Catalept

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    Metafisico: un uomo cieco che in una stanza buia cerca un cappello nero. E il cappello non c'è.

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    Per le piantagioni idroponiche, a sinistra. Per la zona residenziale, a destra. Per l'amministrazione, sempre dritto.

    I rumori della folla si fanno sempre più fastidiosi, i bisbiglii sempre più ostinati mentre procedo per la mia strada. Un forte mal di testa mi accompagna da oramai una settimana, e ogni tanto fastidiosi brividi percorrono la mia schiena.

    Lo stesso rumore dei miei passi sul pavimento in tessuto tecnico del viale mi impedisce di concentrarmi. L'aderente tuta da ufficio mi infastidisce la pelle, tanto da farmi digrignare i denti. Così, come ogni giorno.

    Camminando incrocio lo sguardo di altri impiegati dell'amministrazione, che puntualmente rivolgono gli occhi immediatamente a terra. Ad uno di essi cade la valigetta, nessuno sembra notarlo. Non mi stupisco certamente di questa situazione, ed anzi vengo preso da un forte senso di deja vù; stranamente, mi è impossibile ricondurre la memoria alla prima manifestazione di questo avvenimento.

    Fa freddo.

    Procedendo attraverso i giardini plastici la folla si dirada, quasi a lasciarmi spazio. Una sensazione di tiepido sollievo mi pervade, ma viene rapidamente sostituita da una fretta incondizionata; la puntualità è fondamentale, almeno da quanto mi è stato insegnato. La mia tuta, cambiata questa mattina come ogni giorno, è perfettamente pulita e trattata; provo ugualmente disgusto nell'osservare quel blu chiaro che tanto pare vuoto...ed insignificante.

    La mia vista è improvvisamente annebbiata. Entrando nel palazzo dell'amministrazione, nulla mi è chiaro; le forme si muovono, sfocate, distanti ed impalpabili. Difficile anche solo comprendere la direzione dei miei movimenti. Riesco, forse per la prima volta, a sentire il mio cuore battere non vedendo il resto.
    Sono spaventato.

    In un attimo, sono di nuovo sveglio, nella mia postazione. Non ho idea di cosa sia successo, e per qualche strano motivo comincio a sudare.
    Il doppio dello stesso, identico lavoro di ieri mi attende oggi. E come feci l'altroieri, così succerà oggi. Ugualmente.

    Per quale motivo siamo costretti al lavoro? Siamo forse troppo stupidi per avere pieno controllo di noi stessi?

    Una strana sensazione di disagio mi pervade. I brividi lungo la schiena sono più forti, le mani tremano all'improvviso. Un insopportabile sudore freddo imperla la mia fronte così come il resto del corpo, mentre le mie pupille si dilatano all'improvviso.
    Apro la bocca per poter dire qualcosa, ma ne esce solo un rivolo di saliva unito ad un gemito soffocato.

    Siamo macchine.
    Con un calcio, mi spingo per terra in preda alle convulsioni. In un istante, tutto il resto si offusca, come un'altra dimensione: mi è data l'occasione di fare ciò che ho sempre voluto fare.
    Le convulsioni terminano. Vengo rialzato a fatica da una squadra di soccorso, mentre gli altri presenti, come di ghiaccio, continuano il loro lavoro; così vive l'uomo. L'indifferenza è la chiave del successo.

    Con un violento strattone riesco a separarmi dalla morsa. Le due indefinite figure assumono ora un'aria ostile, troneggiando davanti a me con sguardo fiero. Attraverso i loro lucenti elmetti non vedo nulla, se non fredda disapprovazione.
    Ci sto riuscendo.

    Le mie mani dolgono, dalla furia dei miei avventati attacchi privi di successo; eppure, non è questo che voglio ottenere.

    Luce.
    Una stanza di rumori, un tempo indeterminato.
    Sei dovunque, ma nel presente.
    E sparisci, mano a mano, come la tua personalità in quelle enormi stanze.


    Annientato, mi è rivolto un ultimo sguardo. Una porta si apre, facendo passare buio o luce che non riesco a discernere.
    Nulla.

    Il mio angelo salvatore scompare, retrocedendo lentamente. Mi ha lasciato qualcosa.
    Ammirando l'oggetto davanti a me, comprendo di aver avuto successo.
    Un lieve sorriso si dipinge sulla mia faccia, spezzata dal pianto ormai sensato.

    Rimirando l'oggetto, simbolo della speranza fra le mie mani, ripenso a tutto ciò che ho passato; non ricordo nulla.
    Eppure, alla fine sono felice. Mi è stato dato tutto, e l'ho sfruttato.
    In un attimo, capisco di dovermi affrettare.

    I miei pensieri sono volti al nulla più assoluto, e non me ne dolgo.



    Inghiotto la pillola.

    cvr-metropolis-skyscrapers

    Edited by »VShade - 2/1/2014, 15:54
     
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    Mi dispiace di averlo letto così in ritardo :sisi: mi è piaciuto molto.
     
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  4. Stephan Albert Hawkinj
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    Oddio Tom non pensavo scrivessi così bene mannaggiad.
    Azzeccatissima Hallways of Always degli Ulver, tratta da un album che è uno dei più eloquenti riguardo al tema della spersonalzzazione urbana del singolo di fronte alla coralità stereotipata di una società industriale e prodotta in serie.
    La riflessione sull'asetticità del successo, la discreta noncuranza del prossimo, la meccanicità del trionfo, l'inespressività della gloria è rappresentata ancora una volta in maniera molto personale e soggettiva. Leggendola l'ho trovata, fondamentalmente, vissuta in prima persona. È attraverso il tuo sguardo di soggetto pensante e - perdonami il termine che a quest'ora non mi vengono le parole - empatico che constati la tua assoluta impotenza dinnanzi a tanta semplificazione algebrica della personalità. La tua incapacità di agire ("Apro la bocca per poter dire qualcosa, ma ne esce solo un rivolo di saliva unito ad un gemito soffocato.") è soffocata dal conforto del
     
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3 replies since 2/1/2014, 15:35   124 views
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