La Mia Prima Sera

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    La realtà è talmente assurda da superare, a volte, l'immaginazione!

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    Avvicinando la testa al volante dell'auto, sollevo lo sguardo al cielo. Il sole si è già abbassato sulla linea dell'orizzonte lasciandosi alle spalle una sfumatura arancione sulle grosse nuvole cariche di pioggia che formano una cupola grigia sopra alla città.
    Accanto al tachimetro, l'orologio digitale colorato del suo anonimo e triste verde, segna le 20:28 e davanti a me si distendono chilometri e chilometri di asfalto segnato da una doppia striscia continua. Lateralmente sfrecciano cartelli, indicazioni, telefoni d'emergenza. Mi ricordo che devo telefonare a casa.
    Tamburello con le dita sul volante mentre i miei occhi indugiano sulla polvere e le cartacce adagiate sul cruscotto.
    "Pronto amore? Sono per strada, dovrei arrivare a casa ancor prima che inizi a piovere! Come? Certo, non ti preoccupare... Si. Si. Eeeh, ti dirò dai. A tra poco!"
    Con la lancetta arancione sempre più vicina a sfiorare il sessanta, proseguo spedito verso casa, dopo una noiosa e per nulla soddisfacente giornata lavorativa. Cerco di distrarmi cercando di regolare la radio su una stazione di musica rock, ma purtroppo l'antenna è malandata, per non parlare delle casse, e tutto quel che riesco a sentire sono una serie di graffi e rumori alternati da fastidiosi stridii. Off. Perdo lo sguardo sul fondo della strada e proseguo il viaggio.

    Ore 20.51.
    Con il sedere appoggiato sul caldo cofano dell'auto, compongo di nuovo il numero di casa.
    "Eeehm pronto amore? Si, sono io. No, nessun... Si in verità si, ho... Ho bucato. No, certo che no, sto bene! Non troppo vicino da casa, purtroppo. Chris sta per andare al lavoro, non posso disturbarlo. Andrò al bar qui vicino e chiamerò un taxi, all'auto ci penserò domani mattina. Certo, il tempo di chiamarlo e riparto subito, non tarderò". Clic.
    Cazzo!
    Il palmo mi brucia appena, dopo la manata che ho rifilato al cofano.
    Con il giubbotto appoggiato sulle spalle mi avvio a piedi e guardo l'auto. Non è colpa sua, poverina. Ne abbiamo passate tante, ma una ruota bucata non ci voleva, proprio non ci voleva. E ovviamente, tutto ciò deve capitare proprio il giorno seguente al trasloco della zia Kate, che doveva per forza togliere la ruota di scorta dal bagagliaio per far entrare un altro dei suoi scatoloni. Fanculo.
    Mi accomodo su un tavolo, non troppo lontano dall'uscita, e mi guardo intorno. Il locale è animato da diversi gruppi di persone che parlottano fra di loro, lubrificando le loro discussioni e i loro discorsi con della birra. Deduco che molti di loro siano usciti recentemente dal lavoro. Laggiù vedo tre persone con la stessa tuta, una salopette blu scura slacciata sul petto con evidenti macchie di cemento e vernice. Vicino al bancone un tizio mangia qualcosa da un piatto carico d'insalata e parla con il barista, che ride in maniera scomposta.
    Appoggio il giubbotto sullo schienale della sedia e scombino un po' gli oggetti sul tavolo, per far vedere che è occupato, dopodiché mi avvio verso il bancone e interrompendo i due, ordino una birra. Il barista mi serve e ritorna a parlare.
    Fuori, sotto i chiari coni di luce giallognola, i lampioni del vasto parcheggio illuminano le auto sottostanti, mentre la pioggia inizia a cadere, ticchettando rumorosamente sulle vetrate del bar e formando piccoli specchi d'acqua sporca sulla superficie irregolare dell'asfalto rovinato dal tempo e dall'usura.
    Bevo due sorsate di birra e nel frattempo compongo il numero del servizio taxi. Mentre parlo al telefono, un uomo vestito all'ultima moda di Wall Street mi si avvicina e con un movimento rapido di sopracciglia si accomoda al mio tavolo, sistemando la giacca sopra alla sua valigetta ventiquattrore di pelle nera e allentandosi la cravatta.
    Fornisco le mie coordinate all'operatore, gli dico che non ho troppa fretta ma che mi preme comunque tornare a casa, ringrazio e saluto. Clic.
    Appoggio il telefono sul tavolo e mi concentro di nuovo sulla birra. Ne bevo altre due sorsate, dimezzando il contenuto del bicchiere.
    Anche il mio vicino sta parlottando al telefono adesso, e gesticolando richiama l'attenzione del barista che, in risposta, alza un pollice nella sua direzione, per poi sventolare una bottiglia di birra a mezz'aria, sollevandola con due dita. Lo yuppie sorride e alza anche lui il pollice, per poi sventolare la mano verso di sé.

    Abbasso istintivamente la testa quando vedo la bottiglia di birra volare per aria nella mia direzione. Il barista se ne sta ancora col braccio teso come a voler comandare la traiettoria dell'oggetto, e lo fissa con un occhio si e uno no, con la bocca piegata in un ghigno e la lingua che sporge appena da un lato.
    Quando rialzo la testa, il mio sguardo si incrocia con quello dello yuppie, che stappando la bottiglia con un portachiavi colorato, mi sorride con fare compassionevole e poi la alza nella mia direzione, calandosi in gola una lunga sorsata gialla e frizzante. Bevo anche io e riprendo a fissarmi il palmo arrossato della mano, in attesa che il taxi mi venga a prendere.

    "Devi essere nuovo. Le bottiglie volanti sono all'ordine del giorno qua, figurarsi dopo le nove di sera..."
    Lo yuppie parla con le mani incrociate sul tavolo e con gli occhi guarda qualcosa che non c'è.
    "Sei qua per la birra o aspetti qualcuno?"
    Poi, guardandomi, aggiunge "...O qualcosa?" e ammicca.
    Ci sta provando con me? Rimango sul vago.
    "Ho avuto una giornataccia, sto aspettando un taxi che mi riporti a casa".
    "Eeeh le giornatacce, si, ti capisco, ti capisco". E riprende a bere la sua birra. Poi mi dice "Se stai aspettando un taxi in ritardo, potrebbe diventare una giornata grandiosa, chiusa in grande stile".
    Alza le mani e gesticola un po' con fare confuso.
    "È solamente un consiglio, lo stesso che hanno dato a me qualche settimana fa".
    "Non credo di aver capito" Ed è vero. Non ho capito niente di tutto questo, ma ne sono incuriosito.
    Lo yuppie sposta la sua sedia e si rivolge verso di me. Fissandomi, appoggia i gomiti sul tavolo e alza le braccia, sbottonandosi i polsini della camicia. Alza le maniche arrotolandosele sul gomito scoprendo due braccia ferite e contuse. Lividi, cerotti, crosticine ovunque. Poi mi fissa con sguardo penetrante.
    "Timothy. Mi chiamo Timothy" e tende una mano verso di me.
    Io distolgo lo sguardo dalle sue braccia e allungo una mano a mia volta.
    "Oh, molto piacere, sono Simon" indicando le sue braccia provo a chiedergli qualcosa ma lui riprende subito a parlare, tenendosi un braccio davanti alla faccia.
    "Bene bene. Tre minuti. Quando il barista dirà che è ora di chiusura non uscire, avvicinati a quelle persone laggiù".
    "Quelle persone laggiù? Ma cosa... Quali..."
    "Forza, a quel gruppo di lavoratori edili, oppure a quel negro laggiù... Vai in quella zona là, se questa giornata è stata veramente uno schifo. Altrimenti, fuori c'è una tettoia abbastanza larga per aspettare il taxi all'asciutto. Ci vediamo, Simon". E dopo essersi riabbottonato la camicia, scola la sua birra e si alza in direzione della toilette.

    Tre minuti... Tre minuti. E quel cazzo di taxi che fine ha fatto?
    Serro le mani e mi stringo nelle spalle, abbassando la testa. Devo solo sperare che il mio taxi arrivi prima che il barista dica a tutti che è ora di chiusura. Anche se...
    "Hey ragazzo... Non hai sentito?"
    Riconosco la voce del barista e subito alzo la testa.
    "Cosa, come...?"
    "Sei sordo? Ho urlato per ben due volte che è ora di chiusura. Devi andartene, mi dispiace".
    "Uh, ok. D'accordo, mi scusi".
    Termino la mia birra, poi mentre mi alzo indosso il giubbotto e con gli occhi indugio sugli uomini in salopette che se ne stanno tutti raccolti da una parte. Provo a dire qualcosa, ma mi fermo subito. Questa è una giornata da schifo ed è bene che si concluda con un barista barbuto che mi accompagna all'uscita del locale per poi chiudersi dentro con altri omaccioni a fare chissà cosa... Sono probabilmente finito in un ritrovo di omosessuali che praticano violento sesso sadomaso sulle piastrelle del pavimento del bar. E io che stavo per cascarci! È molto meglio la pioggia battente e la fredda aria umida nella solitudine del parcheggio buio.
    Allungo la presa sulla maniglia antipanico dell'uscita e una mano si ferma sulla mia spalla, facendo pressione.
    "Non vedo nessun taxi lì fuori. Non starai mica andando via, sta ancora piovendo".
    Tiro un sospiro e mi fermo.
    "Tranquillo Jim, il ragazzo qua ha ancora tempo da perdere in questa serata. È dei nostri".
    "È la sua prima sera?" chiede il barista, stuzzicandosi le folte basette.
    Sorridendo, Timothy annuisce e Jim si scrocchia le dita, poi aggiunge "Bene".

    Il cartello con scritto chiuso viene voltato verso l'esterno, contro la vetrata dell'ingresso del bar.
    "Io non credo di essere il benvenuto qua, sono sincero. Ho una moglie, non so se m spiego... Cioè, io..."
    Timothy mi tocca di nuovo e ponendosi un indice sotto al naso mi chiede silenzio.
    "Questo non è un club di froci. Seguimi".
    Le luci si spengono una a una e nel locale cala l'oscurità, rischiarata qua e là dalla luce fredda dei frigoriferi e delle lanterne anti-zanzare. Si apre una porta vicino al bancone, e il barista entra dentro abbassando la testa, seguito da una decina di persone. Timothy mi spinge. "Dopo di te". Lo dice sorridendo, rimettendo mano alle sue cose.
    Alla porta, il barista ci sorride con un ghigno e ci invita a entrare. Abbasso la testa e poggiando la mano sulla parete alla mia sinistra, scendo le scale di legno che mi si presentano davanti. Nell'oscurità dello scantinato del bar, sento respiri pesanti, risate, qualche voce grossa e altri rumori, ma non vedo quasi niente. C'è un'unica lampadina che scende dal soffitto e rischiara appena queste persone disposte in cerchio vicino a una parete.
    Arrivato alla fine della scalinata, Timothy, lo yuppie dalle braccia contuse, mi indica il gruppo di persone e mi dice "Avviciniamoci, c'è il discorso".
    Sono sempre più confuso.
    Dall'alto, un rumore di chiavistelli mi lascia intendere che la porta è stata chiusa. Non comprendo il motivo di tutta questa segretezza, e non nascondo che sono molto nervoso. Nel caldo umido di questo scantinato, anche la più leggera folata di aria fredda mi fa rabbrividire.
    Qualche luce intermittente rischiara a tratti la zona, delle luci al neon vecchie e polverose che faticano ad accendersi.
    Poi, quando lo scantinato è decentemente illuminato, il cerchio di persone si allarga e in mezzo a loro un tipo in camicia bianca e pantaloni eleganti scuri si alza toccandosi i capelli brizzolati e improvvisamente cala il silenzio, interrotto appena da passi di scarpe e colpi di tosse.
    "Signori" esordisce il tizio. "Benvenuti al Fight Club".
    Ecco dove sono finito. Un club clandestino di lotta.
    In piedi, padrone della scena, il tizio in divisa da impiegato continua a parlare.
    "Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club".
    È un club di lotta, clandestino e segreto.
    "Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club".
    Sono finito in un ritrovo di matti, sia maledetta la mia ruota bucata, il trasloco e il cazzo di taxi in ritardo!
    "Terza regola del Fight Club: se qualcuno grida basta, si accascia o è spompato, fine del combattimento".
    Terribile, ma almeno uno può arrendersi come e quando vuole... Non so nemmeno perché mi abbiano chiesto di assistere a tutto ciò, sicuramente è un modo alternativo per aspettare un taxi...
    "Quarta regola! Si combatte solo due per volta". Lo dice alzando due dita dalla mano, che poi torna a stringere il pugno dell'altra. Descrive piccoli semicerchi mentre cammina in mezzo alla folla, lasciando che tutti quanti lo osservino e pendano letteralmente dalle sue labbra. Paiono quasi ipnotizzati, desiderosi soltanto di un segnale che dia il via a questa sessione di lotta. Si stanno già scaldando, si muovono di fronte a me, sbottonandosi giubbotti e camicie, arrotolando orli di pantaloni su fin sopra alla caviglia nuda, ora resa visibile dall'assenza di calze e scarpe.
    "Quinta regola: un combattimento alla volta, ragazzi".
    Muovendo la testa cerca di invitare tutti alla calma, con le sopracciglia sollevate e la bocca piegata in una smorfia di divertita disapprovazione.
    Qualche risata si solleva dal fondo della sala.
    "Sesta regola: niente camicia, niente scarpe".
    Ed ecco spiegato anche perché tutti si stanno lentamente spogliando, attenti a non fare troppo rumore quando raggruppano i proprio fagotti di vestiti e li appoggiano a casaccio su qualche scatolone dimenticato.
    Battendo le mani, continua a elencare le regole.
    "Settima regola: i combattimenti durano per tutto il tempo necessario".
    Timothy dietro di me dice ad alta voce "Eh certo" e il tizio che elenca le regole sposta lo sguardo nella nostra direzione.
    Con un sorriso serio dice "Ottava e ultima regola: se questa è la vostra prima sera al Fight Club... Dovete combattere".
    Timothy mi tocca la spalla e il barista Jim, guardandomi, si stringe nelle spalle e ridendo si volta a ordinare i suoi vestiti.
    Il cerchio di persone si allarga, creando così lo spazio ideale per un combattimento tra due persone.
    Solo adesso mi accorgo che molti sguardi sono puntati su di me. Gente che non mi ha mai visto adesso mi scruta da capo a piedi, desiderosa com'è di stendere al tappeto il nuovo arrivato del Fight Club. Con ogni probabilità, davanti al locale c'è un taxista annoiato che mi sta maledicendo.
    "Timothy, io non credo di essere proprio pronto per una cosa del genere... Non si può rinunciare? In qualsiasi modo!"
    "Simon. Resta calmo. Questi che vedi non sono professionisti e noi non siamo un plotone d'esecuzione. Togliti le scarpe e entra nel cerchio, uno sfidante si farà avanti in meno di due secondi".
    "Ma io non voglio" gli dico stringendo i denti in un sussurro aggressivo.
    "No, probabilmente no..." Mi dice facendo il vago "Ma l'ottava regola dice che... Bhe, devi!" E mi spinge in mezzo alla folla.
    Preso alla sprovvista, inciampo e mi accascio con i gomiti e le ginocchia puntati a terra, nella speranza che un calcio sulle costole possa bastare a mandarmi KO e abbandonare questo schifoso bar come passeggero di un'ambulanza piuttosto che di un taxi.
    Sollevando la testa, vedo solo un cerchio di piedi nudi di fronte a me. Battendo le mani, uno dei muratori mi incita ad alzarmi. Forza! Forza! mi urla con foga, sputacchiando piccole gocce di saliva, luccicanti nell'oscurità, che si posano sulla mia faccia.
    Un po' controvoglia, mi alzo e mi guardo intorno come spaesato.
    "Jim, sei tu il prossimo".
    Con l'indice teso verso il centro dello scantinato, il tizio che pare essere il capo di questo fantomatico Fight Club, invita il barista a combattere.
    Con indosso solo un paio di pantaloni arrotolati e una canottiera scollata che mette in risalto i peli del petto, il barista Jim si presenta di fronte a me sorridendo e indicandomi i piedi dice "Ah-ah! Le scarpe devi togliertele! Sesta regola, ragazzo!"
    Pregando un dio qualsiasi, chiedo che questa storia si concluda presto.
    Mi chino e inizio a slacciare le stringhe delle mie Adidas, poi mi tolgo il giubbotto dalle spalle e lo piego, poggiandolo sopra alle scarpe che poi sposto lentamente sopra a una scatola, come a guadagnare inutili secondi di salvezza.
    Timothy mi si avvicina e mi suggerisce all'orecchio: "Non combattere contro Jim, combatti contro i tuoi nemici".
    Non capisco nemmeno questa sua frase e arricciando il labbro muovo la testa su e giù, annuendo.
    Rientro all'interno del cerchio che si è già animato di gente che sventola in aria i pugni urlando, caricando il barista Jim a rompermi il culo, altri gli raccomandano di non finire col culo a terra come l'ultima volta e lui, serio e ghignante, alza un dito medio alle sue spalle.
    Coi piedi scalzi indugio sull'irregolare pavimento senza rivestimento, e per abituare i piedi alla sensazione ruvida e pungente faccio qualche saltello sul posto, scuotendo le braccia lungo i fianchi.
    Jim, tirando i pantaloni dalle cosce, scopre i polpacci e si china in avanti distendendo i palmi delle mani davanti a sé.
    Guardandomi, dice avanti avanti avanti.
    Alzo i pugni all'altezza del petto, poi del viso. Sono indeciso, cerco di ricordare una posa da combattimento vista in qualche film o serie televisiva per darmi almeno un aspetto serio prima di rimediare due o tre cazzottoni in faccia.
    Mi avvicino con fare aggressivo a Jim, siamo vicinissimi, poco meno di un metro ci separa quando io sto per allungare un pugno nella sua direzione, ma ecco che abbassandosi, mi colpisce con un calcio alla caviglia facendomi perdere l'equilibrio, che cerco di riacquistare allargando il braccio sinistro.
    Che errore: lascio scoperto il fianco sinistro, lui lo capisce, ne approfitta e colpisce con un pugno.
    Paf.
    Le sue nocche si scontrano sul mio costato, con un colpo che rimbomba in tutta la cassa toracica causandomi una forte fitta di dolore.
    Stringendo i denti, mi porto la mano sinistra sul fianco, mentre distendo la destra in avanti come a chiedergli di fermarsi. Lui allungando un braccio, sposta il mio e un altro pugno si infrange su di me, sul petto, facendomi piegare in avanti addolorato. Mi manca il respiro, e proprio mentre sto cercando di rifiatare, ecco che arriva il colpo del KO. Jim, barista barbuto che poco meno di un'ora fa mi aveva servito con professionalità e gentilezza una birra, adesso con altrettanta gentilezza mi sbatte una gomitata sulla schiena, facendomi cadere faccia a terra. Chiudo gli occhi e lascio passare i secondi. Tutt'intorno, il rumore scomposto della folla urlante si fa più ovattato e va scomparendo, lasciandomi in testa un fastidioso ronzio penetrante, che minaccia solo di aumentare. Respirando, soffio via un batuffolo di polvere dal pavimento e tengo d'occhio i piedi di Jim, che se ne sta sempre di fronte a me.
    Mi rialzo sulle ginocchia, tossendo e respirando, con gli occhi fissi sui piedi di Jim.
    La folla chiama il suo nome e chiede il colpo del KO per il novellino.
    Girati bastardo, fai una stronzata da megalomane, voltati ed esalta il tuo pubblico...
    Il piede destro si gira di un poco, distaccandosi dall'altro, il polpaccio si rilassa e la gamba si ridistende.
    Adesso sta alzando il piede sinistro... Si sta grattando la caviglia! Adesso!
    Balzando in avanti, lo colpisco alle gambe con la forza delle spalle, subendo un contraccolpo non indifferente al collo, e siamo entrambi a terra.
    Con i piedi puntati sul pavimento, mi arrampico aggrappandomi alla sua canottiera, per poi menare due colpi a casaccio, giusto per fargli capire che non è ancora finita.
    La folla si stringe intorno a noi urlando, capiscono che l'incontro non è ancora finito, che il nuovo arrivato non è solo carne da macello. Io non sono carne da macello, cazzo!
    Con un braccio piantato sul petto di Jim, gli infrango un potente destro in pieno volto, gustandomi la sensazione della dura, ma non abbastanza, cartilagine del naso che si deforma al di sotto del mio pugno.
    Un altro pugno, e un altro ancora!
    Sostenendomi sulle sue spalle con entrambe le mani, gli sospiro in faccia e gli tiro una testata. Si, una testata.
    Un flash rapidissimo, un veloce alternarsi di chiaro-scuri e una leggera oscurità che sembra prendere il sopravvento.
    Mi alzo in piedi a fatica, barcollo e sento ancora il fastidioso ronzio nella testa, sempre più acuto.
    Infilandomi un dito in un'orecchia, cerco di riacquistare lucidità.
    Tutt'intorno a me, la gente è estremamente fogata.
    Un uomo di colore sta ridendo di gusto mentre un altro gli sbraita contro, gesticolando come un forsennato.
    Vagando in maniera confusa con lo sguardo, a casaccio, cerco d'incrociare quello di Timothy.
    Eccolo, proprio alla mia sinistra. Gli sorrido, lui contraccambia e con il dito indice si abbassa la pelle sotto all'occhio, alzando le sopracciglia e indicando con l'altra mano nella direzione opposta.
    Dall'altra parte, infatti, Jim si sta rialzando. E ringhia.
    Piegato, si passa una mano sul volto che è oramai diventato una maschera di sangue.
    Sorrido, pensando che fosse veramente finita.
    Oh bhe, io non ce la faccio più.
    Con gli occhi nascosti dal sangue, il mio avversario parte alla carica, e io non ho la forza di spostarmi. L'impatto è tremendo. Oscurità totale.

    [...]

    "Io te l'avevo detto di stare attento, Jim non è proprio il tipo che si fa mettere KO dal primo che capita".
    Timothy mi sorride, con in mano un panno imbrattato di sangue.
    Mi sforzo di parlare, ma non riesco a muovere la mascella. Avverto sotto all'orecchia destra un calore senza pari, accompagnato da potenti e frequenti pulsazioni alle tempie.
    "Eh si, ti ha dato proprio una bella botta, niente da dire... Si vede che i suoi nemici erano più forti dei tuoi".
    Guardandolo, provo a rivolgergli un'espressione interrogativa, sperando che lui la comprenda.
    Si guarda intorno, mi porge una decina di cubetti di ghiaccio avvolti in un fazzoletto e mi indica la zona ferita.
    "Vedi Simon... Il Fight Club non è il posto dove vai per massacrare una persona che non conosci, no, non funziona così".
    Gesticolando, continua a parlare "C'è dietro una grooossa filosofia, enorme! La gente non viene qui perché ha voglia di prendere a pugni un malcapitato, la gente viene qui per prendere a pugni i propri problemi, scalciare via le ansie, affondare un diretto alle frustrazioni, mollare un gancio ai problemi familiari... Dopo una lotta certi problemi perdono di volume. Te ne renderai presto conto. Ti accompagno fuori, se vuoi, tra non molto sarà l'alba".
    Strabuzzando gli occhi e farfugliando qualcosa, con la testa ancora intorpidita e la pelle delle braccia che si sta macchiando di lividi, cerco di alzarmi e fare chiarezza.
    Come è possibile che sia l'alba? Oddio, il taxi... La macchina... Lucinda a casa che mi aspetta...
    Erano circa le nove quando sono arrivato qui? O erano le otto? Poco importa, comunque vada la cena adesso è fredda. Chissà se è ancora sul tavolo.
    "È magnifica quest'atmosfera, non trovi?"
    Proprio di fronte a noi, alzandosi lentamente dalla silhouette della città, il sole ci rischiara colorandoci la pelle contusa. Il fazzoletto pieno di ghiaccio è ormai diventato uno straccetto strappato e fradicio che tengo sulla faccia solo per abitudine, e solo da qualche minuto ci siamo lasciati alle spalle il locale e i suoi pittoreschi frequentatori notturni.
    Annuisco, facendo finta di niente e pensando a qualcosa. Ripiego sulle ginocchia il giubbotto e mi alzo, salutando Timothy con una stretta di mano non troppo calorosa, ma solo perché ancora risento della lotta.
    "Se è un addio... Ti auguro buona fortuna. Altrimenti, questo è il Fight Club". Lo dice indicando con il pollice dietro di sé. "Una o due sere alla settimana vengo qui".
    Annuisco di nuovo, sforzando un sorriso nonostante il dolore.
    "Ciao Simon, la prossima volta andrà meglio, vedrai!" E mi strizza l'occhio.
    Io faccio spallucce e alzo la mano nella sua direzione. Dopodiché mi incammino, con i raggi del sole che mi riscaldano la faccia.
    Con almeno due miglia che mi separano da casa, mi lascio alle spalle il bar, il parcheggio, la macchina, la ruota bucata, i pugni e la birra, e camminando in direzione del sole lascio sfociare i pensieri nel ronzio incessante della mente.
    Il telefono con la batteria scarica... Una camminata fuori programma all'alba... I lividi causati da un barista... Il taxi in ritardo... Mia moglie che mi sbraita in faccia chiedendomi dove sono stato, perché non ho avvertito, perché, come quando, bla bla bla... Tutto quanto perde di volume.
    Ora mi sento salvo. Rinato.
    E chissà se la prossima volta non potrebbe veramente andare meglio...
     
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    Scritta bene, davvero.
    Non ho mai letto o visto Fight Club ma questa storia mi è piaciuta: mi hai incuriosito.
    Credo vada bene in AR.
     
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    Scusa il ritardo con cui rispondo! È un racconto piacevole, dico AR anche io.
     
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    Vi ringrazio a entrambi! C'è modo che questa storia venga pubblicata? Sono passati tanti giorni...
     
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    Oddio, è un po' una sorta di "spin-off" sul Fight Club, ma non è malaccio.
    Smisto in AR
     
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