Il Cornicione

Stephen King

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  1. Indigo.
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    «Coraggio,» disse Cressner, «guardi dentro la borsa.»
    Eravamo nel suo appartamento, un attico al quarantatreesimo piano. La moquette era soffice e foltissima, color arancione scuro. Al centro, tra la poltroncina di canapa dove sedeva Cressner e il divano di vero cuoio dove non sedeva nessuno, c'era una comune borsa per la spesa.
    «Se è una somma per liquidarmi, se lo scordi,» replicai. «Io amo Marcia.»
    «È denaro, ma non per liquidarla. Coraggio. Guardi.» Stava fumando una sigaretta turca infilata in un bocchino d'onice. Il sistema di aerazione mi concedeva appena un secco sbuffo dell'aroma, e subito lo scacciava. Cressner indossava una vestaglia di seta su cui era ricamato un drago. I suoi occhi erano calmi e intelligenti dietro gli occhiali. Appariva esattamente quello che era: una carogna fatta e finita di quelle numero uno, a 500 carati. Amavo sua moglie, e lei mi amava. Mi ero aspettato difficoltà da lui, e sapevo che quello era un tranello, ma ancora non sapevo di che marca fosse.
    Mi avvicinai alla borsa per la spesa e la urtai. Si rovesciò e fasci di biglietti di banca legati in mazzette tutte uguali finirono sul tappeto. Tutti biglietti da venti. Presi in mano una delle mazzette e contai. Dieci biglietti per mazzetta. E le mazzette erano tante.
    «Ventimila dollari,» precisò lui, e tirò una boccata di fumo.
    Mi rialzai. «Bene.»
    «Sono per lei.»
    «Non li voglio.»
    «Oltre quelli, mia moglie.»
    Non dissi niente. Marcia mi aveva avvisato di come sarebbe andata. È come un gatto, aveva detto. Un vecchio gatto pieno di malignità. Cercherà di fare di te un topo.
    «Così lei è un tennista di professione,» disse Cressner. «Non credo d'averne mai visto uno, prima d'ora.»
    «Vuol dire che i suoi investigatori non hanno scattato fotografie?»
    «Oh, sì!» Agitò con negligenza il bocchino. «Perfino un film di voi due in quel Motel Bayside. C'era una cinepresa dietro lo specchio. Ma una foto non è come dal vivo, vero?»
    «Se lo dice lei.»
    Continuerà a cambiare tattica, aveva detto Marcia. È il suo modo di mettere la gente sulla difensiva. In breve ti indurrà a colpire il punto dove penserai che stia per andare, e invece lui ti attaccherà da tutt'altra parte. Di' il meno possibile, Stan. E ricordati che ti amo.
    «L'ho invitata quassù perché pensavo che fosse giusto fare due chiacchiere da uomo a uomo, signor Norris. Solo una piacevole conversazione tra due persone civili, tra esseri umani, uno dei quali se la intende con la moglie dell'altro.»
    Stavo per replicare ma poi preferii astenermene.
    «Le è piaciuto San Quintino?» chiese Cressner, fumando pigramente.
    «Non in modo particolare.»
    «Ci ha passato tre anni, se non sbaglio. Un'accusa di effrazione e violazione di domicilio, credo.»
    «Marcia lo sa.» E immediatamente mi pentii d'avere parlato. Stavo facendo il suo gioco, proprio la cosa contro la quale Marcia mi aveva messo in guardia. Colpivo a vuoto perché lui potesse meglio attaccarmi.
    «Mi sono preso la libertà di far spostare la sua auto,» disse lui, guardando fuori della finestra all'altra estremità della stanza. In realtà non era affatto una finestra: l'intera parete era di vetro. Nel mezzo, c'era una porta scorrevole, sempre di vetro. Al di là, un balconcino grande come un francobollo. Oltre quello, il vuoto. C'era qualcosa di strano in quella porta. Non riuscivo a individuare che cosa fosse.
    «Questo è un palazzo simpaticissimo,» continuò Cressner. «Massima sorveglianza. TV a circuito chiuso e via dicendo. Quando ho sentito che lei era nell'atrio, ho fatto una telefonata. Un mio dipendente, allora, ha messo in moto la sua auto, facendo a meno della chiave, e l'ha spostata dall'area di parcheggio a un posteggio pubblico, diversi isolati più in là.» Guardò l'orologio di forma un po' eccentrica che stava sopra il divano. Segnava le 0.05. «Alle 8.20 quello stesso dipendente telefonerà alla polizia da una cabina pubblica, a proposito della sua auto. Per le 8.30 al massimo, i servi della legge avranno scoperto quasi duecento grammi di eroina nascosti dentro la gomma di scorta che c'è nel baule. Lei verrà ansiosamente ricercato, signor Norris.»
    Mi aveva sistemato. Avevo tentato di coprirmi le spalle come meglio potevo, ma alla fine avevo rappresentato un gioco da bambini, per lui.
    «Queste cose accadranno a meno che io non richiami il mio dipendente e gli dica di lasciar perdere quella telefonata.»
    «E io non devo fare altro che dirle dov'è Marcia, vero? Niente da fare, Cressner. Non lo so. Abbiamo preferito fare in questo modo proprio per lei.»
    «I miei uomini l'avranno seguita.»
    «Penso di no. Ho idea che li abbiamo seminati, all'aeroporto.»
    Cressner sospirò, tolse dal bocchino la sigaretta ormai al termine e la lasciò cadere dentro un portacenere con il coperchio a molla. Semplice e sbrigativo. La sigaretta usata e Stan Norris erano stati eliminati con la stessa disinvoltura.
    «In verità,» ammise, «lei ha ragione. Il vecchio trucco della toilette per signore. I miei agenti erano inconsolabili d'essere stati giocati da un trucco così antidiluviano. Penso che, proprio perché è così scontato, non se lo aspettassero.»
    Non dissi niente. Dopo che Marcia aveva seminato i giannizzeri di Cressner all'aeroporto, era tornata in città con la navetta e poi si era diretta alla stazione degli autobus; era quello il nostro piano. Aveva con sé duecento dollari, il denaro che costituiva tutti i miei risparmi. Duecento dollari e un autobus della Greyhound potevano portarti in qualsiasi parte del paese.
    «Lei è sempre così poco comunicativo?» chiese Cressner, e sembrava sinceramente interessato.
    «Me l'ha consigliato Marcia.»
    In tono un po' più tagliente, disse: «Allora immagino che saprà far valere i suoi diritti quando la polizia l'arresterà. E la prossima volta che vedrà mia moglie sarà forse quando Marcia sarà una nonnina su una sedia a dondolo. È riuscito a ficcarselo in testa? Mi risulta che il possesso di sei once di eroina potrebbe farle prendere quarant'anni.»
    «Questo non le restituirà Marcia.»
    Sorrise, a bocca chiusa. «E questo sarebbe il nocciolo, vero?
    Debbo riesaminare la situazione? Tra lei e mia moglie c'è stato un colpo di fulmine. Avete avuto una relazione... se si può chiamare relazione una serie di incontri in un motel da quattro soldi. Tuttavia, io ho in mano lei. E lei si trova, come si suol dire, in un vicolo cieco. Le pare un riassunto esauriente?»
    «Posso capire perché sua moglie si è stancata di lei.»
    Con mia sorpresa, gettò indietro la testa e rise. «Sa, signor Norris, lei mi è quasi simpatico. È volgare ed è uno speculatore, ma in fondo ha spirito. Marcia lo diceva, ma io ne dubitavo. Non mi fido affatto del suo giudizio. Lei però ha una certa... verve. Ed è per questo che ho sistemato le cose in un certo modo. Senza dubbio Marcia le avrà detto che sono appassionato di scommesse.»
    «Sì.» Ora capivo che cosa non andava nella porta che si apriva a metà della vetrata. Eravamo nel cuore dell'inverno e nessuno poteva desiderare di prendere il tè su un balcone del quarantatreesimo piano. Sul balcone, le sedie erano state tolte. Ma era stato tolto anche lo schermo di protezione dalla porta. Ora, perché mai Cressner aveva fatto una cosa del genere?
    «Non tengo molto a mia moglie,» riprese Cressner, infilando con cura un'altra sigaretta nel bocchino. «Non è un segreto, del resto. Sono sicuro che Marcia gliel'avrà detto. E sono sicuro che un uomo della sua... esperienza sa che le mogli soddisfatte non vanno a letto con il maestro di tennis appena quello fa un cenno con la racchetta. Secondo me, Marcia è una smorfiosa, una piccola puritana esangue, una lagnosa, una piagnona, una pettegola, una...»
    «Adesso basta!» esclamai.
    Sorrise, gelidamente. «Chiedo scusa. Continuo a dimenticare che stiamo parlando della sua amata. Sono le 8.16. È sulle spine?»
    Alzai le spalle.
    «Duro fino in fondo,» disse lui, e accese la sigaretta. «A ogni modo, forse si domanderà perché, se Marcia mi è così insopportabile, non mi limito a darle la sua libertà e...»
    «No, non me lo domando affatto.»
    Mi guardò, aggrottando la fronte.
    «Lei è un figlio di puttana egocentrico, taccagno, egoista. Ecco perché. Nessuno può portare via quello che è suo. Nemmeno se si tratta di qualcosa che lei non vuole più.»
    Diventò rosso, poi rise. «Un punto a suo favore, signor Norris. Bravissimo.»
    Tornai ad alzare le spalle.
    «Intendo offrirle una scommessa. Se vince, se ne andrà di qui con il denaro, la donna e la sua libertà. D'altro canto, se perde, ci rimetterà la vita.»
    Guardai l'orologio. Non potei farne a meno. Le 8.19.
    «Va bene.» Cos'altro potevo dire? Serviva a guadagnare tempo, per lo meno. Tempo perché potessi trovare un modo di squagliarmela di lì, con o senza il denaro.
    Cressner sollevò il ricevitore del telefono lì accanto e formò un numero.
    «Tony? Piano numero due. Sì.» Riattaccò.
    «Che cos'è il piano numero due?» chiesi.
    «Tra quindici minuti richiamerò Tony e lui toglierà la... sostanza proibita dal baule della sua auto, che riporterà qui sotto. Se invece non chiamo, si metterà in contatto con la polizia.»
    «Lei non è uno che si fida, vero?»
    «Ragioni, signor Norris. Ci sono ventimila dollari qui in terra, in mezzo a noi. In questa città c'è stato perfino chi ha ucciso per venti centesimi.»
    «Che cosa ci giochiamo?»
    Sembrava davvero che il mio tono l'affliggesse. «La prego, signor Norris. Tra gentiluomini si scommette, non 'ci si gioca' qualcosa. Non usiamo espressioni da gente volgare.»
    «Come preferisce.»
    «Ah, bene. Ho visto che osservava il mio balcone.»
    «Lo schermo della porta è stato tolto.»
    «Sì. L'ho fatto togliere questo pomeriggio. Ciò che io propongo è questo: lei fa un giro attorno al palazzo, camminando sul cornicione che sporge poco al disotto del livello dell'attico. Se compie con successo la circumnavigazione dell'edificio, il montepremi è suo.»
    «Lei è pazzo.»
    «Al contrario. Ho proposto sei volte questa scommessa a sei persone diverse, da quando abito in questa casa, e saranno circa dodici anni. Tre dei sei erano atleti professionisti, come lei: uno era un noto giocatore di basket più famoso per i suoi caroselli alla TV che per i suoi canestri; un altro era un giocatore di baseball; un terzo era un fantino piuttosto conosciuto, che guadagnava un mucchio di soldi ma era anche afflitto da un problema di alimenti. Gli altri tre erano cittadini meno in vista e con professioni diverse ma con due cose in comune: un gran bisogno di denaro e una certa agilità fisica.» Aspirò pensosamente una boccata di fumo e continuò: «La scommessa venne respinta cinque volte su sei. In una sola occasione, venne accettata. I termini erano ventimila dollari contro sei mesi di servizio ai miei ordini. Vinsi io. Quel tale diede una sola occhiata dal balcone e per poco non svenne.» Cressner sembrava divertito e sprezzante. «Disse che tutto, là in basso, sembrava così piccolo. Fu questo a farlo perdere di coraggio.»
    «Che cosa le fa pensare...»
    M'interruppe con un gesto annoiato della mano. «Non stia a seccarmi, signor Norris. Penso che lei lo farà perché non ha altra scelta. Lei ha in una mano la scommessa con me, nell'altra quarant'anni a San Quintino. Il denaro e mia moglie sono soltanto aggiunte a mo' di incoraggiamento, che stanno a dimostrare la mia bontà d'animo.»
    «Quali garanzie ho che non mi imbroglierà? Potrei compiere lo sforzo e scoprire che ha telefonato a Tony e gli ha detto di procedere come se niente fosse.»
    Sospirò. «Lei è un caso di paranoia ambulante, signor Norris. Io non amo mia moglie. Averla intorno non è affatto un bene per il mio io. Ventimila dollari per me sono una miseria. Pago quattro volte tanto ogni settimana come contributo per le vedove e gli orfani della polizia. Quanto alla scommessa in sé...» Gli occhi gli luccicavano. «Quella è al di là di qualsiasi prezzo.»
    Ci pensai su, e lui me ne lasciò il tempo. Sapeva, immagino, che la vera vittima designata riesce sempre a convincere se stessa. Ero un maestro di tennis di trentasei anni, e il circolo dove lavoravo stava pensando di disfarsi di me quando Marcia aveva fatto pressioni, sia pure con molto garbo. Il tennis era la sola professione che conoscessi e, senza di quello, perfino trovare lavoro come uomo di fatica mi sarebbe stato difficile: specie poi con un precedente penale. Era stata una ragazzata, ma i datori di lavoro non guardano per il sottile.
    E lo strano era che amavo davvero Marcia Cressner. Erano bastate due lezioni di tennis perché m'innamorassi di lei, e lei s'era presa una cotta altrettanto forte. Era un tipico esempio della fortuna di Stan Norris. Dopo trentasei anni di felice vita da scapolo, m'ero innamorato come un collegiale della moglie di un capo supremo dell'Organizzazione.
    Il vecchio gattaccio seduto là a fumare la sua sigaretta turca d'importazione sapeva tutto questo, naturalmente. E sapeva anche un'altra cosa, altrettanto bene. Non avevo nessuna garanzia che non m'avrebbe denunciato alla polizia, quand'anche avessi accettato la sua scommessa e vinto, mentre io sapevo benissimo che, se non avessi accettato, per le dieci sarei stato al fresco. E la prossima volta che avrei potuto circolare liberamente sarebbe stato alla svolta del secolo.
    «Voglio sapere una cosa,» dissi.
    «Ma che cosa sarà mai, signor Norris?»
    «Mi guardi bene in faccia e mi dica se lei è uno che bara oppure no.»
    Mi fissò dritto negli occhi. «Signor Norris,» dichiarò tranquillamente, «io non baro mai.»
    «Va bene,» conclusi. Che cosa potevo fare?
    Si alzò, raggiante. «A meraviglia! Proprio a meraviglia! Venga con me vicino alla porta che dà sul balcone, signor Norris.»
    Ci muovemmo insieme. Aveva l'espressione di chi, avendo sognato quella scena centinaia di volte, si godeva ora fino in fondo il suo avverarsi.
    «Il cornicione è largo tredici centimetri,» precisò con fare sognante. «L'ho misurato io stesso. Anzi, ho provato a starci ritto, tenendomi aggrappato al balcone, s'intende. Lei non deve fare altro che calarsi al di là della ringhiera di ferro battuto, e il balcone le arriverà all'altezza del petto. Ma, naturalmente, al di là della ringhiera non ci sono più appigli. Dovrà procedere con la massima lentezza, stando bene attento a non perdere l'equilibrio.»
    I miei occhi si erano fissati su qualcos'altro, fuori della finestra... qualcosa che fece calare di diversi gradi la temperatura del mio sangue. Era un anemometro. L'appartamento di Cressner era vicinissimo al lago, ed era abbastanza alto perché non ci fossero stabili ancora più alti a proteggerlo dal vento. Un vento che sarebbe stato gelido, e che avrebbe tagliato come un coltello. L'ago oscillava intorno al dieci, abbastanza stazionario, ma a tratti una folata lo faceva spostare per pochi secondi sui venticinque, prima di lasciarlo ricadere.
    «Ah, vedo che ha notato il mio anemometro,» disse Cressner in tono gioviale. «In realtà, è il lato opposto quello più investito dal vento; perciò, da quella parte la brezza potrebbe essere un po' più tesa. Ma nel complesso questa è una serata piuttosto calma. Ho visto sere in cui l'ago si spostava addirittura verso l'ottantacinque... in quei casi si sente materialmente oscillare lo stabile. Un po' come essere a bordo di una nave, su in coffa. E non fa neppure tanto freddo, per essere questa stagione.»
    Indicò e, verso sinistra, vidi un quadro luminoso in cima al grattacielo di una banca. Dava anche la temperatura: sci gradi. Ma, con il vento, era come dire che eravamo sotto lo zero.
    «Ce l'ha un cappotto?» chiesi. Indossavo una giacca piuttosto leggera.
    «Ahimè, no.» Sul quadro luminoso sopra la banca, la cifra che indicava i minuti scattò: erano le 8.32. «E penso che farebbe bene a cominciare, signor Norris; devo telefonare a Tony e mandare a effetto il piano numero tre. Tony è un buon ragazzo ma a volte è un po' impulsivo. Lei capisce.»
    Capivo, sì. Benissimo.
    Ma il pensiero d'essere con Marcia, libero dai tentacoli di Cressner e con denaro sufficiente per iniziare un'attività mi diede la forza di spingere in là la porta scorrevole e uscire sul balcone. Fuori era freddo e umido; il vento mi arruffava i capelli, e me li buttava negli occhi.
    «Bonsoir,» disse Cressner dietro di me. Non mi voltai neppure. Mi avvicinai alla ringhiera, senza guardare giù. Non ancora. Cominciai a fare esercizi di respirazione.
    In realtà non era un esercizio ma una forma di autoipnosi. A ogni profondo respiro, si allontana una distrazione dalla mente, finché non resta altro che la partita che devi giocare. Al primo respiro mi liberai del pensiero del denaro, con altri due di quello di Cressner. Marcia richiese più tempo: il suo viso continuava ad apparirmi davanti, a dirmi di non essere stupido, di non stare al gioco di Cressner, il quale forse non barava mai, ma in compenso era come un'anguilla. Non l'ascoltavo. Non potevo permettermelo. Se avessi perso
    quell'incontro, non si trattava di pagare da bere e sorbirsi le frecciate degli amici; sarei stato una chiazza di poltiglia rossa spiaccicata lungo un isolato di Deakman Street, e in entrambe le direzioni.
    Quando mi sembrò d'essere pronto, guardai in giù.
    Lo stabile fuggiva via come una liscia rupe di gesso fino alla strada sottostante. Le auto in sosta laggiù sembravano quei modelli formato scatola di fiammiferi che si possono acquistare nei grandi magazzini. Quelle che passavano erano soltanto minuscoli puntini di luce. Se cadevi da quell'altezza, avevi tutto il tempo di renderti conto di quello che stava accadendo, di vedere il vento che ti gonfiava i panni addosso mentre la terra ti attirava sempre più velocemente. Avevi tutto il tempo di mandare un urlo lunghissimo. E il rumore che avresti fatto nell'atterrare sull'asfalto sarebbe stato simile a quello di un melone troppo maturo.
    Capivo benissimo perché quell'altro tizio si fosse scoraggiato. Ma lui aveva avuto soltanto sei mesi di cui preoccuparsi. Io stavo fissando in faccia la bellezza di quarant'anni, lunghi, grigi e senza Marcia.
    Guardai il cornicione. Sembrava piccolo, non avevo mai visto tredici centimetri assomigliare tanto a cinque. Meno male che il palazzo era abbastanza nuovo: se non altro non si sarebbe sbriciolato sotto i miei piedi.
    Me l'auguravo.
    Scavalcai la ringhiera e, con prudenza, mi calai fino a ritrovarmi ritto sul cornicione. I miei talloni sporgevano al disopra del vuoto. Il pavimento del balcone mi arrivava circa all'altezza del petto e stavo guardando dentro l'attico di Cressner attraverso le sbarre ornamentali in ferro battuto.
    Lui era in piedi all'interno della porta, e fumava, osservandomi come uno scienziato che osservi una cavia per vedere quale sarà l'effetto dell'ultima iniezione.
    «Telefoni,» dissi, tenendomi bene aggrappato alla ringhiera.
    «Come?»
    «Chiami Tony. Non mi muovo se non telefona.»
    Andò verso il fondo del soggiorno — l'interno appariva straordinariamente caldo, sicuro, accogliente — e sollevò il ricevitore. Era un gesto inutile, in fondo. Con il vento, non potevo sentire che cosa lui stesse dicendo. Poi Cressner lasciò il telefono e ritornò. «Tutto fatto, signor Norris.»
    «Lo spero bene.»
    «Arrivederla, signor Norris. A più tardi... forse.»
    Bisognava agire. Le chiacchiere erano finite. Mi concessi di pensare a Marcia un'ultima volta, ai suoi capelli castano chiaro, ai suoi grandi occhi grigi, al suo bel corpo, poi la estromisi con decisione dalla mente. Bastava guardare giù, inoltre: troppo facile rimanere paralizzati fino a perdere poi l'equilibrio, o semplicemente svenire dalla paura. Bisognava restringere il campo visivo, concentrarsi unicamente su: piede sinistro, piede destro...
    Cominciai a muovermi verso destra, rimanendo aggrappato alla ringhiera finché mi fu possibile. Non mi ci volle molto per rendermi conto che avrei avuto bisogno di tutti i muscoli da tennista che le mie caviglie possedevano. Con i tacchi al di là dell'orlo, il mio peso avrebbe gravato tutto su quei poveri tendini.
    Arrivai al termine del balcone e lì per lì pensai che non avrei mai trovato il coraggio di lasciar andare quell'ancora di salvezza. Mi costrinsi a farlo. Tredici centimetri, che diavolo, sono tanti. Se il cornicione fosse a soli trenta centimetri da terra, invece che a più di cento metri, mi dicevo, potrei fare il giro di questo stabile in quattro minuti esatti. Perciò, fingi che lo sia.
    Già! Ma se cadi da un cornicione a trenta centimetri dal suolo ti limiti a tirare un moccolo e ricominci. Quassù, non ti è permesso rifare la prova.
    Feci scivolare il piede destro più in là, poi gli accostai il sinistro. Lasciai andare la ringhiera. Tenevo le mani aperte e alzate, in modo che il palmo si appoggiasse contro la ruvida superficie dell'edificio. Accarezzavo la pietra. L'avrei quasi baciata.
    Una zaffata di vento m'investì, facendo sbattere il colletto del vestito contro la faccia, facendo ondeggiare tutto il mio corpo là sul cornicione. Il cuore mi balzò in gola e rimase là finché il vento non si fu calmato. Una folata di forza sufficiente avrebbe potuto strapparmi dal mio trespolo e farmi volar via nella notte. E il vento dall'altro lato sarebbe stato più forte.
    Girai la testa verso sinistra, premendo la guancia contro la pietra. Cressner si sporgeva dal balcone, per osservarmi.
    «Si diverte?» chiese, affabile.
    Indossava un cappotto di cammello color avana.
    «Mi sembrava che non l'avesse, un cappotto,» dissi.
    «Ho mentito,» rispose, con franchezza. «Mento su una quantità di cose.»
    «Che cosa vorrebbe dire, questo?»
    «Niente... proprio niente. O forse qualcosa significa. Una piccola guerra dei nervi, eh, signor Norris? Le consiglierei di non indugiare troppo. Le caviglie si stancano, e se dovessero cedere...» Tirò fuori una mela dalla tasca, le diede un morso, poi la scagliò oltre la ringhiera. Per un bel pezzo, non si udì alcun rumore. Poi, un lieve e agghiacciante «plop». Cressner rise piano.
    Aveva interrotto la mia concentrazione, e potevo sentire il panico rosicchiare gli orli della mia mente con denti d'acciaio. Un torrente di terrore tentava di travolgermi e annegarmi. Girai la testa dalla parte opposta e ricominciai a respirare a fondo. Fissavo il quadro luminoso sopra la banca: segnava le 8.46.
    Quando le cifre si cambiarono in 8.49, capii d'avere ritrovato il controllo di me stesso. Cressner s'era probabilmente messo in mente che fossi congelato, e quando ripresi a strisciare cautamente verso l'angolo dell'edificio, accennò un sardonico scroscio d'applausi.
    Il freddo si faceva sentire. Il lago aveva inumidito il vento; la sua greve umidità mi mordeva la pelle come un succhiello. La giacca troppo leggera si gonfiava dietro di me mentre continuavo a spostarmi. Mi muovevo lentamente, nonostante il freddo. Se volevo farcela, dovevo procedere con deliberata lentezza. Se avessi cercato di affrettare i tempi, sarei caduto.
    L'orologio della banca segnava le 8.52 quando arrivai all'angolo. Non sembrava che lo spigolo presentasse problemi — il cornicione girava tutt'attorno, formando un angolo retto — ma la mia mano destra mi diceva che c'era vento di traverso. Se mi fossi fatto sorprendere a pencolare dalla parte sbagliata, avrei coperto un lungo percorso a velocità supersonica.
    Aspettai che il vento calasse, ma per un bel pezzo rifiutò di farlo, quasi fosse l'alleato volontario di Cressner. Mi aggrediva con dita perfide e invisibili, frugando, intrufolandosi e solleticando. Alla fine, dopo che una folata particolarmente forte m'aveva fatto dondolare sulle punte dei piedi, capii che se anche avessi aspettato in eterno il vento non sarebbe mai caduto del tutto.
    Così, non appena si calmò un pochino, spinsi attorno all'angolo il piede destro e, aggrappandomi a tutt'e due le facciate con le mani, compii la svolta. Il vento ora mi spingeva da due parti contemporaneamente, e io barcollavo. Per un secondo, ebbi l'agghiacciante certezza che Cressner avesse vinto la scommessa. Poi, scivolai in là di un altro passo e mi premetti con forza contro la nuova facciata, mentre un respiro trattenuto mi sfuggiva dalla gola arida.
    Fu in quell'istante che la pernacchia risuonò, quasi al mio orecchio.
    Spaventato, indietreggiai istintivamente fino all'orlo stesso dell'equilibrio. Le mie mani persero la presa e si agitarono follemente per riuscire a tenermi in bilico. Credo che se una delle due avesse urtato contro la superficie di pietra dell'edificio, sarei precipitato. Ma dopo un tempo che sembrò un'eternità, la gravità decise di lasciarmi tornare verso la facciata invece di spingermi verso il marcia-piede, quarantatré piani più giù.
    Il respiro mi sfuggiva ora dai polmoni in un sibilo penoso. Le gambe erano di gomma. I tendini delle mie caviglie vibravano come fili dell'alta tensione. Non mi ero mai sentito tanto mortale. L'uomo con la falce mi stava così vicino da chinarsi sulla mia spalla.
    Torsi il collo, guardai in su, ed ecco là Cressner, che si sporgeva dalla finestra della sua camera, un metro e rotti sopra di me. Sorrideva e, nella destra, teneva una di quelle trombette che danno ai veglioni.
    «Tanto perché non si addormenti,» disse.
    Non sprecai il fiato. Del resto, avrei potuto emettere al massimo un verso gracchiante. Il cuore mi martellava nel petto fino a scoppiare. Mi spostai di un altro paio di metri, chissà mai che Cressner stesse pensando di spenzolarsi e darmi una buona spinta. Poi mi fermai, chiusi gli occhi, e ricominciai la respirazione fino a tornare di nuovo padrone di me.
    Ero sul lato più corto dell'edificio, ora. Alla mia destra, soltanto le torri più alte della città si levavano al disopra di me. A sinistra, vedevo il cerchio scuro del lago, con pochi puntini di luce che galleggiavano qua e là. Il vento ululava e gemeva.
    Il vento di traverso, al secondo angolo, era un po' meno traditore, e riuscii a compiere la svolta senza difficoltà. Poi, qualcosa mi morsicò.
    Trasalii, con un'esclamazione soffocata. Lo spostamento di equilibrio mi spaventò, e mi premetti con forza contro il palazzo. Venni morsicato di nuovo. No... non morsicato ma beccato. Guardai in giù.
    C'era un piccione là vicino a me, e guardava in su con occhi vividi e carichi di odio.
    Ci si abitua ai piccioni, in città; sono comuni quanto i conducenti di taxi che non hanno mai il resto quando gli date un biglietto da dieci. Non amano volare, e cedono il passo a malincuore, come se i marciapiedi fossero loro per diritto di conquista. Oh, sì, e per te è normale trovare il loro biglietto da visita sul tetto della tua auto. Ma in fondo non ci fai molto caso. Possono essere a volte irritanti, sono degli intrusi nel nostro mondo.
    Ma io mi trovavo nel suo, ed ero quasi impotente, e lui sembrava saperlo. Tornò a beccare la mia stanca caviglia destra, mandandomi su per la gamba un dolore acuto.
    «Via!» gli ringhiai. «Vattene.»
    Il piccione si limitò a beccarmi di nuovo. Ero evidentemente capitato in quella che considerava casa sua; quel
    tratto di cornicione era coperto di escrementi, vecchi e nuovi.
    Un pigolio smorzato dall'alto.
    Contrassi il collo all'indietro fin dove era possibile e guardai in su. Un becco si scagliò contro la mia faccia, e per poco non indietreggiai. Se l'avessi fatto, sarei stato forse il primo incidente mortale della città provocato dai piccioni. Era Mamma Piccione, che proteggeva una covata di piccioncini proprio sotto la breve sporgenza del tetto. Troppo in alto per beccarmi sulla testa, grazie a Dio.
    Il marito tornò a beccarmi, e ora usciva il sangue. Lo sentivo benissimo. Ricominciai a spostarmi adagio adagio, sperando di spaventare il piccione e farlo volare via. Niente da fare. I piccioni non si spaventano, per lo meno non quelli di città. Se un camioncino in movimento riesce soltanto a fargli affrettare un po' l'andatura, un uomo abbarbicato in cima a un cornicione non li sconvolge neppure un po'.
    Il piccione indietreggiava via via che io strisciavo in avanti, gli occhietti vividi non si staccavano dalla mia faccia se non quando il becco aguzzo affondava per un attimo nella mia caviglia. L'uccello stava beccandomi la carne viva... e mangiandola, per quel che ne sapevo io.
    Gli allungai un calcio con il piede destro. Era un calcio debole, il solo che potessi concedermi. Il piccione si limitò a battere un po' le ali e subito ritornò all'attacco. Io, d'altro canto, per poco non volai giù dalla facciata.
    Il piccione continuava a beccarmi ripetutamente. Una gelida raffica di vento m'investì, facendomi dondolare al limite dell'equilibrio; i miei polpastrelli raschiarono la pietra e, alla fine, mi ritrovai con la guancia sinistra premuta contro la facciata, respirando affannosamente.
    Cressner non avrebbe potuto concepire una tortura peggiore nemmeno se l'avesse progettata per dieci anni. Una beccata non era la fine del mondo. Due o tre si potevano sopportare. Ma quel maledetto uccello deve avermi beccato almeno una sessantina di volte, prima che arrivassi alla ringhiera di ferro battuto dell'attico di faccia a quello di Cressner.
    Arrivare a toccare quella ringhiera fu come veder spalancare le porte del paradiso. Le mie mani si chiusero dolcemente attorno a quelle sbarre gelide, serrandole come se non volessero più lasciarle andare.
    Pic!
    Il piccione mi fissava di sotto in su con i suoi occhietti vividi e sembrava quasi tronfio, sicuro della mia impotenza e della propria invulnerabilità. Mi tornava in mente l'espressione di Cressner quando m'aveva fatto uscire sul balcone, sull'altro lato del palazzo.
    Tenendomi ancora più stretto alle sbarre, mollai un bel calcio deciso e presi il piccione proprio in pieno. Emise un verso del tutto soddisfacente e si levò nell'aria, agitando le ali. Alcune piume grigiastre si posarono sul cornicione o scomparvero lentamente giù nell'oscurità, veleggiando avanti e indietro sull'aria.
    Boccheggiante, mi issai sul balcone, scavalcai la ringhiera e là crollai. Nonostante il freddo, ero in un bagno di sudore. Non so quanto tempo rimasi là, a recuperare le forze. L'edificio mi nascondeva il riquadro luminoso della banca, e non porto mai l'orologio.
    Mi tirai su, prima che i muscoli potessero irrigidirsi e, con precauzione, provai ad arrotolare il calzino. La caviglia destra era lacerata e sanguinante, ma la ferita sembrava superficiale. Tuttavia, avrei fatto bene a curarla e disinfettarla, se mai fossi uscito vivo da quell'avventura. Dio sa quali germi i piccioni si portano addosso. Pensai di fasciare in qualche modo la ferita, poi decisi di non farlo. Con una fasciatura di fortuna, avrei corso il rischio di inciampare. Più tardi, avrei avuto tutto il tempo di pensarci: sarei stato in grado di offrirmi ventimila dollari di cerotti medicati.
    Mi alzai e guardai bramosamente dentro l'attico buio opposto a quello di Cressner. Spoglio, vuoto, disabitato. Lì, sulla porta che si apriva nella vetrata, il pesante schermo di protezione c'era. Probabilmente sarei riuscito ugualmente a entrare, ma avrei rischiato di compromettere la scommessa. E avevo molto da perdere, non solo il denaro.
    Quando non potei più rimandare oltre, scavalcai di nuovo la ringhiera e ritornai sul cornicione. Il colombo, con qualche piuma di meno, stava appollaiato sotto il nido della sua compagna, dove il guano era più spesso, e mi osservava con occhio minaccioso. Ma non pensavo che avrebbe ricominciato a darmi fastidi, specie ora che mi allontanavo.
    Mi fu molto difficile ricominciare a muovermi: molto più difficile di quanto non fosse stato abbandonare il balcone di Cressner. La mia mente sapeva che dovevo farlo, ma il mio corpo, e in particolare le caviglie, urlavano che sarebbe stata follia lasciare quel rifugio sicuro. Ma lo lasciai, mentre il viso di Marcia, dal buio, mi esortava a farmi coraggio.
    Arrivai al secondo lato breve, aggirai l'angolo, e strisciai lentamente per tutta la lunghezza dell'edificio. Ora che stavo avvicinandomi alla meta, provavo l'impulso quasi ingovernabile di affrettarmi, di farla finita. Ma, se mi fossi affrettato, sarei morto. Così, costringevo me stesso ad andare piano.
    Il vento di traverso per poco non ebbe la meglio, sul quarto angolo, e riuscii a girare grazie alla fortuna, più che all'abilità. Riposai, addossato all'edificio, per riprendere fiato. Ma, per la prima volta, sapevo che stavo per farcela, che stavo per vincere. Sentivo le mani come bistecche semicongelate, le caviglie mi facevano un male d'inferno (specie la destra torturata dal piccione), il sudore continuava a gocciolarmi negli occhi, ma sapevo che ce l'avrei fatta. A mezza via lungo la facciata dell'edificio, una calda luce gialla si riversava sul balcone di Cressner. Al di là, in distanza, potevo vedere il quadro luminoso della banca splendere come un segnale di benvenuto. Erano le 10.48 ma mi sembrava d'avere passato l'intera mia vita su quei tredici centimetri di cornicione.
    E che Dio avesse pietà di Cressner, se avesse tentato di imbrogliare. L'impulso di affrettarsi era passato. Mi attardavo, quasi. Erano le 11.09 quando posai la mano destra sulla ringhiera di ferro battuto del balcone, e subito dopo anche la sinistra. Mi tirai su, scavalcai alla meglio la ringhiera, mi lasciai cadere con gratitudine sul pavimento... e sentii contro la tempia la gelida bocca d'acciaio di una 45.
    Guardai in su e vidi uno scimmio-ne talmente brutto da fare arrestare, per lo spavento, perfino il meccanismo del Big Ben. Sorrideva.
    «Eccellente!» disse dall'interno la voce di Cressner. «L'applaudo, Norris!» E passò dalle parole ai fatti. «Portalo dentro, Tony.»
    Tony mi sollevò di peso e mi rimise in piedi, così all'improvviso che le mie deboli caviglie per poco non cedettero. Nell'entrare, dovetti appoggiarmi alla porta del balcone, per non cadere.
    Cressner era in piedi vicino al caminetto del soggiorno, sorseggiava brandy da un calice delle dimensioni di una boccia di vetro per i pesci. Il denaro era stato rimesso dentro la borsa per la spesa, che stava tuttora al centro della moquette arancione.
    Mi scorsi per un attimo nel piccolo specchio dall'altra parte della stanza. I capelli erano scarmigliati, la faccia pallida salvo due accese chiazze di colore sulle guance. Gli occhi avevano una luce di follia.
    Fu una visione fuggevole, perché l'istante dopo stavo volando attraverso la stanza. Urtai nella poltroncina di canapa e ci caddi sopra, trascinandola a terra con me e rimanendo là, senza fiato.
    Quando lo recuperai in parte, mi tirai su e riuscii a spiccicare: «Baro schifoso! Era già tutto preparato.»
    «Effettivamente è vero,» confermò Cressner, posando con cura il suo brandy sulla mensola del caminetto. «Ma non sono un baro, signor Norris. Assolutamente no: soltanto uno che non sa perdere. Tony è qui per assicurarsi che lei non faccia niente di... sconsigliato.» Si passò le dita sul mento e rise, sotto i baffi. Non aveva affatto l'aria di chi non sa perdere. Sembrava piuttosto un gatto con qualche piuma di canarino sul muso. Mi rialzai, sentendomi all'improvviso più atterrito di quanto non lo fossi là sul cornicione.
    «Lei mi ha imbrogliato,» ripetei. «Non so come, ma ha barato.»
    «Niente affatto. L'eroina è stata tolta dalla sua macchina. La macchina è stata riportata nell'area di parcheggio qui sotto. Il denaro è là. È padronissimo di prenderlo e andarsene.»
    «Bene!»
    Tony se ne stava presso la porta del balcone, sempre simile a un relitto della festa di Ognissanti. Aveva in mano la '45. Mi avvicinai alla borsa per la spesa, la presi, e m'incamminai verso la porta sulle mie doloranti caviglie, aspettandomi, da un momento all'altro, una pallottola nella schiena. Ma quando aprii la porta, cominciai a provare la stessa sensazione che avevo provato là sul cornicione dopo avere aggirato il quarto angolo: stavo per farcela.
    La voce di Cressner, pigra e divertita, mi fermò.
    «Non penserà sul serio che quel vecchio trucco della ritirata per signore abbia ingannato qualcuno, vero?»
    Mi voltai lentamente, la borsa per la spesa tra le braccia. «Che cosa intende dire?»
    «Le ho detto che non baro mai, e infatti è così. Lei ha vinto tre cose, signor Norris. Il denaro, la sua libertà, mia moglie. Le prime due le ha. La terza può passare a ritirarla all'obitorio.»
    Lo fissavo, incapace di muovermi, impietrito in un tuono di choc privo di suono.
    «Davvero s'illudeva che gliel'avrei ceduta?» chiese lui, in tono di compatimento. «Oh, no! Il denaro, sì. La sua libertà, sì. Ma non Marcia. Tuttavia, io non baro. E dopo che l'avrà seppellita...»
    Non mi avvicinai a lui. Non ancora. Lui era per dopo. Andai verso Tony, che parve lievemente sorpreso finché Cressner non disse, con voce annoiata: «Sparagli, per piacere.»
    Lanciai la borsa di denaro. Lo colpì in pieno sulla mano che impugnava la pistola, e con molta forza. Non avevo usato braccia e polsi, là fuori, e sono la parte migliore di qualsiasi giocatore di tennis. Il proiettile finì nella moquette arancione scuro, poi Tony fu mio.
    La faccia era la cosa più dura, in lui. Gli strappai l'arma di mano e, con la canna, lo colpii sul ponte del naso. Andò giù con un singolo, esausto grugnito e somigliava tutto a Rondo Hatton.
    Cressner era quasi arrivato alla porta quando sparai un colpo al di sopra della sua spalla e intimai: «Fermati lì, o sei morto.»
    Ci pensò su e si fermò. Quando si girò, la sua posa da uomo di mondo consumato e cosmopolita si era un tantino sbriciolata. Si sbriciolò più che mai alla vista di Tony lungo disteso, che rischiava di venire soffocato dal suo stesso sangue.
    «Non è morta,» si affrettò ad assicurare. «Dovevo pur rifarmi in qualche modo, non le pare?» Mi elargiva un sorriso fisso, artefatto.
    «Sono un credulone,» dissi, «ma non fino a questo punto.» La mia voce suonava spenta, senza vita. Vi pare strano? Marcia rappresentava tutta la mia vita, e quell'uomo l'aveva messa su una lastra di marmo.
    Con un dito che tremava leggermente, Cressner indicò il denaro ruzzolato attorno ai piedi di Tony. «Quello,» disse, «è soltanto un'inezia. Posso dargliene centomila. O cinquecento. O che cosa ne dice di un milione, su un conto di banca in Svizzera? Allora, che cosa ne dice? Che cosa...»
    «Le propongo una scommessa,» dissi, lentamente.
    Guardò dalla canna della pistola alla mia faccia. «Una...»
    «Una scommessa,» ripetei. «Ci giochiamo tutto, come si usa dire in un linguaggio più alla buona.
    Scommetto che lei non può fare il giro di questo palazzo sul cornicione là fuori.»
    Diventò bianco come un cencio. Per un attimo, pensai che stesse per svenire. «Lei non...» bisbigliò.
    «Se ce la fa,» dissi con la voce spenta, «la lascio andare. La posta è questa. Ci sta?»
    «No,» bisbigliò. I suoi occhi erano fissi, enormi.
    «Pazienza,» dissi, e puntai la pistola.
    «No!» urlò lui, tendendo le mani, come per fermarmi. «No! Aspetti! Io... va bene.» Si passò la lingua sulle labbra.
    Feci un gesto con l'arma, e lui mi precedette fuori, sul balcone. «Perché trema?» gli chiesi. «Questo le renderà tutto più difficile.»
    «Due milioni,» disse lui, e non poteva alzare la voce al di sopra di un gemito rauco. «Due milioni in contanti, biglietti non segnati.»
    «No. Nemmeno per dieci milioni. Ma se ce la fa, sarà libero. Dico sul serio.»
    Un minuto dopo era ritto sul cornicione. Era più basso di me; si vedevano soltanto gli occhi, al di sopra dell'orlo, spalancati e supplichevoli, e le nocche bianche che stringevano l'inferriata come avrebbero stretto le sbarre di una prigione.
    «La prego,» bisbigliò. «Qualsiasi cosa.»
    «Sta sprecando tempo,» dissi. «Ne risentono le caviglie.»
    Ma non voleva muoversi, e dovetti puntargli la canna della pistola contro la fronte. Poi cominciò a spostarsi verso destra, lamentandosi. Guardai l'orologio della banca: faceva le 11.29.
    Pensavo che non sarebbe arrivato neppure al primo angolo. Non voleva proprio muoversi e, quando lo faceva, si muoveva a scatti, mettendo a rischio il suo centro di gravità, mentre la vestaglia si gonfiava al vento nel buio.
    È sparito oltre l'angolo, e fuori della mia vista, alle 12.01, quasi quaranta minuti fa. Ho teso l'orecchio per sentire l'urlo perdersi nel buio, mentre veniva investito dal vento di traverso, ma non si è sentito. Forse il vento era caduto. Ricordo d'avere pensato, mentre stavo là fuori, che il vento era suo alleato. O forse è stato soltanto fortunato. Forse è là sull'altro balcone, ora, a tremare ammucchiato per terra, senza il coraggio di continuare.
    Ma probabilmente sa che, se lo sorprenderò là quando farò irruzione nell'altro attico, lo ammazzerò come un cane. E, a proposito dell'altro lato dell'edificio, chissà che effetto gli farà quel piccione.
    Che cosa è stato, un urlo? Non lo so. Potrebbe essere stato il vento. Non importa. L'orologio della banca segna le 12.44. Tra poco farò irruzione nell'altro appartamento e controllerò il balcone, ma per ora me ne sto seduto qui sul balcone di Cressner, con la 45 di Tony in mano. Non si sa mai che Cressner sbuchi da quell'ultimo angolo con la vestaglia che si gonfia dietro di lui, nel vento.
    Cressner diceva di non avere mai barato su una scommessa.
    Nel caso mio, non posso dire altrettanto.

    Edited by Indigo. - 25/12/2013, 14:35
     
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    L'ho letta giusto l'altro giorno dal libro. Uno dei racconti che preferisco di quella raccolta, soprattutto perché soffro di vertigini!
     
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    Capolavoro assoluto.
    Da fare leggere ai detrattori di King.
    A Volte Ritornano contiene una serie di racconti uno più bello dell'altro.
     
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    Bello. :rock2:
     
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