Ricorrenza Blasfema

Ciclo dei Dimenticati

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    I



    Sono originario di Würzburg, in Germania, e il motivo per cui mi spinsi nelle antiche e calde terre della Laconia risale alla mia giovinezza. A quel tempo ero ancora un ragazzo, avevo superato dal poco la ventina e la mia mente era tempestata da grandi aspettative per il futuro. Ah! Se solo avessi saputo prima, non mi sarei inoltrato tra le coste occidentali della Maina, non avrei indugiato a sud per le brulle pendici del Taigeto, non mi sarei avvicinato, nemmeno per averne una visione da lontano, al paese fortezza di Vatheia, e soprattutto, mai avrei soggiornato nell’antica Ureika durante la notte dell’Ultimo dell’Anno.
    Se soltanto fossi stato meno impulsivo e più paziente, a quest’ora starei a firmare libri, miei scritti di filologia, dietro a una lignea cattedra universitaria.
    Invece mi ritrovo ogni giorno alla solita bettola, per dimenticare le orribili visioni di quel giorno nefasto in cui capii quanto piccoli e impotenti siamo noi in confronto alle terribili creature immortali che, nascoste, governano sopra di noi per le ere di questo Mondo.

    Studiavo alla Universität Würzburg, un’antica accademia fondata nel 1582, e frequentavo la facoltà di Filosofia. Non sono mai stato indietro con gli esami e così riuscivo a passare qualche giorno di libero svago in occasione delle festività. Quell’anno decisi di raggiungere alcuni amici in grecia dopo Natale per passare il Capodanno su un paesaggio mediterraneo, approfittando del soggiorno in quelle terre per studiare meglio la lingua ellenica e approfondire le mie conoscenze.

    Fu così che il pomeriggio del 26 Dicembre, partii verso la Grecia Meridionale, diretto a Sparta, dove avrei dovuto soggiornare fino al 2 Gennaio.
    Dopo un lungo e tranquillo viaggio in nave giunsi al porto di Calamata il 28 Dicembre, verso l’imbrunire. Da lì presi poi un autobus diretto a Sparta.
    Speravo di riuscire a visitare qualcosa ma, essendosi fatte le sette di sera quando arrivai in città, mi dovetti recare, amareggiato, all’albergo dove avrei alloggiato, rincuorandomi però al pensiero di un letto caldo dove riposare. Il posto non era male, anche se vi era un po’ troppa umidità per i miei gusti. Non essendo abituato al cibo mediterraneo chiesi una zuppa di verdure e un piatto di carne con patate, accompagnato da una buona bottiglia di birra.

    L’indomani gironzolai per la città, visitando alcune attrazioni e approfittando delle biblioteche per recuperare qualche libro di filologia e filosofia.
    Per pranzo, assaggiai del pesce mediterraneo e alcuni dolci tipici del posto. Non nascondo che quei biscotti e quelle paste avevano dei sapori davvero particolari che purtroppo non gradii tantissimo, tuttavia ero felice di fare nuove esperienze.
    Mancava ancora qualche ora alla partenza della corriera per Capo Matapan, verso il paese di Ureika, sulle cui spiagge avrei festeggiato il capodanno con i miei colleghi e amici d’università. Decisi così di tornare all’albergo senza però andar di fretta, passeggiando per le strade e fermandomi a guardare qualche monumento: la corriera per Ureika difatti l’avrei dovuta prendere alle otto.
    Dopo aver visitato alcune chiese e un santuario dedicato ad Artemide, mi procurai infine un panino e una bottiglia di birra e mi diressi al mio alloggio. Avevo tre quarti d’ora di anticipo sulla corriera quando arrivai all’albergo. Presi dunque i bagagli e scesi nella hall.

    Mi misi a leggere il quotidiano tedesco, giusto per far qualcosa nell’attesa: mancava una buona mezz’ora all’arrivo del bus nella piazza difronte all’albergo, i biglietti li avrei fatti a bordo ed ero sicuro che nessun problema si sarebbe profilato per tutto il tragitto, permettendomi di arrivare a Capo Matapan verso le nove meno un quarto. Giunte però le otto e dieci di sera la corriera non aveva ancora fatto capolino nel piazzuolo dell’albergo.

    In quel momento l’addetto alla reception mi chiese in inglese col tipico accento greco: “Mi scusi signore, sta aspettando qualcuno che la venga a prendere?”
    Al che gli risposi un po’ preoccupato: “Aspetto la corriera delle otto per Ureika. Sa dirmi perché è così in ritardo?”
    Il viso dell’uomo parve rabbuiarsi al sentir nominare Ureika, poi mi disse rammaricato: “Oh! Lei è di fuori, non può sapere, certo. La corsa delle otto è stata cancellata da qualche giorno”, notai una traccia di inquietudine nel suo volto “Sembra che gli autisti dei bus si vogliano tenere a distanza da quel posto al calar della notte; specialmente ora che siamo a ridosso del Capodanno. Sa, corrono strane voci riguardo a quelle zone ultimamente, nessuno vuole passare per Vatheia all’imbrunire: la città è abbandonata da alcuni anni ormai, ma si dice che luci siano visibili e rumori ancora udibili al calar del sole in quella città fantasma.
    E che dire di Ureika? Gli abitanti non sembrano gradire particolarmente gli stranieri e, d’altra parte, nessuno si è mai voluto immischiare nei loro affari.”

    L’uomo si fermò un momento e girò la testa verso le scale, un rumore di passi veniva da lì.
    Poi, agitato, si voltò nuovamente verso me e riprese: “Loro non sono greci! Ogni capodanno festeggiano con strani canti e riti blasfemi: corre voce che vogliano evocare il demonio in person…”
    Il discorso venne bloccato dal direttore dell’albergo, il quale ammonì il suo sottoposto in greco, credendo che non capissi quello che diceva.
    Poi si rivolse a me: “Siamo desolati per il suo inconveniente, se desidera possiamo procurargli una nuova camera e servirle la cena del giorno. Devo avvisarla però che domani nessuna corriera la porterà a Capo Mapatan, dovrà perciò trovare un altro modo per arrivarci”.
    Essendo ormai tardi e non vedendo alcun’altra soluzione, avrei fatto come mi aveva consigliato il proprietario dell’albergo.
    “Bene, tra dieci minuti venga in sala pranzo, la cena sarà pronta. Orestes vi darà una nuova camera”. Detto questo si allontanò.
    “Senta, il direttore non vuole che si raccontino queste storie agli stranieri, dice che fanno male al turismo. Io le consiglierei però di non recarsi ad Ureika, tuttavia, se proprio vuole andare, potrà farsi dare un passaggio dal signor Papios, è un brav’uomo che ci rifornisce di ortaggi freschi ogni settimana. Lui le saprà dire di più riguardo alle strane storie che aleggiano su quelle zone meridionali. È un po’ tocco, forse talvolta esagera, ma io credo alle cose che racconta” sussurrò il giovane Orestes.
    Dopodiché mi consegnò delle chiavi e mi augurò buona cena.
    Non avevo creduto ad una sola parola di quello che il ragazzo mi raccontò, nonostante ciò ero inspiegabilmente turbato.


    II



    Erano le nove del mattino quando partimmo dall’albergo. Papios aveva un vecchio “furgone”, sul quale caricava le casse piene di ortaggi, tutto frutto del suo terreno. Era un’uomo sulla sessantina, pieno di vigore. Con mia grande sorpresa scoprii che parlava fluentemente l’inglese: appresi infatti che aveva una moglie londinese. Era ebreo e per sfuggire alle persecuzioni naziste – al che mi vergognai un po’, essendo io tedesco – era fuggito, i primi anni del conflitto, insieme alla sua famiglia in Inghilterra.
    Una volta morta sua moglie si era recato, insieme ai suoi figli, alla fattoria dei suoi nonni in grecia, e li vi era rimasto da quel momento ad oggi.
    “È così dovete recarvi ad Ureika…” disse il vecchio agricoltore con fare di chi la sa lunga. “Avete idea di dove state andando? In che posto volete soggiornare? Sapete che voci girano su quei luoghi?”
    “Beh… il ragazzo alla hall dell’albergo mi ha accennato qualcosa ma ha trovato la persona sbagliata alla quale raccontare certe mistiche panzane, non sono superstizioso e nemmeno credulone io” risposi serenamente. Ah! Se avessi saputo cosa avrei visto!
    “Quindi lei non crede che ci sia qualcosa di strano in quelle terre. Anche io ero come lei quando giunsi qui, in seguito però ho visto e udito cose che mi hanno fatto cambiare idea” fece una breve pausa, poi riprese: “Oh beh, lei è straniero, non conosce forse la storia di Vatheia”.
    “No, non la conosco” dissi quasi con tono di sfida.
    “Bene, vede, per diversi anni quella città fortezza non è mai stata abbandonata. Ha resistito ad invasioni, scorrerie ed epidemie, eppure, alcuni anni fa, i suoi abitanti sono misteriosamente scomparsi nel nulla. Puf! – fece un gesto con le mani – scomparsi le dico!”
    Guardò in direzione sud e mi indicò un punto verso le colline: “Vetheia si trova lì. È una città fantasma ora… tuttavia, la notte, è possibile udire suoni di passi intorno alle mura, scorgere strane luci dentro alle case ormai abbandonate e vedere delle presenze evanescenti aggirarsi a mezz’aria per le buie strade. Vuole sapere che penso? Perché quella fortezza è stata abbandonata? Lì vi è una porta per l'Oltretomba! Si, proprio come a Tolemaide!”.

    “Queste sono solo storie per tenere lontani i bambini da quegli edifici abbandonati, non vi aspetterete che una mente illuminata dalla ragione, come la mia, possa crederci…”
    “Credete che io sia pazzo eh? Puah! Io so cosa ho visto!” ribatté il vecchio alzando la voce. Il suo sguardo e le sue movenze iniziarono a preoccuparmi, dava segni evidenti di piscosi e non volevo che diventasse aggressivo, perciò decisi di assecondarlo: “No, no, dico solo che forse dovreste guardare quei fenomeni con occhio più criti…”
    “Ah! Occhio critico? Nulla di quello che vi sto raccontando è opera di fantasia! Non credete alla storia di Vatheia? Beh, sentite questa allora: voi siete diretto a Ureika vero? – fece una risata beffarda – Bene, vi accorgerete subito che la gente di quel posto non è normale. E non parlo solo dei loro modi di fare, del tutto dissimili da quelli tipici greci, ma anche del fatto che gli abitanti non appartengono a nessuna etnia conosciuta di uomini: non sono greci, ne turchi, ne fenici, ne latini! Sapete cosa si dice?” mi guardò con gli occhi sbarrati, come se stesse ricordando un antico terrore. Turbato, feci cenno di no con la testa.
    “Si narra che siano i discendenti di un antico popolo, più antico degli egizi, degli ebrei e dei sumeri stessi! Vengono da oltre le Colonne d’Ercole, da un ormai scomparsa isola nell’Atlantico. Sono i figli della Città del Mare… la perduta Atlantide! Mah’ill ke Rahyl!
    Incominciò a farfugliare frasi senza senso e mi chiesi, per l’ennesima volta, perché diavolo mi fossi fatto dare un passaggio da un vecchio pazzo.
    Il vecchio però incominciò a calmarsi e a scuotere la testa.
    “Ho parlato troppo… non avrei dovuto spaventarvi a questo modo, mi spiace”.
    Lo rassicurai, pensando che se era così è perché doveva essere stato segnato dai terribili orrori delle guerre e delle persecuzioni.

    Dopo tre ore di viaggio arrivammo nei pressi di Kita, alla proprietà di Papios. Un bel podere non c’era che dire. Il vecchio fece un cenno con la mano “Quella è casa mia, vivo lì, con i miei figli. Non permetterò a nessuno di fargli del male...", mi guardò in modo strano e poi riprese: "Mh, ora la accompagno in città, troverà qualcuno che le affitterà un cavallo, solo… non dica che è diretto a Capo Mapatan. Qua nessuno vede di buon occhio quei luoghi”.
    Mi portò dunque presso uno stalliere di sua conoscenza e riuscimmo ad accordarci per un prezzo molto basso, il vecchio agricoltore mise una buona parola per me e, in ogni caso, la bestia non era tra le migliori; “Questa non vale nemmeno la pena di macellarla” disse sogghignando lo stalliere.
    Dopo essere montato sulla sella di quella povero ronzino, mi si avvicinò Papios e mi sussurrò all’orecchio: “So che è giovane e riuscirà a vedere tutto con un ottica diversa, tuttavia la prego di fare attenzione quando arriverà a Ureika”.
    Detto questo mi salutò, mi consegnò una piccola mappa fatta a mano e mi augurò buon viaggio.
    Il viaggio si prospettava lungo e scomodo, un sù e giù per le brulle colline del Taigeto, fino all’arrivo ad Ureika. Tuttavia avevo un buono spirito d’avventura, e questa “gitarella” non mi dispiaceva. Mi piaceva addentrarmi in luoghi poco visitati: da ragazzino non mi tiravo indietro ad una scampagnata con mio padre nella Foresta Nera.

    Dopo due ore di viaggio però non ero ancora arrivato ad Ureika e il sole incominciava a tramontare, ciò iniziava a preoccuparmi, seppure non mi buttava giù. Infatti, dopo aver girato l’angolo di una montagna mi ritrovai davanti ad vecchio agglomerato di case sopra una collina. Aveva delle alte torri e delle case costruite a strapiombo sui ripidi pendii. Decisi dunque che mi sarei fermato lì per la notte. Non avevo altra scelta, il buio non mi avrebbe permesso di proseguire oltre e non so quanto avrebbe potuto reggere il mio ronzino.
    Notai però che sulla mappa, tracciata dalla mano del vecchio Papios, la strada che dovevo seguire non prevedeva quella città - lo spazio dove ci sarebbe dovuto essere il nome di quella località era bianco - e la linea rossa che indicava il tragitto che dovevo compiere passava appunto intorno a questo “punto vuoto” ad una grande distanza, come per evitarla.
    Decisi però di fare di testa mia e di avvicinarmi a quel piccolo paese. Mi serviva un posto per riposare e passare la notte, l’indomani infatti sarebbe stato il 31 Dicembre e non vedevo l’ora di ritrovare i miei colleghi e raccontargli della mia avventura.

    Mano mano che mi avvicinavo al paese, però, notavo che aveva un aria spettrale, come se fosse privo di vita. I miei sospetti furono confermati alla vista di un cartello di legno marcito che riportava la scritta “Vatheia”.


    III



    La luce della luna si faceva strada per le strette viuzze e risplendeva sui tetti delle case di quel paese fantasma. Un leggero vento correva freddo tra le abitazioni, producendo un rumore simile ad un prolungato ululato.
    Proseguivo ora a piedi, con il cavallo al mio fianco, per i sentieri di quel piccolo ma sinistro paese.
    I segni dell’abbandono erano ben visibili dappertutto. Chissà cosa era successo in quel posto, pensavo tra me e me. Notai che le pietre che costruivano gli edifici erano molto antiche, risalivano probabilmente all’epoca della Guerra dei Trent’anni, se non prima.

    Mentre riflettevo su queste cose una folata di vento gelido mi attraversò e il mio cavallo nitrì e impennò improvvisamente, liberandosi dalla mia presa. Provai a fermarlo ma non ci riuscii, era spaventato a morte ed ora stava scappando verso l’uscita della città. Corsi dietro a lui per alcuni metri fino a quando non fui bloccato dalla vista di qualcosa.
    Una figura si mosse rapidamente a mezz’aria.
    Non saprei descriverla, ma sembrava una presenza evanescente, dalla forma vagamente paragonabile a quella di un’ombra umana. Quasi inciampai, tanto l’entità mi passò vicino.
    Non so per quanto rimasi fermo, ma giuro che prima d’allora non ero mai stato turbato così fortemente.

    Decisi però, procedendo secondo schemi razionali, che ciò che avevo visto probabilmente era solamente un panno trasportato dal vento, e lo spavento che mi ero preso era stato semplicemente alimentato dall’atmosfera poco sicura che trasmetteva quel maledetto posto.
    Dunque non rinunciai all’idea di passare la notte in una di quelle case abbandonate, anzi mi misi subito d’impegno per cercarne una che non fosse ridotta in uno stato di completo decadimento.
    Dopo un rapido sguardo per le vie tetre di Vatheia trovai un’abitazione ancora in buono stato, con le finestre e la porta ancora intatte, e vi entrai dentro con borsa e legnetti che ero, per fortuna, riuscito a salvare dalla fuga del cavallo.
    Sbarrai così la porta dietro di me, accesi un bel fuocherello nel caminetto e mi misi a sgranocchiare qualche carota che il vecchio Papios mi aveva dato per il viaggio.
    Non ero sicuro di riuscire a prendere sonno, ma tuttavia ero stanco e cercai di convincermi a riposare: l’indomani avrei dovuto raggiungere a piedi Capo Mapatan e dunque la città di Ureika.
    Mi addormentai perciò su una vecchia branda sgangherata che trovai in casa.

    Fui svegliato però durante il sonno da una strana visione: vedevo le tenebre, come un nero muro nella notte, avanzare e fermarsi all’orizzonte; da lì fuoriuscivano diverse ombre, dalla forma oblunga, che avanzavano tremolanti verso di me. Nell’aria sentivo degli strani sussurri…

    Aprii gli occhi e vidi di fronte a me, con gli occhi spalancati, il vecchio Papios che pronunciava sommessamente strane parole e sinistre cantilene. Lo spavento fu tale che caddi giù dalla branda e la scalciai violentemente facendola balzare verso l’agricoltore pazzo.
    Quello, come colto da una forza improvvisa mi si avvicinò a passi svelti e provò a prendermi per il collo.
    Inutile dire che gli diedi un forte spintone e lo feci cadere a terra di peso.
    “È impazzito per caso – domanda che trovava un ovvia risposta - ?” chiesi al quel dannato vecchiaccio.
    “Tu… tu hai mentito! Hai recitato la parte del povero turista ma in realtà sei qui per i tuoi blasfemi riti!” farfugliò Papios agitando la lunga barba bianca.
    Si alzò in piedi, aggrottò le sopracciglia e digrignò i denti “Oh, tu non conosci la storia vero? Tu sei un uomo che non da retta a queste fiabe per poveri merli? Stronzate! Tu sei uno di loro!” rise con disprezzo.
    Nel frattempo io mi tenevo a debita distanza, provando a chiedergli come diavolo avesse fatto ad entrare, ma lui sembrava non curarsene e l’unica risposta che mi diede fu una risatina ancora più snervante.
    “Ti ho osservato e l’ho capito! L’avrei dovuto immaginare subito: si, sei uno di loro! Fai parte della loro dannata setta. Altrimenti perché saresti qui? Perché vorresti recarti a Ureika proprio l’ultimo giorno dell’anno?” sbraitò Papios.
    “Volevo semplicemente raggiungere i miei colleghi e festeggiare un buon Capodanno sulle rive del Mediter…” provai a dirgli con sincerità, senza però alcun risultato.
    “Il Capodanno eh!? Oh, io lo so cosa festeggiate voi, figli del demonio! Celebrate la distruzione della Città del Mare e invocate Rahyl! Ogni volta aprite uno squarcio sempre più grande nel Muro della Notte, permettete a quelle dannate ombre di uscire e prendere il posto dei vivi! Oh, ma tu non ci andrai, non raggiungerai Ureika, dannato figlio d’un cane!” detto questo si lanciò nuovamente contro di me come colto da un raptus. Cercai di schivare l’assalto di quel pazzo spostandomi di lato, ma lui aveva previsto la mia mossa e presto mi fu addosso, con la bava alla bocca e le unghie sudicie. Gli assestai un calcio in pieno viso e lo feci indietreggiare.
    Aveva del sangue che gli colava dalla bocca, quando se ne accorse si infuriò ancora di più. Sfortunatamente vicino al caminetto vi stava l’attizzatoio e appena Papios lo vide se ne impossessò. Fatto questo – ovviamente – mi caricò nuovamente agitando quel dannato tubo di ferro tra le mani.
    Schivai il primo colpo, il secondo mi prese di striscio, il terzo mi colpì in pieno nel petto.
    Caddi a terra dolorante; una fitta mi lancinava il torace.

    Papios si avvicinò alla finestra e guardò verso l’orizzonte.
    Nuvole nere si addensavano a sud; si intravedevano i bagliori dei fulmini.
    “Volete abbattere il Muro della Notte? Pazzi... questo significa solo una cosa: volete servire ad Aphazhel, il “Signore del Caos” l'Opportunità della sua empia esistenza” pensava a voce alta il vecchiardo.
    Si girò verso di me e digrignando i denti avanzò.
    “Stupidi! Non conoscete la forza del Signore del Caos? Una volta libero sfrutterà il potere di Rahyl per far piombare tutto nel disordine. Ogni cosa cadrà nelle tenebre e le anime di tutti bruceranno. Il dolore fisico non è nulla in confronto a quello che proveremo alla sua corte!”
    Non riuscivo ad alzarmi.
    “Ma non ci riuscirete, io ho pensato a tutto! Ho seguito due tuoi compatrioti, anch'essi diretti ad Ureika, li ho osservati e al momento giusto gli ho sottratto il libro degli incantesimi! Dite addio alla vostra festa blasfema!”
    Agitò l’attizzatoio e questa volta non potei far altro che subire il colpo.
    Prima di perdere conoscenza, però, fui spettatore di questa scena : la branda, alle spalle di Papios, si sollevo in aria da sola e volò verso di lui. Quello, bestemmiando, la schivò per miracolo e urlò a gran voce, come per sfidare la presenza, poi un cono d’ombra si proiettò su di lui e il vecchio Papios prese fuoco. Urlò e si dimenò per la stanza fino a che le fiamme verdi lo consumarono completamente.
    E tutto diventò buio.


    IV



    Quando rivenni quel pazzo non c’era più ed io ero sdraiato sopra la mia brandina.
    La stanza era deserta, l’attizzatoio era al suo posto vicino al caminetto, come se non fosse mai stato toccato. La porta era sprangata. Nessun segno di bruciature per terra.
    Non sapevo se credere a quello che era successo la notte, visto che non erano rimaste tracce del povero Papios. Provai dunque a toccarmi il torace e la testa, ma non avvertii nessun dolore.
    Molti dubbi mi assalirono al momento. Non sapevo se credere o meno a quello che avevo vissuto.
    L’unica cosa sulla quale non ero in dubbio era che volevo andarmene il prima possibile da quel paese abbandonato.
    Guardai il mio orologio e vidi che erano le quattro del pomeriggio.
    Era tardi, dovevo raggiungere Ureika. A dir la verità comunque questa “avventura” iniziava a stancarmi e per un momento pensai di mandare tutto a carte quarantotto e tornarmene nella mia bella Würzburg. Poi però concordai che se ero arrivato fin qui non potevo tirarmi indietro proprio adesso, mi mancava pochissima strada per arrivare a Capo Mapatan. Ed in ogni caso volevo vederci chiaro in questa faccenda, perciò decisi che non sarei andato subito dai miei colleghi, ma li avrei spiati di nascosto; avrei spiato la cittadina e quello che avrebbero fatto la notte.

    Dunque mi alzai, presi le mie cose e feci per uscire da quella casa. Ma, per terra, vicino all’uscio della porta notai due impronte nere e a pochi centimetri da queste uno strano libro aperto. Le scritte erano in una lingua sconosciuta e non capivo nulla di quello che vedevo.
    Incuriosito dall’oggetto, raccolsi il libro e lo misi nella mia borsa.
    Forse era quello il libro di cui parlava Papios?

    Sebbene il sole illuminava quella piccola città fortezza, le abitazioni cadenti e le alte torri diroccate mantenevano il proprio aspetto inquietante e i loro contorni sinistri creavano strani effetti nella mia mente. Temevo che una qualche entità potesse manifestarsi da un momento all’altro e farmi fare una fine ben peggiore di quella di Papios, ammesso che fosse davvero successo.
    Nulla però si mostrò ai miei occhi. Piuttosto potevo udire per la città rumori di passi e strani sibili dentro le case, ma non osavo avvicinarmi alle finestre poiché avevo paura che potesse sbucare fuori dall’oscurità di quelle stanze chissà cosa, magari qualche mano nera pronta a trascinarmi dentro.
    Uscii alla fine da quel dannato posto e mi diressi verso sud, sulla costa.

    Dopo diverso tempo di cammino – erano le 5 e mezza - vidi un cartello stradale con delle indicazioni:
    “Ureika a mezzo miglio sud”.
    Bene, o male, senza più forze, ero arrivato alla fine. Ora dovevo solamente vedere cosa sarebbe successo in città.
    Dunque mi feci largo per le viuzze di quella cittadina sul mare. Nell’aria vi era un aura particolarmente sinistra, cupa, non sembrava un paese in procinto di festeggiare.
    Gli edifici non erano quelli tipici greci, non avevano influenze nemmeno arabe; erano particolarmente alti e stretti, con ampie vetrate, dalla forma simil spiroidale.
    Inoltre non vidi molti abitanti per le strade, e quando li vidi capii che cosa intendevano Papios e il ragazzo all’albergo con “non sono greci”: non assomigliavano a nessun altro popolo umano, la fisionomia forse era assimilabile a quella dei popoli indoamericani, ma erano molto alti e avevano la pelle estremamente pallida. Non riuscivo davvero a capire che origini potessero avere.
    Non sembravano vedermi di buon occhio, anzi, molti di loro mi fissavano con sguardo arcigno.
    Quando chiesi ad uno di loro di indicarmi un albergo, mi rispose in modo sfuggente e, dopo che mi diede le indicazioni che mi servivano, borbottò qualcosa in una lingua incomprensibile.

    Arrivai al Thalas, un albergo con una forma non dissimile da quella degli edifici circostanti. Presentava dei bassorilievi e delle incisioni in lettere che sembravano greco arcaico. Non era molto grande, anzi era davvero piccolo. Questo non faceva che confermare ciò che mi avevan detto sull’avversità degli abitanti di Ureika nei confronti degli stranieri.
    Dietro un bancone trovai un uomo anziano, da una prima occhiata avrei pensato ad un vecchio pellerossa, però i lineamenti erano più delicati e la pelle era d’un pallore che avrei potuto osservare solamente in una persona albina.
    “Cosa posso fare per lei?” chiese con tono stanco ed in perfetto inglese il receptionist.
    “Vorrei affittare una camera” risposi pacatamente.
    L’uomo mi guardò dall’alto in basso e poi mi disse: “È una sfortuna che sia arrivato in un periodo di piena, posso darle soltanto una delle camere in mansarda”.
    Accettai, anche se un po’ titubante. Presi le chiavi e mi diressi verso la mia camera.

    La camera era in pessime condizioni. Chissà da quanto non entrava qualcuno in quella stanza: c’era polvere su tutti i mobili e ragnatele ovunque.
    Tuttavia mi sistemai e, poggiata la valigia su un secondo letto, mi misi ad analizzare il libro che avevo trovato a Vatheia.
    Sfogliandolo non riuscivo a capire nulla, era del tutto incomprensibile.
    Verso la fine del libro però trovai un paio fogli con sopra scritti a penna degli appunti in latino. Provando a tradurlo riuscii a capire che ciò che vi stava scritto era la traduzione di alcuni spezzoni del testo originale:

    “Rayhl è una delle più grandi forze conosciute di questo universo. Ella non ha una vera forma, anche se alcune culture la rappresentano come un ibrido tra una medusa e una donna. Inoltre non può attuare da se la sua volontà. Per questo ha due “Messaggeri”: Akatoph e Aphazhel. Quando Rahyl fu, furono anche l'Ordine, Akatoph, e il Caos, Aphazhel; ma essendo il Cosmo più armonia che disordine, Akatoph ricevette più potere da Rahyl - ma anche meno libero arbitrio - rispetto a Aphazhel. Quest'ultimo, invidioso, cerca sempre un nuovo modo per far piombare l'Universo nel Caos. Rahyl può essere invocata solamente poco prima della fine di un Periodo. Questo è inoltre l'unico momento in cui Aphazhel ha l'opportunità di sottrarle il potere, prima che...”
    Il testo terminava lì, con l'annotazione "pagina mancante".

    Nel secondo foglio invece vi era scritto:
    “Aphazhel, chiamato anche Signore del Caos o Caos dai Cento Neri Occhi o Caos Dormiente. Desideroso di accrescere il suo potere si recò presso la corte di Rahyl e cercò con l'inganno di sottrarle energia, venne così confinato oltre il Muro della Notte, dove poteva essere tenuto sotto controllo. Da quel momento soggioga le anime erranti ed è il loro signore. In accordo con Akatoph, la Volontà del Signore del Caos può girare libera per il cosmo sotto forma di Rash'el. Per poter solcare di tanto in tanto la dimensione dei vivi, Aphazhel necessita di energia vitale, la quale può essergli donata attraverso un rituale. Se Aphazhel riuscisse ad aumentare il suo potere, governerebbe l'Universo fino all'inizio di un nuovo Ciclo."

    Oltre a questi testi, vi erano alcune parole segnate, come: Tughandaur, Rash’al, Kel, Atlantide, Ordonauti.
    Tutto questo mi affascinava e mi preoccupava non poco. Iniziavo a dubitare che tutte quelle storie fossero solo frottole per bambini. Se tutto quello fosse stato vero, non sarei mai più stato la persona di prima. Come avrei fatto a vivere normalmente sapendo dell’esistenza di entità così antiche e oscure?
    Che senso avrebbe avuto la mia vita? La vita dell’intero pianeta?
    Mentre mi ponevo queste domande il cielo si era ormai già fatto buio.


    V



    Erano le sei di sera e decisi che era il momento di cercare i miei colleghi e cercare di scoprire cosa avevano in mente. Certo, non erano dei tipi molto estroversi, ma mi avevano preso in simpatia già da alcuni mesi. Avevano , sì, una spiccata sensibilità per l’occulto, però sembravano delle persone apposto.
    Comunque, per via di quello che era successo, decisi che era osservarli.

    Così mi avviai verso la porta per uscire dall’hotel. Quando misi un piede nel corridoio però, sentii degli strani sussurri provenire dalla camera di fronte alla mia. Tesi l’orecchio per ascoltare ma presto capii che erano sibili della stessa natura di quelli sentiti a Vatheia.
    Mentre ero fermo in quella posizione, udii dei rumori provenire dalle scale, seguiti da un gran vociare.
    Socchiusi la porta, in modo da lasciare una fessura per vedere di chi si trattava e aspettai.
    Nell’ombra del corridoio, a diversi metri di distanza, vidi delle sagome nere incappucciate.
    Chiusi la porta senza far rumore e la bloccai.
    Dopo alcuni secondi capii che quel gruppo di persone si era fermato di fronte alla mia camera; a confermarmelo seguirono dei colpetti sulla porta. Qualcuno stava bussando.
    Non so con sicurezza perché non risposi, ma certamente fu meglio così.
    Vidi poi il pomello della porta muoversi e mi venne un colpo al cuore; per fortuna avevo messo il chiavistello. Sentii dunque un sommesso vociare e dal rumore dei passi capii che quei loschi individui si stavano allontanando.

    Dovevo uscire velocemente da quell’albergo. Sapevano che ero li e non avevo idea quali intenzioni gli passavano per la testa. Misi tutto di nuovo in valigia e mi fiondai sulla porta, tolsi il chiavistello e aprii.
    I sinistri sussurri erano ancora udibili. Osservando bene la porta della camera dalla quale questi avevano origine, notai un segno in rosso a forma di X sul legno chiaro. Curioso mi avvicinai al buco della serratura.
    Fu lì che capii che avrei dovuto abbandonare ogni schema razionale, perché quello che vidi fu a dir poco terrificante: una donna - straniera - stava sdraiata su un letto, ad occhi aperti e bocca spalancata, e sopra di lei stava un alta ombra che sembrava prosciugarle a poco a poco l’anima.
    Era questo che intendeva Papios con "prendere il posto dei vivi"?
    Com'era possibile che in quella città gli abitanti convivessero con simili mostruosità?
    Indietreggiai e caddi a terra; feci fatica a non svenire.
    Poi, appena riuscii a mettermi in piedi mi mossi silenziosamente e rapidamente verso le scale.
    Volevo fuggire da quel dannato posto!
    Scesi senza incontrare nessun imprevisto. Nella hall però era impossibile passare: vi stazionavano diversi uomini incappucciati.
    Questi portavano delle strane maschere: diversi fori al livello degli occhi permettevano di vedere, mentre delle linee si diramavano dai bordi creando una spirale che terminava con una grande apertura sopra la bocca.
    Mi diressi dunque, a passo rapido, verso le scale che portavano nel cortile che dava sul retro.
    Passando il più vicino possibile al muro, riuscii a non farmi vedere e raggiunsi le scale.
    Per fortuna non ci furono altri intoppi e riuscii ad andarmene dall’albergo senza essere visto.

    Mentre stavo per allontanarmi dall’albergo, vidi il gruppo di persone incappucciate che, uscito dalla hall, si dirigeva verso sinistra, tagliandomi la strada. Mi nascosi il più possibile in una rientranza nel muro e attesi.
    Li seguii con lo sguardo e dopo un po' vidi che si levavano i cappucci e le maschere.
    Non credevo ai miei occhi: in quel gruppo di individui vi erano anche i miei colleghi d’università.
    Inutile dire che iniziai a seguili per capire dove andavano e cosa avevano in mente di fare.

    Il buio della sera mi permetteva di muovermi senza attirare troppa attenzione. Così gli stetti dietro finché non giunsero in quella che sembrava una cappella. Ad attenderli vi erano altri tizi, con le stesse vesti e le stesse maschere.
    Uno di loro però portava una strana tiara sul capo e sembrava non toccare il suolo con gli stivali; anzi a dir la verità non ero sicuro nemmeno che li portasse. Inoltre, quando tutti ormai erano a viso scoperto, lui era l’unico a tenere ancora il cappuccio e la maschera.
    Ma la cosa che mi turbò maggiormente fu che quando apriva bocca – non ero sicuro l’avesse - emetteva un suono simile ad un sibilo, e non una sola, ma più voci parlavano insieme.

    Io ero appostato dietro la porta dell’atrio e potevo sentirli discutere; anche se non capivo nulla poiché parlavano in quella lingua tutta loro. D’un tratto però uno di loro incominciò a parlare in latino e notai dall’accento che era inglese. Disse qualcosa come “per facilitare la comprensione ai membri più giovani”. Fu così che tutti presero a discutere in quella lingua classica che fortunatamente io conoscevo bene. Vi era una quindicina di uomini – ammesso che quello con la tiara fosse davvero umano – di diverse nazionalità. Sei di loro erano gente del posto, tra gli altri notai accenti inglesi, francesi, tedeschi – i miei due colleghi – orientali, arabi e, probabilmente, indios.
    Adesso che li osservavo bene, potevo notare che i lineamenti e il colore della pelle di coloro che avevano un accento straniero - compresi i miei due compatrioti - erano dello stesso tipo di quelli degli abitanti di Ureika.
    Comunque, sebbene le mie conoscenze liceali non fossero così approfondite, riuscii a capire grossomodo cosa dicevano. Il terrore aumentava in me ad ogni parola che udivo.
    “È arrivato qui poche ore fa ma si è barricato dentro la sua camera”
    “Non era nei nostri piani”
    “Non è nei nostri piani nemmeno ucciderlo prima del tempo” disse uno dei miei colleghi.
    Il mio cuore sprofondò nel terrore. Uccidermi?
    “Era l’unico che potesse volontariamente unirsi a noi!” rispose l’altro mio collega.
    “Non possiamo neppure andare a cercare membri per le strade della grecia. Se la polizia ci scoprisse ci butterebbero tutti quanti in gattabuia… e non possiamo perdere apostoli”
    “Non importa chi scegliate! L'importante è che ci sia una vittima spirituale. Rayhl deve essere corrotta. Egli ci serve per ottenere il potere. Aphazhel il grande deve essere compiaciuto, dovete rispettare i suoi accordi!” disse sibilando l’individuo con la tiara.
    Gli altri lo guardarono di sottecchi, però poi annuirono.
    “È chiaro. Dobbiamo trovarlo…” disse il più vecchio tra quelli di Ureika.

    Dopo quelle parole quasi svenni. Barcollando mi allontanai il più possibile da quell’edificio e appena svoltai l’angolo mi buttai contro un muro per riprendere fiato e provare a ragionare sul da farsi.
    Ero la loro vittima sacrificale. Mi avevano chiamato qui per attirarmi con promesse di potere o altro, per poi tradirmi e usarmi per liberare Aphazhel. Quest’ultimo particolare però gli abitanti di Ureika non lo sapevano; evidentemente speravano davvero che questo Signore del Caos gli lasciasse il potere. O forse avevano trovato un modo per controllare Rayhl senza porre fiducia in Aphazhel l'ingannatore?

    “Ehi, ti stavamo cercando, dov’eri finito?”
    Uno dei miei colleghi era dietro di me e mi guardava con un sorriso che sembrava volesse darmi un caloroso benvenuto. Alle sue spalle si andavano raggruppando gli altri. Ero perduto?


    VI



    La notte era ormai scesa e io mi ritrovavo insieme agli altri apostoli della setta che si comportavano in modo amichevole per nascondere i loro intenti. Mi avevano servito qualcosa da mangiare, ma io non ero riuscito a toccare nulla. Come potrebbe un uomo mangiare, sapendo che quello è il suo ultimo pasto?
    Mi avevano chiesto come stavo e come mai non ero arrivato da loro prima, gli risposi che avevo avuto dei piccoli contrattempi – ovviamente non menzionai Vatheia. Non riuscivo però a non far trasparire la mia paura e ben presto loro se ne accorsero. Mi fecero alcune domande e alla fine, come un condannato a morte senza colpa, scoppiai a piangere chiedendo di non essere fatto fuori.
    Seguì un lungo momento di silenzio dove i vari apostoli si guardarono tra di loro sbigottiti. Così mi dissero che avevano parlato a quel modo solo per tenere il gioco al sacerdote con la tiara. Ma come potevo credergli? Dopo quello che avevo visto! Dopo quello che avevo udito! E fu così che continuai a urlare e a lamentarmi.
    Ad un tratto, uno di loro notò il libro antico dentro la mia valigia.
    “Ehi, ma quello non è il libro degli Ordonauti?”
    “Cosa? Com’è possibile? Credevo fosse al sicuro nelle mani dei confratelli tedeschi!”
    “Infatti lo era… non capisco proprio come sia finito qui!” dissero i miei colleghi.
    “Dove lo hai trovato? Parla, è importante!”
    “Io… io… l’ho preso da un vecchio greco che abita nelle terre qui vicino” risposi io balbettando.
    “Un vecchio? Papios l’agricoltore?” mi chiese con insistenza il più anziano.
    Feci cenno di si con la testa.
    “E dov’è quest’uomo adesso?”
    Gli dissi che era impazzito, che mi aveva aggredito e che durante la lotta c’era rimasto secco.
    Quelli si guardarono e tirarono un respiro di sollievo.
    “Ti dobbiamo molto davvero, ragazzo!” mi disse il più anziano.
    “Questo libro è di vitale importanza per noi” aggiunse un altro.
    “Senza saremmo stati davvero nei guai"
    Fu così che mi dissero che il tizio incappucciato con la tiara si chiamava Rash’el, conosciuto anche come il Diacono, che era il più potente sacerdote di Aphazhel e anche che era composto dalla Volontà di quest’ultimo. Difatti appariva come un essere vuoto, fatto d’ombra. Il varco nel Muro della Notte doveva essere aperto da Rash'el e dagli apostoli della setta; mentre per dare energia ad Aphazhel serviva l'anima di un donatore consenziente. Per aprire il portale di Rahyl bisognava invece eseguire un rituale più lungo, scritto nel libro che avevo raccolto a Vatheia. Se Aphazhel fosse riuscito ad appropriarsi dell'energia cosmica di Rahyl, sarebbe stata la fine per il cosmo.
    Ma loro, gli apostoli, avevano un piano e intendevano utilizzare il libro per esiliare il Sacerdote e controllare la forza Rahyl come ritenevano giusto per riportare equilibrio nel Mondo.
    Purtroppo i poteri di Rash’el erano maggiori di quelli degli apostoli della setta e l’unica loro speranza era data da quel libro; il libro degli Ordonauti.

    “Ordonauti?” chiesi io che ormai avevo abbandonato ogni schema razionale che mi ero costrutio lunga la mia misera vita, inconsapevole delle terribili forze che agitavano il cosmo e degli sconfinati orrori che abitavano il buio.
    “Sono viaggiatori del vuoto cosmico. Una civiltà neutrale, sicuramente adoratori di Rahyl e, per quanto ne sappiamo, capaci di sfruttarne il potere per portare ordine nel loro piccolo” mi rispose uno dei miei colleghi.
    “Ascolta: dobbiamo chiederti di venire con noi alla cerimonia. Servirai per ingannare Rash’el fino al momento in cui potremmo esiliarlo per le dimensioni temporali. Dopodiché, se vorrai, potrai unirti a noi nel governo di un Mondo più giusto” disse l’altro mio compatriota.
    “Io no… non voglio unirmi a voi… e non verrò alla vostra empia cerimonia!” cercai di ribellarmi.
    “Non vuoi unirti a noi? Benissimo. Però ci serve che tu venga al rituale” risposero.
    “Non avrete la mia anima! No! No!! Non voglio avere nulla a che fare con voi!” urlavo, credendo ancora che fossero intenzionati a liberare Aphazhel.
    Visto che era impossibile convincermi ad andare di mia spontanea volontà, decisero di ricorrere alle maniere forti. Tirarono fuori una pistola e, inutile dirlo, subito mi calmai.
    “Non manderai a monte il nostro piano, brutto bastardo…” mi disse uno di quelli di Ureika.
    “Stanotte tu ci seguirai e sarà meglio che Rash’el non sospetti nulla, altrimenti saremo tutti prosciugati dalle ombre o soffriremo chissà quali terribili pene” esclamò il più anziano.
    Uno dei miei colleghi mi si avvicinò, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse glaciale: “Non fare mosse strane stanotte. Comportati esattamente come diciamo e tutto andrà per il verso giusto...”
    Fu in quel momento che capii che non gli importava nulla della mia vita. Loro non volevano sacrificarmi solamente perché questo avrebbe comportato rendere libero Aphazhel. Se mi fossi voluto offrire volontariamente, sicuramente mi avrebbero ucciso.

    VII



    Mancava un’ora alla mezzanotte.
    Mi condussero in piazza.
    Rimasi stupito nel vedere che tutta la gente del paese si era recata sul posto.
    C’erano tutti, dai vecchi ai bambini. E tutti cantavano antiche canzoni, ormai dimenticate; vicende che al giorno d'oggi potevano essere udite soltanto sull’onda del vento, sussurrate nell’aria dagli spiriti delle fredde brezze.

    Ero tenuto per le mani dai miei due colleghi. Non si fidavano di me e io non mi fidavo di loro. Però loro potevano prendersi molte più precauzioni: come ad esempio una pistola nascosta puntata su di me.
    L’atmosfera era un continuo crescendo e i canti celebravano un empia ricorrenza: la distruzione di Atlantide.
    Quest’oggi però la Città del Mare sarebbe risorta, cento volte più forte.

    Mi portarono al cospetto di Rash’el, il sacerdote senza corpo.
    La sua maschera non aveva il foro sopra la bocca come tutti, ma in pieno viso. E fui certo che non vi fosse nulla, se non pura ombra, dietro quell’apertura. La tiara che portava in testa era un manufatto davvero particolare, sembrava fatta d’un materiale sconosciuto ed era formato da tanti piccoli rilievi a forma di tentacoli. Su di essa vi erano incise delle parole a me del tutto ignote. Non era un alfabeto di questo Mondo.

    Quando gli fui vicino, egli fece un cenno con la mano e gli apostoli incominciarono recitare un'antica nenia, che gli antenati degli abitanti di Ureika impararono tempo fa.
    La canzone aveva un ritmo fortemente cadenzato, sembrava che tutti stessero cantando lo scorrere del tempo. Le parole mi restavano sconosciute, anche se la loro bellezza e maestosità era tale che Rash’el sembrava agitarsi. Lentamente, al centro della piazza, lo spazio incominciò a mutare: si stava aprendo un varco dimensionale, come una grande bolla di vetro al cui interno erano visibili stelle e nebulose.
    Ed eccola, una sfera di energia pulsante si manifestò dentro al varco: era Rahyl.
    Non riuscivo a capire perfettamente come fosse fatta; essendo composta di luce non era possibile coglierne i contorni. Nell’aria era udibile l’inequivocabile battito di un cuore, sembrava il suono del Tempo.

    Mancava un quarto d’ora alla mezzanotte.
    Il momento era giunto.
    Era ora di porre fine al vecchio ciclo e dare inizio a quello nuovo.
    Questo Capodanno sarebbe stato non solo il primo giorno dell’anno, ma la fine di una vecchia era e l’inizio di una nuova. La tensione si poteva avvertire nell’aria. Tutto il mondo attendeva la mezzanotte, ansioso dell’avvento dell’anno nuovo, ignaro di quello che stava per accadere.
    Rash’el fece segno che bisognava aprire il secondo portale.

    In quel momento due degli apostoli della setta - i miei colleghi - aprirono il libro degli Ordonauti e urlarono contro il Sacerdote:
    Azarel o’sek Rash’el! Il Tughandaur sarà chiuso! Rahyl appartiene alla Setta del Mare! Tu sei esilia…”
    Non riuscirono a finire la frase che tutti gli altri apostoli tirarono fuori dei pugnali e li colpirono più e più volte alla schiena. La folla intorno alla piazza si agitò e si levarono urla di sgomento.
    “Stolti! Eretici! Credevate davvero di poterci tradire?” ridacchiarono in coro gli assassini.
    Le loro voci erano cambiate, avevano tutti lo stesso tono: quello freddo e sibilante di Rash'el.
    I loro occhi si erano tinti di un verde acceso; il Sacerdote li aveva assoggettati al suo volere, ormai erano i suoi burattini.
    "Vi abbiamo visto a Vatheia! Sapevamo di quel libro! Abbiamo ucciso noi il vecchio Papios!"
    La gente tutt'intorno era nel panico. Avevo il cuore che mi batteva a mille e la presenza di Rash’el congelava l’aria circostante.

    Un altro canto, completamente differente dal precedente, si levò nell’aria: gli apostoli della setta avevano incominciato a ripetere una cantilena di parole senza senso:
    “Ered fal Tughandaur, morsaas tu kwaz. D’eventil uh, kazas ke umbresh. Ered fal Tughandaur, ered fal!”
    Tutti gli abitanti di Ureika urlavano atterriti: sopra le nostre teste il cielo si riempì di immonde nuvole nere. Al centro di queste si aprì, a poco a poco, un varco dal quale non usciva luce di nessun genere, piuttosto vi si diramavano fiumi di tenebra. Era come osservare il vuoto cosmico senza nessuna luce. Non avevo visto mai un nero così intenso. Intravidi diverse forme oscure uscire come anime dannate da quel varco. Erano le ombre di coloro che cercavano vendetta: i lemures di cui parlavano i latini.

    Oh, “non c’è uomo così infantile da temere Cerbero o le tenebre o le spettrali ombre vaganti”.

    Mancavano dieci minuti alla mezzanotte.
    Rash’el mi afferrò per il collo.
    Era giunto il momento di permettere ad Aphazhel di uscire dal Tughandaur.
    “Guardaci! Guardaci!” continuò il sacerdote.
    Cercai con tutta la mia forza di non guardarlo in pieno viso, ma il potere che emanava era troppo forte e non riuscivo a distogliere lo sguardo.
    “Entra nel Tughandaur!” sentii nella mia mente. Subito la mia mente errò fuori dal tempo e mi ritrovai nell’oscurità infinita.

    Non sapevo dove mi trovavo di preciso, ma il buio era tale che non potevo vedere nemmeno le mie mani.
    La cosa più spaventosa, però, era che in quel mare di tenebre si potevano udire rumori disumani e blasfemi. Un accozzaglia di tutto ciò che è viscido e vischioso, rumori cupi e profondi del respiro di chissà quali creature infernali. Lamenti e vagiti bestiali, il suono di ossa rotte e tendini spezzati, il battito di mille neri cuori. Poi una voce empia e profonda come gli abissi si fece strada tra tutti quei rumori: “Sei al cospetto di Aphazhel!”


    VIII



    Piano piano dall’oscurità si fece strada una creatura immonda e putrescente.
    Era il Signore del Caos.
    Una massa informe e tentacolare il cui centro era tempestato da un centinaio di occhi neri che pulsavano e scrutavano, invidiosi, il cosmo, governato da quelle leggi così perfette e armoniose che Aphazhel odiava e allo stesso tempo non poteva fare a meno di adorare.

    “So perché sei qui. Io vedo, conosco ogni cosa. Guarda come mi hanno ridotto gli dei antichi! Una deforme mostruosità imprigionata in uno spazio traboccante di oscene creature vuote che mi tormentano con le loro nenie per mantenere la mia esistenza in uno stato di sonno perenne.
    Ma tu vuoi aiutarmi a uscire da qui, vero? Lo so, lo leggo nella tua mente.”

    Sentivo che iniziavo a perdere il controllo della mia volontà. Effettivamente avvertivo un cupo e disgustoso desiderio concedere la mia forza vitale a quella creatura blasfema.

    “Ohh, non succederà nulla alla tua anima se ti offrirai per il rituale. Anzi, ti unirai a me. Diventeremo una cosa sola. Non ci sarà distinzione tra la mia e la tua volontà…”
    Mi stava soggiogando. Non riuscivo quasi più a capire la differenza tra cosa era giusto e cosa sbagliato.

    “Tu non sei come quei vermi della Città del Mare. Con loro non si può ragionare. Hanno una mente chiusa. Vedi: io sono stato esiliato da entità prepotenti e bugiarde che ora governano il cosmo ed adesso mi trovo a dover sopportare questa pena raccapricciante. Tu non fare il mio stesso errore, non permettere agli abitanti di Ureika di ottenere il potere di Rahyl! Se lo consentirai loro ti schiacceranno e poi governeranno sul mondo intero, mentre la tua anima sarà gettata nella Valle delle Ombre, dove sarai costretto a vagare fino alla fine del prossimo Ciclo.”
    Era dentro la mia testa. Gli ultimi bricioli di volontà mi stavano lasciando.

    “Forza! Che aspetti! Accetti di donare la tua anima?”
    Resistevo troppo? Aphazhel incominciava a spazientirsi. Sembrava avesse paura di qualcosa. Ma io non potevo resistere un minuto di più.

    “Fallo! Altrimenti…”
    I suoi tentacoli neri si dimenavano come presi da spasmi. Sentivo la vita incominciare a lasciarmi.
    Aprii la bocca: “Io… offro… la mia anima…”
    I suoi lunghi arti si avvicinavano orribilmente a me. Ero condannato...
    “… come pegno… per scagionarti… Aphaz…”
    Ed in quel momento, proprio in quel preciso istante, quando ogni speranza sembrava essere svanita, vi fu un bagliore di luce terribile e immediato che riempì il vuoto.
    Il deforme Aphazhel si contorse e incominciò a strillare orribilmente, ritirandosi nelle tenebre più fitte.
    Una luce verde e argentata mi investì e tornai indietro alla realtà.

    Rash’el era su di me, urlava e bestemmiava contro qualcosa che emetteva una grande luce.
    Una terribile nenia si levò nell’aria. Sembrava un coro di guerra di mille creature celesti. Mai avevo udito una melodia così armoniosa e trionfale. Tutti erano incantati.
    A poco a poco che quel canto aumentava d’intensità potevo osservare che il cuore di Rahyl veniva liberato dalla presa di abnormi tentacoli neri che fuoriuscivano dallo squarcio tra le nuvole. Essi si contorcevano e stridevano.
    La figura luminosa si fece ancora più vicina e il suo canto raggiunse l’apice. Tutti erano fermi in quella piazza; tutti fissavano il punto dal quale proveniva quella luce e quella musica così bella.
    Lo squarcio nel Muro della Notte andava chiudendosi e intorno a noi centinaia e centinaia di ombre schizzavano per il cielo disperdendosi o venendo rispedite dentro alla fessura del Tughandaur.
    I tentacoli neri si erano ormai ritirati e avevano mollato la presa.
    La grande voce cupa del Signore del Caos si poté udire nell’aria per un ultima volta: vomitava urli di rabbia e bestemmie senza senso alcuno, poi scomparve.
    Il varco nel Muro della Notte venne richiuso.

    La figura di luce smise di cantare.
    Il bagliore si affievolì, rivelando l’aspetto di quell’entità che era giunta all’improvviso.
    Era Akatoph, l’Araldo.
    Si manifestò nella forma di una bambina; la sua pelle era bianca come la madreperla, i suoi capelli candidi come la neve. Sul capo giaceva una corona di piume verdi e argentate.
    I suoi occhi erano terribili e parevano bruciare di un fuoco punitivo.
    Akatoph guardò Rash’el.
    Il Sacerdote si deformò in un ammasso di materia nera urlante e scalpitante.
    Da quell’insulso grumo di ombre si potevano vedere volti e figure deformi che strillavano e cercavano di sfuggire alla presa salda di Akatoph.
    Poi Rash’el si sgretolò su se stesso, contorcendosi più volte ed emettendo un urlo agghiacciante.
    Era stato esiliato.

    L’Araldo si girò verso gli abitanti di Ureika e i seguaci della setta del Mare.
    “Giungo tra voi, alla fine di questo Periodo, nello stesso istante in cui la Città del Mare fu inabissata, non per incominciare un nuovo Ciclo, ma per rimettere ogni cosa nel proprio posto. Vi avevo concesso una seconda opportunità, ma voi avete commesso un peccato ben più grande di allora: avete cercato di corrompre e usare il potere di Rahyl per i vostri scopi. Avete fallito e avete rischiato il crollo del cosmo stesso. Per questo sarete puniti. Ureika sarà inabissata nel mare e verrà dimenticata da chiunque sia al corrente della sua esistenza.”

    Detto intonò un nuovo canto, ben più terribile di quello precedente. La sua voce assunse toni d’oltretomba e cadenze spettrali; divenne orribile alla vista.
    La terra tremò e gli edifici crollavano sopra la folla che cercava di disperdersi. Ogni tentativo di fuga era vano.
    Gli apostoli della setta si gettavano per terra. Intorno a me c'era chi vomitava sangue, chi perdeva liquido nero da occhi e naso, chi si contorceva al suolo, chi per il dolore si strappava a morsi le dita o la lingua.
    Molte delle persone tra la folla sembravano marcire istantaneamente, altri si liquefacevano.

    A me non capita nulla di tutto ciò. In compenso iniziavo a sentire la testa pesante e le vene scoppiare.
    I suoni intorno a me si ottundevano, la mia vista si faceva nera.
    Prima di perdere i sensi, vidi il terreno cedere tutt’intorno a me e venire ricoperto dalle acque.
    Poi il buio.


    Epilogo



    Mi risvegliai su una spiaggia, a Sud della Grecia.
    Quando rivenni non c’era più traccia né di Ureika, né dei suoi abitanti, né di Akatoph o dello spirito di Rahyl.
    Il libro degli Ordonauti erano scomparsi. Ah! Fanculo! Meglio che quello scritto demoniaco sia andato perduto.

    Tornai a casa; nessuno voleva credere a ciò che avevo visto. Come biasimarli? Nemmeno io crederei a me stesso, tali furono le follie che vidi quei giorni.
    Sebbene, infatti, nel mondo non vi sia più nessuno che si ricordi di Ureika, io ancora conservo la memoria di quei giorni che ritornano a tormentarmi nei sogni.
    Purtroppo avevo bisogno di parlare a qualcuno di quegli orrori, non potevo tenere tutto dentro, così fui cacciato dall’Università e in seguito portato in un centro di salute mentale.
    Ed ora mi ritrovo a bere per dimenticare.
    Dimenticare la ricorrenza blasfema che viene celebrata inconsapevolmente da miliardi e miliardi di persone il giorno di Capodanno.
    Uomini e donne che brindano con bicchieri ricolmi di spumante alla distruzione della Città del Mare e inneggiano ad un destino che in futuro anche loro dovranno subire.
    Non appena Akatoph l’Araldo, quando Rahyl segnerà l'ora propizia, tornerà.
    Oppure nel momento in cui Arphazhel... riuscirà nel suo intento blasfemo.

    Edited by RullOmbra - 7/1/2015, 00:44
     
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  2. aetherius_clark
         
     
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    Non posso dire che sia scorrevole (è molto lungo)
    Ma élite gradito dalla critica

    Inviato dal mio Galaxy S5 tramite ForumFree App

     
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    Poco scorrevole perché molto lungo e basta? O qualche altro motivo? :v:
    Grazie comunque :)
     
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  4. Stephan Albert Hawkinj
         
     
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    No, invece la scorrevolezza è proprio la forza di questo piccolo gioiello. Molto ben costruito, sebbene ridondante nelle lunghe prolessi che smorzano un po' la suggestione dell'avvenire. Piuttosto convenzionale il tema e l'intreccio; c'è da dire però che è gestito magistralmente, e ha tutte le peculiarità precipue del genere, oltre a una ricchezza di nomi accompagnata da un'agile padronanza della lingua, con una sintassi eccezionalmente uniforme e omogenea, coerente con sé stessa e temprata dall'uso : si vede che sei abituato a scrivere. L'attinenza al capodanno è d'altra parte atipica e - volendo - discutibile : per questo è indubbiamente originale e curiosa.
    Attenzione ad alcuni verbi al presente quando usi l'imperfetto, e all'uso del passato remoto. Evita alcune locuzioni troppo scontate.
    Per il resto, bravo!
     
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    Si, è una storia di stile lovecraftiano, con contaminazioni di altri autori.
    Per quanto riguarda la cura del testo purtroppo è vero, non è la migliore. L'aver scelto di scrivere un racconto così lungo verso gli ultimi giorni del contest (prima non ho potuto) - senza contare che ho cambiato diverse volte idea su come sviluppare la storia (all'inizio dovevano essere solo quattro capitoli) - mi ha costretto ad andare di fretta. Appena le votazioni saranno finite, farò una revisione del racconto per correggere ogni imperfezione.
     
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  6. Stephan Albert Hawkinj
         
     
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    Sì, in effetto l'incedere della prima parte è pasciuto e flemmatico, quasi si soffermasse pigramente su ogni dettaglio, esitando nell'andare avanti; la seconda parte liquida in fretta avvenimenti potenzialmente molto suggestivi. Ma è un buon lavoro. Lascia un po' l'amaro in bocca, questa fretta precipitosa, ma è un buon lavoro.
     
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5 replies since 5/1/2015, 21:01   515 views
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