Risacca notturna

Stephen King

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    Ser Procrastinazione

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    Dopo, quando ormai quel tale era morto e il puzzo della sua carne bruciata si era disperso nell'aria, tornammo tutti giù alla spiaggia. Corey aveva la radio con sé, uno di quegli aggeggi a transistor grandi come una valigia che funzionano con una quarantina di batterie e che hanno il magnetofono incorporato. La riproduzione del suono non si poteva dire un granché, ma baccano ne faceva. Corey era stato un benestante prima dell'A6, ma simili particolari non avevano più importanza. Perfino il suo grande apparecchio radio-registratore era poco più di una cianfrusaglia di bell'aspetto. C'erano rimaste due stazioni sole sulle quali potevamo sintonizzarci. Una era la WKDM di Portsmouth: un disc-jockey di provincia, che s'era fatto prendere dal pallino della religione. Metteva su un disco di Perry Como, diceva una preghiera, piagnucolava, faceva suonare un disco di Johnny Ray, leggeva dei Salmi (proprio come James Dean in East of Eden), poi ricominciava a
    piagnucolare. Tutta roba allegra di quel genere. Un giorno s'era messo a cantare Bringing in the Sheaves con una voce gracchiante e ammuffita che aveva fatto venire un attacco isterico a me e a Needles.
    La stazione del Massachusetts era un po' meglio, ma riuscivamo a prenderla soltanto di sera. Era tenuta da un gruppo di ragazzi. Credo si fossero impossessati delle installazioni della WRKO o della WBZ, dopo che tutti se n'erano andati o erano morti. Scherzavano, nel dare inizio alle trasmissioni, dando sigle fasulle tipo WA6 oppure CUL e cose del genere. Buffo intendiamoci: a volte c'era da morir dal ridere. Così era quella la stazione che stavamo ascoltando nel tornare alla spiaggia. Io mi tenevo per mano con Susie; Kelly e Joan camminavano davanti a noi e Needles era già oltre il ciglio del piccolo promontorio e perciò scomparso alla nostra vista. Corey veniva in coda, facendo dondolare la radio. Gli Stones stavano cantando Angie.
    "Mi ami?" mi chiese Susie. È la sola cosa che voglio sapere. "Mi ami, sì o no?"
    Susie aveva sempre bisogno d'essere rassicurata.
    "No", risposi. Stava ingrassando, e se fosse vissuta abbastanza a lungo, il che non era affatto probabile, sarebbe diventata una vera grassona. Aveva già il fare matronale.
    "Sei una carogna", disse lei, e si mise una mano sulla faccia. Le sue unghie laccate lucevano fiocamente nel chiarore della mezzaluna che si era levata circa un'ora prima.
    "Ora non ricomincerai a piangere, spero!"
    "Piantala!" Dal tono, si capiva che stava per piangere di nuovo.
    Arrivammo in cima al crinale e io mi fermai. Devo sempre fermarmi. Prima dell'A6, quella era stata una spiaggia pubblica. Turisti, gente che andava a fare un picnic, bambini mocciosi e nonne grasse e sformate con le braccia abbronzate solo fino al gomito. Sulla sabbia, carte di caramelle e bastoncini di leccalecca, gente giovane e bella che amoreggiava stesa sui teli di spugna colorata, miscuglio di odori tra alghe, tanfo di benzina dei vicini parcheggi, olio di noce.
    Ma ora tutte le cartacce e tutto il bailamme erano scomparsi. L'oceano aveva divorato tutto, con la stessa indifferenza con cui uno di noi potrebbe divorare una manciata di noccioline. Non c'era gente pronta a tornare là e a insozzare tutto di nuovo. Soltanto noi, e noi non eravamo sufficienti per lasciare molta sozzura. E poi, amavamo la spiaggia, credo: non le avevamo appena offerto una specie di sacrificio? Perfino Susie l'amava, Susie la sgualdrinella, col sedere grosso e i calzoni a campana color fragola.
    La sabbia era una bianca serie di dune, segnata soltanto dalla linea della battigia: ritorte matasse d'alghe, sassolini, detriti vari portati dall'alta marea. Attraverso il tutto, il chiaro di luna ricamava nere ombre e pieghe. La torre di guardia del bagnino, abbandonata, si ergeva bianca e scheletrica a una cinquantina di metri dallo stabilimento balneare, puntata verso il cielo come un indice scarno.
    E poi la risacca, la risacca notturna, che levava verso l'alto grandi scoppi di spuma, che si frangeva contro le rocce fin dove l'occhio riusciva a
    spaziare in una serie interminabile di attacchi. Forse quell'acqua era arrivata quasi a metà strada tra noi e l'Inghilterra, la sera prima.
    "Angie. Cantano gli Stones", annunciò tra le scariche, la voce che arrivava dalla radio di Corey. "Sono andato a ripescarlo per farvelo
    ascoltare, un vero gas dorato da un passato ormai trapassato, dei matadores ormai matados. Io sono Bobby. Questa sera doveva esserci Fred, ma Fred ha preso l'influenza. È tutto gonfio." Susie rise a questo punto, con le lacrime di prima ancora tremolanti sulle ciglia. Presi a scendere verso la spiaggia un po' più alla svelta, per farla stare zitta.
    "Aspetta!" mi gridò dietro Corey. "Bernie? Ehi, Bernie, aspettami!"
    Quel tale alla radio stava leggendo alcune strofette a doppio senso, e intanto una voce di ragazza nello sfondo domandava dov'era la birra. Lui le rispose qualcosa, ma nel frattempo Susie e io eravamo arrivati sulla spiaggia. Mi voltai per vedere come se la cavasse Corey. Sdrucciolava giù seduto, come sempre, ed era talmente comico che quasi mi faceva pena.
    "Corri con me", proposi a Susie.
    "Perché?"
    Le appioppai una sculacciata e lei strillò. Così, per il gusto di correre.
    Corremmo. Lei rimase indietro, ansando come un cavallo e gridandomi di rallentare, ma io già non pensavo più a lei. Il vento frusciava oltre le mie orecchie e mi spazzava i capelli dalla fronte. Sentivo nell'aria la salsedine, acuta e pungente. La risacca si abbatteva con fragore, le ondate erano come vetro nero incoronato di spuma. Gettai via i sandali di gomma e continuai a correre a piedi nudi, incurante delle dolorose fitte di qualche conchiglia occasionale. Il mio sangue rombava.
    Ed ecco che ero arrivato alla tettoia, con Needles già nell'interno e Kelly e Joan fermi proprio lì accanto, a tenersi per mano e a contemplare l'acqua. Mi gettai in terra, rotolando in avanti, sentendo la sabbia penetrarmi sotto la camicia e andando a fermarmi contro le gambe di Kelly. Lui mi cadde addosso e mi sfregò la faccia nella sabbia, mentre Joan rideva.
    Ci rialzammo, sorridenti. Susie aveva rinunciato a correre e avanzava
    caracollando verso di noi. Corey l'aveva quasi raggiunta.
    "Un bel falò", disse Kelly.
    "Credi davvero che fosse arrivato fin qui da New York, come diceva?" chiese Joan.
    "Non lo so." Non capivo che importanza avesse, del resto. Era al volante di una grossa Lincoln, quando l'avevamo trovato, semincosciente e in delirio. La testa gli si era ingrossata come un pallone da football e il suo collo sembrava un'enorme salsiccia. Aveva l'A6, garantito, e non ne aveva ancora per molto. Così l'avevamo portato fino alla punta che sovrasta la spiaggia e gli avevamo dato fuoco. Aveva detto di chiamarsi Alvin Sackheim. Continuava a invocare sua nonna. Credeva che Susie fosse sua nonna. La cosa l'aveva molto-divertita, Dio sa perché. Susie trovava divertenti le cose più strane.
    Era stata di Corey l'idea di bruciarlo, ma tutto era cominciato come uno scherzo. Lui aveva letto una quantità di libri sulla stregoneria e la magia nera, al college, e continuava a sogghignare, nel buio accanto alla Lincoln di Alvin Sackheim, e a dirci che, se avessimo offerto un sacrificio agli dei delle tenebre, forse gli spiriti avrebbero continuato a proteggerci contro l'A6.
    Nessuno di noi credeva davvero a quelle frottole, naturalmente, ma il discorso si faceva sempre più serio. Era una cosa nuova per noi, e alla fine ci eravamo decisi e l'avevamo fatta. Lo avevamo legato a quella specie di cannocchiale
    che c'era lassù: ci mettevi dentro una moneta e, nelle giornate limpide, potevi vedere fino al faro di Portland. L'avevamo legato con le nostre
    cinture, poi eravamo andati attorno alla ricerca di rami secchi e altri detriti da ardere, come ragazzini che giocassero a nascondersi o a qualcosa di analogo. Mentre noi facevamo queste cose, Alvin Sackheim se ne stava addossato là, a biascicare di sua nonna. Susie aveva gli occhi molto lucenti e ansava.
    La cosa la stava eccitando terribilmente. Mentre eravamo giù nel burrone dall'altra parte del promontorio roccioso, si era gettata addosso a me, per baciarmi. Ma si era messa troppo rossetto ed era come baciare un piatto unto.
    L'avevo respinta ed era stato allora che aveva cominciato a mettere il broncio.
    Eravamo risaliti, tutti quanti, e avevamo ammucchiato rami secchi e sterpaglia attorno ad Alvin Sackheim. Gli arrivavano fino alla vita. Needles aveva dato fuoco alla pira con il suo accendino, e il fuoco aveva attecchito in fretta.
    Alla fine, poco prima che cominciassero ad ardergli i capelli, lui aveva cominciato a urlare. C'era un odore come di porchetta alla cinese.
    "Hai una sigaretta, Bernie?" chiese ora Needles.
    "Ce ne sono una cinquantina di cartoni, proprio dietro di te."
    Sorrise e ammazzò una zanzara che gli si era posata sul braccio. "Non ho voglia di muovermi."
    Gli diedi da fumare e sedetti. Susie e io avevamo incontrato Needles a Portland. Era seduto sul gradino del marciapiede davanti allo State Theater, e suonava motivi di Leadbelly su una grande, vecchia chitarra Gibson che aveva rubato chissà dove. Il suono echeggiava in su e in giù per Congress Strett, come se lui stesse producendosi in una sala di concerto.
    Susie si fermò davanti a noi, ancora senza fiato. "Sei proprio una carogna, Bernie."
    "Andiamo, Sue. Volta quel disco. Da questo lato è una lagna."
    "Disgraziato. Stupido. Un vero figlio di puttana, ecco che cosa sei. Verme!"
    "Vattene, Susie", dissi, "o ti arriva un pugno in un occhio. Vedrai se non lo faccio."
    Ricominciò a piangere. Era la sua specialità. Corey si avvicinò e tentò di metterle un braccio intorno alla vita. Lei gli mollò una gomitata al basso ventre e lui le sputò in faccia.
    "Ti ammazzo!" Susie lo investì, urlando, piangendo e agitando furiosamente le mani. Corey indietreggiò, per poco non cadde, poi fece dietro front e corse via. Susie lo inseguì, urlandogli oscenità isteriche. Needles gettò indietro la testa e rise. Il suono della radio di Corey arrivava debolmente. Kelly e Joan si erano allontanati per conto loro. Potevo vederli, in riva all'acqua, camminare e tenersi allacciati per la vita. Sembravano tolti da una vignetta pubblicitaria esposta nella vetrina di un'agenzia di viaggi: "Vola verso la splendida St. Lorca." Niente di male. Tra loro due, era una cosa bella.
    "Bernie?"
    "Si?" Seduto là, fumavo e pensavo a Needles che faceva scattare la chiusura del suo accendino, azionandone la rotella facendo scaturire il fuoco con la pietra focaia e il ferro, come un uomo delle caverne.
    "L'ho presa anch'io", disse Needles.
    "Sì?" Lo guardai. "Sei sicuro?"
    "Sicurissimo. Ho mal di testa, mal di stomaco, sento dolore a urinare."
    "Forse è soltanto l'influenza di Hong Kong. Susie ha avuto quella. Voleva giurarlo sulla Bibbia." Risi. Era stato mentre eravamo ancora all'Università, circa una settimana prima che la chiudessero definitivamente, un mese primavche cominciassero a portar via i cadaveri ammucchiati sui camion e a seppellirli nelle fosse comuni.
    "Guarda." Accese un fiammifero e lo tenne al disotto della mascella. Potei vedere le prime macchie triangolari, il primo accenno di gonfiore. Era l'A6, senza dubbio.
    "Bene", dissi.
    "Non mi sento molto male", disse lui. "Mentalmente, intendo dire. Tu, piuttosto. Tu ci pensi di continuo, e si vede."
    "No, ti sbagli. Bugia."
    "Sì, invece. Come quel tizio, stasera. Pensi molto anche a lui. Probabilmente, se ci rifletti bene, gli abbiamo fatto un favore. Credo che non capisse nemmeno quello che stava succedendo."
    "Capiva, sì."
    Alzò le spalle, si girò da un lato. "Che importanza ha?"
    Fumavano in silenzio, ora, e io guardavo la risacca andare e tornare. Needles aveva l'A6. "Questo rendeva tutto di nuovo reale. Era già fine agosto, e tra un paio di settimane sarebbero cominciati i primi freddi dell'autunno. Tempo di trasferirsi al coperto, da qualche parte. Invano. Morti prima di Natale, forse, tutti noi. Nel soggiorno di chissà chi, con il costoso apparecchio radio-registratore di Corey appoggiato in cima a uno scaffale pieno di Condensati di Selezione del Libro e il debole sole invernale che si posava sul tappeto in riquadri luminosi senza significato."
    La visione era così nitida da darmi un brivido. "Nessuno dovrebbe pensare all'inverno, in agosto. È come un presagio di morte."
    Needles rise. "Vedi? Ci pensi, e come!"
    Che cosa potevo rispondere? Mi alzai. "Vado a cercare Susie."
    "Forse siamo le ultime persone rimaste sulla terra, Bernie. Ci avevi mai pensato?" Nel debole chiarore lunare, sembrava già mezzo morto, con i cerchi sotto gli occhi e le dita pallide, rigide come matite.
    Mi spinsi fino all'acqua e mi fermai a guardare l'oceano. Non c'era niente da vedere salvo le gibbosità in continuo movimento delle onde, sormontate da delicati riccioli di schiuma. Il tuono dei frangenti era tremendo, lì, più grande del mondo. Era come stare dentro un ciclone. Chiusi gli occhi e mi dondolai sui piedi nudi. "Forse eravamo le ultime persone rimaste sulla terra... e con ciò? Il mondo sarebbe andato avanti finché ci fosse stata una luna a influire sulla marea."
    Susie e Corey erano più in là, sulla spiaggia. Susie stava cavalcandolo come se lui fosse stato un cavallo selvaggio sgroppante, che scuoteva la testa nella schiuma ribollente dell'acqua. Corey agitava le braccia, sollevando alti spruzzi. Erano entrambi inzuppati. Mi avvicinai e, con un piede, la spinsi giù. Corey continuò a sguazzare a quattro zampe, schizzando acqua e facendo il buffone.
    "Ti odio!" mi urlò Susie. La sua bocca era una buia mezzaluna sogghignante.
    Faceva pensare all'entrata di un baraccone. Quand'ero bambino, mia madre ci portava all'Harrison State Park e c'era un baraccone, tra gli altri della fiera, con un'enorme faccia di clown sulla facciata, e si entrava attraverso la bocca.
    "Vieni, Susie. Su, Fido." Le tendevo la mano. La prese, dubbiosa, e si alzò.
    Aveva grumi di sabbia umida sulla camicetta e sulla pelle.
    "Non avevi nessun diritto di darmi quella spinta, Bernie. Guai a te se..."
    "Vieni, dai." Non era come un jukebox; non c'era mai bisogno di mettere dentro una moneta e non capitava mai che le si staccasse la spina.
    Ci incamminammo lungo la spiaggia, verso la palazzina principale dello stabilimento balneare. L'uomo che un tempo lo gestiva aveva un piccolo alloggio al piano di sopra. C'era un letto. Non che lei meritasse un letto, in verità, ma su questo Needles aveva ragione. Che importanza aveva, ormai?
    Nessuno si preoccupava più di segnare i punti.
    Le scale salivano lungo un lato dell'edificio, ma io mi fermai per qualche istante a guardare, dentro la vetrina rossa, le merci polverose esposte
    all'interno che nessuno si era mai curato di rubare: pile di magliette, braccialetti lucenti che dopo un giorno avrebbero cominciato a lasciare il
    verde sul polso, luccicanti orecchini falsi, palloni da spiaggia, cartoline pornografiche, madonne malamente dipinte su ceramica, vomito di plastica (così realistico! Provatene l'effetto su vostra moglie!), petardi del Quattro luglio per un Quattro luglio che non sarebbe più venuto, lenzuolini da spiaggia con una voluttuosa ragazza in bikini ritta in mezzo ai nomi di cento famose località balneari, bandierine (souvenir di Anson Beach), palloncini, costumi da bagno. C'era uno snack bar, sul davanti, con un grande cartello che diceva "PROVATE IL NOSTRO PASTICCIO DI VONGOLE".
    Venivo spesso ad Anson Beach quando ero ancora al liceo.
    Questo, sette anni prima dell'A6, quando filavo con una ragazza di nome Maureen. Era una ragazzona. Aveva un costume da bagno a quadretti bianchi e rossi. Le dicevo, ricordo, che sembrava una tovaglia. Insieme avevamo camminato, a piedi nudi, lungo la pedana di legno davanti allo stabilimento, le assi roventi e ruvide di sabbia sotto i calcagni. Non avevamo mai assaggiato il pasticcio di vongole.
    "Che cosa guardi?"
    "Niente. Vieni via."
    Tutto in sudore, feci sogni orribili su Alvin Sackheim. Era appoggiato al volante della sua lucente Lincoln gialla e parlava di sua nonna. Non era altro che una testa gonfia e annerita e uno scheletro carbonizzato. Mandava puzzo di bruciato. Parlava, parlava, e dopo un po' io non riuscivo ad afferrare neppure una parola. Mi svegliai, ansando penosamente.
    Susie era tutta buttata addosso a me, pallida e sfatta. Il mio orologio segnava le tre e mezzo, ma si era fermato. Fuori era ancora buio. La risacca si abbatteva, rumoreggiando. Alta marea. Dovevano essere le quattro e un quarto, più o meno. Tra poco sarebbe stato giorno. Scesi dal letto e arrivai fino alla porta. La brezza salmastra era gradevole, sul mio corpo in sudore.
    Nonostante tutto, non volevo morire.
    Andai nell'angolo e agguantai una birra. C'erano tre o quattro casse di birra in barattolo, ammonticchiate contro la parete. Era calda, perché mancava l'elettricità. Non ci bado io, come certi, anche se la birra è calda. Fa
    soltanto un po' più schiuma. La birra è birra. Tornai sul ballatoio, mi misi a sedere, tirai l'anello che apriva il barattolo e bevvi.
    Così, eccoci qui, pensavo, con l'intera razza umana spazzata via non dalle armi atomiche o dalla guerra batteriologica o dall'inquinamento, o da qualcosa di altrettanto grandioso. Ma da una banale influenza. Mi sarebbe piaciuto
    collocare una enorme targa da qualche parte, una targa di bronzo, con chilometri e chilometri di lato. E in grandi lettere in rilievo, a beneficio
    di eventuali visitatori extraterrestri, ci avrei scritto: "UNA BANALE INFLUENZA".
    Gettai il barattolo vuoto oltre la ringhiera. Atterrò con un clangore metallico sul vialetto di cemento che girava attorno all'edificio. Il
    capannone era un nero triangolo sulla sabbia. Mi domandavo se Needles fosse sveglio.
    "Bernie?"
    Lei era là sulla soglia, con indosso una delle mie camicie. La cosa mi dava sui nervi. Suda sempre come un maiale.
    "Non ti piaccio più tanto, vero, Bernie?"
    Non dissi niente. C'erano momenti in cui riuscivo ancora a provare pena per tutto e tutti. Susie non si meritava me come io non mi meritavo lei.
    "Posso sedermi vicino a te?"
    "Non credo che ci sia spazio sufficiente per tutti e due."
    Con una specie di singhiozzo soffocato, fece per rientrare.
    "Needles ha l'A6", dissi.
    Si fermò, mi fissò. La sua faccia era assolutamente immobile. "Non scherzare, Bernie."
    Accesi una sigaretta.
    "Non è possibile! Aveva avuto..."
    "Già, aveva avuto l'A2. Quella di Hong Kong. Proprio come te, me, Corey, Kelly e Joan."
    "Ma questo vorrebbe dire che non è..."
    "Immune."
    "Sì. Allora potremmo prenderla anche noi."
    "Forse mentiva quando ci disse che aveva avuto l'A2", dissi. Mentiva perché così l'avremmo preso con noi.
    Il sollievo le si diffondeva sulla faccia, ora. "Certo, dev'essere così."
    "Anch'io avrei mentito, al posto suo. A nessuno piace di rimanere solo, vero?"
    Esitò. "Torni a letto?"
    "Non subito."
    Rientrò. Non avevo alcun bisogno di dirle che l'A2 non era affatto una garanzia contro l'A6. Lo sapeva. L'aveva soltanto cancellato dalla mente.
    Seduto là, guardavo la risacca. La marea era alta. Anni fa, Anson era l'unico punto adatto dello stato per fare del surfing. La Punta era una gibbosità buia e sporgente, stagliata contro il cielo. Mi sembrava di scorgere la colonnina che sosteneva il cannocchiale, al punto di osservazione, ma probabilmente era uno scherzo della fantasia. A volte Kelly portava Joan lassù sulla punta. Non pensavo che fossero andati là, quella notte.
    Mi presi la faccia tra le mani e la strinsi, tastandone la pelle, la grana e il tessuto. Tutto si restringeva così rapidamente, ed era tutto così meschino: non c'era dignità, per niente.
    La risacca avanzava, avanzava, avanzava. Senza limiti. Pulita e profonda.
    Eravamo venuti lì d'estate, Maureen e io, l'estate dopo la maturità, l'estate prima dell'università, della realtà, e dell'A6 che arrivava dal Sud Est
    asiatico e ricopriva il mondo come un sudario, ed era luglio, avevamo mangiato una pizza e ascoltato la radiolina di lei, e io le avevo unto d'olio la schiena, lei aveva unto d'olio la mia, l'aria era infuocata, la sabbia brillava, il sole sembrava vetro incandescente.
    Presa da un eBook contenente la raccolta "A volte ritornano".


    Edited by WDR - 5/12/2016, 14:59
     
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