Keeping Silence

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    Ciao, sono Matteo e sto cadendo nel vuoto (almeno penso sia così, potrei anche salire per quel che ne so). Ma non del tipo giù da un palazzo di 30 piani o da un burrone, ma più come quando sali le scale e pensi ci sia un gradino in più, senti l’universo che ti manca sotto i piedi. E così, eccomi qui, avvolto in un buio nero e denso come la pece, dopo che la mia stanza si è dissolta come sabbia di una clessidra rotta spazzata via da un flebile vento. Ormai sono qui da non so quante ore, anzi probabilmente giorni, se non settimane e nonostante questo, nessuna sete, nessuna fame.


    Ma dato che ormai mi sono messo a raccontare, penso sia il caso di partire dall’inizio… Anzi, penso che sia il caso di iniziare con una premessa: io ho sempre odiato il silenzio, è una cosa che non sopportavo. Non passavano 5 minuti senza che dalla mia bocca non uscisse qualcosa, persino quando dormivo, ahah. Non passava un giorno senza che i miei professori non mi riprendessero dicendomi: “Faccia silenzio Sonito” o “sempre a parlare Sonito, la finirà mai?”, ma sinceramente non mi importava. Addirittura quando stavo in una sala d’aspetto o in biblioteca e vedevo il cartello “Keep Silence” avevo l’istinto di urlare a squarciagola, giusto per sottolineare il mio disappunto. Ma tutto cambiò dopo la morte di Laura, mia sorella. Il silenzio non era più un fastidio, una cosa che non sopportavo, ma una vera e propria fobia, un peso che gravava senza fine sulla mia anima. Non pensate a nulla di strano, mia sorella non morì in circostanze misteriose o robe così. Fu vittima di un incidente stradale, tornando a sera tarda dalla casa di un’amica, mentre attraversava la strada, ma pensate che l’automobilista si era pure fermato a soccorrerla, non come fanno in molti (almeno non è morta da sola). Aveva solo un anno in più di me, eravamo molto legati, avevamo anche un sacco di amici in comune e uscivamo spesso insieme. Il silenzio, allora, divenne strumento di angoscia. Ogni volta che mi coricavo inevitabilmente il silenzio mi circondava e solo i pensieri e i ricordi di mia sorella affollavano la mia mente, sembravano pugnalate al cuore, come delle schegge di vetro attaccate al soffitto che cadevano ad una ad una, trafiggendomi il petto. Poi arrivò il giorno del funerale. Fino ad allora non avevo versato neanche una lacrima e quel giorno non fu diverso, non ne so il motivo, magari volevo apparire forte per mia sorella più piccola, per i miei genitori, per lei, per me. Tutti dissero qualcosa al funerale, mio padre, mia madre, il suo ragazzo, persino mia sorella volle pronunciare qualche parola. Mentre io… niente. Non riuscii a dire assolutamente niente (proprio io che adoravo parlare, proprio io che di discorsi ne avevo fatti tanti a mia sorella, che mi ascoltava con piacere). Il silenzio si era impossessato di me, ma non pensavo fino a quel punto.
    Poco prima che la bara fosse chiusa vidi al collo di mia sorella quella collana. Quella collana che adoravo e che mia sorella mi aveva promesso che saremmo andati a comprare il giorno del mio compleanno. I miei genitori sapevano di questa cosa, e mio padre vedendomi guardarla con occhi traslucidi si avvicinò a me e mi disse: «prendila, ne sarebbe felice».


    All’inizio della sepoltura non l’avevo ancora messa su, la stringevo nelle mie mani. Poi, però, quando vidi l’ultima manciata di terra coprire la bara chiusi gli occhi, feci un sospiro, presi coraggio e ripensando al volto di mia sorella la infilai al collo… quando li riaprii mi sentii sospeso nel tempo e fu il primo momento in cui lo vidi. Poco in lontananza, un uomo, anzi, un essere che fingeva di essere uomo, quasi lo pretendeva, più alto della media, circa due metri, due metri e mezzo, rachitico e con gli arti inverosimilmente lunghi che si muovevano a scatti. Le mani sembravano quelle dell’aye-aye, un primate del Madagascar, con un indice lunghissimo, una struttura ossea che non riuscivo a spiegarmi. Aveva indosso una felpa grigia, col cappuccio con un motivo di fiamma che gli copriva il volto, insomma, un felpa normalissima, che anche io avrei potuto comprare, e dei lunghi pantaloni neri. Nonostante il volto fosse immerso in una solida oscurità creata dal cappuccio avvertii i suoi occhi, che mi guardavano con aria di sfida. Portò il dito indice davanti alla bocca come per zittirmi, le orecchie cominciarono a fischiare e subito dopo sentii come un ronzio che divenne sempre più forte, che terminò con un agghiacciante “ssshhhhhhhhhhhh”. Distolsi solo per un momento lo sguardo colto da un’ansia mai provata prima, ma bastò per farlo scomparire nel nulla. Il tempo riprese a scorrere, nessuno si era accorto di nulla. Pensai che era frutto della mia immaginazione, d’altronde di essere stressati ce n’era tutto il motivo. Ma in fondo, in un angolo remoto della mia anima c’era un bambino rannicchiato in se stesso che piangeva, che sapeva che invece era reale, e che non sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei incontrato. So solo una cosa, non tolsi più quella collana se non in due rare occasioni.


    Nonostante tutto, il tempo, la mia vita, riprese a scorrere, anche se un po’ rallentata. Il tutto era successo nel periodo delle vacanze di natale, quindi ebbi modo di stare vicino alla mia famiglia. Ma pochi giorni dopo la ripresa della scuola tutto quanto precipitò. Era una sera e stavo per infilarmi sotto la doccia quando mia sorella più piccola, Chiara, mi chiese se per quel lasso di tempo avesse potuto indossare la collana a me tanto cara. Io accettai, in fondo non era per tanto tempo ed inoltre preferivo anche, poiché avevo sempre paura di rovinarla con l’acqua, per non dire che ero estremamente contento di renderla felice. Ma non sapevo ancora cosa sarebbe successo.


    Appena tolsi la collana senti di nuovo quel ronzio, mi raggelò il sangue. Ma non feci trasparire nulla, avevo ancora di fronte mia sorella, non volevo che si spaventasse. L’istinto mi diceva, anzi mi urlava di rimetterla immediatamente, ma non lo feci, gliela avevo promesso (in fondo erano solo pochi minuti). Il ronzio persistette per tutto il tempo, ma quello fu il meno. Mi diressi verso il bagno e sentii il suono della doccia che già avevo acceso come al mio solito, ma non mi fu famigliare. Solitamente quel suono mi aveva sempre rilassato, quasi tranquillizzato, ma questa volta mi apparve come un suono cacofonico, un vero e proprio frastuono. Arrivai davanti alla porta e quando misi la mano sulla maniglia sentii un brivido lungo la schiena, come quando sai di avere preso il sentiero sbagliato e aver perso la strada, ma ignorai questa sensazione. Deglutii, come succede nei film horror, per esorcizzare la paura, feci un sospiro e aprii la porta. Vidi per un istante con la coda dell’occhio un ombra dissolversi e davanti i miei occhi potei osservare solo uno spostamento d’aria grazie a quel vapore che si forma in una stanza chiusa quando dalla doccia esce acqua particolarmente calda. Ormai ero titubante a entrare in doccia, ma ero un tipo che aveva affrontato sempre di petto le sue paure, così mi ci buttai dentro. Avevo timore di chiudere gli occhi, così feci particolare attenzione a mettere lo shampoo, ma questo non servì a niente, la paura non si nasconde dietro a un paio di palpebre. Mentre ero rivolto verso la bocchetta della doccia, con l’acqua che mi accarezzava la nuca, mi sentii sussurrare nell’orecchio parole incomprensibili, ed io mi girai e mi rigirai più volte ma quella presenza era sempre dietro di me, sulla mia spalla. All’improvviso una sagoma si schiantò contro la porta a vetri della doccia… Cosa diavolo era successo! Mi voltai e trovai la porta in frantumi. Lo vidi in dissolvenza sparire nel vapore.… Era lui, ne ero sicuro! Mi misi subito l’accappatoio, con la doccia che stava ancora andando, e corsi diretto verso la camera della mia sorellina, ancora tutto bagnato e in preda all’ansia. Non c’era nessuno, era tutto buio, solo una stupida bambola su una sedia semi illuminata della luna, che guardava verso l’uscio della stanza con un sorriso quasi diabolico (stavo forse impazzendo?). Uscii ancora più sconvolto di prima, e cominciai a gridare il nome di Chiara in preda al terrore. Incrociai nel corridoio mio padre, che aveva appena salito le scale, che mi chiese cosa era successo, ma io lo ignorai. La sentii, era in camera di Laura. Entrai con una rabbia che mi scaturiva da un lato oscuro di me stesso, che non conoscevo. Gridai di uscire da quella camera immediatamente e di ridarmi subito la collana, sentivo che solo quella mi poteva proteggere. Era pietrificata dal terrore, non aveva mai visto suo fratello così, in fondo come avrebbe potuto, neanche io mi ero mai visto così. In quel momento ero come testimone di me stesso, non avevo controllo sul mio corpo. La presi per il braccio e la scaraventai in corridoio. A terra, con lei in lacrime, gli sfilai la collana e me la rimisi subito al collo, dopodiché mi chiusi in camera. I miei cominciarono a battere sulla porta per farmi uscire, per avere chiarimenti, non mi ero mai comportato così. Sentii mia sorella tranquillizzarli, dicendogli perfino che era stata lei a rubarmi collana e che era per questo che mi ero arrabbiato. Era come se avesse capito cosa era successo. Nonostante sapessero che era impossibile ciò che ella disse loro, mi lasciarono solo, e non parlammo più dell’accaduto.


    Qualche giorno dopo, a digiuno dagli allenamenti, ci fu la prima partita dell’anno, ed era per giunta contro la prima di campionato, con cui condividevamo il posto in classifica. Non potevo mancare, ero l’attaccante della mia squadra, inoltre mia sorella adorava vedere me ed il suo ragazzo giocare assieme a calcio, eravamo le sue star calcistiche. Fuori nevicava, mentre io ero in spogliatoio, rimasto solo. Sapevo che dovevo togliere la collana, l’arbitro non me l’avrebbe mai fatta tenere, inoltre ero io il primo a non volerci giocare, avrei potuto romperla, non me lo sarei mai perdonato. Era troppo importante quella partita, tutti contavano su di me. Feci uno dei miei soliti respiri profondissimi e mi tolsi lentamente la collana, sentendo la paura ed il coraggio lottare dentro di me. La riposi nel borsone e subito dopo sentii toccarmi la spalla, sobbalzai in preda al terrore e allo sconcerto più totale. Mi voltai di scatto e vidi Michele che mi sorrideva, il ragazzo di Laura, e disse: «Pronto Teo? Devi fare il riscaldamento lo sai, fuori si crepa di freddo ahah! Io sono qui con te!» Lo guardai un po’ intontito. Mi guardò più attentamente e mi disse: “Tutto ok?». Io ripresi colorito e risposi: “Tutto apposto, adesso che ci sei tu, andiamo!». Poteva essere: niente ronzio, niente ombre, niente sagome e niente più ansia e angoscia, forse era tutto finito.
    Uscii e vidi il campo ricoperto di neve, era forte. Fu un primo tempo spettacolare, feci due goal grazie anche agli assist di Michele, anche se neanche la squadra avversaria non era male, ci fece un goal. Rientrai in spogliatoio insieme ai miei compagni con un sorriso stampato in volto, mi sentii di nuovo bene dopo tanto tempo. Forse i miei incubi e le mie paure mi avevano lasciato. Forse era davvero, davvero finita.


    Rientrato in campo vidi l’arbitro portarsi il fischietto alla bocca. Ne uscì un ronzio, quel ronzio. Non poteva essere, non poteva accadere di nuovo. Ero in preda al panico, non sapevo cosa fare, provai a non pensarci e giocare, ma non feci un granché. Ci volle ben poco per cui lui apparve, come sceso con la neve. Era lì, in mezzo al campo tra di noi che mi dava le spalle. Questa volta sulla felpa aveva stampato sulla schiena il numero 6 con sopra scritto Bobby. Cos’era, uno scherzo?!? Cosa pensava di essere, un giocatore?!?. Si voltò di scatto verso di me, con un sorriso da orecchio a orecchio. Caddi a terra, mentre tutti continuavano a correre, senza accorgersi della sua presenza. Michele si avvicino a me e disse: «dai non mollare che stiamo vincendo», mi voltai giusto un attimo, e quando rivolsi il mio sguardo di nuovo verso la creatura, questa si stava dissolvendo nella neve. All’improvviso si spostò con una velocità tale che i miei occhi non poterono seguirlo, creando un vuoto d’aria che deviò in modo innaturale la traiettoria dei fiocchi che cadevano. Vidi del fiato condensarsi sopra la mia spalla destra e udì una voce, che di umano non aveva nulla, che disse: «esatto non mollare, abbiamo appena iniziato a giocare….ssshhh». Mi voltai, ma non vidi nulla, se non un mio avversario palla al piede andare in rete. Abbandonai subito il campo senza dire niente a nessuno, non mi importava più niente di quella fottuta partita, con il mio allenatore che mi inveiva contro e con i miei compagni che chiedevano spiegazione. Non mi feci neanche la doccia, mi cambiai e mi rinfilai subito la collana, presi la mia bici e abbandonai l’impianto sportivo. Andai dritto verso casa, ma sapevo che lui era li che mi osservava. Lo vedevo ad ogni angolo, dietro ogni albero, in qualsiasi superficie riflettente, anche negli agglomerati di fiocchi di neve. Ero così oppresso dalla sua presenza che non prestavo attenzione alla strada e non mi accorsi di un marciapiede coperto dal manto bianco. Caddi di faccia, dentro un cumolo di neve, lo sentii ridacchiare. Risalii subito in sella, sapevo che non c’era tempo, dovevo fare in fretta. Mollai la bici nel vialetto, aprii la porta e mi diressi subito in camera; sentii solo la voce di mio padre chiedermi: « come è andata la partita?». Ovviamente non risposi, ma nessuno venne in camera, avranno pensato che avessimo perso.


    Quella notte fu l’inizio della fine. C’era un buio innaturale nella mia stanza, dalla mia finestra non arrivava nessuna luce. A fatica, con il ricordo di quel ronzio ancora inciso nella mia memoria mi addormentai. Speravo che i sogni potessero portarmi sollievo, e all’inizio pensavo fosse così. Sognai che finii la partita, che la vinsi e che mia sorella fosse lì con me a festeggiare. Sognai che mi abbracciava e che mi diceva che mi voleva bene ed era orgogliosa. Sognai che mi regalava la collana e che tornavamo assieme a casa. Improvvisamente tutto si fece più cupo e più buio. Mia sorella mi lasciò indietro mentre ero fermo ad osservare questo cambiamento. Si voltò e mi disse: «Dai, stammi vicino». Ed è in quel momento che vidi mia sorella essere investita da un automobile. Così fui catapultato in un incubo. Da quell’auto uscì Bobby, l’essere che mi tormentava. Mia sorella che ancora respirava mi disse: «scappa e non toglierti mai quella collana». Lui si avvicinò a lei e le taglio la gola senza neanche toccarla, agitando semplicemente la mano. Non ascoltai mia sorella, in preda alla disperazione e alla rabbia corsi in contro all’essere, ma lui si dissolse come fumo, esattamente come già gli avevo visto fare, riapparendo alle mie spalle. Mentre mi voltai, egli si avvicinò di scatto, mi strappò la collana dal collo e mi diede un calcio dritto allo stomaco. Era la prima volta che entrai in contatto fisico con lui, aveva una forza disumana. Il dolore fu così intenso che non sapevo più se era un sogno o no. Caddi in un baratro che sembrava senza fine. Sentivo solo il dolore prendere possesso di me, il gelo scorrere nelle mie vene. Mi sentii cadere nel letto e sentii quell'agghiacciante "shhhh". Mi ero per caso svegliato? Portai subito la mano al petto. L’angoscia prese il sopravvento più totale, il mondo, come in cumoli di macerie, mi cadde addosso. La collana, la mia preziosa collana non era più al mio collo. Mi misi a piangere fino al mattino nel silenzio della mia stanza. E avevo ragione di farlo, perché da quell’incubo non mi sono più svegliato.


    Il ronzio, quel maledetto ronzio cacofonico non mi abbandonò più. I giorni trascorsero, e sapevo che quella presenza era sempre con me. Provai a cercare la collana, ma sapevo che non l’avrei mai trovata. Ce l’aveva lui e non me l’avrebbe mai fatta riavere. La situazione peggiorò quando la mia voce divenne sempre più flebile fino a scomparire. Ero diventato muto, non riuscivo più ad emettere nessuno suono, neanche il mio respiro era udibile. I miei genitori mi portarono da molti dottori, ma il responso era sempre lo stesso, le mie corde vocali erano perfettamente sane. L'unica cosa che saltava fuori dalle visite che feci fu una semplice acufene, cosa che non spiegava un bel niente. Ma in qualche modo riuscii a non demoralizzarmi del tutto, in fondo potevo farmi capire a gesti. Beh, questa cosa non deve aver fatto molto piacere alla bestia. Altri giorni passarono ed il ronzio si fece sempre più forte, non mi faceva dormire, non riuscivo a seguire nessuna conversazione, ogni suono era disturbato, sentivo solo un fastidioso riverbero. Smisi pure di andare a scuola, di uscire con gli amici; ero distrutto e così anche la mia famiglia che mi vedeva cadere a pezzi. Stavo impazzendo, il mio fisico e la mia psiche risentivano di tutte quelle notti insonni. Dopo l’ennesima notte tormentata in cui mi ero addormentato solo verso il mattino in preda alla stanchezza, mi accorsi che il ronzio era sparito. Il sollievo di questa notizia durò però ben poco. Alzandomi urtai il comodino facendo cadere la sveglia a terra e… niente, nessun suono. Ben presto mi accorsi che insieme a quel ronzio era sparito anche ogni altro suono. Il silenzio si era impossessato di me, quel silenzio che avevo sempre temuto. Anche i miei pensieri perdevano di consistenza, si facevano largo nella mia testa solo urla e sussurri. Vedevo le facce dei miei, non potevo dire nulla, non potevo raccontare quello che mi stava accadendo. Ed è in quel momento che lui apparve, nel bel mezzo di casa mia, tra la tristezza dei miei cari e si presentò: «Ciao io sono Bobby».Non feci nulla, rimasi pietrificato, forse anche per non inquietare ancora di più la mia famiglia. Non mi rivolse più la parola, si limitava ad osservarmi senza dire nulla, giorno e notte, e usciva solo sporadicamente una ridacchiata raggelante che mi rimbombava nella testa. Questo accadeva fino a ieri o comunque prima che mi trovassi incastrato qui. La scorsa sera, prima di coricarmi, mentre ero in corridoio, sentii la porta di mia sorella più piccola aprirsi. Chiara mi fece cenno di avvicinarsi. Cercò di dirmi qualcosa, provai a capire il suo labiale, ma non ero molto bravo, non capii nulla. Gli feci segno di andare a letto, gli diedi un buffetto e poi un bacio. Forse quell’evento mi avrebbe dovuto far cambiare idea, ma non accadde. Nella notte ,in preda alla disperazione con lui che mi seguiva al solito come un ombra, come una persona maledetta da uno shinigami, mi sono diretto in garage e ho preso una corda. Basta, volevo farla finita. Era forse l’unico modo per uscire da questo incubo? Tornai in camera e mi sedetti per un po’ sul mio letto a fissare il vuoto interrotto solo dalla sua sagoma. Decisi di farlo, senza scrivere nient’altro che “vi voglio bene” su un pezzetto di carta (non volevo apparire più pazzo di quanto non lo fossi già). Legai a dovere la corda sulla trave che passava sul soffitto della mia camera, salii sullo sgabello e senza pensarci troppo saltai e…


    Ed eccomi qui a cadere in questo buio e vuoto senza fine. Che sia questa la morte? Ma sento che qualcosa sta cambiando adesso, comincio a sentire freddo, comincio a riappropriarmi dei miei cinque sensi. Risento quel cacofonico ronzio. Aspetta, vedo una luce che si avvicina. Quella è una croce? No, aspetta, sono le traverse della finestra di camera mia. La stanza si sta ricomponendo lentamente intorno a me come se ogni parte fosse un pezzo di un puzzle. Adesso riesco a vedere fuori della finestra… Oh mio Dio! è ancora lui; è lì, fuori dalla finestra che ride. Cosa vuole ancora? Cosa sta indicando, vuole che guardi sotto i miei piedi? E’… è la collana di mi… di mia sorella! Come può essere? Dovrei riuscire a raggiungerla. Cosa succede? Cos’è questo frastuono, queste voci? E come se tutti i suoni che non ho udito fin ora si abbattessero su di me nello stesso momento, sento il cervello che mi scoppia, mi sanguinano le orecchie. Aspetta, la collana, non posso mollare. Ma che diavolo? Mi manca l’aria, non riesco a respirare, sento qualcosa che stringe il mio collo? E’ una corda? Cazzo, non è possibile, «aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh»!
    La mia voce, da quanto non la sentivo. «Keep silence… keep secret...»cosa sta dicendo? Mantieni il silenzio? Il segreto? Cosa significa?
    Non ci posso credere, la mia vita sta finendo come quei film che non sopporto, con il finale aperto all’immaginazione dello spettatore, che nervi.
    Sono pazzo o no, quello che mi sta succedendo è reale o e frutto della mia immaginazione? Magari sono ancora in un incubo… So solo che gli ultimi istanti sono questi, con questa collana irraggiungibile…
    «ssssssshhhhhhhhh!»
    Un acufene (tinnitus in lingua latina), in medicina, è un disturbo uditivo costituito da rumori allucinatori (come fischi, ronzii, fruscii, pulsazioni ecc.) che l'orecchio percepisce come fastidiosi a tal punto da influire sulla qualità della vita del soggetto che ne è affetto. La prevalenza dell'acufene nella popolazione generale si attesta tra il circa 10% ÷ 15% degli individui. Lui è in mezzo a noi.. e a te, fischiano le orecchie?


    Edited by Nickname.jpg - 12/12/2015, 13:44
     
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    Sono Lady Cupcake, prima del suo nome. Madre dei Pennuti, distruttrice della mia autostima. Creatrice del ciclo del Disagio e stermimatrice di germi.

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    Madonna, pure una mia amica ha un acufene all'orecchio destro e sente sempre un fischio fastidiosissimo che la turba parecchio quando c'è assoluto silenzio. :omg:
    Ottima storia comunque, scritta molto bene, ma concordo sul fatto che non sia particolrmente inquietante, motivo per cui anche io mi sbilancio su Altri Racconti ^_^
     
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    CITAZIONE (Girl Killer @ 18/12/2015, 01:12) 
    terribile :omfg:

    Mmm... in che senso?
     
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