Io sono la porta

Stephen King

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    Ser Procrastinazione

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    Seduti sotto il portico della mia casa, Richard e io guardavamo oltre le dune, verso il golfo. Il fumo del suo sigaro si levava dolcemente nell'aria, tenendo a distanza le zanzare. Il mare era color acquamarina, il cielo di un azzurro più profondo e più intenso. Un accostamento gradevole.
    Tu sei la porta, ripeté pensosamente Richard. Sei sicuro di avere ucciso il ragazzo? Non l'hai semplicemente sognato?
    Non l'ho sognato. E non sono stato io a ucciderlo: te l'ho già detto. Loro, sono stati. Io sono la porta.
    Richard sospirò. L'hai sepolto?
    Sì.
    Ricordi dove?
    Sì. Dal taschino della camicia, tirai fuori una sigaretta. Le mie mani erano impacciate dalle bende che le ricoprivano. Mi prudevano in maniera
    abominevole. Se vuoi vederlo, dovrai tirar fuori il gatto delle dune. Non si può spingere questa, indicavo la mia poltrona a rotelle, attraverso la sabbia.
    Il gatto delle dune di Richard era una Volkswagen del 1959 con gomme speciali.
    Lui se ne serviva per raccogliere legname portato a riva dalla corrente. Fin da quando si era ritirato dall'attività di agente immobiliare, nel Maryland, era venuto a vivere lì a Key Caroline, e con quel legname creava sculture che vendeva poi d'inverno, ai turisti, a prezzi sfacciati.
    Tirò una boccata dal sigaro, sempre fissando il golfo. Sì, ma aspetta. Vuoi raccontarmi tutto ancora una volta?
    Mandai un sospiro, mentre armeggiavo per accendere la sigaretta. Mi tolse i fiammiferi di mano e provvide a porgermi il fuoco. Tirai un paio di boccate, aspirando profondamente. Il prurito alle dita mi faceva impazzire.
    Va bene, risposi. Ieri sera a quest'ora ero qui fuori, a fumare e a contemplare il golfo, proprio come adesso, e...
    Risali più indietro nel tempo, mi esortò.
    Più indietro?
    Parlami del volo.
    Scossi la testa. Richard, ci siamo tornati su fino alla nausea. Non c'è niente...
    La sua faccia tutta rughe e solchi era enigmatica come le sculture lignee che faceva. Potresti ricordare, insistette. Ora, forse, potresti ricordare.
    Credi?
    È possibile. E, quando avrai finito, andremo a cercare la tomba.
    La tomba, ripetei. Suonava vuoto, orribile, più buio di qualsiasi altra cosa, perfino di quell'oceano terribile che Cory e io avevamo attraversato cinque anni prima. Buio, buio, buio.
    Sotto le bende, i miei nuovi occhi fissavano ciecamente nell'oscurità alla quale quelle bende li condannavano. Prudevano.


    Cory e io venimmo lanciati in orbita dal Saturno 16, quello che tutti i commentatori chiamavano l'Empire State Building. Era un bestione, in effetti.
    Al confronto, il vecchio Saturno 1-B sembrava un giocattolo. Decollava da un bunker profondo sessanta metri: era necessario, per impedire che si trascinasse dietro mezzo Cape Kennedy.
    Girammo intorno alla terra, verificando tutti i nostri impianti, poi mettemmo in azione i propulsori. Eravamo diretti su Venere. Ci lasciavamo alle spalle.un Senato diviso e in lotta sugli stanziamenti da destinare a ulteriori esplorazioni spaziali e un gruppo di gente della NASA che pregava affinché trovassimo qualcosa, qualsiasi cosa.
    Non ha importanza quel che sarà, amava ripetere Don Lowinger, l'apprendista stregone del Progetto Zeus, quando aveva alzato un po' il gomito. Avete tutto l'armamentario, più cinque telecamere corredate di annessi e connessi e un gioiellino di telescopio con lenti e filtri a non finire. Trovate un po' d'oro o di platino. Meglio ancora, trovate un po' di stupidi omini verdi, così che si possa studiarli, sfruttarli e sentirci superiori a loro. Qualsiasi cosa.
    Perfino il fantasma di mia nonna in carriola sarebbe già un inizio.
    Cory e io eravamo ansiosi di accontentarlo, potendo. Niente aveva funzionato per i programmi spaziali. Da Borman, Anders e Lovell, che nel sessantotto avevano orbitato intorno alla luna e trovato un mondo deserto e inospitale in tutto simile a un'arida distesa di sabbia, a Markhan e Jacks, che undici anni dopo avevano dovuto constatare come anche Marte fosse un arido deserto di sabbia gelata con pochi, stentati licheni, il programma spaziale era stato un costosissimo buco nell'acqua. Senza contare le perdite umane: Pedersen e Lederer, in orbita attorno al sole per l'eternità perché, all'improvviso, niente aveva più funzionato durante il secondo e ultimo volo Apollo. John Davis, il cui piccolo osservatorio orbitante era stato forato da un corpo celeste simile a una meteora per uno di quegli incidenti che capitano una volta su mille. No, il programma spaziale non procedeva certo a gonfie vele.
    Da come si presentavano le cose, l'orbita di Venere poteva essere la nostra ultima occasione di dire: visto che avevamo ragione noi?
    Il volo durò sedici giorni (mangiavamo una quantità di concentrati, giocavamo interminabili partite a ramino e facevamo a turno ad attaccarci il raffreddore) e dal punto di vista tecnico fu una missione senza imprevisti. Il terzo giorno perdemmo un convertitore di umidità dell'aria, inserimmo l'impianto di riserva, e non accadde altro fino al rientro, salvo le solite inezie. Guardavamo Venere trasformarsi a poco a poco da una stella a una lattiginosa sfera di cristallo, scambiavamo battute scherzose con il controllo di Huntsville, ascoltavamo registrazioni di Wagner e dei Beatles, ci occupavamo di esperimenti automatici che avevano a che fare un po' con tutto, dalle misurazioni del vento solare alla navigazione nello spazio. Apportammo due correzioni alla rotta, entrambe infinitesimali, e al nono giorno di viaggio Cory uscì all'esterno e picchiò sul DESA rientrabile fino a che quello si decise a funzionare. Non accadde niente altro fuori dell'ordinario fino a che...
    DESA, ripeté Richard. Che cos'è?
    Un esperimento che non diede alcun frutto. Nel gergo della NASA, significa antenna spaziale: trasmettevamo con impulsi ad alta frequenza nel caso che ci fosse qualcuno in ascolto. Provai a sfregare le dita sui calzoni, ma non serviva a niente; semmai, il prurito aumentava. L'idea è la stessa di quel radiotelescopio nella Virginia occidentale: sai, quello che ascolta le stelle.
    Soltanto, invece di ascoltare, noi trasmettevamo, soprattutto ai pianeti più.distanti: Giove, Saturno, Urano. Se là fuori c'è qualche forma di vita
    intelligente, stava facendo un pisolino.
    Soltanto Cory uscì?
    Sì. E si portò dentro qualche morbo interstellare, la telemetria non lo rivelò.
    Eppure...
    Non ha importanza, scattai, stizzito. Importa soltanto quello che accade qui, ora. Ieri sera hanno ucciso quel ragazzo, Richard. Non è stata una cosa piacevole a vedersi, o a sentirsi. La testa... è esplosa. Come se qualcuno l'avesse svuotata del cervello e avesse collocato una bomba a mano all'interno del cranio.
    Finisci la storia, disse lui.
    Risi, senza allegria. Che cos'altro c'è da dire?
    Entrammo in orbita attorno al pianeta, un'orbita eccentrica. Era radicale e in graduale indebolimento, trecentoventi miglia per settantasei. Questo al primo giro. Al secondo, il nostro apogeo era ancora più alto, il perigeo più basso.
    Avevamo un massimo di quattro orbite. Le completammo tutt'e quattro. Riuscimmo a dare una buona occhiata al pianeta. Più di seicento fotografie e Dio solo sa quanti metri di film.
    La coltre di nuvole è composta in parti uguali di metano, ammoniaca, polvere e porcherie che volano. L'intero pianeta fa pensare al Grand Canyon in una galleria del vento. Cory calcolò che la velocità del vento fosse di circa 600 miglia all'ora, vicino alla superficie. La nostra sonda fece udire il suo bip per tutta la discesa e poi si spense, con una sorta di verso strano. Non vedevamo traccia di vegetazione né alcun segno di vita. Lo spettroscopio indicava soltanto tracce di minerali preziosi. E quella era Venere. Niente di niente... salvo che mi atterriva. Era come girare, in pieno spazio, attorno a una casa stregata. So bene quanto poco scientifico ti suonerà quello che dico, ma io ero in preda a un terrore indicibile, finché non venimmo via di là.
    Credo che, se i nostri razzi non si fossero accesi, piuttosto che atterrare là mi sarei tagliato la gola. Non è come la luna. La luna è desolata ma, in un certo senso, asettica. Il mondo che vedevamo era invece totalmente dissimileda qualsiasi cosa che l'occhio umano possa avere contemplato finora. Forse è una buona cosa, la presenza di quella coltre di nuvole. Sembrava di vedere un cranio che fosse stato rosicchiato fino all'osso: è la descrizione più esatta che mi venga alla mente.
    Durante il tragitto di ritorno, sentimmo che il Senato aveva dato voto favorevole perché i fondi per l'esplorazione dello spazio venissero dimezzati. Cory disse qualcosa come: Sembra che dobbiamo ripiegare di nuovo,sui satelliti meteorologici, Artie. Ma io ero quasi contento. Forse, noi non apparteniamo allo spazio.
    Dodici giorni dopo Cory era morto e io reso storpio per tutta la vita. I guai si verificarono tutti durante il rientro e l'atterraggio. Il paracadute non si aprì. Che te ne pare, come ironia della sorte? Eravamo rimasti nello spazio per più di un mese, ci eravamo spinti più in là di qualsiasi altro essere umano, e tutto finì nel modo com'è finito perché qualcuno aveva fretta di andare a bere un caffè e lasciò che si imbrogliassero alcuni cavi.
    Non ci fu l'atterraggio morbido. Un tale che era su uno degli elicotteri disse che gli sembrò di vedere un gigantesco neonato piovere giù dal cielo, con la placenta che gli svolazzava dietro, come uno strascico. Al momento dell'urto, persi i sensi.
    Rinvenni mentre mi trasportavano attraverso il ponte della Portland. Non avevano avuto neppure il tempo di tirare via il tappeto rosso sul quale avremmo dovuto camminare Cory e io. Perdevo sangue. Sanguinavo e venivo trasportato di corsa all'infermeria sopra un tappeto rosso che non era neppure lontanamente rosso quanto me...


    ...rimasi ricoverato a Bethesda per due anni. Mi diedero la Medaglia d'Onore, un mucchio di soldi e questa poltrona a rotelle. L'anno successivo, venni a stare qui. Mi piace assistere al decollo dei razzi.
    Lo so, disse Richard. Una pausa, poi: Fammi vedere le mani.
    No. Mi uscì immediato e categorico. Non posso fartele vedere. Te l'ho già detto.
    Sono passati cinque anni, Arthur, disse Richard. Perché proprio ora? Puoi spiegarmelo, questo?
    Non lo so. Non lo so! Forse la cosa, qualsiasi cosa sia, ha un lungo periodo di gestazione. E poi, chi può dire che me lo sia preso là nello spazio?
    Qualsiasi cosa sia, potrebbe essere entrato in me a Fort Lauderdale. O addirittura qui. Sotto questo portico, per quello che ne so.
    Richard sospirò e guardò verso l'acqua, ora un po' arrossata dal sole del tardo pomeriggio. Vado a tentoni, Arthur. Non voglio pensare che tu stia impazzendo.
    Se proprio sarà necessario, ti farò vedere le mani. Mi costò uno sforzo, dirlo. Ma soltanto se sarà indispensabile.
    Richard si alzò e cercò il suo bastone. Appariva vecchio e fragile. Vado a prendere il gatto delle dune. Andremo a cercare il ragazzo.
    Grazie, Richard.
    S'incamminò verso il sentiero tutto solchi che portava alla sua casetta: potevo scorgerne il tetto sporgere al disopra della Duna Grande, quella che corre quasi per l'intera lunghezza di Key Caroline. Laggiù verso il capo, il cielo si era fatto di un sinistro color prugna, e il brontolio del tuono arrivava debolmente alle mie orecchie.


    Non sapevo che nome avesse, il ragazzo. Di tanto in tanto lo vedevo passare lungo la spiaggia, al tramonto, con il suo setaccio. Era abbronzato al punto da sembrare un negro, e il solo indumento che gli avessi mai visto addosso era un paio di logori calzoni di tela, alla pescatora. Sull'altro lato di Key Caroline c'è una spiaggia pubblica, e un giovanotto intraprendente può mettere insieme forse fino a cinque dollari in una buona giornata, setacciando con pazienza la sabbia per cercarvi monetine finite in mezzo alla rena. Qualche volta lo salutavo con il braccio e lui restituiva il saluto, entrambi con gesto vago, estranei e al tempo stesso fratelli, gente che viveva lì tutto l'anno a differenza dei turisti chiassosi, che viaggiavano in Cadillac e spendevano un mare di quattrini. Immaginavo che abitasse nel piccolo villaggio raggruppato attorno all'ufficio postale, meno di un chilometro più in là.
    Quando era passato di là, quella sera, io ero sotto il portico già da un'ora, immobile, a osservare. Mi ero tolto le bende: il prurito era stato
    intollerabile, ed era sempre un po' meglio quando essi potevano guardare attraverso i loro occhi.
    Era una sensazione diversa da ogni altra al mondo: come se io fossi una porta lievemente socchiusa attraverso la quale essi scrutavano un mondo che odiavano e temevano. Ma la parte peggiore era che potevo vedere anch'io, in un certo senso. Provate a immaginare il vostro corpo trasportato nel corpo di una mosca, una mosca che stia fissando la vostra stessa faccia con un migliaio di occhi. Così, forse, potrete cominciare a comprendere perché tenevo le mani fasciate anche quando non c'era nessuno che potesse vederle.
    Era cominciato a Miami. Mi trovavo là per vedere un certo Cresswell, un investigatore del dipartimento della Marina. Mi sottopone a un controllo una volta all'anno: per un certo periodo, ero stato continuamente a contatto con tutto il materiale segretissimo del nostro programma spaziale. Che cosa lui cerchi esattamente, non lo so; un luccichio subdolo nello sguardo, forse, o chissà, una lettera scarlatta sulla mia fronte. Dio solo sa perché. La mia pensione è talmente cospicua da essere quasi imbarazzante.
    Cresswell e io eravamo seduti sulla terrazza della sua stanza d'albergo, a sorseggiare bibite e a discutere sul futuro del programma spaziale americano.
    Erano circa le tre e un quarto. Le dita avevano cominciato a prudermi. La cosa non era stata per niente graduale. Il prurito si era acceso, come la corrente elettrica. L'avevo accennato, con Cresswell.
    E bravo, aveva commentato lui, sorridendo. Avrà certo toccato qualche rampicante velenoso su quello scrofoloso isolotto.
    L'unico fogliame esistente a Key Caroline è rappresentato da qualche striminzito palmetto, avevo risposto. Ma sarà il prurito del settimo anno. Mi ero guardato le mani. Mani perfettamente normali. Ma prudevano.
    Più tardi, quel pomeriggio, avevo firmato il solito documento (Giuro solennemente di non avere né ricevuto né rivelato e divulgato informazioni che potrebbero...) e, in macchina, ero tornato a casa. Ho una vecchia Ford, equipaggiata di freno e acceleratore azionabili a mano. Ci tengo molto: mi fa sentire autosufficiente.
    È un viaggio non tanto breve, lungo la Statale 1, e quando finalmente imboccai la rampa d'uscita per Key Caroline, mi sentivo letteralmente
    impazzire, tale era il prurito che avvertivo alle mani. Se ne avete mai sofferto, durante il cicatrizzarsi di un taglio profondo o di un'incisione
    chirurgica, avete forse un'idea del genere di prurito al quale alludo.
    Sembrava che esseri viventi strisciassero nella mia carne, perforandola. Il sole era quasi scomparso e io mi ero esaminato le mani attentamente, alla luce del cruscotto. Le punte delle dita erano rosse, ora, perché minuscoli cerchi perfetti si erano formati proprio al disopra del polpastrello, nel punto dove, se uno suona la chitarra, si forma il callo. C'erano rossi cerchi di infezione anche nello spazio tra la prima e la seconda giuntura di ciascun dito, e sulla pelle tra la seconda giuntura e la nocca. Mi ero premuto le dita della destra sulle labbra, e all'istante le avevo allontanate, con un senso di ripugnanza. Nei punti dov'erano apparse le macchie rosse, la carne scottava come di febbre, e per il resto era molle e gelida, come la polpa di una mela marcita.
    Per tutto il percorso, cercai di persuadere me stesso che avevo effettivamente contratto una forma di orticaria. Ma in fondo alla mia mente c'era un altro dubbio atroce. Avevo avuto una zia, durante l'infanzia, che aveva trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita isolata dal mondo, chiusa in una camera del piano di sopra. Mia madre le portava su i pasti, ed era proibito perfino pronunciare il suo nome. In seguito avevo scoperto che era affetta dal morbo di Hansen: la lebbra.
    Arrivato a casa, avevo telefonato al dottor Flanders, sulla terraferma. Mi aveva risposto il servizio di segreteria. Il dottor Flanders era andato a
    pesca d'altura ma, se era urgente, il dottor Ballanger...
    Quando sarà di ritorno il dottor Flanders?
    Domani pomeriggio al più tardi. sufficiente che...?
    Sì, certo.
    Avevo riagganciato lentamente, poi avevo telefonato a Richard. Avevo lasciato squillare una decina di volte, prima di riabbassare il ricevitore. Poi, ero rimasto un poco a riflettere, indeciso. Il prurito non faceva che aumentare.
    Sembrava emanare dalla carne stessa.
    Con la poltrona a rotelle, mi ero spinto fino alla libreria e avevo tirato giù la sconquassata enciclopedia medica che possedevo da anni. Il libro era disperatamente vago. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, come di niente.
    Mi ero lasciato andare contro lo schienale, a occhi chiusi. Sentivo il vecchio orologio ticchettare sulla mensola dall'altra parte della stanza. C'era l'acuto, sottile ronzio di un jet diretto a Miami. C'era il lieve bisbiglio del mio stesso respiro.
    Stavo ancora fissando il libro.
    Quella scoperta si faceva strada in me a poco a poco, per poi andare a segno in modo improvviso e agghiacciante. Avevo gli occhi chiusi, eppure stavo ancora guardando il libro. Ciò che vedevo era impreciso di contorni e mostruoso, la distorta, quadridimensionale immagine di un libro, e tuttavia inconfondibile, nonostante tutto.
    E non ero il solo a osservarla.
    Avevo riaperto bruscamente gli occhi, avvertendo un senso di costrizione nel petto. La sensazione si era calmata un poco, ma non del tutto. Stavo guardando il libro, ne vedevo la stampa e i diagrammi con i miei propri occhi, esperienza d'ogni giorno e perfettamente normale, e lo vedevo anche da un'angolazione diversa e più bassa, e con altri occhi. E non vedevo un libro ma una cosa aliena, di forma mostruosa e d'intento sinistro.
    Lentamente, mi ero portato le mani alla faccia, captando una visione arcana del mio soggiorno trasformato in una casa degli orrori.
    Avevo mandato un urlo.
    C'erano occhi che mi spiavano attraverso minuscoli tagli nella carne delle mie dita. E sotto il mio stesso sguardo vedevo la carne dilatarsi, ritrarsi, mentre essi si sforzavano via via di affiorare alla superficie.
    Ma non era stato questo a farmi urlare. Avevo guardato il mio stesso volto e avevo visto un mostro.


    Il gatto delle dune sbucò dalla salita e Richard frenò un attimo dopo, proprio di fianco al portico. Il motore tossicchiava e rombava. Spinsi la mia poltrona a rotelle giù per lo scivolo alla destra dei normali scalini e Richard mi aiutò a montare accanto a lui.
    Bene, Arthur, disse. Sei tu che guidi la spedizione. Dove dobbiamo andare?
    Indicai verso l'acqua, dove la Duna Grande comincia finalmente a digradare e a rastremarsi. Richard assentì. Le ruote posteriori sollevarono sabbia e partimmo. Di solito trovavo il tempo di canzonare Richard sul suo modo di guidare, ma quella sera avevo altro per la testa. Troppe erano le cose da pensare... e da dire: loro non volevano stare al buio, e potevo sentirli far forza per cercare di vedere attraverso le bende, sperando di indurmi a togliermele.
    Il gatto delle dune sobbalzava e rombava attraverso la sabbia, verso l'acqua, e sembrava quasi che decollasse ogni volta dalla cima delle piccole dune. A sinistra, il sole stava scomparendo in una gloria sanguigna. Proprio di fronte, al di là della distesa d'acqua, le nuvole scure cariche di tempesta avanzavano inesorabili verso di noi. L'orizzonte era a tratti squarciato da lampi.
    Vai a destra, dissi. Dove c'è quel capannone.
    Richard andò a fermarsi, tra spruzzi di sabbia. accanto ai resti di una tettoia in rovina, poi si protese a frugare dietro i sedili e tirò fuori una
    zappa. Trasalii, nel vederla. Dove? chiese Richard, con faccia inespressiva.
    Proprio là. Indicai il punto.
    Scese e si incamminò lentamente attraverso la sabbia; arrivato sul posto esitò un secondo, poi affondò la zappa nella rena. Sembrò che scavasse per un bel pezzo. La sabbia che gettava dietro di sé appariva umida, raggrumata. I nuvoloni erano più scuri, più alti, e l'acqua appariva rabbiosa e implacabile sotto la loro ombra e il rosseggiante riflesso del tramonto.
    Capii, molto prima che smettesse di scavare, che non avrebbe trovato il ragazzo. L'avevano trasportato altrove. Non mi ero bendato le mani la sera prima, perciò essi potevano vedere... e agire. Se erano stati in grado di servirsi di me per uccidere il ragazzo, potevano avermi usato per rimuoverlo, perfino mentre dormivo.
    Qui non c'è niente, Arthur. Richard gettò la zappa sporca nel retro del veicolo e sedette al suo posto, con aria stanca. La tempesta imminente
    proiettava ombre a forma di mezzaluna lungo la sabbia. La brezza crescente faceva crepitare folate di sabbia contro la carrozzeria arrugginita del gatto delle dune. Le dita mi prudevano.
    Si sono serviti di me per trasportarlo altrove, dissi, avvilito. Stanno prendendo il sopravvento, Richard. Un po' alla volta, stanno costringendo la loro porta ad aprirsi. Cento volte al giorno mi ritrovo ritto davanti a qualche oggetto perfettamente familiare, una spatola, un quadro, perfino un barattolo di fagioli, senza alcuna idea di come sono arrivato là, con le mani tese in avanti, intento a mostrarglielo, a vederlo così come lo vedono loro, come un'oscenità, qualcosa di contorto e di grottesco...
    Arthur, disse lui. Arthur, no. Non parlare così. Nella luce morente, la sua faccia era rattristata dalla compassione. Ritto davanti a qualcosa, hai detto.
    E hai parlato di trasportare altrove il cadavere del ragazzo. Ma tu non puoi camminare, Arthur. Sei inerte dalla vita in giù.
    Toccai il cruscotto della Volkswagen. Anche questa macchina è inerte. Ma quando tu ci entri, puoi farla muovere. Potresti servirtene per uccidere. Non potrebbe impedirtelo, nemmeno se lo volesse. Sentivo la mia voce salire di tono, sempre più isterica. Io sono la porta, lo capisci sì o no? Sono stati loro a uccidere il ragazzo, Richard! Loro a trasportarne altrove i resti.
    Penso che faresti meglio a consultare un medico, consigliò tranquillamenteblui. Torniamo, ora. Vediamo di... Informati, allora! Cerca di sapere che fine ha fatto il ragazzo! Scopri se...
    Hai detto che non sai nemmeno come si chiama.
    Ma veniva sicuramente dal villaggio. È un villaggio di poca gente. Domanda...
    Ho parlato per telefono con Maud Harrington, quando sono andato a tirar fuori l'auto. Se ce n'è un'altra, in tutto lo Stato, più ficcanaso di lei, io non l'ho ancora trovata. Le ho domandato se per caso le risultava che un ragazzo mancasse da casa da ieri sera. Mi ha risposto di no.
    Ma è uno del posto! Per forza deve essere uno di qui!
    Allungò la mano per riaccendere il motore, ma io lo fermai. Si girò a guardarmi e io cominciai a sfasciarmi le mani.
    Dal golfo, il tuono mormorava e brontolava.


    Non ero andato dal dottore e non avevo ritelefonato a Richard. Per tre settimane, mi ero bendato le mani ogni volta che uscivo di casa. Tre settimane passate a sperare ciecamente che il prurito passasse. Non era un modo d'agire razionale, lo riconosco. Se fossi stato un uomo sano e non costretto a servirsi di una sedia a rotelle al posto delle gambe, o che avesse passato una vita normale in una normale occupazione, probabilmente sarei andato dal dottor Flanders o da Richard. E avrei ugualmente potuto farlo, se non fosse stato per il ricordo di mia zia, isolata, praticamente prigioniera, divorata viva dalla propria carne in decomposizione. Così, mantenevo un disperato silenzio e pregavo il cielo di potermi svegliare, una mattina, e scoprire che si era trattato di un brutto sogno.
    E, a poco a poco, li sentivo. Loro. Un'intelligenza anonima. Non mi ero mai domandato concretamente che aspetto avessero o da che parte fossero venuti.
    Era puramente accademico. Io ero la loro porta, la loro finestra sul mondo. Il segnale di ritorno, chiamiamolo così, che ricevevo da loro era sufficiente a farmi sentire tutta la loro ripugnanza e il loro orrore, a farmi comprendere che il nostro mondo era molto diverso dal loro. Era sufficiente a farmi captare il loro odio cieco. Ma questo non impediva loro di stare a guardare.
    La loro carne era innestata nella mia. Cominciavo a rendermi conto che si servivano di me, che mi manipolavano, materialmente.
    Quando il ragazzo era passato, levando una mano nel solito gesto vago di saluto, io avevo appena preso la decisione di mettermi in contatto con Cresswell, telefonandogli al dipartimento della Marina. Su una cosa Richard aveva visto giusto: era sicuro che, qualsiasi cosa si fosse impossessata di me, l'aveva fatto nello spazio, o mentre eravamo in orbita attorno a Venere.
    La Marina mi avrebbe studiato, ma se non altro là non mi avrebbero trasformato in un mostro. Non avrei più dovuto svegliarmi di soprassalto, nell'oscurità, e soffocare un grido nel sentire che loro guardavano, guardavano, guardavano.
    Le mie mani si erano tese verso il ragazzo e mi ero reso conto che non le avevo bendate. Potevo scorgere gli occhi nella luce morente, intenti a
    osservare. Erano grandi, dilatati, dalle iridi dorate. Una volta ne avevo punzecchiato uno con la punta di una matita, e avevo sentito una fitta
    dolorosissima diffondersi su per il braccio. L'occhio era parso fissarmi con un odio incatenato, anche peggiore del dolore fisico. Non mi ero più azzardato a rifarlo.
    E ora essi stavano osservando il ragazzo. Avevo sentito la mente scivolare via. Un istante dopo, avevo perso il controllo di me stesso. La porta era aperta. Mi ero lanciato verso di lui attraverso la sabbia, con gambe che si muovevano a forbice, come quelle di un automa. M'era parso che i miei veri occhi si chiudessero, e di vedere soltanto con quegli occhi alieni: vedevo un mostruoso paesaggio alabastrino sormontato da un cielo simile a una grande strada violacea, vedevo una capanna semidistrutta e sbilenca che poteva essere la carcassa di qualche ignoto carnivoro, vedevo un essere abominevole che si muoveva, respirava e trasportava sotto il braccio un congegno costruito con angoli retti geometricamente impossibili.
    Mi domandavo ancora che cosa avesse pensato, quel povero, sconosciuto ragazzo con il suo bravo setaccio e le tasche appesantite da un disperato insieme di monetine sporche di sabbia; che cosa avesse pensato quando mi aveva visto scagliarmi contro di lui, come un direttore cieco che tendesse le mani verso un'orchestra impazzita; che cosa avesse pensato mentre l'ultima luce cadeva sulle mie mani, rosse, spaccate e splendenti del loro fardello di occhi; che cosa avesse pensato quando le mani avevano tracciato quell'improvviso, frenetico gesto nell'aria, un istante prima che la sua testa esplodesse.
    Sapevo quello che io pensavo.
    Pensavo di avere scrutato oltre l'orlo dell'universo, nei fuochi dell'inferno.


    Il vento afferrava le bende, mentre io le svolgevo, e le trasformava in sottili nastri svolazzanti, simili a fruste. Le nuvole avevano oscurato i
    rossi resti del tramonto, e le dune apparivano cupe e invase dall'ombra. Nuvole che correvano e ribollivano sopra di noi.
    Devi promettermi una cosa, Richard, dissi, al disopra del vento sempre più forte. Devi scappare di corsa, se sembra che io possa tentare... di farti del male. Capisci che cosa intendo?
    Sì. La sua camicia aperta al collo sbatteva nel vento. La faccia era come irrigidita, gli occhi poco più che nere occhiaie nell'oscurità scesa prima del tempo.
    Gli ultimi lembi delle bende caddero.
    Guardavo Richard e anche loro guardavano Richard. Vedevo una faccia che conoscevo da cinque anni e che avevo finito per amare. Loro vedevano un distorto monolito vivente.
    Li vedi, dissi, rauco. Li vedi, ora.
    Involontariamente, indietreggiò. La sua faccia manifestava ora un terrore improvviso, incredulo. Una saetta squarciò il cielo. Il tuono camminava tra le nuvole e l'acqua era diventata nera come lo Stige.
    Arthur...
    Com'era orrendo! Come avevo fatto a stargli vicino, a parlargli? Non era un essere umano, ma una sorta di pestilenza. Era...
    Scappa! Scappa, Richard!
    E lui si mise a correre. Fuggiva, spiccando lunghi balzi. Diventava una specie d'impalcatura stagliata contro il cielo basso. Le mie mani si levarono verso l'alto, volarono al disopra della mia testa in un gesto che era simile a un grido, le dita protese verso la sola cosa familiare in quel mondo d'incubo: verso le nuvole.
    E le nuvole risposero.
    Ci fu un tremendo, accecante balenio biancoazzurro che parve per un attimo la fine del mondo. La folgore colpì Richard, lo avvolse. L'ultima cosa che ricordo è il puzzo elettrico di ozono e di carne bruciata.
    Quando mi svegliai ero tranquillamente seduto sotto il portico, e guardavo verso la Duna Grande. La tempesta era passata e l'aria era piacevolmente fresca. C'era un sottile spicchio di luna. La sabbia appariva intatta: nessun segno di Richard o del gatto delle dune.
    Mi guardai le mani. Gli occhi erano aperti ma velati. Loro erano sfiniti, evidentemente. Sonnecchiavano.
    Sapevo fin troppo bene che cosa bisognava fare. Prima che la porta potesse essere spalancata ulteriormente, bisognava chiuderla a chiave. Per sempre. Già potevo notare i primi segni di un mutamento strutturale nelle mani stesse. Le dita stavano cominciando ad accorciarsi... e a cambiare.
    C'era un caminetto, nel soggiorno, e nei mesi freddi avevo preso l'abitudine di accendere il fuoco per difendermi dall'umidità della Florida. Lo accesi, ora, cercando di far presto. Non avevo idea di quando potessero svegliarsi e scoprire quello che stavo facendo.
    Quando cominciò ad ardere bene, tornai dove tenevo la provvista di petrolio e inzuppai entrambe le mani. All'istante loro si svegliarono, in preda a un'orribile tortura. Non so come ce la feci a ritornare in soggiorno e presso il caminetto.
    Ma ci riuscii.


    Questo accadeva sette anni fa.
    Sono ancora qui, sempre intento a seguire il decollo dei razzi. Ne sono stati lanciati diversi, ultimamente. Quest'amministrazione sembra orientata verso le ricerche spaziali. Si è parlato di mandare una nuova serie di sonde verso Venere, con uomini a bordo.
    Venni poi a saperlo, il nome del ragazzo. Non che abbia importanza. Era del villaggio, proprio come pensavo io. Ma quella sera la madre sapeva che si sarebbe fermato a passare la notte da un amico, sul continente, e così l'allarme non era stato dato fino al lunedì successivo. Richard... be', tutti pensavano che Richard fosse un tipo strano, in fondo. Sospettavano che fosse tornato nel Maryland, o che si fosse messo con una donna.
    Quanto a me, sono tollerato, sebbene anch'io goda ampia fama di essere un tipo eccentrico. Alla fin fine, quanti sono gli astronauti che scrivono regolarmente ai loro rappresentanti eletti a Washington per ripetere che il denaro per le esplorazioni spaziali potrebbe essere speso meglio altrove?
    Me la cavo abbastanza bene con questi uncini. Per il primo anno o poco più, ho sofferto dolori atroci, ma il corpo umano può assuefarsi a qualsiasi cosa, o quasi. Riesco a radermi, pensate, e perfino ad allacciarmi le scarpe. Come vedete, posso perfino battere a macchina, e bene, anche. Non credo che avrò difficoltà a infilarmi in bocca il fucile da caccia e a premere il grilletto.
    È ricominciato, capite, tre settimane fa.
    Un cerchio perfetto di dodici occhi dorati, proprio qui sul petto.

    Edited by WDR - 14/5/2017, 15:17
     
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    Insomma, la parte iniziale lo trovata un po' noiosa, ma la storia si è ripresa verso la fine.
     
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