Il Fascino della Neve

Algernon Blackwood

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  1. Indigo.
         
     
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    Hibbert, sempre consapevole dell'esistenza di due mondi, in questo villaggio di montagna ne vedeva tre. Il villaggio era adagiato sui pendii delle Alpi di Valais, e qui aveva preso una stanza nel piccolo Ufficio Postale per poter scrivere in pace il suo libro. Allo stesso tempo praticava gli sport invernali e, quando voleva, trovava compagnia negli alberghi.
    I tre mondi che si incontravano e si confondevano li, apparivano molto evidenti alla sua indole fantasiosa, ma un'altra mente, meno intuitiva, probabilmente non li avrebbe scorti con altrettanta chiarezza. C'era il mondo dei turisti inglesi, educati, con una certa istruzione, il mondo a cui apparteneva per nascita; veniva poi il mondo dei contadini, da cui si sentiva attirato perché ne amava la vita semplice e dura; il terzo era quello che poteva chiamare soltanto il mondo della Natura. A quest'ultimo, in virtù di un'immaginazione intensamente poetica e di un forte istinto pagano che sentiva nel suo stesso sangue, credeva che appartenesse la parte più intima del suo essere. Negli altri mondi capitava come fosse in visita. In questo, nell'anima della Natura, si svolgeva la sua vera vita.
    Naturalmente, tra questi mondi esisteva un potenziale conflitto. Ogni domenica, sulla pista di pattinaggio, i turisti guardavano gli abitanti del villaggio come se fossero degli intrusi; in chiesa le facce dei contadini dicevano chiaramente: «Perché venite? Noi siamo qui per la fede; voi invece per guardarvi intorno e bisbigliare!»
    In realtà nessuno dei due mondi accettava l'altro. E neanche la Natura accettava i turisti, perché approfittava del loro minimo errore, ed in effetti, anche del mondo contadino "accettava" solo quelli sufficientemente forti e coraggiosi da invadere i suoi selvaggi domini e riuscire a proteggere abilmente se stessi da svariate forme di morte.
    Hibbert era profondamente conscio di questo conflitto potenziale e della conseguente mancanza di armonia. Se ne sentiva estraneo, eppure ne era coinvolto suo malgrado e tirato in tre diverse direzioni in quanto, pur appartenendo completamente ad uno solo, era legato agli altri due da una parte della sua personalità. Cresceva in lui lo sforzo - o almeno il desiderio - costante e segreto di armonizzarli e decidere a quale dovesse definitivamente appartenere per vivere. Il tentativo, naturalmente, era in larga parte inconscio. Si trattava del naturale istinto di una natura dalla fantasia esuberante alla ricerca di un equilibrio, tale da tranquillizzare la mente e permettere al cervello di lavorare liberamente e con buoni risultati.
    Tra gli ospiti, nessuno suscitava in lui un interesse particolare. Gli uomini erano simpatici ma non si distinguevano in nessun modo l'uno dall'altro: erano insegnanti atletici, medici che si prendevano una breve vacanza, tutte brave persone. Quanto alle donne, la varietà era la stessa: c'era quella intelligente, la dissoluta, quella che faceva la stupida, le donne "che capivano", ed il solito gruppo di ragazze allegramente farfalline e "spregiudicate". E Hibbert, con quarant'anni di esperienza alle spalle, capiva tutti e sapeva trattare con loro; appartenevano a tipi ben definiti, "predigeriti", che sono gli stessi in tutto il mondo, e lui conosceva il mondo già da lungo tempo.
    Ma non somigliava a nessuno di loro. La sua natura era troppo molteplice per sottoscrivere l'insieme di parole d'ordine di una classe. E, dal momento che piaceva a tutti, e tutti lo sentivano in qualche modo estraneo - come una sorta di spettatore -, tutti cercavano di attirarne l'attenzione.
    In un certo senso i tre mondi, gli abitanti del posto, i turisti, la Natura, combattevano per conquistarlo...
    Fu così che cominciò il singolare conflitto per impadronirsi dell'anima di Hibbert. La sua stessa anima, naturalmente, costituiva il campo di battaglia. Né i contadini né i turisti pensavano di combattere per qualcosa. E la Natura, dicono, è cieca e senza coscienza.
    Possiamo tralasciare l'attacco mosso dai contadini, perché è chiaro che non aveva alcuna possibilità di successo. Il mondo dei turisti, ad ogni modo, tentò di sottometterlo con la galanteria. Ma le serate in albergo, quando non si organizzavano danze, erano... inglesi. Si piazzava su un trono la fantasia provinciale e la si adorava con le più stupide convenzioni possibili. Di solito Hibbert si ritirava presto nella sua stanza a lavorare.
    «È stato un errore da parte mia aver realizzato che esiste una lotta» pensò mentre, verso mezzanotte, dopo uno dei soliti balli, si trascinava nella neve per tornare alla sua stanza. «Sarebbe stato meglio tenersi fuori e lavorare. Meglio,» aggiunse, voltandosi a guardare la silenziosa stradina che conduceva alla torre della chiesa, «e ... più sicuro».
    L'aggettivo gli sfuggì prima che avesse il tempo di accorgersene. Si girò con un movimento involontario e si guardò intorno.
    Sapeva perfettamente che cosa significava il pensiero che l'istinto gli aveva dettato. Capiva, senza tuttavia saperlo esprimere con piena consapevolezza, quale significato fosse riposto nella scelta dell'aggettivo. Perché, se avesse ignorato l'esistenza di questo conflitto, sarebbe rimasto fuori dal campo di battaglia. Invece ora era entrato in lizza anche lui. Ora la battaglia per la sua anima doveva avere un esito. E sapeva che l'attrazione esercitata su di lui dalla Natura era più forte di tutte le altre messe insieme: più forte dell'amore, della baldoria, del piacere, persino più forte della passione per la ricerca. Aveva sempre avuto paura di lasciarsi andare. Anche mentre la adorava, il suo animo pagano ne temeva i terribili poteri di stregoneria.
    Il piccolo villaggio era già addormentato. Il mondo era coperto di neve. I tetti degli chalet brillavano sotto i raggi della luna, e ombre nere come la pece si addensavano contro le mura della chiesa. Il suo sguardo indugiò per un attimo sulla torre di pietra, con la croce coperta di ghiaccio che indicava il cielo: poi vagò lontano, a centinaia di metri, sulle possenti montagne che sfioravano le stelle. I picchi svettanti si alzavano come una foresta sul villaggio adagiato nel sonno e sfidavano la notte ed i cieli. Gli facevano cenno. Era qualcosa nascosta dai deserti di neve, dal cuore della notte, da quella silenziosa magnificenza, dai grandi abissi del buio in ascolto, qualcosa a metà tra l'orrore e la meraviglia, che scivolava dalle vastità invernali in fondo al suo animo... e lo chiamava. Dolcemente, senza parole o pensieri che la sua mente potesse afferrare, lo avvolgeva nel suo incantesimo. Dita di neve toccavano la superficie del suo cuore. La potente e tranquilla maestà di quella notte invernale lo sgomentava...
    Dopo aver armeggiato per un attimo con la pesante chiave, riuscì ad en-trare e salì le scale per raggiungere la camera da letto. Due pensieri lo accompagnavano: evidentemente del tutto ordinari e superficiali:
    «Che sciocchi questi contadini a dormire in una notte simile!» E l'altro: «Questi balli mi stancano. Non ci andrò mai più. Al mattino non riesco a lavorare».
    Così, in un solo istante, furono neutralizzate le pretese degli abitanti del luogo e dei turisti su di lui.
    Il fragore della battaglia disturbò in parte i suoi sogni. La Natura aveva mandato all'assalto la Bellezza della Notte e vinto il primo scontro. Gli altri fuggivano, sconfitti e dispersi.
    «Non torni al suo squallido ufficio postale. Ceneremo nella mia stanza, con qualcosa di caldo. Si unisca a noi, Su, venga!»
    C'era stato un carnevale sul ghiaccio, e l'ultimo gruppo, che scendeva dal pendio innevato della montagna verso l'albergo, lo chiamava. Le lanterne cinesi mandavano fumo e crepitavano; la banda era già scomparsa da molto. Il vento era pungente e la luna si affacciava solo per pochi istanti tra le nuvole che correvano alte nel cielo. Dal capannone in cui la gente si cambiava i pattini con gli scarponi da neve, urlò qualcosa a proposito del fatto che "stava arrivando", ma non ebbe nessuna risposta. Le ombre mobili di quelli che aveva chiamato già si profilavano in lontananza, contro il buio del villaggio. Le voci si spensero. Si udì uno sbattere di porte. Hibbert si ritrovò solo sulla pista di pattinaggio.
    E fu allora, all'improvviso, che ebbe l'impulso... di rimanere a pattinare da solo. Lo opprimeva il pensiero dell'aria soffocante della stanza d'albergo e di quella gente noiosa, con i suoi scherzi stupidi e le sue risate. Provò il desiderio violento di essere solo con la notte, di godere tutto solo della sua meraviglia sotto le stelle che brillavano silenziose sul ghiaccio. Non era ancora mezzanotte, ed avrebbe potuto pattinare per un'altra mezz'ora.
    Gli altri, se mai avessero notato la sua assenza, avrebbero pensato semplicemente che avesse cambiato idea e fosse andato a dormire.
    Fu un impulso, sì, e non un impulso naturale; persino all'ora lo colpì l'idea che nascondesse qualcos'altro. Aveva la vaga e misteriosa sensazione, più di un invito ma certamente meno di un comando, di dover rimanere lì, quasi come se avesse dimenticato, trascurato o lasciato incompiuta qualcosa. Le indoli fantasiose agiscono spesso in un modo simile, e l'impulso è sempre debolezza. Perché un tale, sconsiderato aprire le porte ad un'azione avventata, può provocare nello stesso tempo un'invasione di altre forze che forse sono semplicemente in attesa dell'occasione a loro favorevole!
    Colse un vago avvertimento, ma se ne liberò come di un'assurdità e, un attimo dopo, volteggiava sul ghiaccio levigato, producendosi in deliziose curve e giravolte sotto la luna. Non doveva temere urti. Poteva sfruttare lo spazio e la velocità come voleva. Le ombre delle montagne sovrastanti cadevano sulla pista, ed un vento gelido soffiava dalle foreste, dove la neve era alta tre metri. Le luci dell'albergo lampeggiarono e si spensero. Il villaggio dormiva. L'alta rete metallica non riusciva a tenere lontana la meraviglia della notte d'inverno che cresceva intorno a lui come una presenza. Continuò a pattinare, dimentico della stanchezza, sentendo scorrere il sangue nelle vene con un piacere incredibile e liberatorio.
    Poi, a metà di una giravolta, vide una figura scivolare silenziosa dietro la rete metallica. Lo guardava. Con un movimento brusco che per poco non gli fece perdere l'equilibrio - perché quell'arrivo improvviso era assolutamente inaspettato - si fermò e la fissò. Per quanto la luce fosse fioca, scoprì che si trattava di una donna che cercava un passaggio nella rete per en-trare. Contro lo sfondo bianco dei campi ricoperti di neve, la vide superare con passi silenziosi un mucchio di neve. Era alta, sottile e aggraziata; riusciva ad accorgersene persino al buio. E allora, naturalmente, comprese. Era un'altra pattinatrice, avventurosa come lui, sgusciata di nascosto dall'albergo o da uno chalet, in cerca degli spazi aperti. Subito, facendole cenno con una mano, fece un rapido giro e si portò pattinando alla piccola entrata dall'altra parte.
    Ma, prima che potesse raggiungerla, udì un rumore sul ghiaccio alle sue spalle e, con un'esclamazione di stupore che non riuscì a trattenere, si voltò e la vide scivolare sulla pista al suo fianco. In qualche modo aveva trovato la strada per entrare.
    Di regola, Hibbert era un formalista, ed in questi posti liberi ed aperti forse lo era in modo particolare. Non tentava mai un approccio, a meno che il terreno non fosse stato preparato da un qualche tipo di presentazione. Ma per due che pattinano insieme nella semi-oscurità, senza dire una parola e costretti di tanto in tanto a toccarsi, la cosa era troppo assurda per pensarci. Di conseguenza, si tolse il cappello e parlò. Gli sembra di non ricordare ciò che le disse in realtà, né la risposta della ragazza, tranne il fatto che gli disse con un forte accento inglese, qualcosa a proposito del far figure a mezzanotte su una pista nuova. Era del tutto normale, e giusto. Indossava degli abiti grigi, ma senza i guanti lunghi ed il maglione tradizionale, perché aveva le mani nude e, pattinando con lei, si stupì, anzi quasi si sbalordì, nel sentirle tanto asciutte e gelate.
    Ed era una compagna deliziosa per pattinare: agile, sicura e leggera, veloce come un uomo ma con la scioltezza di un bambino, sinuosa e ferma nello stesso tempo. Si stupì della sua destrezza e, quando le chiese dove avesse imparato, lei mormorò - sentì il suo respiro sull'orecchio e più tardi ricordò che era stranamente freddo - di non poterlo dire, perché le sembrava di essere abituata al ghiaccio da sempre.
    Ma non vedeva bene il suo viso. Una stola di pelliccia bianca le copriva il collo fino alle orecchie, ed aveva un berretto calato sugli occhi. Vide solo che era giovane. Non riuscì nemmeno a sapere quale fosse il suo albergo o il suo chalet perché, quando glielo chiese, indicò vagamente un punto sui pendii.
    «Proprio laggiù» disse, riprendendogli in fretta la mano.
    Non insisté; era sicuro che desiderasse tenere nascosta la sua scappatella. Ed il tocco della sua mano gli diede i brividi come nient'altro che potesse ricordare; anche attraverso il guanto pesante ne sentì la fredda e delicata leggerezza.
    Le nuvole si addensavano sulle montagne. Il buio si infittì. Chiacchieravano molto poco, e non sempre pattinavano insieme. Spesso si separavano, facendo delle giravolte da soli, negli angoli, ma ritornavano sempre insieme al centro della pista; e quando lei lo lasciava così, Hibbert si accorgeva di... sì, di sentire la sua mancanza. Trovava una soddisfazione particolare, quasi una fascinazione, nel pattinare al suo fianco. Era quasi un'avventura: due sconosciuti, soli, con il ghiaccio, la neve e la notte!
    Prima che andassero via, il vecchio campanile della chiesa aveva suonato la mezzanotte da un pezzo. Lei diede il segnale, ed Hibbert pattinò rapi-do verso il capannone, con l'intenzione di trovare un posto per aiutarla a togliersi i pattini. Ma quando si girò, lei se ne era già andata. Vide scivolare sulla neve la sua figura sottile... e facendo in fretta il giro della pista per l'ultima volta, cercò invano l'apertura che lei aveva usato per ben due volte in quel modo strano.
    «È proprio un mistero!» pensò, riferendosi alla rete metallica. «Deve averla sollevata ed essere passata di sotto...!»
    Chiedendosi come diavolo ci fosse riuscita, come diavolo avesse potuto sentirsi così libero con lei, e chi diavolo fosse, salì il pendio ripido che portava all'Ufficio Postale e andò a letto, mentre la promessa che lei gli aveva fatto di ritornare un'altra notte suonava ancora deliziosamente nelle sue orecchie. Ed i pensieri e le sensazioni che gli tenevano compagnia erano piuttosto curiosi. Più di tutto, era strana la vaga sensazione che aveva di averla già conosciuta, incontrata da qualche parte, e... che lei lo conoscesse. Perché nella sua voce, bassa, leggera, una vocina come un soffio di vento, tenera e consolante nella sua tranquilla freddezza, c'era un vago ricordo di altre due voci che aveva conosciuto e che erano da lungo tempo scomparse: quella della donna che aveva amato, e... la voce di sua madre.
    Ma questa volta i suoi sogni non furono disturbati da alcun fragore di battaglia. Piuttosto era consapevole di qualcosa di freddo e aderente, che lo faceva pensare a fiocchi di neve che si avvolgessero lentamente intorno ai suoi piedi, imprigionandolo. La neve turbinava attraverso la stessa tessitura della sua mente; la neve, che cadeva senza rumore, di cui ogni fiocco è così minuscolo e leggero che non potreste mai stabilire dove si posa, e la cui massa tuttavia poteva travolgere interi villaggi, avvolgendoli in una rete gelida, feroce, isolante, di milioni di morbidi tocchi.
    Al mattino Hibbert realizzò che forse aveva fatto una cosa sciocca. Glielo faceva pensare il sole splendente in cui era immersa la vallata; e la vista del tavolo da lavoro, con la macchina da scrivere, i libri, i fogli ed il resto, lo convinse ancora di più. Pattinare solo con una ragazza, a mezzanotte - non importava che la situazione si fosse creata innocentemente - non era saggio, non era bello: specialmente per lei. In questi piccoli ritrovi invernali il pettegolezzo era peggiore che in una città di provincia. Sperò che nessuno li avesse visti. Fortunatamente la notte era stata molto buia. Molto probabilmente nessuno aveva udito il rumore dei pattini.
    Dopo aver deciso che in futuro sarebbe stato più attento, si immerse nel lavoro e cercò di allontanare la faccenda dalla sua mente.
    Ma quando si interrompeva per riposare, il ricordo tornava insistentemente a tormentarlo. Quando sciava, passeggiava o ballava di sera, e specialmente quando pattinava sulla piccola pista, si accorgeva che gli occhi della mente erano sempre alla ricerca della misteriosa compagna di quella notte. Cento volte immaginò di vederla, ma era sempre un inganno della vista. Non conosceva il suo viso, ma difficilmente avrebbe potuto non ri-conoscere quella figura. Eppure in nessun luogo scorse tra le altre persone quella esile e giovane creatura che aveva pattinato sola con lui sotto le stelle. Cercò invano. Neppure le domande rivolte agli occupanti degli chalet privati portarono alcun risultato. L'aveva perduta. Ma la cosa strana era la sua sicurezza che fosse vicina, da qualche parte; sapeva che non era andata via davvero. Mentre ogni giorno arrivava e partiva gente, non gli venne mai in mente che lei fosse partita. Al contrario, era convinto che si sareb-bero incontrati ancora.
    Non lo ammise mai chiaramente con sé stesso. Forse il desiderio era il solo responsabile di quella convinzione. E, quando l'avrebbe incontrato, si sarebbe posto il problema di come parlarle e fare conoscenza. E se lei non l'avesse riconosciuto? Sarebbe stato imbarazzante. Arrivò quasi a temere un incontro, per quanto «temere» sia naturalmente una parola troppo forte per descrivere un'emozione in bilico tra l'ansia e la gioia.
    Intanto la stagione era al culmine. Hibbert si sentiva in perfetta salute, lavorava molto, sciava, pattinava, e di sera spesso ballava, a dispetto della sua decisione. Questi balli erano, ad ogni modo, una sorta di resa inconscia; in realtà, significavano che sperava di incontrarla tra le coppie che volteggiavano nella sala. Senza ammetterlo apertamente con sé stesso, continuava a cercarla; ed il mondo dell'albergo intanto, credendo di aver vinto, lo stuzzicava e lo burlava. Accampava sempre scuse, ma per tutto il tempo guardava, cercava e... attendeva.
    Per parecchi giorni il cielo fu terso e limpido, il freddo pungente, ed o-gni cosa fresca e scintillante nel sole; ma non c'era traccia di neve fresca, e gli sciatori cominciarono a mugugnare. Sulle montagne c'era una crosta di ghiaccio che rendeva pericolose le «discese»; desideravano la neve gelida, asciutta e farinosa che permette la velocità, facilita il mantenimento della direzione e rende le cadute meno gravi. Ma per dieci interi giorni il vento penetrante dell'est non mostrò di voler cambiare. Poi, all'improvviso, giun-se il tocco di un'aria più dolce, e i metereopatici cominciarono le loro predizioni.
    Hibbert, che era molto sensibile al minimo cambiamento della terra o del cielo, forse fu il primo ad accorgersene. Solo, non fece profezie. Con ogni nervo del suo corpo, sentiva che nell'aria si stava accumulando umidità e che presto sarebbe caduta la neve. Perché reagiva alle condizioni della Natura come un barometro di precisione.
    E questa volta la conoscenza portò nel suo cuore una misteriosa, imprevedibile emozione, di cui era difficile spiegare l'origine - un inspiegabile senso di inquietudine e di gioia tormentosa. Perché dietro, o piuttosto at-traverso di essa, correva una vaga allegrezza che si ricollegava lontana-mente a quel brivido delizioso, a quel sottile «timore» che lo sconcertava quando pensava al prossimo incontro con la compagna di pattinaggio di quella notte. Questa strana relazione si nascondeva dietro le parole, al di là di ogni possibilità di espressione; ma in qualche modo la ragazza e la neve correvano in coppia attraverso la sua fantasia.
    Forse negli scrittori dotati di immaginazione, più che in ogni altro essere umano, il minimo cambiamento di stato d'animo risulta evidente. Il lavoro di Hibbert rivelava il sottile mutamento di emozioni avvenuto nella sua anima. Non che i suoi scritti ne risentissero, ma ne erano lievemente alterati, come quei cambiamenti che avvengono impercettibilmente nel cielo, nel mare o nel paesaggio con il passare dal pomeriggio alla sera. Una eccitazione inconscia cominciò a lottare per esprimersi... e, conoscendo gli effetti ineguali che questi stati d'animo producevano sul suo lavoro, mise da parte la penna e si mise a leggere.
    Nel frattempo il sole smise di splendere, il cielo si copri lentamente; nel crepuscolo le cime delle montagne apparvero singolarmente vicine e aguzze; la vallata lontana si stagliava in una prospettiva assurdamente ravvicinata.
    L'umidità aumentò, avvicinandosi rapidamente al punto di saturazione in cui doveva trasformarsi in neve. Hibbert guardava e aspettava.
    Ed al mattino il mondo giaceva sotto il suo fresco tappeto bianco. Nevicò fitto fino a mezzogiorno, pesantemente, incessantemente, in modo soffocante. Poi il cielo si schiarì, il sole uscì di nuovo in tutto il suo splendore, il vento cambiò direzione verso est, ed il gelo scese sulle montagne, stringendole nella morsa dei suoi denti aguzzi, la temperatura ebbe un calo tremendo, ma gli sciatori erano in festa.
    Il giorno dopo «le discese» sarebbero state veloci, perfette. Già la massa di neve si stava stabilizzando, e la superficie gelava in quei cristalli friabili, simili a muschio, che fanno correre gli sci come ali di uccello attraverso l'aria.
    Quella notte il piccolo mondo dell'albergo era eccitato, in primo luogo perché era caduta la neve fresca. E Hibbert andò ... si sentì costretto ad andare; non si mascherò, ma voleva parlare delle piste e dello sci con altri uomini e nello stesso tempo...
    Ah, ecco la verità, la necessità più profonda da cui era mosso. Perché il misterioso rapporto tra la sconosciuta e la neve si ripresentò, al di là di ogni spiegazione logica, come prima, ma vitale e insistente. Un istinto segreto della sua anima pagana - sa il Cielo come lo esprimesse a sé stesso, se mai lo fece - gli bisbigliava che con la neve la ragazza si sarebbe fatta vedere, sarebbe uscita dal suo nascondiglio e forse lo avrebbe cercato.
    Niente poteva garantirgli quella sicurezza. Stando in piedi di fronte al piccolo specchio, rise, si puntò i baffi, cercò di stringere per bene il nodo della cravatta, e si sistemò la giacca in modo che cadesse senza una piega. I suoi occhi scuri brillavano. «Sembro più giovane del solito» pensò. Era insolito, persino significativo, per un uomo che non aveva nessuna vanità riguardo al suo aspetto e certamente non pensava mai alla sua età né si preoccupava di apparire più giovane di quel che era. Gli affari di cuore, con un'unica, tumultuosa eccezione che non aveva reso possibili infiammazioni successive, non l'avevano mai tormentato. Le energie dell'anima e della mente che non consumava nel lavoro e negli impegni ordinari, erano tutte dedicate alla Natura. I luoghi deserti e selvaggi della terra erano ciò che amava; la notte, la bellezza delle stelle, e la neve. E quella sera sentiva che lo attiravano irresistibilmente. La natura selvaggia faceva fremere il suo sangue, accelerava i battiti del suo cuore, risvegliava desideri e passioni. Ma era soprattutto la neve. La neve frullava dolcemente attraverso i suoi pensieri come un sogno candido e seducente... Perché la neve era caduta; e sembrava che in qualche modo avesse portato con sé Lei - nella sua mente.
    E tuttavia rimaneva davanti a quello specchio, aggiustandosi la giacca e la cravatta una dozzina di volte, come se la cosa avesse un'importanza capitale. «Che cosa mi sta succedendo?» pensò. Poi, ridendo, prima di lasciare la stanza, si voltò per riordinare i suoi documenti. Prese dallo scaffale la custodia di marocchino verde che li conteneva e la poggiò sul tavolo. Vi pose accanto il biglietto da visita con l'indirizzo di suo fratello a Londra, «in caso di necessità.»
    Andando verso l'Hotel, si chiese perché l'avesse fatto, perché, pur essendo pieno di immaginazione, non era il tipo di persona che ha i presentimenti. Le sue sensazioni erano forti, ma sempre tenute sotto controllo.
    «È una specie di avvertimento» pensò, sorridendo. Sentendo il morso dell'aria gelida, si strinse intorno alla gola il cappotto pesante. «Di questi avvertimenti si legge nei racconti, qualche volta...!.»
    Provava una deliziosa sensazione di felicità. Sul profilo della collina sorgeva la luna, illuminando la valle. La vide luccicare argentea su quel mondo di neve. La neve copriva tutto. Annullava i rumori e le distanze. Nascondeva le case, le strade e gli esseri umani. Cancellava... la vita.
    La hall era piena di luce e di trambusto; stava già arrivando la gente da altri alberghi e chalet, con i costumi nascosti sotto una serie di strati per difendersi dal freddo. Qua e là gruppi di uomini in abito da sera fumavano e chiacchieravano della «neve» e dello «sci». L'orchestrina stava accordando gli strumenti. Il brusio del mondo dell'albergo gli sembrava giungere da una grande distanza. Ritornando a casa dal café, gli abitanti del villaggio si fermavano a dare un'occhiata presso le grandi finestre della veranda.
    Hibbert pensò ridendo al conflitto che immaginava di solito. Rise perché all'improvviso gli appariva irreale. Ormai apparteneva troppo profondamente alla Natura ed alle montagne, e specialmente a quei pendii deserti dove ora si stendeva le neve fresca, soffice e fitta. Il potere della neve appena caduta lo aveva catturato senza sforzi. Fuori, sulle cime solitarie illuminate dalla luna, era pronta la neve - masse e masse di neve - fredda, soffice, invitante. Ardeva di desiderio. Lei lo aspettava. Pensò al piacere spaventoso di sciare al chiaro di luna...
    Ci pensò così, fu la visione che balenò per un istante mentre, fumando, chiacchierava con altri uomini di sci.
    E, misteriosamente fuso con il potere della neve, anche il potere della ragazza catturò il suo intimo. Non riusciva a liberare la mente dalla presenza ossessiva di entrambe.
    Ricordò quello strano impulso a pattinare di dieci giorni prima, l'impulso che gliel'aveva fatta incontrare. Era piuttosto strano che una mente, per quanto fantasiosa, subisse l'influenza di una simile malia; ed Hibbert era consapevole del suo disorientamento interiore, eppure provava una curiosa felicità ad abbandonarvisi. La parte ribelle del suo animo, che lo trascinava verso antiche credenze pagane, aveva assunto il comando. Si lasciò conquistare con una sorta di piacere sensuale.
    E quella notte la neve sembrava nei pensieri di tutti. Ne parlavano le coppie che ballavano; i proprietari degli alberghi si congratulavano l'uno con l'altro; voleva dire sport eccellente e turisti soddisfatti. Tutti progettavano gite ed escursioni, chiacchierando di discese e di telemark, di distanze e di velocità, di pendenze, di crosta, di ghiaccio.
    Nella stessa aria pulsavano entusiasmo ed energia; tutti erano attivi, eccitati, decisi, ed irradiavano correnti di vitalità persino nell'atmosfera soffocante dell'affollata sala da ballo. E ne era responsabile la neve; la neve aveva prodotto tutto questo; questa scarica di energia spumeggiante e impaziente era dovuta principalmente alla... Neve.
    Ma nella mente di Hibbert, per un'istantanea alchimia dei suoi ardenti desideri pagani, questa energia si trasformò. Divenne rarefatta, luccicando in correnti bianche e cristalline di ansia appassionata che trasferì, per una sorta di scarica elettrica dell'immaginazione, nella personalità della ragazza: la Ragazza della Neve.
    Da qualche parte lei lo attendeva, sperava che arrivasse, lo chiamava dolcemente da quelle montagne immerse nel chiaro di luna. Ricordò il tocco di quella mano asciutta e gelata; il soffio lieve e ghiacciato del suo re-spiro sulla guancia; la sua presenza silenziosa e leggera; il modo in cui era arrivata e poi era scomparsa: come un fiocco di neve che il vento solleva e fa scivolare sul pendio di una montagna. Lei, come lui, apparteneva agli spazi aperti. Gli sembrò di udire la sua vocina ventosa che arrivava a lui come un soffio attraverso i rami carichi di neve degli alberi e lo chiamava per nome... Quella voce insistente che penetrava fino al centro della sua vita, come una volta, tanto tempo prima, avevano fatto altre voci...
    Ma tra le coppie in costume non riusciva a scorgere la sua figura sottile. Ballava con l'una e con l'altra, distratto e assente, un compagno pessimo, come scoprivano tutte, con lo sguardo costantemente rivolto alla porta ed alle finestre, nella speranza di intravedere il volto desiderato, la visione che non arrivava... alla fine, anche senza più speranza. Perché la sala si svuotava; le persone andavano via a gruppi per ritornare alle case o agli chalet; l'orchestrina continuava stancamente a suonare; la gente sedeva ai tavolini bevendo limonata; gli uomini si asciugavano la fronte; tutti erano pronti per andare a dormire.
    La mezzanotte era vicina. Hibbert, passando attraverso la hall per andare a prendere il cappotto e gli scarponi da neve, vide degli uomini nella saletta antistante la "Stanza dello sport", intenti ad ungere di grasso i loro sci, per risparmiare tempo l'indomani mattina. Accanto alle porte battenti della cucina venivano allineate colazioni al sacco.
    Sospirò. Accendendo la sigaretta che un amico gli offriva, diede una risposta confusa a qualcuno che gli chiedeva se sarebbe stato della compa-gnia l'indomani. Sembrò che non avesse ben capito. Passò nel vestibolo esterno tra le due porte di vetro, ed uscì nella notte.
    L'uomo che gli aveva rivolto la domanda lo guardò allontanarsi, ed un'espressione preoccupata attraversò per un attimo i suoi occhi.
    «Non credo che ti abbia sentito» disse un altro, ridendo. «Ad Hibbert devi urlare, ha la mente occupata dal suo lavoro.»
    «Lavora troppo,» notò il primo, «ed ha la testa piena di sogni e di idee strane.»
    Ma il silenzio di Hibbert non era scortesia. Non si era accorto dell'invito, ecco tutto. Il richiamo del mondo dei turisti era svanito. Non lo udiva più. Nelle sue orecchie echeggiava un richiamo più potente.
    Perché aveva scorto una figurina muoversi per la strada. Era comparsa proprio accanto alle ombre della panetteria: bianca, sottile, seducente.
    Ed all'improvviso nella sua mente passarono il silenzio e la leggerezza della neve - ed insieme a quello, il selvaggio e lacerante desiderio delle vette. Per qualche intuizione misteriosa ed improvvisa, sapeva che lei non lo avrebbe incontrato per le strade del villaggio. Non era lì, tra una folla di case, che gli avrebbe parlato. Infatti era già scomparsa, confusa con il candido paesaggio della strada illuminata dalla luna. Di certo, indovinò, lo aspettava là dove la salita si restringeva all'improvviso in un sentiero di montagna, oltre gli châlet.
    Non esitò neanche per un attimo; per quanto sembrasse folle, e lo era - questo desiderio improvviso di salire in alto con lei, almeno fin dove la neve ricopriva fitta e fresca gli spazi aperti - l'impulso era troppo imperioso perché potesse sottrarvisi. Non ricordava come era salito nella sua stanza, aveva indossato un maglione sugli abiti da sera e si era infilato i guanti di pelo ed un passamontagna di lana. Di certo non aveva memoria di essersi allontanato sugli sci; doveva averlo fatto automaticamente. Per così dire, gli mancavano certe normali capacità di osservazione. La sua mente era lontana dal villaggio: lontana, con le montagne innevate e la luna.
    Henri Défago, abbassando le serrande delle finestre del suo Café, lo vide passare e si stupì un po': «Un monsieur qui fait du ski à cette heure! Il est Anglais, donc...!» Si strinse nelle spalle, come se pensasse che un uomo ha il diritto di scegliere il modo in cui vuole morire. E Marthe Perotti, la moglie gobba del calzolaio, guardando per caso dalla finestra, scorse la sua figura che si allontanava rapida su per la strada. Ebbe altri pensieri, perché conosceva e credeva alle vecchie leggende delle streghe e degli esseri-della-neve che rubano le anime degli uomini. Si diceva che avesse persino udito il terribile conciliabolo di questi demoni passare urlando lungo la strada, di notte... Come allora, chiuse gli occhi. «Lo hanno chiamato... e
    deve andare» mormorò, facendosi il segno della croce.
    Ma nessuno cercò di fermarlo. Hibbert ricorda di aver incontrato un solo ostacolo, prima di ritrovarsi oltre le case, in cerca di lei ai margini della foresta, là dove il chiaro di lana incontrava la neve in un intessersi stupefacente di ombre fantastiche. E l'ostacolo era semplicemente questo... era passato accanto alla chiesa. Scorgendo il profilo del campanile contro le stelle, si accorse di una vaga esitazione. Una strana inquietudine venne e passò... in spiacevole dissonanza con i suoi sensi eccitati, come un tocco di gelo sul suo entusiasmo. Colse questa discordanza di un attimo, ne allontanò il pensiero, e... proseguì. La seduzione della neve nascose quell'accenno sinistro prima che potesse capire di aver sfiorato i lembi di un avvertimento.
    Poi la vide. Era ferma ad aspettarlo in un piccolo spiazzo scintillante di neve, tutta vestita di bianco, con la figura che si distingueva a malapena, confusa col chiaro di luna e il luccichìo dello sfondo.
    «Ti aspettavo, perché sapevo che saresti venuto,» la vocina argentea aleggiò intorno a lui come un soffio di vento. «Dovevi venire.»
    «Sono pronto,» rispose, «anch'io lo sapevo.»
    Con quelle poche parole il mondo della Natura - la meraviglia e la gloria della notte e della neve - lo faceva prigioniero nel suo cuore. Dentro di lui si scatenò la vita. La sua anima pagana esultava di passione, ardeva di gioia, volava da lei. Non si fermò a considerare e a riflettere, ma si lasciò andare come un ragazzo si abbandona alla felicità travolgente del primo amore.
    «Dammi la mano,» gridò, «verrò con te...!»
    «Un po' oltre, un po' più in alto,» fu la sua deliziosa risposta. «Qui siamo troppo vicini al villaggio... ed alla chiesa.»
    Quelle parole sembravano del tutto naturali, e giuste; non pensava affatto di discuterle; capiva che, ancora a contatto della civiltà, quella familiarità che lui suggeriva era impossibile. Una volta in alto, sulle montagne, nella libertà di enormi dirupi e cime imponenti, alla sola presenza delle stelle e delle distese di neve, avrebbe potuto gustare l'innocenza e la felicità di una vicinanza libera dalle sterili convenzioni che imprigionano le menti materiali.
    Affrettava il passo, ma non la superava mai. Per quanto si sforzasse, la ragazza era sempre un po' più avanti di lui... E presto si lasciarono indietro gli alberi e salirono sugli erti pendii del mare di neve che si stendeva ma-gnifico e terribile verso le stelle. La meraviglia di quel mondo abbacinante lo trascinava. Sotto la fissità delle stelle era più che ossessivo. Era un potere bianco, vivo, stupefacente, che confondeva deliziosamente i sensi e gettava sul cuore il profondo sgomento di un incantesimo. Era una personalità vivente che nascondeva eppure rivelava se stessa attraverso l'avvolgente candore della neve. Si alzava, lo accompagnava, fuggiva in avanti, era dietro di lui. Si abbassava lenta e flessuosa, le sue braccia scintillavano intorno al suo collo, lo portava in...
    Certamente qualche malia aveva persuaso suadentemente la sua stessa anima, e lo spingeva sempre più avanti, sempre più in alto, verso le cime ricoperte di ghiacci. Sembrava che il giudizio e la ragione lo avessero completamente abbandonato, come nella demenza prodotta dall'ubriachezza. La ragazza, sottile e seducente, lo precedeva sempre, cosicché non salivano mai insieme. Vedeva il bianco incantamento del suo viso e della sua figura, qualcosa che avvolgeva il suo collo come una ghirlanda di neve sollevata dal vento, e udiva gli accenti affascinanti della voce che di tanto in tanto lo chiamava in un bisbiglio: «Un po' più avanti, un po' più in alto... Poi correremo a casa insieme!»
    A volte vedeva che la mano di lei si allungava per cercare la sua, ma ogni volta, proprio mentre credeva di averla raggiunta, se la ritrovava davanti, con la mano ed il braccio lontani. Svoltarono per un pendìo. Sem-brava un gioco da ragazzi. In quell'aria sottile, trasparente come un cristallo, la fatica svaniva. L'unico rumore che rompeva il silenzio era quello prodotto dagli sci sulla superficie polverosa della neve; questo, insieme al suo respiro ed al fruscio della gonna di lei, era tutto ciò che udiva. Un freddo chiaro di luna, la neve, ed il silenzio avvolgevano il mondo. Il cielo era nero, e le cime dei monti vi si stagliavano come cunei di ferro e acciaio ricoperti di ghiaccio. Molto più in basso la valle dormiva: già da molto il villaggio non si vedeva più. Gli sembrava di non essere mai stanco... Di tanto in tanto giungeva l'eco vaga dei rintocchi della campana della chiesa... sempre più lontana.
    «Dammi la mano. È tempo di tornare indietro.»
    «Solo un'altra salita,» disse lei ridendo. «Quella cima lassù. Poi ci avvieremo verso casa.» E la sua voce bassa si perdeva dolcemente nel rumore degli sci che strisciavano sulla neve. Al confronto la sua sembrava rauca e spiacevole.
    «Ma non sono mai arrivato così in alto, prima. È splendido! Questo mondo silenzioso, con la neve, il chiaro di luna... e tu. Sei una figlia della neve, ne sono sicuro. Fammi venire più su... più vicino... per vedere il tuo
    viso... e toccare la tua mano.»
    Gli rispose la sua risata.
    «Vieni! Un po' più in alto. Qui siamo completamente soli.»
    «È magnifico,» gridò. «Ma perché ti sei nascosta per tanto tempo? Ti ho cercato invano da quella sera in cui abbiamo pattinato...», stava per dire dieci giorni fa, ma il ricordo preciso era scomparso; non sapeva se fossero trascorsi giorni, oppure anni, o minuti. I suoi pensieri erano disorientati e confusi.
    «Mi hai cercata nei posti sbagliati,» la udì mormorare proprio sopra di lui. «Hai guardato in luoghi in cui non vado mai. Gli alberghi e le case mi uccidono. Li evito.» Rise. Di una bella risata, breve e argentina.
    «Anch'io li odio...»
    Si fermò. La ragazza gli si era accostata improvvisamente.
    Un soffio gelido passò sulla sua anima. Lei lo aveva toccato.
    Lanciò un grido acuto. «Che freddo terribile! Ho un gelo spaventoso. Si sta alzando il vento; è un vento ghiacciato. Vieni, torniamo indietro...!»
    Ma quando si fece avanti per trattenerla, lei se ne era andata di nuovo. E qualcosa nel modo in cui era ferma qualche metro più in là e lo fissava immobile ed in silenzio, lo fece rabbrividire. Dietro di lei c'era la luce della luna ma, chissà perché, non riusciva a distinguere il suo viso, per quanto non fosse lontano. Vedeva il brillìo dei suoi occhi, ma tutto il resto sembrava bianco e neve, come se guardasse al di là di lei... nel vuoto...
    Dalla valle lontana giunsero i vaghi rintocchi della campana della chiesa. Li contò: erano cinque. Mentre li ascoltava, una strana ed improvvisa debolezza si impadronì di lui. Era profonda, terribile e tuttavia dolce, difficile da combattere. Si sentiva affondare nella neve... Salivano da cinque ore... Naturalmente, era il sintomo di una completa spossatezza.
    Con un grande sforzo la combatté e la vinse. Passò all'improvviso, come all'improvviso l'aveva colto.
    «Torneremo indietro,» disse, con una decisione di cui quasi non si rese conto. «Sarà l'alba prima che riusciremo a raggiungere il villaggio. Su, vieni. È tempo di avviarsi a casa.»
    L'entusiasmo l'aveva abbandonato. In lui si insinuava un'emozione molto simile alla paura. Ma il bisbiglio di risposta di lei in un attimo cambiò questa paura in terrore... un terrore che lo afferrava e lo rendeva debole ed inerme.
    «La nostra casa è... qui?» Le parole furono accompagnate dallo scoppio di una risata acuta e selvaggia. Il vento si era alzato, le nuvole oscuravano
    la luna. «Un po' più in alto... dove non si sentano quelle maledette campane,» gridò lei, e per la prima volta gli afferrò deliberatamente la mano. Si mosse, all'improvviso fu vicina al suo viso. Lo toccò di nuovo.
    E Hibbert cercò di girarsi e scappare; e, cercando di farlo, si accorse per la prima volta di essere in potere della neve; quell'altro potere che non e-salta, ma rende vani gli sforzi. Era piombata su di lui una debolezza invincibile, quella che la neve porta agli uomini esausti, adescandoli a dormire il sonno della morte nel suo abbraccio morbido e avvolgente, spegnendo la loro volontà e sconfiggendo tutto il loro desiderio di vita. Non poteva girarsi né muoversi. Aveva i piedi pesanti e intrappolati.
    La ragazza era di fronte a lui, molto vicina; sentiva il suo respiro ghiacciato sulle guance; i suoi capelli gli passavano davanti agli occhi; e da lei veniva un gelido soffio di vento. Vedeva vicino il suo candore, e di nuovo gli sembrava che la vista passasse attraverso di lei, come se non avesse volto. Le braccia di lei erano intorno al suo collo. Lo spinse delicatamente in ginocchio. Si abbassò; si abbandonò del tutto; le obbedì. Sentiva su di sé il peso del suo corpo, morbido, delizioso. Aveva la neve alla vita... Lei lo baciava dolcemente sulle labbra, sugli occhi, su tutto il viso. E poi chiamava il suo nome con quella voce meravigliosa, piena d'amore, che aveva l'accento delle altre due - che la Morte gli aveva portato via già da tanto tempo - la voce di sua madre e della donna che aveva amato.
    Tentò ancora debolmente di resistere. Poi, mentre si sforzava, capì che quel peso leggero sul suo cuore era più dolce di qualsiasi cosa che la vita potesse donare. E allora si abbandonò all'oblio del morbido abbraccio della neve. Si addormentò sotto i suoi gelidi baci.
    Dicono che gli uomini che si addormentano esausti nella neve non si risveglino che nella morte... Le ore passarono e la luna si inabissò oltre i confini di quel mondo candido. Poi, all'improvviso, qualcosa cadde a pezzi sul suo petto e sul suo collo, ed Hibbert... si svegliò.
    Si girò lentamente, frastornato; guardò le montagne deserte intorno a lui ed ebbe le vertigini; poi cercò di alzarsi. Dapprima i suoi muscoli si rifiutarono di funzionare; aveva delle fitte lancinanti. Lanciò un grido d'aiuto, e udì la sua eco perdersi nel vento. Allora capì confusamente perché era ancora caldo, perché non era morto. Perché questo stesso vento in cui si spegneva il suo grido, mentre lui dormiva, aveva alzato intorno al suo corpo una montagnola di neve. Gli si stendeva tutt'intorno, come una barriera di protezione. E, la cresta, rompendosi, gli era caduta addosso, ed il gelo del-la massa di neve sulla pelle l'aveva svegliato.
    Ad oriente il cielo era baciato dall'alba; pallidi raggi di sole facevano splendere d'oro le cime dei monti; ma l'aria era ghiacciata, e dai pendii la neve asciutta e gelata si alzava come polvere. Vide sporgere sotto di lui le punte degli sci. Allora... ricordò. Ed ebbe sufficiente lucidità per capire che, se solo si fosse rimesso in piedi, avrebbe potuto fuggire lontano, verso la foresta ed il villaggio, in un impeto terrificante. Gli sci l'avrebbero portato. Ma se avesse sbagliato e fosse caduto...!
    Hibbert non ha mai saputo come gli fosse riuscito; la paura della morte lo spinse a dar fondo a tutta la sua riserva di energie. Si alzò lentamente, cercò di tenersi in equilibrio, poi partì, come una freccia scoccata da un arco, giù per la terribile discesa, procedendo ad uno zig-zag con ampissime curve. E gli splendidi muscoli di quell'atleta e sciatore provetto che era lo guidarono automaticamente, perché quasi non si accorgeva di controllare la direzione o la velocità.
    La neve gli colpiva il viso e gli occhi come una scarica di proiettili; superava rapidamente una cima dopo l'altra; i picchi si rincorrevano attraverso il cielo; la valle si apriva per accoglierlo. Quasi non sentiva il terreno sotto i piedi, come se gli immensi pendii e le distanze scomparissero davanti alla fulminea velocità di quella discesa dalla morte alla vita.
    Sciava in curve di quattro miglia, ed ogni svolta per poco non lo uccideva, perché lo sforzo di mantenere l'equilibrio portava le sue energie residue sull'orlo del collasso.
    Pendii che c'erano volute ore per scalare, con gli sci venivano percorsi in mezz'ora; ma Hibbert aveva completamente perso il conto del tempo. In quella discesa folle e selvaggia, simile ad un volo d'uccello, erano altri i pensieri e le sensazioni che lo dominavano. Perché aveva alle calcagna figure e voci che lo seguivano in un turbinio di neve. Udiva alle sue spalle la voce argentina e la risata della morte. Acuta e selvaggia, giungeva alle sue orecchie insieme al fischio del vento. Il suo tono ossessivo ora non era più dolce e suadente, ma rabbioso. Ed era accompagnata; non lo seguiva da sola. Sembrava che un intero esercito di quelle creature della neve fosse lanciato al suo folle inseguimento. Sentiva che lo colpivano furiosamente sul collo e sulle guance, che gli afferravano le mani e cercavano di intrappolargli i piedi e gli sci in cumuli di neve. Lo accecavano, e gli mozzavano il respiro.
    Il terrore delle altitudini, della neve, della desolazione dell'inverno, lo spingeva avanti, nella più folle gara con la morte mai disputata da un essere umano; e la velocità era così terrificante che, ancor prima che l'oro e la
    porpora avessero lasciato le cime dei monti per toccare le labbra gelide dei ghiacciai più bassi, vide alzarsi davanti a sé la foresta, col suo benvenuto.
    E fu allora che, muovendosi lentamente al margine dei boschi, vide una luce. La portava un uomo. Una processione di figure umane si snodava in una linea scura attraverso la neve. E... udì levarsi un canto.
    Istintivamente, senza esitare, cambiò direzione. Senza procedere più a zig-zag come prima, puntò diritto giù per il fianco della montagna. La terribile pendenza non lo spaventò. Sapeva perfettamente che significava una caduta a capofitto verso il fondo, ma sapeva anche che significava raddoppiare la velocità... e raggiungere la salvezza. Perché, anche se la sua mente non fu attraversata da alcun pensiero preciso, aveva capito che era il curato del villaggio a portare la piccola lanterna nell'alba. Si dirigeva da qualche abitante del luogo in extremis, per portargli l'Ostia e l'Estrema Unzione. Ricordò il terrore che lei aveva della chiesa e delle campane. Lei temeva i simboli sacri.
    Mentre si avviava, udì un ultimo grido selvaggio: il vento turbinò e la neve gli sferzò violentemente le palpebre chiuse. Poi si lanciò nel vuoto. La velocità gli impediva la vista. Gli sembrava di volar via dalla superficie del mondo.
    Ricordava vagamente il mormorio delle voci, la stretta di braccia robuste che lo sollevavano, ed il dolore violento quando gli tolsero lo sci dalla caviglia che si era storto... Perché, quando riaprì gli occhi alla vita normale, si ritrovò nel suo letto nell'Ufficio Postale, con il dottore accanto. Da allora, in quel villaggio di montagna si racconta la storia di "Hibbert il pazzo" che sciava di notte. Sembra che fosse salito su per i pendii, fino ad un'altezza mai tentata prima da nessun uomo col cervello a posto. I turisti ne parlarono per tutto il resto della stagione, e quello stesso giorno due degli uomini più ardimentosi si spinsero piuttosto in alto e fotografarono le pendici su cui era salito Hibbert. In seguito le fotografie gli vennero mostrate. Notò un particolare curioso, ma non ne parlò ad anima viva.
    Sulla neve c'era una sola traccia di sci.
     
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