I bambini ridevano così dolcemente - Charles L. Grant

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    dal cuore dell'oscurità

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    La pioggia ha smesso di cadere dopo la mezzanotte e ora una nebbia appena formata ne ha preso il posto; la luce dei lampioni è diffusa, i rami si sfaccettano e le pozzanghere sul marciapiede non riflettono che la notte fino a che, un'ora più tardi, si velano di ghiaccio. Il prato assume ombre bianche. Le foglie si irrigidiscono, un ramoscello si spezza. All'angolo, un gatto gonfia la coda e sibila quando il primo vento del giorno comincia a scuotere gli alberi.

    La casa, non grande, si erge dietro la siepe, come un vecchio albero nel parco: un po' curva, ingrigita dal tempo, con la controporta aperta, che batte di tanto in tanto come una mano che si muove in un sonno agitato. Anni dopo il suo periodo di splendore, guarda e accoglie gli uccelli che la usano come riparo e, quando una luce si accende in una stanza sopra il portico, come un occhio aperto che fissa il prato, sembra quasi spaventata dalle voci che ode.

    Peter abbassò la mano dall'interruttore e portò un dito alle labbra per impedire a Esther di fare domande a proposito della sua espressione. Dopo un po' si sedette e drizzò la testa, quindi si voltò e rimase in ascolto, ma udì soltanto il vento e lo sgocciolare di un rubinetto.
    "Ti senti bene?", bisbigliò lei.

    Lui si strofinò gli occhi con una nocca, si grattò il petto e batté le palpebre.
    "Stavo sognando, credo." Dal tono si capiva che non ne era sicuro. Restò ancora in ascolto e tirò la coperta da una parte.
    "Non hai chiuso l'acqua."
    "Ehi, non sono stata io; non sono stata l'ultima a usarla", disse lei con uno sbadiglio.

    Lui non si mise a discutere; non ne valeva la pena. Si alzò e trattene il respiro per il freddo, poi corse in bagno per chiudere entrambi i rubinetti fino a che poteva. Lo sgocciolio si fermò, e allora si appoggiò per un momento contro il lavabo prima di ritrovare a tentoni la via della camera da letto nel grande corridoio.
    Tenedo gli occhi socchiusi a causa della luce della camera, guardò a sinistra nel ripostiglio e non vide nulla se non i contorni indistinti dei mobili e quelli chiari delle finestre; alla sua destra c'era la scala, e un'altra stanza più piccola, la cui porta era tenuta chiusa e il termosifone spento. Aveva appena fatto un passo verso di essa, quando lo udì, quando udì quello che aveva udito in sogno.
    Un riso di bambini, soffocato dietro una mano; erano dei bambini piccoli che si divertivano mentre giocavano e ridacchiavano cercando, senza riuscirvi, di mantenere il silenzio mentre giocavano.

    "Peter!", lo chiamò Esther, bisbigliando.
    "Shhh!", disse lui, rientrando nella stanza e spegnendo la luce.
    Dolcemente e silenziosamente.
    Attraverso la stretta finestra laterale, vedeva il loro prato e la siepe, gli alberi distanti e l'erba dall'altra parte di uno steccato alto che non era il loro. Tutto ciò era vuoto e pieno di brina. Un luccichio proveniva da un frammento di vetro o dagli occhi di un gatto in cerca di prede, ma non c'era nulla che si muovesse là fuori, nel buio.
    Si alzò, quando udì Esther lasciare il letto, poi la raggiunse e insieme guardarono il tetto pendente del portico, l'erba, la siepe, la strada, e le case buie come avrebbe dovuto essere la loro a quell'ora mattutina quando, pensò, i sogni sono più forti.
    "Ragazzo", disse lei tranquillamente, poi gli prese la mano e lo trascinò nel corridoio fino alle scale, e quidi giù fino all'ingresso e a sinistra nel salotto dove arrivava appena la luce dei lampioni e dove il freddo secco si sentiva di più.

    Lui aprì la porta di casa e controllò il portico mentre tirava la seconda porta e la chiudeva a chiave, stringendo i denti per il freddo e sentendo i muscoli che si indurivano. poi seguì la moglie nelle sue esplorazioni attraverso il doppio salotto e la stanza da pranzo, fino in cucina.
    "Nulla", disse e barcollò, appoggiandosi al frigorifero quando lei accese la luce. "Dio, potresti almeno avvertire, eh?"
    "Ma cosa sei? Un vampiro?! Lei portava soltanto una maglietta gialla che le arrivava alle ginocchia, e i capelli neri le coprivano la faccia. Sorrideva. "Allora?"
    "Allora, cosa?" Tirò su i piedi per precauzione. "Cristo, fa freddo! devo fare qualcosa per quel maledetto riscaldamento prima che congeliamo."
    "Come farai?"
    "Fare che? Per favore, sii gentile e spegni quella dannata luce."
    Lei lo fece ridendo e si appoggiò contro il suo fianco quando lui l'abbracciò.
    "Sai... quei bambini..."
    "Io? Non sono stata io. È quello che mi ha svegliato."
    Una folata di vento colpì la stretta finestra sopra il lavandino e fece vibrare la porta posteriore.
    "Ecco", disse lei, ammiccando con decisione verso il vento, mentre ritornavano verso le scale. "Ecco cosa è stato."
    "Ho sentito dei bambini. Anche tu li hai sentiti."
    "Alle tre del mattino? Andiamo, Peter. È una vecchia casa. È piena di rumori."

    Non gli importava che fosse o meno piacevole, purché non lo facesse quando cercava di dormire. Era già abbastanza seccante che il posto non fosse perfetto come lo avevano trovato al momento di comprarlo. Da quando avevano traslocato, nel giugno precedente, avevano scoperto un centinaio di difetti nascosti, uno più costoso dell'altro per la riparazione, ognuno che avevano rimandato inevitabilmente l'acquisto della macchina nuova, le vacanze, il rifacimento dell'interno che essi volevano fare per portare la vecchia casa vittoriana al livello delle case dei loro eleganti vicini.
    "Ehi", disse lei gentilmente nell'oscurità della stanza da letto, "non ti preoccupare. penso che sia tutto a posto."
    Annuì mentre si addormentava, chiedendosi che cosa c'era di così importante nei figli di qualcun altro e, prima di ricordarsene, si era già svegliato e aveva fatto colazione. Esther se ne era già andata, in cerca di stoffa per le finestre di sei piedi e, con un po' di fortuna, per trovare della carta da parati a poco prezzo per coprire la vite e i boccioli appassiti che facevano sembrare le stanze così vecchie. Lui lavò i piatti, li mise via, e camminò lentamente giù al pianterreno, ascoltando i rumori delle assi di legno e premendo con la mano l'intelaiatura della porta poi, infine, indossò un maglione e uscì nel cortile anteriore.

    Un sorriso consapevole gli apparve sul viso quando capì che, mentre camminava sull'erba appassita, stava cercando delle orme, dei rami rotti, qualcosa che tradisse la presenza dei bambini che avevano giocato lì la notte precedente. Naturalmente non trovò nulla per cui non potesse incolpare gli scoiattoli.
    Il suo sorriso svanì, e si fermò davanti alla siepe sul lato nord della proprietà, e vi guardò attraverso. Sull'altro lato c'era lo steccato, più alto di lui, rinforzato con il filo spinato; al di là il cimitero, sebbene le prime lapidi fossero ad almeno cento iarde di distanza.
    "Gesù", pensò, scuotendo bruscamente la testa, "c'è il sole, il cielo è blu, e tu te ne stai a passeggiare in cerca di stupidi fantasmi! Per l'amor di Dio!"

    Con la sensazione di essere stato scoperto e di essere uno sciocco, ritornò sui gradini del portico e si ficcò le mani nelle tasche, guardado a sinistra nella strada. Gli alberi erano alti quasi come la casa e, nonostante la luce splendente del sole, sembravano tristi senza foglie. I giardini erano vuoti: i bambini erano a scuola, e gli adulti al lavoro. Per quanto ne sapeva, lui era l'unico uomo nei paraggi a non avere un lavoro.
    Esther trovò lavoro quel giorno, e quella sera festeggiarono, intaccando i loro risparmi per comprare bistecche e champagne.
    Un miracolo, disse lui: fortuna, lo corresse lei. Si era fermata alla biblioteca per vedere che cosa avevano, e aveva cominciato a parlare con una donna il cui marito, scoprì, era l'editore del giornale locale. Venne fuori che stava cercando una segretaria che avrebbe cominciato a lavorare dopo due settimane, quando l'attuale impiegata se ne sarebbe andata per diventare madre.

    "Proprio un miracolo", le disse Peter, ridendo.
    "Fortuna", insisté lei. "Se fossi andata al supermercato, come avrei dovuto, non avrei mai incontrato quella donna. Ero nel posto giusto al momento giusto. "Vuotò il bicchiere e se lo riempì di nuovo. "Dev'essere fortuna, Peter, perché ciò significherebbe che la nostra starebbe finalmente per cambiare."
    Lui sorrise anche se non poteva fare a meno di chiedersi se ciò non incrinasse la sua posizione.
    "Non ha importanza", decise quando finalmente si avviò, camminando incerto verso il letto. "Non ha importanza", pensò il giorno dopo quando lavorava nel giardino, raccogliendo le foglie nella cunetta e tagliando la siepe. Quado Esther ritornò dal negozio del tappezziere, lui entrò in cucina sentendosi dannatamente bene.

    Lei era davanti al lavandino e l'acqua scorreva, ma non c'erano piatti da lavare.
    La posizione della schiena gli diceva che c'erano guai.
    "Perché mi hai detto che eri andato alla scuola?", gli chiese, mentre si voltava per vederlo che si riscaldava le mani, sfregandole l'una contro l'altra.
    Lui si leccò le labbra e quasi disse che lo aveva fatto, ma l'espressione arrabbiata sulla faccia di lei gli fece morire in gola la bugia.
    "Non volevo farti preoccupare."
    "Preoccupare!" La sua mano destra si chiuse a pugno mentre si ravviava i capelli. "Preoccupare? Gesù Cristo, Peter, ma che diavolo pensavi?"
    Fece spallucce, e andò lentamente nel salotto per buttarsi sul divano.
    "E non fare quella scena tragica, non funziona più!" Lei stava ferma all'entrata, tremante. "Ho incontrato la signora Player a Center Steet, la donna della scuola che chiamasti quella volta. Mi ha chiesto perché non facevi domanda. Hanno molto bisogno di sostituti. Io sono rimasta lì come una stupida perché mi avevi detto di averla già fatta."
    "Io..."
    "No!", disse lei, fendendo l'aria con una mano. "Non osare darmela a bere sul fatto che non vuoi più insegnare. Non voglio sentire che sei stanco, che sei stufo, che non te ne importa più niente." Fece un passo in avanti, entrando nella stanza, e lui si tirò indietro. "Siamo quasi al verde, Peter, lo capisci? I soldi sono quasi finiti. Se tu non..."

    Lui aspettò la minaccia, poi guardò su. Se ne era andata, e non c'era ragione di seguirla. Né aveva senso sentirsi dispiaciuto per se stesso. Ci aveva provato in tutti i modi che conosceva e per più di una volta. Ora la sua fortuna lo aveva abbandonato.
    Stese le gambe sotto il tavolino da caffè: le sue braccia si distesero lungo la spalliera del divano.
    Non era vero che non gli piaceva più insegnare: era tutto il resto che lo aveva stancato. Gli studenti erano indisciplinati, ma l'amministrazione raramente lo appoggiava: l'amministrazione era troppo impegnata a preoccuparsi di bilanci per pensare all'educazione, e l'educazione era diventata un nastro trasportatore su cui gli studenti giravano e la macchina stampava promosso sulla fronte, una parola che metà dei ragazzi non sapevano leggere.

    All'inizio, dopo poco che erano sposati, Esther era stata d'accordo con lui, e non si era spaventata quando si erano spostati a Oxrun Station dopo che lui aveva perso il lavoro a causa dei tagli nei fondi per la scuola. Avevano, dopotutto, un bel mucchietto di soldi ricavati dalla proprietà dei suoi genitori che avevano venduto per comprare la casa a Northland Avenue, investendo nel loro futuro, invece di prenderli pagando un affitto. Ma lei aveva sperato che lui trovasse lavoro per arrotondare i suoi guadagni, fino a quel momento saltuari... Non aveva considerato il fatto che lui era evidentemente senza qualifica, e inadatto a fare qualsiasi cosa se non stare davanti una classe.
    Lui aveva paura di perderla, e così aveva mentito sui suoi tentativi.
    "Stupido", disse rivolto al camino e al fuoco, "sei veramente uno stupido, Peter Hughes."
    Quella notte dormì solo, sebbene lei fosse nel letto accanto a lui.
    Il giorno dopo lavorò nel giardino, mentre Esther andava all'Herald per vedere che cosa doveva fare. Quando ritornò, lo ignorò, sebbene lui vedesse che aveva pianto di recente.

    "Stupido", pensava, mentre rastrellava con energia le foglie nell'erba, "Stupido, idiota, somaro!"
    Quella notte fu svegliato da un gomito che gli premeva il fianco. Lo spinse via, ma quello ritornò. Dopo parecchi secondi, capì che lei stava cercando di svegliarlo. Stava per chiedere perché, quando la udì al piano di sotto... quella dolce risata leggera, quel ridacchiare soffocato.
    Poco dopo, qualcosa d'altro... il passo di qualcuno piccolo che saliva lentamente le scale.
    Uno sguardo alle finestre illuminate dalla luna, uno sguardo all'orologio sul comodino, poi si alzò e strisciò attentamente intorno al letto, ricordandosi, quando fu vicino alla porta, che non aveva un'arma. Esitò, mentre Esther lo guardava, poi decise che avrebbe dovuto contare solo sulla sorpresa: poteva appiattirsi contro il muro e dare un calcio all'intruso quando questi avesse raggiunto l'ultimo scalino.
    Allora si mosse e aspettò, vedendo la sua pelle diventare color marmo alla luce della luna.
    Ma, quando sporse la testa dall'angolo, la scala era vuota e la risata era cessata da un pezzo. Pensò di ritornare al letto e di riderci sopra, ma poi cambiò idea e scese di sotto, tanto per precauzione. Le stanze era tutte vuote, le porte e le finestre ben chiuse dall'interno. La pendola in cucina segnava le quattro, ma la notte era vicina all'alba.

    Quando fece ritorno, lei si era già addormentata e lui imprecò in silenzio per le lenzuola ghiacciate. Rimase a fissare il soffitto, riflettendo sulla casa e i rumori che faceva.
    "Sono le tubature", disse a colazione. "C'è dell'aria dentro, o il freddo: il legno si contrae e si espande quando la notte fa più freddo."
    "Tutta immaginazione, eh?", disse allegramente, felice che lei gli parlasse di nuovo.
    "Niente di tutto ciò."
    "Niente fantasmi?"
    Lei gli sorrise e alzò un sopracciglio.
    "In realtà, mi piacerebbe. Forse qualche bambino fu ucciso qui un centinaio di anni fa, mentre cercava di ritornare in... non so... un posto dove vanno i fantasmi dei bambini."
    "Suona bene", disse lui, "ma, per quanto mi ricordo, nessun bambino ci visse mai, e nessuno mai ci morì."
    "Gesù, non sei divertente, Peter, lo sai? Non sei più divertente." Indossò il cappotto, un berretto di lana e i guanti. "Che farai oggi?"

    Lui alzò le spalle e lei se ne andò senza dargli un bacio. Rimase seduto per un'ora, poi indossò un vestito buono e, con un cenno del capo diretto al suo senso di colpa che gli riempiva lo stomaco di acido, si diresse all'ufficio per l'educazione dove riempì un modulo per le sostituzioni di insegnanti e, seguendo l'impulso, percorse due miglia fino all'Hawksted College, dove fece lo stesso.
    La giornata era fredda, le sue guance e la fronte erano rosse, ma non gli dispiacque dopo che ebbe preso ritmo. Il soffiare del vento, il grigio mutevole delle nubi, la sensazione e il suono delle scarpe sul selciato, lo forzarono a pensare per la prima volta senza autocompassione che cos'era che lo aveva fatto fallire nella classe, che cos'era che lo aveva allontanato dai ragazzi e tirare indietro pensando di non farcela più.
    Li aveva abbandonati, questo era fuori discussione: li aveva abbandonati, ed era scappato.
    Niente male, pensò, ma poteva essere peggio.

    Dopo, vagò per il parco e si fermò al bordo di un campo da gioco a guardare un gruppo di ragazzi della scuola elementare dall'altra parte della strada, che facevano gare di corsa con un'altra classe. Strillavano, imbrogliavano, facevano a botte, ridevano; non poté fare a meno di notare come sembravano tristi i loro insegnanti, come sembravano augurarsi che apparisse un camion miracoloso che falciasse tutte le loro classi.
    Rabbrividì e si voltò, disgustato all'idea, sentendosi male e sapendo che anche lui, prima della fine, prima di lasciare, sarebbe sembrato così.

    Quando Esther ritornò dall'Herald, la cena era pronta.
    "Ancora non ti ho perdonato", disse, quando lui le raccontò della giornata, di tutto, tranne che del parco. "Ma grazie per aver cucinato."
    "Dovresti essere pagata, lo sai?", le disse. "Per tutto il tempo che passi al giornale prima che inizi a lavorarci."
    "Ma sono gentili", gli rispose lei, aiutandolo a sparecchiare la tavola e a lavare i piatti. "Si preoccupano veramente di te: vogliono farti sentire a casa."
    "E' una piccola città."

    Il telefono suonò prima che potesse risponderle e, quando ritornò per aiutarla a mettere via i piatti, stava ridendo.
    "Che c'è?", disse lei sospettosa. "Hai vinto la lotteria o qualcosa del genere?"
    "Niente di così bello; ma nemmeno tanto brutto. Un insegnante della secondaria ha avuto un incidente a Harley. Niente di serio. Sta bene", disse in fretta vedendo la preoccupazione di Esther. "Un colpo alla testa e un paio di graffi, ma starà via per il resto della settimana. Devo sostituirla."
    "Oddio!", disse lei, abbracciandolo con calore. "Dio, Peter, sono così contenta che farei baldoria!"
    "Si", disse lui, con il viso nei suoi capelli. "Si, anch'io."
    "Sai, se fai una buona impressione", disse lei esitando, "ti potresti ritrovare con un lavoro fisso, e non fare solo le sostituzioni."
    "Ci ho già pensato", mentì, e fu sollevato quando lei alzò la testa per baciarlo. Una crisi era passata; ora, tutto quello che doveva fare era prevedere il resto della sua vita.

    Ci stava ancora pensando dopo che ebbero visto un po' di televisione e fatto una lunga doccia insieme. Lei si addormentò prima che potesse abbracciarla.
    "C'è sempre il supermercato", pensò. "Scaricare qualche camion, gestire il registro, forse persino diventare capo della sezione merci." Non era da ricchi, ma ci si poteva vivere. Oppure un negozio di scarpe, o una libreria. Entrambi vi potevano lavorare: avrebbero persino potuto vivere bene.
    Quando sentì che considerava severamente ogni cosa che gli veniva in mente, non riusciva a credere che avrebbe messo in pericolo il futuro di Esther e il suo, semplicemente per un dannato senso di orgoglio. Gesù, domani sarebbe ritornato al lavoro, a ciò che sapeva fare. Perché diavolo non riusciva a vederlo come il segno di qualcosa? Per quale dannato motivo non poteva essere felice come sua moglie?
    Si assopì, sognando un po' e senza ricordare niente.

    Si svegliò in un soffice silenzio, poi voltò la testa e vide la neve: grossi fiocchi che si fermavano sul vetro della finestra come ragni bianchi, che venivano sospinti oltre i lampioni della strada per seppellire il prato, trasformare la siepe in un muro e rendere il nero dietro di esso più scuro, più freddo.
    Udì la risata, anch'essa soffice, giù nel salotto.
    "La senti?", bisbigliò Esther, quasi spaventandolo a morte.
    Quando annuì e fece per alzarsi, lei gli mise un braccio sulla spalla. "Tocca a me. Ho sempre voluto vedere come è fatto un fantasma."
    Immobile, sonnolento e arrabbiato con se stesso, fece un grugnito e guardò la sua ombra lasciare la stanza, poi udì gli scalini scricchiolare sotto il suo peso e la risata continuare.
    All'improvviso la stanza gelò: allora balzò giù dal letto e corse nel corridoio.
    "Esther!"
    Un ridacchiare dietro una mano provenne dal piano di sotto, da dietro le sue spalle, dalla soffitta di sopra.
    "Esther, vedi qualcosa?"
    Udiva il rimbombo distante dell'impianto di riscaldamento e gli schiocchi e i fischi del vapore dei termosifoni.
    Era arrivato a mezza scala, quando il riscaldamento si spense e il silenzio che ne seguì gli fece trattenere il respiro e lo fece fermare.
    "Ehi, Esther, smettila, eh?"

    La luce dei lampioni era troppo fioca per distinguere i dettagli, ma era sufficiente per vedere le ombre, ed egli aspettò finché i suoi occhi si abituarono prima di scendere sul pianerottolo e di guardare nell'ingresso.
    Voleva chiamare di nuovo il nome di sua moglie ma, invece, rimase in ascolto.
    Del silenzio.
    Della neve.
    Del rumore del suo respiro che gli entrava nei polmoni mentre scendeva gli ultimi gradini e afferrava la maniglia della porta.
    Era chiusa, dall'interno.
    Il salone era vuoto così la sala da pranzo e la cucina.
    Era uno scherzo, La mezzanotte era passata da parecchio e lei gli faceva gli scherzi, sapendo dannatamente bene che la mattina si sarebbe dovuto alzare, e andare di fronte a un gruppo di marmocchi dalla testa vuota, insensibili e dannatamente viziati.
    Lo sapeva! Dannazione, lo sapeva e...
    "Oh, che diavolo!", pensò.
    "Adiamo, Esther, non e divertente."

    Esitò davanti alla porta della cantina, poi la spalancò e scese, accendendo la luce con un colpo della mano e bestemmiando quando non si accese. Prima di proseguire, prese una torcia elettrica da un cassetto e provò ad accendere le luci in tutte le stanze, maledicendo tutte le lampade.
    Ma non erano le lampade.
    Non riusciva a pensare a nient'altro che a qualcuno, magari due o tre, che avessero gettato una coperta sulla testa di lei e l'avessero trascinata via di casa. Corse di nuovo in camera, si vestì più pesante che poté, prese il telefono per chiamare la polizia e rimase a fissare il ricevitore quando il segnale si interruppe.
    "Esther!"

    Tutte le finestre e le porte erano chiuse come prima: dall'interno, mai aperte.
    Cercò nei ripostigli, nella dispensa, guardò sotto il divano e le sedie. mosse le lampade e i poggiapiedi, diede un calcio ai tappeti e controllò la soffitta. Quando la voce gli divenne rauca dal chiamare, si appoggiò alla porta della cucina e guardò fuori, battendo gli occhi e quasi piangendo, la neve alta un pollice e liscia come la luna che prima aveva illuminato il prato.
    Guardò fuori da ogni porta, poi uscì nel portico, e rimase a fissare la strada della recinzione.
    Non vide che la neve, che cadeva silenziosamente bianca.

    Quando i suoi denti cominciarono a battere, ritornò dentro, salì le scale fino in camera da letto e fece cadere la torcia sul pavimento. Poi sedette sul letto e fissò fuori dalla finestra. Presto o tardi si sarebbe stancata del gioco e sarebbe ritornata da lui, lo avrebbe preso in giro per il bel nascondiglio che aveva trovato, e lo avrebbe ascoltato quando le avrebbe confessato quante volte le aveva mentito. Non era, avrebbe detto, per il sistema, l'amministrazione, i genitori o persino per i pochi soldi.

    Era per i bambini. Era sempre loro: da qualche parte aveva cominciato a odiarli.
    Attese finché sentì il freddo entrare nella casa, finché la neve divenne più spessa e seppe, senza saperne il motivo, che non l'avrebbe più rivista.
    Poi udì la risata, soffice e dolce, che riempiva la casa al piano di sotto.
    Essi lo sanno, pensò; lo sanno nel mondo dei bambini e non vogliono che torni.
    Risatine... silenzio.
    "Esther?", bisbigliò, premendosi un cuscino contro il petto.
    Non erano affatto dei fantasmi.
    Erano soltanto incubi.
    Soffici.
    Dolci.
    Stavano salendo le scale...

    Edited by Silent Shadow - 2/10/2016, 11:08
     
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    Oddio, non ho capito la fine! :(

    Accidenti, è davvero un bel racconto, ti fa davvero apprezzare e affezionare ai personaggi.
     
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    CITAZIONE (InKubus @ 3/10/2016, 08:39) 
    Oddio, non ho capito la fine! :(

    Neanch'io :gratt:
     
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