FINDER

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  1. Morlass
         
     
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    Quella che sto scrivendo è la confessione che reciterò domani davanti al tribunale. Posso già indovinare la sentenza, in realtà. Mi daranno l’ergastolo, è il minimo che possano fare.
    L’ergastolo a vent’anni, una vita intera dietro le sbarre: che tortura. Magari mi impicco prima, però. Non bisogna mai essere troppo pessimisti. E poi non è ancora detto nulla, non so nulla.
    A dirla tutta non so nemmeno perché sto scrivendo queste righe, dato che non posso mica pronunciarle di fronte al giudice. Forse è perché da qualche parte dovevo pur cominciare. Cominciamo allora.

    Ho sempre avuto grosse difficoltà a farmi degli amici, sin da piccolo. Forse era a causa della mia costituzione debole, della carnagione pallida e smorta che ancora mi caratterizza. O ancora per delle naturali difficoltà nelle conversazioni, specie se in gruppo, che la maggior parte delle persone classifica all’interno della vaga sfera della timidezza.
    Con il passare degli anni ho imparato a convivere con queste difficoltà e, pian piano, a superarle. Almeno per certi aspetti : mi sono fatto degli amici, ho cominciato a uscire la sera, fare palestra, andare in bici... Ma uno scoglio, un vero e proprio muro a dire il vero, mi si parò davanti non appena entrai in quel guazzabuglio di sentimenti confusi che è l’adolescenza. Probabilmente avrete già capito che il vero problema erano le ragazze.
    Non che mi ritenga particolarmente attraente, ma ritenevo in cuor mio di non dover dispiacere. Il fatto è che davanti a loro diventavo impacciato, più del solito, mi sudavano le mani e la schiena, non riuscivo a guardarle negli occhi, a scherzare, e più volte dopo i rari appuntamenti conclusisi con un buco nell’acqua mi sono morso le mani fino a farle sanguinare. Perché, mi chiedevo, perché non riesco mai a dire le parole giuste?
    Per di più, ottenere un appuntamento era impossibile. Di presenza le ragazze erano sempre in gruppo e i gruppi, come ho già detto, non sono il mio forte. Dei social non voglio nemmeno parlare. Basterà dare un’occhiata alle decine di visualizzazioni senza risposta nella chat del mio profilo facebook per farsi un’idea dei connotati ossimorici che reca la parola “social network”.
    Per questo quando una sera d’estate dell’anno scorso scoprii Finder nei fui subito entusiasta. La descrizione prometteva di essere la soluzione a ogni mio problema passato, presente e futuro in tema di ragazze: quest’app per telefoni, tramite la sincronizzazione attraverso il profilo Facebook e l’account Google, permetteva di rintracciare i contatti della mia lista amici individuandone la posizione esatta all’interno della città o luogo in cui si trovassero!
    Alla prima domanda che mi venne in mente leggendo la breve descrizione, “È legale?”, ne subentrò immediatamente un’altra: “Funziona?”
    L’unione dei due interrogativi mi spinse a scaricare l’applicazione senza indugiare oltre. Terminato il download, ovviamente, dovevo provarla. Diedi al sistema tutti i permessi necessari, seguendo passo passo le istruzioni che il display luminoso mi indicava. Alla fine arrivai alla schermata principale, piuttosto semplice in realtà, ma funzionale: la lista era simile in tutto e per tutto a quella di Facebook, con una differenza; al posto di seguire l’ordine alfabetico, accanto al nome del primo contatto un numeretto ne indicava la distanza in kilometri.
    Il primo della lista era Marco, il mio vicino di casa, distante da me 0.1km. Evidentemente quella sera non era uscito. Ma in quel momento non mi interessava granché di Marco. Ero al settimo cielo: la descrizione non mentiva!!!
    Volli subito provare a individuare qualcuno di più “interessante” e il mio occhio cadde su Silvia. Due anni più piccola di me, mora, occhi castani, magra e bassina. Si trovava a trecento metri di distanza, ma dove precisamente? Dovevo saperne di più! Cliccai frenetico sulla sua icona e una mappa della città si aprì davanti ai miei occhi. Galvanizzato, vidi la mappa della città farsi sempre più grande finché sul puntino rosso che la indicava una vignetta non mi diede le informazioni che cercavo.
    Via Turati 20, R******. Dove stava andando? Mi chiesi. Al chiosco, magari. Era sulla strada ma distava ancora parecchio. Non c’era tempo da perdere. Scesi in fretta le scale, presi le chiavi della macchina, quelle di casa erano già in tasca. Salutai i miei e partii.
    Sgommai fuori dal garage con la mia Cinquecento e senza pensare a null’altro che al mio obiettivo imboccai la via Turati. Quando la vidi ebbi un tuffo al cuore: era sola e si dirigeva a piccoli passi, coi suoi piedi fini da ballerina, in direzione del chiosco. Rallentai, abbassai il finestrino. Lei si girò neutrale, sorridendo poi nel riconoscermi.
    “Vai da qualche parte?”, le dissi sorridendo a mia volta. “Sì”- rispose lei un po’ imbarazzata da quell’incontro imprevisto- “Vado al chiosco a prendere qualcosa da bere, tu?”. Mentre nella mia testa un suono squillante di trombe celebrava quel piccolo, primo momento di gloria, avevo già elaborato alla risposta: “Faccio un giro in macchina, niente di che. A casa morivo di caldo… ma se vai al chiosco posso darti un passaggio e magari farti compagnia!”
    Lei sulle prime fu sul punto di rifiutare, conoscevo quello sguardo di falso dispiacere di chi si prepara a inventare un intoppo che ha tutto il sapore di una vera e propria scusa, glielo leggevo negli occhi e già mi preparavo a inghiottire l’ennesimo amaro boccone. Ma qualcosa dovette convincerla, perché annuì sorridente e io la feci salire in macchina.
    La storia con Silvia durò tre mesi. Tre mesi bellissimi, è vero. Magari fosse durata di più, forse non sarei diventato quello che sono. Invece troncammo, improvvisamente come avevamo iniziato. La causa fu un litigio futile, che non ho voglia di raccontare, ma nemmeno quello riuscì a cambiarmi definitivamente.
    Forse il punto di non ritorno fu quel ridicolo rifiuto: avevo chiuso da poco con Silvia. Ero depresso, frustrato. Insomma, avevo bisogno di uno sfogo e quello cercai. Il mio obiettivo fu Marta, aveva la mia età ed eravamo entrati in confidenza l’anno prima senza mai legare in maniera stretta. Seguivo i suoi movimenti su Finder da un paio di giorni, finché finalmente mi decisi: quando la cercai si trovava a ottocento metri da me, per la precisione in un piccolo supermercato di periferia. Un supermercato non era il luogo più adatto per un appuntamento, ma per un incontro preliminare andava benissimo.
    Ricordo tutto alla perfezione: “Mamma, vado a comprare le uova!”, urlai senza staccare gli occhi dal display. Poi mi misi in macchina, guardando con un occhio la strada e con l’altro la posizione di Marta, nella speranza che non si spostasse.
    Non si spostò, la trovai mentre trascinava un carrello semi-pieno lungo il corridoio dei latticini, guarda caso proprio dove dovevo andare io. Le venni incontro, salutandola con una mano e fingendo stupore.
    “Anche tu sei stata costretta dai tuoi a fare la spesa per stasera? ”, furono le prime parole che le rivolsi. Lei rispose con un semplice “sì.”, freddo come i sofficini surgelati alla mia destra. Non il massimo per cominciare una conversazione. E nemmeno la similitudine è un granché.
    Fatto sta che nonostante il pessimo segnale insistetti, forzandola e forzandomi a una conversazione fatta di domande e risposte a monosillabi: una vera e propria tortura, ma quel che era peggio era che lei non mi guardava nemmeno. Io sì e seguivo i suoi occhi spostarsi qua e là, fissare il macellaio grasso e sporco dietro di me, i formaggi in offerta, i gelati… tutto meno che me. Era umiliante. Alla fine glielo chiesi chiaro e tondo, aveva voglia di uscire dopo cena? Lei per un attimo mi sembrò spiazzata, poi riprese il suo contegno altero e mi rispose che doveva studiare. A fine luglio. A sessione estiva appena conclusa.
    A quel punto potevo anche andarmene, salutai con la scusa che si era fatto tardi e me ne andai a casa innervosito. Perché mi aveva trattato così? Che le avevo fatto? Era proprio necessaria quella scusa?
    Ma che lo dico a fare, non è lei l’imputata. Ad ogni modo, dopo cena diedi un’ultima occhiata a Finder e Marta, come sospettavo, era uscita. Si trovava parecchio distante da me, forse in un altro paese lì vicino, di sicuro però non stava studiando.
    Ero fuori di me. Decisi che quello sarebbe stato l’ultimo rifiuto della mia vita, che d’ora in avanti non avrei più continuato con i “ciao come stai?”, i “che fai stasera?”, con le pizze fuori, con gli appuntamenti al chiosco. Affanculo tutta quella roba, non ne avevo più bisogno: mi sarei preso da solo tutto quello che volevo.
    Il mio piano i giudici lo conoscono già, ma lasciatemene parlare lo stesso: la polizia non è in grado di apprezzare il genio quando lo incontra, figurarsi descriverlo. Agivo la notte, tra le due e le tre, quando in genere le ragazze si ritirano. Sceglievo la mia preda in base a diverse caratteristiche: in primo luogo, ovviamente, la bellezza fisica; non mi importavano le ragazze poco attraenti. In secondo luogo era importante anche che il bersaglio non fosse in compagnia e per accertarmene ne monitoravo gli spostamenti fino a quando non notavo che un gruppetto di persone si era diviso, visto che l’app consentiva anche di seguire più persone nello stesso momento. Dopodiché mi appostavo incappucciato lungo il suo percorso, in attesa che lei passasse.
    Farle salire in macchina era la parte più difficile: a volte facevano resistenza, prima a parole. Poi a calci, pugni, graffi. Le odiavo quando scalciavano, erano così ridicole. Mi mettevano in imbarazzo. E se mi avesse visto qualcuno? Ma una volta entrate era tutto più semplice. Avevo attrezzato per benino l’abitacolo: il sedile del passeggero era già reclinato a 180° gradi, i finestrini oscurati mi fornivano quella discrezione di cui avevo bisogno e dopo averla fatta sdraiare le chiudevo la bocca con il nastro adesivo che portavo sempre con me durante queste scorpacciate notturne.
    La parte più bella era toglierle i vestiti, leggendo nella penombra il terrore del suo sguardo consapevole. I calci che ricevevo, perché solo le gambe potevano muoversi, erano il mio stimolo ad andare avanti. Li sentivo affievolirsi sotto il mio peso, finché non cessavano del tutto e restavano solo dei singhiozzi rassegnati che coprivo ansimando.
    Adesso chiamatemi pure mostro, assassino, vigliacco, ma ricordate bene le mie parole quando porterete la vostra fidanzata o vostra moglie a cena al ristorante, quando andrete con lei a vedere al cinema un film che odiate, quando la porterete per l’ennesima volta al centro commerciale sperando che ve la dia una volta tornati… non godrete mai davvero stando al loro gioco. Mai.

    Edited by Morlass - 14/7/2015, 13:34
     
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  2. HeliocentricØ
         
     
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    Concordo con Kung e dico AR anch'io.
    Ripulisco e smisto.

    Edited by HeliocentricØ - 31/7/2015, 16:53
     
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1 replies since 14/7/2015, 08:52   129 views
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