordo il timore di comporre il numero sbagliato e perdere una parte dei pochi soldi che avevo. Presa ogni possibile precauzione per accertarmi che la telefonata non andasse a vuoto, operazione che parve interminabile, chiamai qualcuno al più vicino centro regionale gestito dalla ditta.
    Il telefono squillò tante volte, finché non cominciai a temere che non rispondesse nessuno. Poi gli squilli cessarono e, dopo una pausa, ecco una voce che udivo a malapena. Sembrava flebile e distante.
    - Quine Organization, Centro Regionale Nordovest. -
    - Sì - dissi. - Vorrei dare le dimissioni. -
    - Dare le dimissioni, dice? La sento lontanissimo - disse la voce.
    - Sì, voglio licenziarmi - gridai alla cornetta del telefono. - Voglio licenziarmi. Mi sente? -
    - Sì, la sento. Ma al momento la ditta non accetta dimissioni. Devo passarle il nostro supervisore temporaneo. -
    - Aspetti - dissi, ma era scattato il trasferimento di chiamata e il telefono ricominciò a squillare, tante volte, finché non cominciai a temere che non rispondesse nessuno.
    Poi gli squilli cessarono, ma nessuno prese la linea.
    - Pronto - dissi. Ma non udivo altro che un rumore indefinito e tuttavia molto rimbombante: un rombo cupo che si attenuava e gonfiava a ondate, come un'eco negli spazi vasti di caverne sotterranee o sopra un orizzonte di nuvole. Questo rumore, questo ruggito cupo e bestiale, mi riempì di un terrore che non riuscivo a identificare. Allontanai la cornetta dall'orecchio ma il rumore continuò a risuonarmi nella testa. Poi sentii il telefono sussultare, pulsarmi tra le dita come fosse cosa viva. E quando sbattei la cornetta sulla forcella, la pulsazione e il sussulto proseguirono nel braccio, mi attraversarono il corpo e infine raggiunsero il cervello dove andarono a sincronizzarsi con il ruggito cupo che si faceva sempre più potente, confondeva i pensieri riducendoli a follia riecheggiante e paralizzava i movimenti al punto che non riuscivo neanche a strillare per chiedere aiuto.
    Mi rimase il dubbio perenne di non averla mai fatta, la telefonata con cui mi licenziavo. E se pure l'avessi fatta, non riuscii mai a stabilire con certezza se quel che mi era capitato, ciò che avevo provato e udito nella nicchia del telefono in fondo al corridoio fuori dal mio appartamento, somigliasse o no ai sogni che mi assillarono per tutte le notti dopo che cessai di andare a lavorare in fabbrica. Non c'era dose di medicinali che scongiurasse il manifestarsi, notte dopo notte, di questi sogni, né dose di medicinali che ne cancellasse il ricordo dalla mente. Presto giunsi ad assumere così tanti farmaci che non me ne rimase nemmeno il quantitativo necessario a costringere il mio organismo all'overdose, come aveva fatto Blecher. E poiché non lavoravo più, non potevo permettermi di rinnovare le ricette e acquistare i medicinali necessari a tollerare la mia esistenza. Certo, avrei potuto farla finita in un'altra maniera, se l'avessi desiderato. Tuttavia nutrivo ancora qualche ambiziosa speranza. Di conseguenza andai a chiedere se potevo riavere il posto in fabbrica. La persona del centro regionale con cui avevo parlato non aveva forse detto che per il momento la Quine Organization non accettava le dimissioni?
    Ovviamente non potevo essere certo di ciò che avevo udito per telefono né di aver fatto davvero una telefono per licenziarmi dalla ditta. Soltanto quando misi piede in fabbrica capii che un lavoro per me ci sarebbe stato, se l'avessi voluto, poiché il posto che per tante ore avevo occupato alla stazione di assemblaggio era libero. Avevo già indosso gli abiti grigi della divisa da lavoro, così mi posizionai alla stazione di assemblaggio e cominciai ad attaccare l'uno all'altro, a ritmo furioso, i pezzi di metallo. Senza fare pause diedi un'occhiata, di fronte a me, alla persona che un tempo avevo considerato "il nuovo".
    - Bentornato - disse lui, come se nulla fosse.
    - Grazie - risposi.
    - Avevo già detto a Frowley che entro qualche giorno saresti tornato. -
    Per un momento il sottinteso che il supervisore temporaneo non ci fosse più e che Frowley fosse tornato a dirigere la fabbrica mi riempì di gioia. Ma quando guardai verso l'ufficio d'angolo mi accorsi che, nonostante dietro i vetri smerigliati opacissimi si potesse distinguere la figura pasciuta di Frowley alla scrivania, le luci erano spente.
    E lui era un uomo cambiato, come scoprii poco dopo il mio ritorno al lavoro.
    Nessuno e niente, in fabbrica, sarebbe mai più tornato quello che era. Ormai lavoravamo praticamente a ciclo continuo. Qualcuno di noi cominciò a passare le notti in fabbrica. Tuttavia, pur debolmente, continuavo a percepire l'atmosfera di quegli incubi, così simile all'atmosfera che il nostro supervisore temporaneo aveva fatto calare sulla fabbrica. Credo che la sensazione della presenza vigile del supervisore temporaneo fosse un provvedimento molto calcolato da parte della Quine Organization, sempre attenta ad apportare correzioni e perfezionamenti alla propria strategia commerciale.
    La direttiva aziendale che negava dimissioni e licenziamenti rimase in vigore. A un certo punto fu estesa fino a vietare il pensionamento. A tutti noi furono prescritti nuovi farmaci, ma non so dire con esattezza quanti anni fa sia accaduto. Né io né i miei colleghi ricordiamo più da quanto tempo lavoriamo qui, né quanti anni abbiamo, e tuttavia il nostro ritmo di lavoro e la nostra produttività continuavano a crescere. A quanto pare, né la ditta né il nostro supervisore temporaneo hanno intenzione di darci tregua. Eppure non siamo che esseri umani, o perlomeno esseri corporei, che prima o poi dovranno morire. Questo è l'unico pensionamento a cui possiamo aspirare, benché nessuno sia impaziente di arrivarci. Perché non riusciamo a non chiederci che cosa verrà dopo, che cosa possa avere in serbo la ditta per noi, e che ruolo abbia in tale progetto il nostro supervisore temporaneo. Lavorare a ritmo furioso, incastrare uno nell'altro i pezzetti di metallo, tiene la mente un po' più lontana da certi pensieri.

    Edited by Emily Elise Brown - 1/3/2018, 14:18
     
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    Emily, ma sei bisessuale? ( ͡° ͜ʖ ͡° )

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    Un racconto interessante. Mi fa pensare ai cinesi. Chi è sto Lugotti?
     
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    Un tipo. :rath:

    Questo racconto è tratto da "Teatro Grottesco", una raccolta di suoi racconti. Se vuoi buttaci un occhio!
     
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    :(

    Beh, qualcuno in qualche modo dovrà poter modificare il sottotitolo. Credo...
     
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    Happy Urepi Yoropiku ne~

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    CITAZIONE (Oessido @ 2/3/2018, 08:08) 
    :(

    Beh, qualcuno in qualche modo dovrà poter modificare il sottotitolo. Credo...

    'tapposto
     
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