Jerusalem's Lot

Stephen King

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  1. Indigo.
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    2 ottobre 1850

    CARO BONES,
    Che piacere, per me, mettere piede nell'entrata gelida e piena di correnti d'aria, qui a Chapelwaite, con tutte le ossa doloranti per colpa di quell'abominevole carrozza, con l'urgenza di dare immediato sollievo alla mia povera vescica... e riconoscere la tua inimitabile zampa di gallina sulla lettera indirizzata a me e appoggiata sopra l'orribile tavolinetto di ciliegio accanto alla porta! Stai pur sicuro che mi sono affrettato a decifrarla non appena soddisfatte le necessità corporali (in un bagno gelidamente ornato del piano terreno, dove potevo vedere il mio alito levarsi davanti agli occhi).
    Sono contento di sentire che sei guarito dal miasma che per tanto tempo ti ha insidiato i polmoni, sebbene comprenda, te l'assicuro, il dilemma morale con il quale la cura ti ha afflitto. Un abolizionista sofferente risanato dal soleggiato clima della schiavista Florida! Tuttavia, Bones, te lo chiedo come uno che ha a sua volta camminato nella valle dell'ombra, abbi la massima cura di te e non azzardarti a tornare nel Massachusetts finché il tuo corpo non te ne darà licenza. La tua bella mente e la tua penna incisiva non possono servirci se sei cenere, e se la zona meridionale ha virtù risanataci, non ti pare che in questo ci sia una giustizia poetica?
    Sì, la casa è tanto bella quanto sono stato indotto a credere dagli esecutori di mio cugino, ma piuttosto sinistra. Sorge in cima a una grande e sporgente punta di terra forse tre miglia a nord di Falmouth e nove miglia a nord di Portland. Dietro ci sono circa quattro acri di terreno, tornato allo stato selvaggio nel modo
    più spaventoso che sia dato immaginare: ginepri, viti selvatiche, cespugli e svariate forme di piante rampicanti scavalcano selvaggiamente le pittoresche mura di pietra che separano la proprietà dal suolo demaniale. Orribili imitazioni di statue greche scrutano con i loro occhi ciechi attraverso tanta rovina dalla sommità di svariate alture: sembrano, nella maggior parte dei casi, sul punto di slanciarsi sul passante. Pare che i gusti di mio cugino Stephen percorressero tutta la gamma dall'inaccettabile all'orrido senza scampo. C'è uno strano, piccolo padiglione che è letteralmente sommerso dalle tamerici e una grottesca meridiana al centro di quello che un tempo doveva essere un giardino. Aggiunge il tocco finale di follia.
    Ma la vista, dal salotto, fa dimenticare tutto questo. Si domina una veduta da capogiro delle rocce ai piedi di Chapelwaite Head e dell'Atlantico. Un'immensa, panciuta finestra ad arco si affaccia su tale spettacolo e accanto a essa vi è una enorme, tozza scrivania. Andrà a meraviglia per dare inizio a quel romanzo di cui ho parlato così a lungo (e senza dubbio noiosamente).
    La giornata di oggi è stata grigia, con occasionali acquazzoni. Mentre guardo fuori, mi sembra di contemplare uno studio in ardesia: le rocce, antiche e logore come il tempo stesso, il cielo, e naturalmente il mare, che si abbatte contro le zanne di granito, giù in basso, con un fragore che non è precisamente suono ma vibrazione: anche mentre scrivo, mi pare di sentire le onde sotto le piante dei piedi. La sensazione non è del tutto sgradevole.
    So che disapprovi le mie abitudini solitarie, caro Bones, ma ti assicuro che sto benissimo così. Calvin è con me, capace, silenzioso e degno d'affidamento come sempre, e verso la metà della settimana sono certo che tra tutti e due avremo sistemato i nostri affari e preso accordi per le necessarie consegne a domicilio dalla città, nonché per un plotone di donne delle pulizie, tanto per cominciare a soffiar via la polvere da questa casa!
    Ora concludo: ci sono tante cose ancora da vedere, stanze da esplorare, e senza dubbio almeno un migliaio di mobili esecrabili che questi poveri occhi dovranno contemplare. Ancora una volta, grazie per il tocco familiare recatomi dalla tua lettera e per il tuo continuo ricordo.
    Un caro saluto a tua moglie, poiché entrambi avete il mio affetto.
    CHARLES

    6 ottobre 1850

    CARO BONES,
    Che posto è mai questo!
    Continua a stupirmi... e così le razioni della gente del più vicino villaggio al fatto che io abbia preso possesso della casa. È uno strano paesino dal pittoresco nome di Preacher's Corners. È là che Calvin è andato a contrattare per le provviste settimanali. L'altra commissione, quella per assicurare una provvista di legna da ardere sufficiente per l'inverno, è stata ugualmente sbrigata. Ma Cal è ritornato con l'aria molto
    turbata e quando gli ho domandato che cosa lo preoccupasse ha risposto in tono piuttosto truce: «La credono pazzo, signor Boone!» Ho riso e ho risposto che forse avevano sentito parlare dell'attacco di meningite di cui avevo sofferto dopo la morte della mia Sarah: indubbiamente sragionavo a quel tempo, come tu potresti testimoniare.
    Ma Cal ha assicurato che nessuno sapeva niente di me se non attraverso mio cugino Stephen, il quale contrat-tava per gli stessi servizi che io ora ho fatto in modo di assicurarmi. «È stato detto, signore, che chiunque decida di vivere a Chapelwaite dev'essere pazzo, oppure corre il rischio di diventarlo.»
    La cosa mi ha lasciato incredibilmente perplesso, come potrai immaginare, e ho domandato chi gli avesse fatto quella sorprendente comunicazione. Mi ha spiegato che gli avevano detto di rivolgersi a uno scontroso e piuttosto istupidito fornitore di legna di nome Thompson, il quale possiede quattrocento acri a pino, betulla e abete, e fa il tagliaboschi con l'aiuto dei suoi cinque figli, per rifornire le industrie di Portland e le case private delle immediate vicinanze.
    Quando Cal, del tutto ignaro dei curiosi pregiudizi del Thompson, ha comunicato a quale indirizzo avrebbero dovuto portare la legna, l'altro l'ha guardato a bocca aperta e ha risposto che avrebbe mandato i suoi figli a consegnarla, nella piena luce del giorno e dalla strada lungo il mare.
    Calvin, scambiando evidentemente per sgomento la mia meraviglia, si è affrettato a dire che l'uomo sapeva di whisky scadente e che si era poi messo a biascicare cose senza senso a proposito di un villaggio abbandonato, dei parenti del cugino Stephen... e di vermi! Calvin ha concluso la trattativa con uno dei ragazzi Thompson, il quale, m'è parso di capire, era un tipo scorbutico e nemmeno lui molto lucido o profumato di fresco. Ma se non sbaglio una reazione simile a questa vi è stata anche a Preacher's Corners, all'emporio dove Cal ha parlato con il negoziante, sebbene in questo caso si sia trattato più che altro di pettegolezzi.
    Niente di tutto questo mi ha scosso, in verità; sappiamo come i villici amino arricchire la loro esistenza con l'odore dello scandalo e del mito, e immagino che il povero Stephen e il suo ramo della famiglia fossero una facile preda. Come ho detto a Cal, un uomo che trova la morte precipitando quasi dal portico di casa, non può non suscitare chiacchiere.
    La casa in sé è fonte di costante stupore. Ventitré stanze, Bones! Il rivestimento a pannelli di legno dei piani superiori e della galleria dei ritratti è un po' muffoso ma ancora molto solido. Mentre mi trovavo nella camera da letto del mio povero cugino, di sopra, sentivo i topi scorrazzare dietro le pareti, e devono essere enormi, dal rumore che fanno: sembrava quasi di sentire camminare gente. Non ci terrei a incontrarne uno nel buio; e nemmeno con la luce, tutto sommato. Eppure, non ho visto né buchi né escrementi. Strano.
    Nella galleria, di sopra, c'è una serie di brutti ritratti, in cornici che devono valere un patrimonio. Alcuni mostrano una rassomiglianza con Stephen, per quello che io ricordo. Credo d'avere identificato con esattezza mio zio Henry Boone e sua moglie Judith; gli altri non mi sono familiari. Immagino che uno di loro debba essere il mio famoso nonno, Robert. Ma il lato della famiglia cui Stephen apparteneva mi è del tutto sconosciuto, il che mi dispiace sinceramente. Lo stesso buonumore che traspariva dalle lettere di Stephen a Sarah e a me, la stessa luce di grande intelligenza, splende in questi ritratti, per brutti che siano. Per quali sciocche ragioni le famiglie si disperdono!
    Un secretaire manomesso, parole dure tra fratelli ormai defunti da tre generazioni, e i discendenti senza alcuna colpa si ritrovano forzatamente estranei. Non posso fare a meno di riflettere quale fortuna sia stata il fat-to che tu e John Petty riusciste a mettervi in contatto con Stephen quando sembrava che potessi seguire la mia Sarah nell'ai di là... e nel contempo sulla sfortuna che il caso ci abbia privati di un incontro a faccia a faccia. Quanto avrei avuto caro ascoltarlo difendere le statue e il mobilio ancestrali!
    Ma non devo eccedere nel denigrare la casa. Stephen non aveva i miei gusti, d'accordo, ma sotto la patina delle aggiunte fatte da lui ci sono pezzi (un numero dei quali ricoperto da fodere nelle camere dei piani superiori) che sono autentici capolavori. Ci sono letti, tavoli e altre suppellettili scolpiti, scuri e pesanti, di mogano e di tek, e molte delle stanze da letto e di ricevimento, lo studio e un salottino del piano superiore, hanno un fascino austero. I pavimenti sono di solido pino, che ha un suo lustrare intimo e segreto. C'è dignità, qui; dignità e il peso degli anni. Non posso ancora affermare che mi piaccia, ma m'ispira rispetto. Sono ansioso di vedere come cambierà con l'avvicendarsi dei mutamenti di questo clima settentrionale.
    Dio, quanto mi dilungo! Scrivi presto, Bones. Dimmi quali progressi fai, e quali nuove hai di Petty e degli altri. E ti prego, non commettere l'errore di voler convincere qualche nuova conoscenza meridionale delle tue vedute in modo troppo energico: mi risulta che non tutti si accontentano di rispondere unicamente con la bocca, come il nostro prolisso amico, signor Calhoun.
    Tuo affezionato
    CHARLES

    16 ottobre 1850

    CARO RICHARD,
    Salve, come va? Ho pensato spesso a te da quando ho stabilito la mia residenza qui a Chapelwaite, e m'aspettavo anzi d'avere tue nuove... ma ora ricevo una lettera da Bones in cui mi dice che avevo dimenticato di lasciare il mio indirizzo al club! Stai pur sicuro che avrei finito per scriverti, a ogni modo, perché a volte ho l'impressione che i miei cari e fedeli amici siano tutto quello che di sicuro e di completamente normale mi sia rimasto al mondo. Ah, Signore, quanto ci siamo dispersi! Tu a Boston, a scrivere puntualmente per il Liberator (al quale anche ho mandato il mio indirizzo, tra parentesi), Hanson in Inghilterra per un altro dei suoi benedetti viaggi, e il nostro povero Bones proprio nella fossa dei serpenti, a curarsi i polmoni.
    Nel complesso le cose vanno bene qui, caro Dick, e non dubitare che ti farò un resoconto completo quando non sarò, come ora, pressato da certi eventi che si stanno verificando: la tua mente legale, penso, sarebbe molto incuriosita da determinati avvenimenti di Chapelwaite e dintorni.
    Ma nel frattempo ho un favore da chiederti, se vorrai prenderlo in considerazione. Ricordi lo storico al quale mi presentasti al pranzo offerto dal signor Clary per raccogliere fondi per la causa? Il suo nome se non sbaglio era Bigelow. A ogni modo, disse, tra l'altro, d'essersi fatto un hobby del raccogliere frammenti di erudizione storica aventi attinenza proprio con l'area in cui sono venuto ad abitare. Il favore, perciò, è questo: potresti metterti in contatto con lui e domandargli di quali fatti, brandelli di folklore, o voci di popolo (se ve ne sono) è per caso al corrente a proposito di un piccolo villaggio abbandonato chiamato JERUSALEM'S LOT, nei pressi della cittadina di Preacher's Corners, sul fiume Royal? Il fiume è un affluente dell'Androscoggin, e si getta in esso circa undici miglia più su della foce di quel fiume, vicino a Chapelwaite. Saperlo mi farebbe un vero piacere e, quel che più conta, potrebbe essere di una certa importanza.
    Nel riguardare questa lettera., mi accorgo d'essere stato un po' sbrigativo con te, Dick, del che sono sinceramente mortificato. Ma sii certo che mi spiegherò meglio al più presto, e fino a quel momento mando i miei più cari saluti a tua moglie, ai tuoi bei due figli e, naturalmente, a te.
    Tuo affezionatissimo
    CHARLES


    16 ottobre 1850


    CARO BONES,
    Ho da raccontarti una storia che sembra un po' strana (e perfino inquietante) tanto a Cal che a me: vedi che cosa ne pensi. Se non altro, potrà servire a divertirti mentre combatti con le zanzare.
    Due giorni dopo che t'avevo spedito la mia ultima, un gruppo di quattro giovani donne arrivò da Corners sotto il controllo di una donna anziana d'aspetto così competente da incutere timore, di nome signora Cloris, per mettere in ordine la casa e togliere parte della polvere che minacciava di farmi starnutire quasi a ogni passo. Sembravano tutte un po' nervose, mentre si dedicavano alle loro incombenze; al punto che una di quelle sciocchine mandò un grido quando io entrai nel salotto di sopra dove lei stava spolverando.
    Chiesi spiegazioni in proposito alla signora Cloris (stava spolverando l'atrio del piano terreno con una cupa determinazione che t'avrebbe lasciato sbalordito, i capelli protetti da un vecchio fazzolettone stinto), e lei, girandosi verso di me, rispose con fare che non ammetteva replica: «Mal sopportano questa casa, signore, e non piace nemmeno a me, perché è sempre stata una cattiva casa.»
    Rimasi a bocca aperta a quel commento inaspettato, e lei continuò in tono più mite: «Non intendo dire che Stephen Boone non fosse un uomo come si deve, perché lo era; venivo a fare le pulizie per lui ogni quindici giorni, per tutto il tempo in cui visse qui, così come le facevo per suo padre, il signor Randolph Boone, finché lui e la moglie non scomparvero nell'ottocentosedici. Il signor Stephen era un uomo buono e gentile, così come sembra lei, signore (e deve perdonare la mia franchezza: non conosco altro modo di parlare), ma la casa è malvagia e lo è sempre stata, e nessun Boone è mai stato felice qui, da quando suo nonno Robert e il fratello Philip litigarono per certi oggetti rubati (qui la donna fece una pausa, quasi con fare colpevole) nel settecentottantanove.»
    Che memoria ha questa gente, Bones!
    La signora Cloris continuò: «La casa è stata costruita nell'infelicità, è stata abitata nell'infelicità, è stato versato sangue sui suoi pavimenti (non so se lo sai, Bones, mio zio Randolph rimase coinvolto in un incidente sulle scale della cantina che costò la vita a sua figlia Marcella; in seguito si uccise, per una crisi di rimorso. L'incidente è riferito in una delle lettere di Stephen a me, in una triste occasione: ricorreva il compleanno della sorella morta), ci sono state sparizioni e incidenti.
    «Ho lavorato qui, signor Boone, e non sono né cieca né sorda. Ho udito rumori orribili nelle pareri, signore, suoni orribili: tonfi, schianti, e una volta uno strano lamento che sembrava una mezza risata. So che mi fece gelare il sangue. È un luogo misterioso, signore.» E là s'interruppe, forse timorosa d'avere parlato troppo.
    Quanto a me, non sapevo neanch'io se mostrarmi offeso o divertito,
    curioso o semplicemente sbrigativo. Temo che il divertimento prevalesse, in quel momento. «E che cosa sospetta che siano, signora Cloris? Spettri che scuotono le catene?»
    Ma lei si limitò a fissarmi in modo strano. «Può darsi che esistano gli spettri. Ma non sono spettri, quelli nelle pareti. Non sono gli spettri a gemere e a disperarsi come dannati, e a fare fracasso e ad allontanarsi senza meta nel buio. Sono...»
    «Andiamo, signora Cloris,» la sollecitai. «È arrivata fin qui. Non potrebbe finire, visto che ha cominciato?»
    Un'espressione stranissima di terrore, dispetto e — lo giurerei — di timore religioso, passò sul suo volto. «Alcuni non muoiono,» bisbigliò. «Continuano a vivere nelle ombre crepuscolari intermedie, per servire... Lui!»
    E il discorso finì. Per diversi minuti continuai ad assillarla, ma lei non faceva che mostrarsi anche più ostinata e non volle dire altro. Alla fine preferii desistere, temendo che potesse prendere cappello e andarsene.
    Questa è la conclusione di un episodio, ma la sera seguente se ne verificò un secondo. Calvin aveva acceso il fuoco da basso e io me ne stavo seduto nel soggiorno, a sonnecchiare sopra una copia dell'Intelligencer e ad ascoltare il suono della pioggia spinta dal vento contro la grande finestra panoramica. Mi sentivo a mio agio come accade soltanto in una serata così, quando tutto è tristezza all'esterno e tutto è tepore e conforto all'interno; ma qualche istante dopo apparve Cal sulla soglia, e sembrava agitato e un po' nervoso.
    «È sveglio, signore?» chiese.
    «Quasi,» dissi. «Che c'è?»
    «Ho trovato qualcosa di sopra che penso lei dovrebbe vedere,» mi rispose, con la stessa aria di agitazione dominata a stento.
    Mi alzai e lo seguii. Mentre salivamo l'ampia scalinata, Calvin disse: «Stavo leggendo un libro nello studio di sopra, un libro piuttosto strano, quando ho sentito un rumore nella parete.»
    «Topi!» sentenziai. «Tutto qui?»
    Si fermò sul pianerottolo, fissandomi con aria solenne. Il lume che reggeva gettava strane ombre danzanti sui tendaggi scuri e sui ritratti in penombra che ora sembravano sogghignare invece che sorridere. Fuori, il vento salì fino a un breve urlo per poi placarsi, quasi di malavoglia.
    «Non erano topi,» disse Cal. «Veniva un suono sordo ed errante, da dietro gli scaffali dei libri, seguito da un orribile gorgoglio: orribile, signore. E un grattare, come se qualcosa stesse tentando di venir fuori... per aggredirmi!»
    Ti lascio immaginare la mia meraviglia, Bones. Calvin non è tipo da abbandonarsi a voli isterici di fantasia. Cominciavo a temere che ci fosse davvero un mistero, in casa: e forse tutt'altro che bello.
    «E poi?» chiesi. Avevamo ripreso ad avanzare lungo il corridoio e potevo vedere la luce riversarsi dallo studio sul pavimento della galleria. La scrutavo con una certa trepidazione: la serata non aveva più niente di confortevole.
    «Il rumore raschiante è cessato. Dopo un momento, sono ricominciati quei suoni come di tonfi e di qualcosa che strisciasse, e stavolta sembrava che si allontanassero. C'è stata una pausa, e giuro d'avere udito una risata strana, quasi impercettibile! Mi sono avvicinato alla libreria e ho cominciato a spingere e a tirare, pensando che potesse esservi un divisorio, o una porta segreta.»
    «Hai trovato qualcosa?»
    Cal si fermò un istante sulla porta dello studio. «No... ma ho trovato questo!»
    Entrammo e vidi una buca nera e quadrata nello scaffale a sinistra. I libri, in quel punto, erano volumi finti, e quello che Cal aveva trovato era un piccolo nascondiglio. Proiettai all'interno la luce del lume e non vidi altro che un denso strato di polvere, polvere che doveva essere vecchia di decenni.
    «C'era soltanto questa,» disse sommessamente Cal, è mi porse una pergamena ingiallita. Era una mappa,
    disegnata con tratti sottilissimi in inchiostro nero: la mappa di un paese o di un villaggio. C'erano forse sette edifici, uno dei quali, nitidamente contrassegnato da un campanile, recava al disotto la scritta: Il Verme Che Corrompe.
    Nell'angolo in alto a sinistra, cioè a nordovest di quel piccolo villaggio, una freccia puntata. Sotto c'era scritto: Chapelwaite.
    Calvin disse: «In paese, signore, qualcuno ha accennato, in tono superstizioso, a un villaggio abbandonato che si chiama Jerusalem's Lot. È un luogo da cui stanno alla larga.»
    «Ma... e questo?» chiesi, seguendo con l'indice la strana legenda sotto il campanile.
    «Non saprei.»
    Il ricordo della signora Cloris, adamantina e al tempo stesso timorosa, mi passò per la mente. «Il Verme...» mormorai.
    «Lei sa qualcosa, signor Boone?»
    «Forse... potrebbe essere divertente dare un'occhiata a questa località, domani. Che cosa ne pensi, Cal?»
    Assentì, illuminandosi. Dopo di che, passammo quasi un'ora a cercare qualche apertura nella parete dietro il recesso che Cal aveva scoperto, ma inutilmente. Né ci fu alcun ripetersi dei rumori che Cal aveva descritto.
    Ci ritirammo senza altre avventure, per quella sera.
    Il mattino seguente, Calvin e io ci mettemmo in cammino per la nostra passeggiata attraverso i boschi. La pioggia della sera prima era cessata, ma il cielo era basso e cupo. Vedevo che Cal mi guardava un po' dubbioso e mi affrettai a rassicurarlo che, qualora mi fossi stancato, o il tragitto si fosse rivelato troppo lungo, non avrei esitato a rinunciare a tutta la faccenda. Ci eravamo equipaggiati con colazione al sacco, una bella bussola Buckwhite e, naturalmente, la strana e antica mappa di Jerusalem's Lot.
    Era una giornata strana e tetra; sembrava che non un uccello cantasse né un animale si muovesse mentre procedevamo attraverso la grande e cupa distesa dei pini verso il sud e l'est. Gli unici suoni erano quelli dei nostri stessi passi e il battere uniforme dell'Atlantico contro il promontorio. L'odore del mare, di un'intensità quasi innaturale, era il nostro costante compagno.
    Avevamo percorso non più di un paio di miglia quando trovammo, invasa dalle erbacce, una strada pavimentata di tronchi d'albero, come se ne facevano un tempo; si snodava più o meno nella nostra direzione, così prendemmo a seguirla, procedendo più spediti. Parlavamo poco. La giornata, così immobile e minacciosa, gravava pesantemente sullo spirito.
    Verso le undici, sentimmo un rumore di acqua che scorre. L'ultimo tratto di strada descriveva una brusca svolta a sinistra, e dall'altro lato di un torrentello grigio e ribollente, c'era, simile a un'apparizione, Jerusalem's Lot!
    Il torrente, largo forse due metri e mezzo, era attraversato da un ponte ricoperto di muschio. Sul lato opposto, Bones, sorgeva il piccolo villaggio più perfetto che tu possa immaginare, comprensibilmente segnato dalle intemperie ma preservato in maniera sorprendente. Diverse case, costruite con quella forma austera e al tempo stesso imponente per la quale i puritani erano giustamente famosi, stavano raggruppate presso la ripida riva. Più in là, lungo un'arteria stradale ingombra di erbacce, sorgevano tre o quattro edifici che facevano pensare a una sorta di centro degli affari sia pure un po' primitivo e, al di là di quelli, il campanile della chiesa segnata sulla mappa, che si levava contro il cielo grigio e appariva così cupo che non saprei descriverlo, con il suo intonaco scrostato e la sua croce annerita e pendente.
    «La città ha un nome adatto,» osservò sottovoce Cal accanto a me.
    Attraversammo il ponte e cominciammo ad aggirarci tra le case: e qui la mia storia diventa piuttosto sorprendente, Bones, perciò preparati!
    L'aria sembrava di piombo mentre camminavamo tra gli edifici; era pesante, se preferisci. Le costruzioni erano in uno stato di abbandono: imposte mezzo staccate, tetti in parte crollati sotto il peso di pesanti nevicate ora dissoltesi, finestre polverose e sogghignanti. Da angoli strani e da spigoli distorti, le ombre sembravano addensarsi in sinistre pozze.
    Entrammo prima in una vecchia taverna mezzo diroccata: non so perché, non sembrava giusto che invadessimo qualcuna di quelle case in cui la gente usava un tempo ritirarsi quando desiderava trovarsi nell'intimità. Un'antica insegna scolorita e cancellata dalle intemperie annunciava che quella era stata la taverna Alla testa del cinghiale, vitto e alloggio. La porta mandò un cigolio infernale, girando su uno dei cardini superstiti e avanzammo nell'interno in penombra. L'odore di marciume e di muffa era come un vapore che quasi stordiva. E al disotto di quello sembrava stagnare un tanfo anche più profondo, un lezzo melmoso e pestifero, di secoli e della decomposizione dei secoli. Un miasma quale potrebbe uscire da bare marcite o da tombe violate. Mi tenevo il fazzoletto al naso e lo stesso faceva Cal. Ci guardavamo intorno.
    «Mio Dio, signore...» mormorò debolmente Cal.
    «Niente è mai stato toccato,» terminai per lui.
    Ed era così, infatti. Tavole e sedie stavano intorno a noi come spettrali guardiani, polverosi, deformati dagli estremi sbalzi di temperatura per i quali il clima del New England è noto, ma a patte questo perfetti: come se aspettassero, da echeggianti e silenti decenni, che coloro da tempo scomparsi entrassero, ancora una volta, a ordinare una pinta o un bicchierino, a giocare a carte e ad accendere pipe d'argilla. Un piccolo specchio quadrato era appeso accanto alle norme della taverna, intatto. Comprendi che cosa significa, Bones? I ragazzini sono famosi per l'esplorazione e il vandalismo; non c'è casa «stregata» che rimanga con le finestre intatte, non importa quanto temibili si dice che siano i suoi misteriosi abitanti; non c'è cimitero ombroso senza almeno una pietra tombale ribaltata da giovani birbanti. Senza dubbio a Preacher's Corners, che da Jerusalem's Lot dista meno di due miglia, di giovani birbanti ce ne saranno almeno una ventina. Eppure lo specchio del taverniere (che doveva essergli costato una discreta somma) era intatto, proprio come gli altri oggetti fragili che trovammo nel nostro rovistare. I soli danni, a Jerusalem's Lot, sono stati fatti dall'impersonale Natura. Il significato implicito è ovvio: Jerusalem's Lot è una città sfuggita. Perché? Un sospetto l'avrei, ma prima ancora di osare accennarvi, devo procedere fino alla sconcertante conclusione della nostra visita.
    Salimmo nelle stanze da letto e trovammo letti rifatti, brocche per l'acqua in peltro posate ordinatamente accanto. La cucina era allo stesso modo intatta, salvo la polvere degli anni e quell'orribile, insito tanfo di decomposizione. La sola taverna rappresentava un paradiso dell'antiquario; il solo fornello della cucina, meravigliosamente strano, avrebbe riscosso un prezzo notevole a un'asta di Boston.
    «Che cosa ne pensi, Cal?» domandai, quando emergemmo di nuovo nella luce incerta.
    «Penso che sia un brutto affare, signor Boone,» mi rispose, col suo fare afflitto, «e che dobbiamo vedere di più per saperne di più.»
    Dedicammo scarsa attenzione alle altre botteghe: c'era una locanda con borse di cuoio che si sbriciolavano ancora appese ai chiodi arrugginiti, una bottega di candelaio, un deposito con legna di pino e di quercia ancora accatastata, una fucina.
    Entrammo in due case, mentre ci dirigevamo verso la chiesa, al centro del villaggio. Entrambe erano di stile perfettamente puritano, zeppe di oggetti per i quali un collezionista avrebbe dato un braccio, entrambe abbandonate e sature dello stesso odore di marciume.
    Niente sembrava vivere o muoversi in tutto questo, salvo noi due. Non vedevamo insetti né uccelli, e neppure una ragnatela tessuta nell'angolo di una finestra. Soltanto polvere.
    Finalmente, arrivammo alla chiesa. S'innalzava sopra di noi, cupa, gelida, per nulla invitante. Le sue finestre apparivano nere per l'oscurità all'interno, e qualsiasi presenza divina o santità l'aveva disertata chissà da quanto tempo. Di questo sono sicuro. Salimmo i gradini e io posai la mano sul grosso pomolo di ferro della porta. Uno sguardo cupo e deciso passò da me a Cal e viceversa. Spinsi il portale. Da quanto tempo quella porta non era stata toccata? Direi senza tema di smentita che io ero il primo ad aprirla dopo una cinquantina d'anni, se non di più. Cardini induriti dalla ruggine stridettero acutamente, quando l'aprii. Il lezzo di marciume e di decomposizione che a soffocò era quasi palpabile. Cal mandò una sorta di gorgoglio dalla gola e girò involontariamente la testa in là, in cerca d'aria.
    «Signore,» chiese, «è proprio sicuro di poter...?»
    «Sto benissimo,» assicurai, con calma. Ma non mi sentivo affatto calmo, Bones, non più di quanto lo sia ora. Credo, come il nostro Hanson (quand'è d'umore filosofico) che vi siano luoghi spirituali nocivi, edifici dove il latte del cosmo è diventato acido e rancido. Quella chiesa è un posto così; lo giurerei.
    Entrammo in un lungo vestibolo equipaggiato di polverosi attaccapanni e di innarî sistemati su scaffali. Era senza finestre. Qua e là, entro nicchie, c'erano dei lumi a petrolio. Un ambiente che non ha niente di eccezionale, pensai, finché non sentii Calvin trattenere il respiro e non vidi quello che lui aveva già notato.
    Era un'oscenità.
    Non oso descriverti quel quadro riccamente incorniciato al di là di così: era stato eseguito a imitazione dello stile carnoso di Rubens; raffigurava la grottesca parodia di una madonna con bambino; strane creature mezzo in ombra strisciavano e si sollazzavano nello sfondo.
    «Signore Iddio!» mormorai.
    «Non c'è il Signore, qui,» disse Calvin, e le sue parole parvero rimanere sospese nell'aria. Aprii la porta che immetteva nella chiesa vera e propria, e l'odore divenne un miasma.
    Nella mezza luce baluginante del pomeriggio i banchi si stendevano spettrali fino all'altare. Sopra di essi c'era un alto pulpito di quercia e un nartece semisommerso dall'ombra da cui luccicava dell'oro.
    Con un mezzo singhiozzo Calvin, da protestante devoto, si fece il segno della croce, e io lo imitai. Perché quell'oro era appunto una grande croce, di splendida fattura... ma pendeva capovolta, simbolo della messa di Satana.
    «Dobbiamo essere calmi,» mi accorsi di dire. «Dobbiamo essere calmi, Calvin. Dobbiamo essere calmi.»
    Ma un'ombra mi aveva sfiorato il cuore, ed ero in preda a un timore mai provato. Ho camminato sotto l'ombrello della morte e pensavo che non ce ne fossero di più opprimenti. Ma ce n'è. Ce n'è.
    Percorremmo la navata e i nostri passi echeggiavano in alto e attorno a noi. Lasciavamo orme nella polvere. E all'altare c'erano altri tenebrosi objets d'art. Non voglio, non posso lasciare indugiare la mente su di essi.
    Cominciai a salire i gradini del pulpito.
    «No, signor Boone!» gridò improvvisamente Calvin. «Ho paura...»
    Ma ero salito, ormai. Un librone stava aperto sul leggio, scritto a un tempo in latino e in rune illeggibili che, al mio occhio non esercitato, apparivano druidiche o preceltiche. Accludo un cartoncino con diversi di quei simboli, che ho ritracciato a memoria.
    Chiusi il libro e guardai le parole impresse nel cuoio: De Vermis Mysteriis. Il mio latino è arrugginito, ma utile quanto basta per tradurre: I Misteri del Verme.
    Come toccai il volume, quella chiesa maledetta e la faccia pallida, levata verso l'alto, di Calvin parvero ondeggiare davanti a me. Mi sembrò di udire voci basse e cantilenanti, cariche di un timore che era orrore e ansia al tempo stesso; e, al disotto di quel suono, un altro, che riempiva le viscere della terra. Un'allucinazione, non ne dubito... ma, nello stesso momento, la chiesa si riempì di un suono molto reale, che posso descrivere soltanto come un tremendo e macabro rivoltarsi sotto di me. Il pulpito tremò sotto le mie dita. La croce sconsacrata tremò sulla parete.
    Uscimmo insieme, Cal e io, lasciando il luogo alla sua stessa tenebra, e nessuno dei due osò voltarsi se non dopo avere attraversato le rozze tavole che andavano da una riva all'altra del torrente. Non dirò che disonorammo i millenovecento anni che l'uomo ha speso a elevarsi da selvaggio superstizioso che era, mettendoci a correre; ma sarei un bugiardo se dicessi che camminavamo senza fretta.
    Questo è il mio racconto. Non devi turbare la tua convalescenza col temere che la febbre mi abbia nuovamente assalito: Cal può testimoniare sul contenuto di queste pagine, rumore orrendo compreso.
    Chiudo, perciò, aggiungendo soltanto che vorrei tanto vederti (sapendo che molto del mio sgomento sparirebbe immediatamente), e che sono il tuo amico e ammiratore,
    CHARLES

    17 ottobre 1850


    EGREGI SIGNORI,
    Nell'edizione più recente del loro catalogo di generi per la casa (Estate, 1850), ho notato una preparazione chiamata Veleno per topi. Desidererei acquistare una (1) lattina da 5 libbre di tale preparato al prezzo indicato di trenta centesimi (30). Accludo l'affrancatura per la risposta. Prego indirizzare a: Calvin McCann, Chapelwaite, Preacher's Corners, Contea di Cumberland, Maine.
    Grazie per l'attenzione.

    Ossequi e distinti saluti
    CALVIN McCANN

    19 ottobre 1850

    CARO BONES,
    Sviluppi di inquietante natura.
    I rumori nella casa si sono intensificati, e mi convinco sempre più che i topi non sono la sola cosa che si muove al di là delle nostre pareti. Calvin e io ci siamo dedicati a un'altra infruttuosa ricerca di aperture nascoste o di passaggi, ma senza trovare niente. Quanto miseramente figureremmo in uno dei romanzi della signora Radcliffe! Cal afferma, tuttavia, che gran parte del rumore proviene dalla cantina, ed è là che intendiamo esplorare domani. Non mi mette certo più a mio agio sapere che là la sorella del cugino Stephen trovò la sua disgraziata fine.
    Il suo ritratto, tra parentesi, è appeso nella galleria del piano di sopra. Marcella Boone era un cosino malinconicamente grazioso, se l'artista ha saputo coglierla a dovere, e so che non si è mai sposata. A volte penso che la signora Cloris abbia ragione, e che questa sia una casa malvagia. Certo è che non ha avuto in serbo altro che tristezza, per i suoi abitanti del passato.
    Ma ho altro da dirti sulla temibile signora Cloris, perché ho avuto quest'oggi un secondo colloquio con lei. Poiché è la persona più equilibrata di Corners da me incontrata finora, nel pomeriggio sono andato a cercarla, dopo uno spiacevole episodio che ora riferirò.
    La legna doveva essere consegnata questa mattina e, poiché mezzogiorno era ormai passato e della legna non c'era traccia, avevo deciso di andare fino in paese, per la mia passeggiata quotidiana. Il mio scopo era di far visita a Thompson, l'uomo con il quale Cal aveva trattato.
    La giornata era bella, con quel che di frizzante di un autunno soleggiato, e quando giunsi in vista della casa di Thompson (Cal, che era rimasto a casa per frugare ulteriormente nella biblioteca del cugino Stephen, mi aveva dato tutte le indicazioni necessarie) mi sentivo di ottimo umore, come non mi capitava da alcuni giorni, e del tutto disposto a perdonare la poca puntualità di Thompson.
    Il posto era un vero intrico di erbacce e di edifici malconci e bisognosi di una mano di tinta; a sinistra del granaio un grosso maiale, pronto per essere macellato a novembre, grugniva e si rotolava in un recinto fangoso, e nella corte maltenuta tra la casa e gli edifici esterni una donna dal lacero vestito di cotonina gettava il mangime ai polli, prendendolo dal grembiule. Quando la chiamai, girò verso di me la faccia pallida e insulsa.
    L'improvviso mutamento d'espressione, dal vuoto ottuso, assoluto, a una luce di terrore folle, fu per me fonte di immensa meraviglia. Posso soltanto pensare che mi avesse scambiato per lo stesso Stephen, perché la vidi levare la mano in un segno di scongiuro contro il malocchio e cacciare un urlo. Il mangime finì sparpagliato al suolo e il pollame si disperse, starnazzando e sbattendo le ali.
    Prima che potessi emettere un suono, la tozza e massiccia figura di un uomo vestito soltanto di lunghi mutandoni uscì a passi pesanti dalla casa con un fucile per gli scoiattoli in una mano e una brocca nell'altra. Dai suoi occhi accesi e dal passo malfermo, giudicai che dovesse trattarsi di Thompson il taglialegna in persona.
    «Un Boone!» tuonò. «Via, maledetto!» Lasciò cadere la brocca e fece a sua volta lo scongiuro.
    «Sono venuto,» dissi con tutta l'equanimità possibile date le circostanze, «perché la legna non si è vista. Secondo gli accordi che lei aveva preso con il mio domestico...»
    «Maledetto anche lui!» E per la prima volta mi accorsi che, sotto quei modi da smargiasso, era mezzo morto di paura. Cominciavo a domandarmi seriamente se, agitato com'era, non m'avrebbe scaricato addosso il fucile. Con prudenza, ritentai: «Come gesto di cortesia, potrebbe...»
    «All'inferno la cortesia!»
    «Benissimo, allora,» dissi, con tutta la dignità che mi fu possibile mostrare. «Le auguro buona giornata fino a che avrà ritrovato un poco il controllo di sé.» E, detto questo, voltai le spalle e mi avviai lungo la strada che portava in paese.
    «Non torni più qui!» mi urlò dietro. «Resti lassù con il suo demonio! Maledetto! Maledetto! Maledetto!» Mi scagliò una pietra, che mi colpì a una spalla. Non volli dargli la soddisfazione di scansarmi.
    Così andai in cerca della signora Cloris, ben deciso a risolvere il mistero dell'ostilità di Thompson, se non altro. È una vedova (e non cominciare con le tue manie da paraninfo, Bones; avrà di sicuro quindici anni più di me, e io i quaranta li ho passati da un pezzo) e vive sola in un piccolo, delizioso cottage proprio in riva all'oceano. La trovai intenta a stendere il bucato, e sembrava sinceramente contenta di vedermi. Questo mi fu di grande sollievo: è oltremodo irritante essere marchiato come paria senza una ragione comprensibile.
    «Signor Boone,» disse lei, accennando un inchino, «se è venuto per il bucato, è un lavoro che non accetto più a fine settembre. I reumatismi mi affliggono al punto che stento già a occuparmi del mio.»
    «Magari fosse la biancheria da lavare l'oggetto della mia visita! Sono venuto a cercare aiuto, signora Cloris. Devo sapere tutto quello che lei può dirmi su Chapelwaite e Jerusalem's Lot, e sul perché la gente del paese mi guarda con tanta paura e sospetto.»
    «Jerusalem's Lot. Lei sa di quello, allora.»
    «Sì,» risposi, «e l'ho visitato con il mio compagno una settimana fa.»
    «Dio!» Si fece bianca come un lenzuolo, e vacillò. Allungai una mano per sostenerla. Gli occhi le si arrovesciarono in modo orribile e, per un attimo, ebbi la certezza che stesse per svenire.
    «Signora Cloris, mi dispiace se ho detto qualcosa che...»
    «Venga dentro,» disse lei. «È giusto che sappia. Gesù mio, i giorni del demonio sono tornati!»
    Non volle aggiungere altro se non dopo avere preparato del tè ben forte nella sua soleggiata cucina. Poi, con il tè davanti a noi, rimase per un poco a fissare pensosamente verso l'oceano. Inevitabilmente, i suoi occhi e i miei erano attirati dal ciglio sporgente di Chapelwaite Head, dove la casa si affacciava sull'acqua. La grande finestra ad arco luccicava come un diamante ai raggi del sole al tramonto. La vista era bella ma stranamente inquietante. Tutt'a un tratto, lei si rivolse a me e dichiarò, con ve-emenza: «Signor Boone, lei deve lasciare Chapelwaite immediatamente!»
    Ero allibito.
    «Si avverte un alito maligno nell'aria da quando lei vi ha preso residenza. Durante la scorsa settimana — da che lei ha messo piede in questo posto maledetto — ci sono stati cattivi presagi e portenti. Un velo sopra la faccia della luna; stormi di caprimulghi che pernottano nei cimiteri; una nascita innaturale. Lei deve andarsene!»
    Quando ritrovai la favella, parlai il più gentilmente possibile. «Signora Cloris, queste sono superstizioni. Lei dovrebbe saperlo.»
    «È una superstizione che Barbara Brown abbia dato alla luce un bambino senza occhi? O che Clifton Brockett abbia trovato nei boschi al di là di Chapelwaite una traccia larga un metro e mezzo, dove tutto ciò che era stato schiacciato e appiattito appariva completamente secco e calcificato? E può lei, che ha visitato Jerusalem's Lot, asserire in tutta onestà che là non ci sia più niente di vivo?»
    Non potei rispondere: la scena di quell'orribile chiesa mi si parava dinanzi agli occhi.
    Lei serrava una contro l'altra le mani artritiche, nel tentativo di calmarsi. «So di queste cose soltanto da mia madre e, prima di lei, da sua madre. Conosce la storia della sua famiglia, per quel che riguarda Chapelwaite?»
    «Vagamente,» risposi. «La casa è stata la dimora dei discendenti di Philip Boone fin dal 1780; suo fratello Robert, mio nonno, si stabilì nel Massachusetts dopo una lite a proposito di documenti rubati. Del ramo di Philip so ben poco, salvo che una specie di malasorte lo colpì, estendendosi dal padre al figlio ai nipoti: Marcella morì in un tragico incidente e Stephen precipitò dall'alto, trovando la morte. Era desiderio di Stephen che Chapelwaite divenisse mio e dei miei discendenti, e che la frattura nella famiglia venisse così sanata.»
    «Non si sanerà mai,» bisbigliò lei. «Sa niente della lite originale?»
    «Robert Boone venne sorpreso a frugare nella scrivania del fratello.»
    «Philip Boone era pazzo,» disse lei. «Un uomo che trafficava con cose empie. Quello che Robert Boone tentò di rimuovere era una Bibbia profana scritta nelle lingue antiche: latino, druidico e altre. Un libro infernale.»
    «De Vermis Mysteriis.»
    Si ritrasse, come colpita. «Lei sa di quel libro?»
    «L'ho visto... toccato.» Sembrò di nuovo che dovesse svenire e si portò una mano alla bocca, come per soffocare un grido.
    «Sì, a Jerusalem's Lot. Sul pulpito di una chiesa corrotta e dissacrata.»
    «È ancora là, ancora là, allora.» Si dondolò avanti e indietro sulla sedia. «Avevo sperato che Dio, nella sua saggezza, l'avesse precipitato nel fondo dell'inferno.»
    «Che rapporto c'era tra Philip Boone e Jerusalem's Lot?»
    «Un rapporto di sangue,» fu l'oscura risposta di lei. «Si portava addosso il marchio del lupo, sebbene si aggirasse nei panni dell'agnello. E la notte del 31 ottobre 1789, Philip Boone scomparve... e con lui tutta la plebaglia di quel maledetto villaggio.»
    Aggiunse ben poco; anzi, sembrava non sapesse altro. Si limitò a reiterare le sue suppliche perché partissi, adducendo come motivo qualcosa a proposito di «sangue che chiama sangue» e borbottando di «coloro che guardano e coloro che stanno a guardia». Via via che il crepuscolo avanzava, lei sembrava divenire più agitata che mai, e per placarla le promisi che i suoi desideri sarebbero stati tenuti in grande considerazione.
    Tornai verso casa attraverso ombre che si allungavano tetre, il buonumore completamente dissipato e la testa che mi girava, tanti erano gli interrogativi che ancora mi assillano. Cal mi accolse con la notizia che i rumori nelle pareti erano ulteriormente peggiorati: come io stesso posso testimoniare, in questo momento. Cerco dì dire a me stesso che sono soltanto dei topi, ma poi vedo la faccia angosciata e atterrita della signora Cloris.
    La luna si è levata sul mare, una luna piena, enorme, color sangue, macchiando l'oceano di riflessi sinistri. La mia mente torna di nuovo a quella chiesa e
    (qui una riga è cancellata)
    Ma tu questo non devi vederlo, Bones. È troppo folle. È meglio che io dorma. I miei pensieri vanno a te.
    Saluti,

    CHARLES

    (Quanto segue è tolto dal diario di Calvin McCann.)

    20 ottobre 1850
    Presa la libertà stamattina di forzare la serratura che tiene chiuso il libro; questo prima che il signor Boone si alzasse. Inutile; è tutto in cifra. Un cifrario semplice, sono convinto. Forse potrò forzarlo con la stessa facilità con cui ho forzato la serratura. Un diario, ne sono certo, e la grafia è stranamente simile a quella del signor Boone. Un diario di chi, così riposto nell'angolo più oscuro di questa biblioteca e munito di chiusura?
    Sembra antico, ma come stabilirlo? Le sue pagine sono state ben protette dall'aria. Più tardi, se avrò tempo; il signor Boone sembra deciso a visitare la cantina. Temo che questi eventi orribili siano troppo per la sua precaria salute. Devo cercare di convincerlo...
    Ma eccolo che viene.

    20 ottobre 1850

    BONES,
    Non posso scrivere. Non posso ancora (sic) scrivere. Io... io...


    (Dal diario di Calvin McCann.)

    20 ottobre 1850

    Come temevo, la sua salute è crollata...
    Caro Signore, Padre nostro che sei nei cieli!
    Non posso pensarci; eppure è piantato nella mia mente, impresso come un marchio indelebile; quell'orrore in cantina!
    Sono solo, ora; le otto e mezzo; la casa è silenziosa ma...
    L'ho trovato svenuto sopra il suo scrittoio; dorme ancora; pure, per quei pochi momenti, quanto nobilmente si è comportato mentre io ero paralizzato e a pezzi!
    La sua fronte è cerea, fredda. Non ha più febbre, grazie a Dio. Non oso muoverlo né allontanarmi per andare in paese. E se andassi, chi tornerebbe con me per aiutarlo? Chi vorrebbe venire in questa maledetta casa?
    La cantina! Le cose in cantina che hanno stregato le nostre pareti!

    22 ottobre 1850

    CARO BONES,
    Sono tornato in me, sebbene debole, dopo trentasei ore di incoscienza: di nuovo me stesso... Sembra uno scherzo truce e amaro! Non sarò mai più me stesso, mai più. Mi sono trovato a faccia a faccia con qualcosa di insano e di orrido al di là dei limiti dell'espressione umana. E non siamo ancora alla fine.
    Se non fosse per Cal, credo che porrei fine alla mia vita in questo stesso istante. È la sola isola di equilibrio, in tutta questa follia. Saprai tutto.
    Ci eravamo muniti di candele per la nostra esplorazione della cantina, e infatti mandavano un forte chiarore, del tutto adeguato: infernalmente adeguato! Calvin cercava di dissuadermi, ricordandomi la mia infermità recente, dicendomi che al massimo avremmo trovato qualche robusto topo da avvelenare.
    Tuttavia, non mi lasciai smuovere; e Calvin, con un sospiro, si rassegnò: «Faccia come vuole, allora, signor Boone.»
    Alla cantina si accede per mezzo di una botola nel pavimento della cucina (che Cal mi assicura d'avere ora chiuso con solide travi), e noi la sollevammo non senza una quantità di considerevoli sforzi.
    Un fetido, asfissiante tanfo saliva dall'oscurità, non dissimile da quello che pervade la città abbandonata sull'altra sponda del fiume Royal. La candela che io avevo in mano spandeva il suo chiarore su una ripida rampa di scalini che scendevano in quelle tenebre. Erano in uno stato di terribile abbandono: in un punto, l'alzata mancava completamente, lasciando soltanto un buco nero, ed era facile vedere come la sfortunata Marcella avesse trovato là la sua morte.
    «Stia attento, signor Boone!» raccomandò Cal. Gli risposi che non avevo alcuna intenzione di distrarmi, e cominciammo a scendere.
    Il pavimento era di terra battuta, le pareti di solido granito, e quasi completamente asciutte. La cantina non sembrava affatto un paradiso per i topi, poiché non c'era nessuna delle cose nelle quali ai topi piace fare il nido, come vecchie casse, mobili fuori uso, mucchi di cartacce e così via. Reggevamo alte le nostre candele, ottenendo un piccolo cerchio di luce, ma riuscivamo ugualmente a vedere ben poco. Il pavimento seguiva un graduale pendio che sembrava correre al disotto del salotto principale e della sala da pranzo: ossia, verso ovest. Fu in quella direzione che ci avviammo. Regnava il più assoluto silenzio. Il lezzo nell'aria si faceva sempre più intenso, e il buio attorno a noi sembrava denso come lana, quasi geloso della luce che veniva temporaneamente a spodestarlo dopo tanti anni di dominio indiscusso.
    All'altra estremità, le pareti di granito cedevano il posto a un legno levigato che sembrava totalmente nero e totalmente opaco. Lì la cantina terminava, formando quella che sembrava una nicchia adiacente al vano principale. La nicchia era in posizione tale che ispezionarla era impossibile senza aggirare l'angolo.
    Calvin e io l'aggirammo.
    Fu come se lo spettro del sinistro passato di questa dimora si levasse dinanzi a noi. C'era una sedia in quella nicchia, e al disopra di quella, assicurato a un uncino in una delle solide travi in alto, c'era un cappio di fune ormai marcita.
    «Allora è qui dove s'impiccò,» mormorò Cal. «Dio!»
    «Sì... con il cadavere della figlia steso ai piedi di quegli scalini dietro di lui.»
    Cal stava per parlare; poi, vidi il suo sguardo spostarsi bruscamente verso un punto alle mie spalle; infine, le sue parole divennero un urlo.
    Come, Bones, come posso descrivere lo spettacolo che si presentò ai nostri occhi? Come posso parlarti degli orrendi inquilini che albergano entro le nostre mura?
    La parete in fondo si era aperta come un battente e da quell'oscurità sogghignava una faccia: una faccia dagli occhi d'un nero ebano quanto lo stesso Stige. La bocca sbadigliava in un ghigno tormentato e sdentato; una mano gialla e scarna si stendeva verso di noi. L'essere emise una sorta di agghiacciante miagolio e mosse un passo barcollante in avanti. La luce della mia candela lo illuminò...
    E vidi il segno livido della fune intorno al suo collo!
    Alle sue spalle qualcos'altro si muoveva, qualcosa che sognerò fino al giorno in cui tutti i sogni cessano: una ragazza con un volto pallido e semidecomposto e un sogghigno da teschio; una ragazza il cui capo penzolava stranamente da un lato.
    Volevano noi; lo so. E so che ci avrebbero attirati in quelle tenebre, impadronendosi di noi, se non avessi io scagliato la mia candela direttamente contro lo strano essere, facendo seguire a quella la sedia al disotto del cappio.
    Dopo di che, tutto è oscurità e confusione. La mia mente ha calato un sipario. Mi svegliai, come ho detto, nella mia camera con Cal accanto a me.
    Se potessi andarmene, fuggirei da questa casa d'orrore così come mi trovo, in camicia da notte. Ma non posso. Sono diventato una pedina in un dramma più cupo e più profondo. Non domandarmi come lo so; lo so e basta. La signora Cloris aveva ragione quando diceva che sangue chiama sangue; e quanto era orribilmente nel vero quando parlava di coloro che guardano e coloro che stanno a guardia! Temo d'avere destato una Forza che da mezzo secolo dormiva nel tenebroso villaggio di Jerusalem's Lot, una Forza che ha ucciso i miei antenati e li ha tratti in empia schiavitù come nosferatu: non-morti. E ho timori anche più grandi di questi, Bones, ma per ora vedo soltanto in parte. Se io sapessi... se soltanto sapessi tutto!

    CHARLES
    P.S.: E scrivo questo soltanto per me, naturalmente. Siamo isolati da Preacher's Corners. Non oso, contaminato come sono, recarmi là per
    imbucare questa lettera, e Calvin non vuole lasciarmi solo. Forse, se Dio è buono, essa ti arriverà, in un modo o nell'altro.
    C.


    (Dal diario di Calvin McCann.)

    23 ottobre 1850

    Oggi è più in forze; abbiamo parlato brevemente delle apparizioni in cantina; convenuto che non fossero né allucinazioni, né di origine ectoplasmica, ma reali. Sospetta come me, il signor Boone, che se ne siano andati? Forse. I rumori tacciono; tuttavia tutto è sinistro per ora, come sovrastato da un drappo funebre. Sembra di aspettare nell'ingannevole occhio del ciclone...
    Ho trovato un pacco di carte in una delle camere di sopra, nel cassetto di un vecchio scrittoio con alzata avvolgibile. Alcune fatture e della corrispondenza mi inducono a ritenere che la camera fosse quella di Robert Boone. Ma il documento più interessante è costituito da alcuni appunti sul retro del volantino pubblicitario di un cappellaio. In alto c'è scritto:
    Beati i mansueti.
    Sotto, è scritto quanto segue, apparentemente senza senso:

    b g a u i l m d n a u s t r
    m e c t o i r a h s v e z i



    Ritengo sia la chiave di lettura del libro sigillato e cifrato della biblioteca. Il cifrario di cui sopra è certamente quello usato nella Guerra di indipendenza e noto come siepe-di-cinta. Una volta eliminate le lettere «mille» dal secondo frammento di scrittura, si ottiene quanto segue:

    b a i m n u t
    e t i a s e i



    Basta leggere in su e in giù invece che da sinistra a destra, e il risultato è la citazione originale dalle Beatitudini.
    Prima di osare di mostrare questo al signor Boone, devo essere certo del contenuto del libro...

    24 ottobre 1850

    CARO BONES,
    Un avvenimento straordinario: Cal, sempre riservato finché non è ben sicuro di sé (qualità umana rara e ammirevole!), ha trovato il diario di mio nonno Robert. Il documento era in un codice che lo stesso Cal ha decifrato. Dichiara modestamente che la scoperta è stata accidentale, ma io sospetto che essa dipenda piuttosto da perseveranza e da duro lavoro.
    A ogni modo, quale cupa luce esso spande sui misteri di questo luogo!
    La prima annotazione è datata 1 giugno 1789, l'ultima 27 ottobre 1789: quattro giorni prima della cataclismica sparizione di cui parlava la signora Cloris. Narra una storia di ossessione crescente — anzi, no, di follia — e rende orrendamente chiaro il rapporto tra il prozio Philip, la città di Jerusalem's Lot, e il libro che sta in quella chiesa sconsacrata.
    La città in sé, secondo Robert Boone, è più antica di Chapelwaite (co-struita nel 1782) e di Preacher's Corners (nota a quei tempi come Preacher's Rest e fondata nel 1741); venne fondata da un gruppo scissionista di puritani nel 1710, una setta capeggiata da un cocciuto fanatico religioso di nome James Boon. Quale sussulto mi ha dato quel nome! Che questo Boon fosse imparentato con la mia famiglia non può essere messo in dubbio, ritengo. La signora Cloris non potrebbe essere più nel vero di com'è, nel suo superstizioso convincimento che la genealogia della famiglia sia di importanza cruciale in questa faccenda; e ricordo con terrore la sua risposta alla mia domanda su Philip e sul suo rapporto con 'Salem's Lot. «Rapporto di sangue,» ha detto, e temo che sia così.
    La città divenne una comunità di coloni costruita attorno alla chiesa in cui Boon predicava... o teneva corte. Mio nonno insinua che avesse anche commercio con un certo numero di donne della città, alle quali assicurava che quello era l'intendimento e il volere di Dio. Come risultato, la città divenne un'anomalia che sarebbe potuta esistere soltanto in quei tempi strani e isolati in cui si credeva a un tempo nelle streghe e nell'Immacolata Concezione: un villaggio di religiosi piuttosto degenerati e incrociati tra loro, controllati da un predicatore mezzo pazzo i cui due vangeli gemelli erano la Bibbia e il sinistro Luoghi di residenza dei demoni di de Goudge; una comunità in cui si tenevano regolarmente riti di esorcismo; una comunità incestuosa, di squilibri mentali e di difetti fisici che così spesso si accompagnano a tale peccato. Ho il sospetto (e penso l'avesse anche Robert Boone) che uno dei rampolli bastardi di Boon debba essere partito (o sarà stato portato via) da Jerusalem's Lot per andare in cerca di fortuna al Sud, e abbia così fondato il nostro attuale lignaggio. Mi risulta infatti, dai calcoli della mia famiglia, che il nostro clan ebbe probabilmente origine in quella parte del Massachusetts che ultimamente è diventata questo stato sovrano del Maine. Il mio bisnonno, Kenneth Boone, divenne ricco grazie all'allora fiorente commercio delle pellicce. Fu con il suo denaro, aumentato dal tempo e dal saggio investimento, che venne costruita questa casa ancestrale molto tempo dopo la sua morte, nel 1763. I suoi figli, Philip e Robert, costruirono Chapelwaite. Sangue chiama sangue, diceva la signora Cloris. Possibile mai che Kenneth fosse nato da James Boon, e fosse poi fuggito dalla follia del padre, e della città paterna, soltanto per dar modo ai suoi figli, ignari di tutto, di costruire la casa dei Boone a meno di due miglia dall'esordio di Boon? Se questo è vero, non ti dà l'impressione che una Mano enorme e invisibile ci abbia guidati?
    Secondo il diario di Robert, James Boon era vecchissimo nel 1789... e non poteva non esserlo. Ammettendo che avesse venticinque anni nell'anno in cui fondò la città, doveva avere centoquattro anni, un'età prodigiosa. Cito quanto segue direttamente dal diario di Robert Boone:

    4 agosto 1789
    Oggi per la prima volta ho incontrato l'Uomo dal quale mio fratello sembra dominato in modo così insano; devo ammettere che quel Boon emana uno strano magnetismo che mi sconvolge enormemente. È un autentico vegliardo, dalla barba bianca, e veste una tonaca nera che mi è sembrata non so perché qualcosa di osceno. Ancora più sconvolgente era il fatto che fosse circondato di donne, come un sultano sarebbe circondato dal suo harem; e P. mi assicura che è ancora attivo, sebbene come minimo ottuagenario... Quanto al villaggio l'avevo visitato una sola volta, e non lo visiterò più; le sue strade sono silenziose e sature della paura che il vecchio ispira dal suo pulpito; temo inoltre che simile si sia accoppiato a simile, poiché tante sono le facce somiglianti. Da qualunque parte mi voltassi, mi sembrava di contemplare il volto del vecchio... sono tutti così pallidi; sembrano opachi, come risucchiati di ogni vitalità. Vedevo bambini senza occhi e senza naso, donne che piangevano, farfugliavano e indicavano il cielo senza ragione, e confondevano parole delle Scritture con discorsi di demoni... P. desiderava che restassi per la funzione, ma il pensiero di quel sinistro vegliardo sul pulpito davanti a un pubblico formato dalla popolazione incestuosa di questa città mi ripugnava, e ho trovato una scusa...
    Le annotazioni prima e dopo di questa parlano del fascino crescente esercitato su Philip da James Boon. Il 1° settembre 1789, Philip veniva battezzato nella chiesa di Boon. Il fratello commenta: «Sono allibito per lo stupore e l'orrore. Mio fratello è cambiato sotto i miei occhi. Sembra perfino assomigliare sempre più all'esecrabile vecchio.»
    Il primo accenno al libro si verifica il 23 luglio. Il diario di Robert ne parla brevemente: «P. questa sera è tornato dal piccolo villaggio con un viso, m'è sembrato, piuttosto stravolto. Non ha pronunciato parola fino all'ora di coricarsi, quando ha detto che Boon vorrebbe notizie di un libro intitolato Misteri del Verme. Per fare contento P. ho promesso di scrivere una lettera a Johns & Goodfel-low per informazioni; P. quasi servilmente grato.»
    Il 12 agosto, questa annotazione: «Ricevute due lettere con la posta, oggi... una di Johns & Goodfellow, da Boston. Hanno preso nota del tomo per il quale P. ha espresso interesse. Soltanto cinque copie esistenti in questo paese. La lettera è piuttosto fredda; davvero strano. Conosco Henry Goodfellow da anni.»

    13 Agosto
    P. follemente eccitato dalla lettera di Goodfellow; rifiuta di dire perché. Ha detto soltanto che Boon è incre-dibilmente ansioso di ottenerne una copia. Non so capire perché, dato che dal titolo sembra soltanto un innocuo trattato di giardinaggio... Sono preoccupato per Philip; diventa di giorno in giorno più strano con me. Preferirei che fossimo tornati a Chapelwaite. L'estate è torrida, opprimente, e piena di presagi...
    Soltanto altre due volte è fatta menzione del libro infame, nel diario di Robert (egli non sembra essersi reso conto della sua vera importanza, nemmeno alla fine). Dall'annotazione del 4 settembre:
    Ho incaricato Goodfellow di agire come agente di P. nella questione dell'acquisto, sebbene il mio buon senso si ribelli. Ma a che scopo fare obiezione? P. non ha forse denaro suo, qualora mi rifiutassi? E in cambio gli ho strappato la promessa di ritrattare quel disgustoso battesimo... e tuttavia egli è così agitato; quasi febbricitante; non mi fido di lui. Sono disperatamente in alto mare, in questa situazione...

    Infine, 16 settembre:
    Il libro è arrivato oggi, con un biglietto di Goodfellow in cui egli mi comunica che non desidera altri incarichi da me... P. appariva eccitato a un grado innaturale; mi ha addirittura strappato il libro dalle mani.. È scritto in latino scorretto e in caratteri runici che non riesco a decifrare... L'Oggetto sembrava quasi caldo al tatto, e perfino vibrare tra le mie mani, come se contenesse un immenso potere... Ho rammentato a P. la sua promessa di ritrattare e si è limitato a ridere in modo truce, folle, agitandomi il libro sulla faccia e gridando ripetutamente: «L'abbiamo! L'abbiamo! Il Verme! Il segreto del Verme!» Ora è corso via, suppongo dal suo pazzo benefattore, e da stamane non l'ho più visto...
    Del libro non c'è altro, ma ho fatto alcune deduzioni che sembrano per lo meno probabili. Prima di tutto, che quel libro fu, come ha detto la signora Cloris, la causa della rottura tra Robert e Philip; in secondo luogo, che in esso è custodito il segreto di un incantesimo empio, possibilmente di origine druidica (molti dei sanguinari riti druidici vennero conservati per iscritto dai conquistatori romani della Britannia in nome della cultura, e molti di questi infernali ricettari sono tra la letteratura proibita del mondo); infine, che Boon e Philip intendessero usare il libro per i loro scopi personali. Forse, sia pure in maniera contorta, le loro intenzioni erano buone, ma non lo credo. Sono convinto che già da tempo si fossero consacrati a ignoti poteri senza volto che esistono oltre i confini dell'universo; poteri che potrebbero esistere al di là del tessuto stesso del tempo. Le ultime annotazioni del diario di Robert prestano una fioca luce di approvazione a queste speculazioni, e lascio perciò che parlino da sole.

    26 ottobre 1789
    Preacher's Corners in gran fermento, oggi; Frawley, il fabbro, mi ha afferrato per un braccio e pretendeva di sapere «cosa combinano vostro fratello e quel pazzo anticristo, laggiù». Goody Randall afferma che ci sono stati nel cielo segni di grande cata-strofe imminente. Una mucca è nata con due teste.
    Quanto a me, che cosa ci sovrasti non lo so; forse è la pazzia di mio fratello. I suoi capelli sono diventati grigi dalla sera alla mattina, o quasi, i suoi occhi sono grandi cerchi iniettati di sangue dai quali la serena luce dell'equilibrio sembra essersi dileguata. Sogghigna e bisbiglia e, per qualche sua ragione personale, ha cominciato a frequentare la nostra cantina, quando non è a Jerusalem's Lot.
    I caprimulghi si radunano attorno al-la casa e sul prato; dalla bruma, il loro combinato richiamo si mescola con la voce del mare in un grido arcano, che preclude ogni possibilità di sonno.

    27 ottobre 1789
    Ho seguito P. questa sera quando si è diretto a Jerusalem's Lot, tenendomi a prudente distanza per non essere scoperto. I maledetti caprimulghi si chiamano l'un l'altro attraverso i boschi, riempiendo tutto del loro micidiale canto psicopompico. Non osavo attraversare il ponte; la città era tutta buia salvo la chiesa, illuminata da una spettrale luce rossa che sembrava trasformare le alte finestre a punta negli occhi dell'inferno. Voci salivano e calavano di tono in una litania diabolica, a volte ridenti, a volte singhiozzanti. Il terreno stesso sembrava gonfiarsi e gemere sotto di me, come se reggesse un peso orribile, e io fuggii, sbalordito e pieno di terrore, le strida acute e infernali dei caprimulghi risonanti nelle mie orecchie mentre correvo attraverso quei boschi grevi di ombre.
    Tutto tende alla fase culminante, tuttavia imprevista. Non oso dormire, tali sogni mi vengono, e neppure rimanere sveglio, esposto a chissà quali terrori folli. La notte è piena di suoni orribili e ho paura...
    Al tempo stesso, sento il bisogno di andare di nuovo, di osservare, di vedere. Sembra che Philip stesso mi chiami, e il Vecchio. Gli uccelli maledetti maledetti maledetti

    Qui il diario di Robert Boone termina.
    Tuttavia ti prego di notare, Bones, verso la conclusione, che lo stesso Philip, com'egli afferma, sembra chiamarlo. La mia conclusione finale è formata da queste poche righe, dai discorsi della signora Cloris e degli altri, ma soprattutto da quelle terrificanti figure in cantina, morte oppure vive. La nostra discendenza è sfortunata, Bones. C'è una maledizione sopra di noi che rifiuta d'essere sepolta; vive una orrenda esistenza-ombra in questa casa e in quella città. E il culmine del cielo si sta nuovamente avvicinando. Io sono l'ultimo dei Boone. Temo che qualcosa lo sappia, e che io sia al nesso di uno sforzo diabolico al di là di ogni sana comprensione. L'anniversario cadrà oggi a otto, vigilia di Ognissanti.
    Come dovrò procedere? Se soltanto tu fossi qui a consigliarmi, ad aiutarmi! Se soltanto tu fossi qui!
    Devo sapere tutto; devo ritornare nella città sfuggita da tutto e da tutti. Possa Iddio sostenermi!
    CHARLES

    (Dal diario di Calvin McCann.)

    25 ottobre 1850
    Il signor Boone ha dormito per quasi tutta la giornata. La sua faccia è pallida e molto smagrita. Temo che un ritorno della febbre sia inevitabile.
    Mentre gli cambiavo l'acqua nella brocca, ho scorto due lettere non impostate per il signor Granson, in Florida. Ha in animo di tornare a Jerusalem's Lot; sarà la sua fine, se glielo permetterò. Posso osare di allontanarmi per andare a Preacher's Corners, a noleggiare un calesse? Devo, ma che accadrà se lui si sveglia? Se dovessi, al mio ritorno, non trovarlo più in casa?
    I rumori nelle pareti sono ricominciati. Grazie a Dio lui dorme sempre! La mia mente vacilla pensando a ciò che quei rumori significano!
    Più tardi
    Gli ho portato il pranzo su un vassoio. Pensa di alzarsi, dopo, e nonostante le sue reticenze, so che cosa ha in programma; tuttavia, andrò a Preacher's Corners. Tra le mie cose c'erano ancora diverse delle polverine per dormire prescrittegli durante la malattia; senza saperlo, ne ha ingerito una con il tè. Dorme di nuovo.
    Lasciarlo con le Cose che si agitano dietro le nostre pareti mi atterrisce; lasciare che rimanga sia pure per un altro giorno soltanto tra queste mura, mi atterrisce ancora di più. L'ho chiuso dentro.
    Dio voglia ch'egli sia ancora là, addormentato e al sicuro, quando ritornerò con il calesse!
    Ancora più tardi
    Lapidato! Lapidato come un cane
    selvaggio e rabbioso! Mostri, belve! E costoro sarebbero uomini! Siamo prigionieri qui... Gli uccelli, i caprimulghi, hanno cominciato a radunarsi.

    26 ottobre 1850

    CARO BONES,
    È quasi sera, e io mi sono appena svegliato, dopo aver dormito per quasi ventiquattr'ore di seguito. Sebbene lui non ne abbia fatto parola, ho il sospetto che Cal m'abbia versato qualche polverina nel tè, avendo indovinato le mie intenzioni. È un bravo e fedele amico, che agisce soltanto per il meglio, e non dirò niente.
    Tuttavia, la mia decisione è presa. Oggi è il giorno. Sono calmo, risoluto, ma mi sembra anche di risentire un leggero attacco di febbre. Se è così, dovrà essere domani. Forse stasera sarebbe ancora meglio; d'altra parte nemmeno i fuochi dell'inferno potrebbero indurmi a mettere piede in quel villaggio al calar del buio.
    Se non dovessi più scriverti, Bones, possa Iddio benedirti e conservarti,

    CHARLES
    P.S. Gli uccelli tornano a levare il loro grido, e gli orribili rumori striscianti sono ricominciati. Cal crede che io non li senta, ma sento.
    C.

    (Dal diario di Calvin McCann.)

    27 ottobre 1850
    ore 5
    Impossibile persuaderlo. Benissimo. Vado con lui.

    4 novembre 1850

    CARO BONES,
    Debole, ma lucido. Non sono sicuro della data, eppure il mio almanacco mi assicura, in base alla marea e al tramonto, che dev'essere esatta. Siedo al mio scrittoio, dove sedevo quando ti scrissi per la prima volta da Chapelwaite, e guardo verso il mare scuro sul quale l'ultima luce sta rapidamente svanendo. Non vedrò altro. Questa notte è la mia notte; la lascio per chissà quali altre ombre.
    Come si abbatte contro gli scogli, questo mare! Getta nuvole di spuma verso il cielo che annotta, sembrano stendardi, e fa tremare il pavimento sotto di me. Nei vetri vedo riflessa la mia immagine, pallida come quella di un vampiro. Sono senza nutrimento dal ventisette di ottobre, e sarei stato anche senz'acqua, se Calvin non avesse lasciato, quel giorno, una brocca accanto al mio letto.
    Oh, Cal! Non c'è più, Bones. Se n'è andato al posto mio, al posto di questo sventurato dalle braccia scarne e dalla faccia da teschio che vedo riflessa nel vetro. E tuttavia potrebb'essere il più fortunato; poiché non lo tormentano i sogni, come hanno tormentato me in questi ultimi giorni: forme contorte che si annidano nei corridoi d'incubo del delirio. Perfino ora le mani mi tremano; ho macchiato la pagina d'inchiostro.
    Calvin mi si piantò davanti, quel mattino, proprio mentre stavo per sgattaiolare via... e io che pensavo
    d'essere stato così astuto! Gli avevo detto d'avere deciso che dovevamo partire, e gli domandai se voleva andare a Tandrell, distante una decina di miglia, dove non eravamo tanto conosciuti, a noleggiare un calesse. Acconsentì a fare la strada a piedi e io lo guardai allontanarsi lungo la strada del mare. Non appena scomparve, rapidamente mi preparai, indossando pastrano e sciarpa (poiché il tempo si era fatto gelido: nell'aria tagliente di quel mattino c'era il primo tocco dell'inverno imminente). Per un attimo desiderai d'avere una pistola, poi risi di me per quel desiderio. A che valgono le armi in una questione del genere?
    Uscii di casa dalla porta della dispensa, soffermandomi per un'ultima occhiata al cielo e al mare; per sentire il profumo dell'aria fresca contro la putrescenza che sapevo di dover ben presto respirare; per contemplare un gabbiano in cerca di cibo, che volteggiava al disotto delle nuvole.
    Mi voltai... e vidi Calvin McCann.
    «Da solo non andrà,» disse; e la sua faccia era truce come mai l'ho vista.
    «Ma, Calvin...» cominciai a dire.
    «No, non una parola! Andiamo insieme e facciamo quello che dobbiamo fare, altrimenti la riporto in
    casa di peso. Lei non sta bene. Non deve andare solo.»
    È impossibile descrivere le emozioni contrastanti che mi investirono: confusione, dispetto, gratitudine... ma la più grande di tutte era l'affetto.
    Ci incamminammo in silenzio oltre il padiglione e la meridiana, lungo il margine coperto d'erbacce e poi nei boschi. Tutto era immobile: non un uccello cantava, non un insetto ronzava. Il mondo sembrava avvolto in un silenzioso sudario. C'era soltanto l'odore onnipresente del salmastro e, in distanza, l'aroma lieve del fumo di legna. I boschi erano tutto un tumulto di colori ma, all'occhio mio, sembrava predominare il rosso.
    Ben presto l'effluvio del salmastro passò e un altro odore, più sinistro, prese il suo posto; quel marciume di cui ho parlato. Quando arrivammo allo sgangherato ponte attraverso il Rovai, mi aspettavo che Cal mi chiedesse ancora una volta di desistere, ma non lo fece. Si fermò, guardò la fosca guglia della chiesa che sembrava schernire il cielo azzurro, poi guardò me. Proseguimmo.
    Procedemmo con passo rapido eppure timoroso fino alla chiesa di James Boon. La porta era ancora socchiusa dopo la nostra recente uscita, e l'oscurità interna sembrava fissarci, sogghignante. Mentre salivamo gli scalini, il mio cuore parve farsi di piombo; la mano mi tremava nel toccare la maniglia e tirarla. Il tanfo all'interno era più forte, più nocivo che mai.
    Entrammo nell'anticamera in penombra poi, senza fermarci, nell'ambiente principale.
    Era in uno stato indescrivibile.
    Qualcosa di enorme era stato all'opera là dentro, e una tremenda distruzione aveva avuto luogo. I banchi erano capovolti e ammucchiati come fantocci di paglia. La malvagia croce giaceva a terra contro
    la parete di destra, e un buco frastagliato nell'intonaco, poco più sopra, testimoniava della forza con cui. era stata scagliata. Le lampade erano state strappate dai loro supporti in alto, e il puzzo di olio di balena si mescolava all'orribile tanfo che pervadeva la città. E lungo la navata, simile a un macabro tappeto nuziale, c'era una traccia di siero nerastro, misto a sinistri viticci di sangue. I nostri occhi la seguirono fino al pulpito: la sola cosa rimasta intatta. Lassù, a fissarci con occhi vitrei da sopra quel libro blasfemo, c'era la carcassa macellata di un agnello.
    «Dio!» bisbigliò Calvin.
    Ci avvicinammo, badando a non calpestare la melma sul pavimento. La chiesa echeggiava dei nostri passi e sembrava tramutarli nel suono di una gigantesca risata.
    Salimmo insieme il nartece. L'agnello non era stato sgozzato o azzannato; sembrava, piuttosto, che fosse stato strizzato fino a che i suoi vasi sanguigni si erano rotti. Il sangue formava pozze dense sullo stesso leggio e alla base del leggio stesso... e tuttavia sul libro era trasparente, e le rune indecifrabili si potevano leggere ugualmente, come attraverso un vetro colorato!
    «Dobbiamo toccarlo?» chiese Calvin, impassibile.
    «Sì. Io devo toccarlo.»
    «Che cosa intende fare?»
    «Quello che si sarebbe dovuto fare sessant'anni fa. Intendo distruggerlo.»
    Spingemmo via dal libro la carcassa dell'agnello; finì a terra con un tonfo molle, agghiacciante. Le pagine macchiate di sangue parvero allora animarsi di un loro chiarore rossastro.
    Le mie orecchie cominciarono a risuonare e a ronzare; un canto roco sembrava emanare dalle stesse pareti. Dall'espressione stravolta sulla faccia di Calvin capivo che anche lui sentiva. Il pavimento sotto di noi tremò, come se lo spettro che abitava quella chiesa venisse ora contro di noi, per proteggere ciò che gli apparteneva. Il tessuto dello spazio normale e del tempo pareva torcersi e spaccarsi; la chiesa sembrava popolarsi di fantasmi e illuminarsi del chiarore infernale di un freddo fuoco eterno. Mi sembrò di vedere James Boon, orrendo e deformato, danzare attorno al corpo di una donna supina, e il mio prozio Philip dietro di lui, accolito incappucciato e intonacato di nero, che brandiva un coltello e una coppa.
    «Deum vobiscum magna vermis...»
    Le parole rabbrividivano e si torcevano sulla pagina davanti a me, imbevute del sangue del sacrificio, premio di un essere che si trascina al di là delle stelle...
    Una cieca, incestuosa congregazione ondeggiante nella lode insensata e demoniaca; facce deformi, piene di un'attesa famelica e indefinibile...
    Poi il latino venne sostituito da un idioma più vecchio, già antico quando l'Egitto era giovane e le piramidi non ancora costruite, antico quando
    la Terra era ancora sospesa in un ribollente e informe firmamento di gas: «Gyyagin vardar Yogsoggoth! Verminis! Gyyagin! Gyyagin! Gyya-gin
    Il pulpito prese a fendersi e a spaccarsi, come spinto verso l'alto...
    Calvin mandò un urlo e sollevò un braccio per ripararsi la faccia. Il nartece era scosso da un moto immenso e tenebroso, come una nave in balia della tempesta. Afferrai il libro e lo tenni lontano da me; parve riempirsi del calore del sole e sentivo che m'avrebbe incenerito, accecato.
    «Fuggiamo!» urlava Calvin.
    «Fuggiamo!»
    Ma io rimanevo là, impietrito, e la presenza aliena mi riempiva come un antico recipiente che abbia aspettato per anni: per generazioni!
    «Gyyagin vardar!» gridai. «Servo di Yogsoggoth, il Senza Nome! Il Verme da oltre lo Spazio! Colui che divora le Stelle! Che acceca il Tempo! Verminis! Ora giunge l'Ora della Saturazione, il Tempo dell'Esecuzione! Verminis! Alyah! Alyah! Gyyagin!»
    Calvin mi diede una spinta e io barcollai, mentre la chiesa turbinava davanti a me, e finii al suolo. La mia testa batté con violenza contro lo spigolo di un banco rovesciato, e un fuoco rosso riempì la mia mente... e tuttavia sembrò schiarirla.
    Brancolai alla ricerca degli zolfanelli che avevo portato con me.
    Un tuono sotterraneo riempì il luogo. Piovve intonaco. La campana arrugginita, lassù nella torre, vibrava, facendo udire il suo roco e demoniaco carillon.
    Il mio fiammifero si accese. Lo accostai al libro proprio mentre il pulpito esplodeva verso l'alto in un fragore di legno che si frantumava. Un enorme gozzo nero si spalancò al disotto; sull'orlo barcollava Cal, le mani tese davanti a sé, la faccia distesa in un urlo senza parole che udrò in eterno.
    E poi fu come un'improvvisa, gigantesca montata di carne grigia e vibrante. L'odore divenne una marea d'incubo. Era un immane traboccare di gelatina pustolosa e viscida, qualcosa di immenso e di orrendo che sembrava schizzare fuori dalle viscere stesse del suolo. E tuttavia, con una comprensione subitanea e orribile che nessuno può avere mai sperimentato, intuii che era soltanto un anello, un segmento di un mostruoso verme che esisteva cieco, da anni, nell'oscurità al disotto di quell'abominata chiesa!
    Il libro prese fuoco tra le mie mani, e la Cosa parve urlare senza voce al disopra di me. Calvin venne colpito di striscio e scagliato via per tutta la lunghezza della chiesa, come una bambola dal collo spezzato.
    Ricadde: sì, la cosa ricadde, lasciando soltanto una buca enorme e devastata, circondata di nero limo, e un tremendo suono urlante, miagolante, che sembrava perdersi attraverso distanze colossali, finché svanì.
    Abbassai lo sguardo. Il libro era cenere.
    Cominciai a ridere, poi a ululare come una belva colpita.
    Qualsiasi forma di equilibrio mentale mi lasciò, e rimasi seduto là in terra, con il sangue che mi sgorgava dalla tempia, a urlare e a farneticare in quelle tenebre sconsacrate mentre Calvin, lungo disteso nell'angolo opposto, mi fissava con occhi vitrei e dilatati dall'orrore.
    Non ho idea di quanto tempo rimasi in quello stato. Impossibile dirlo. Ma quando ritrovai le mie facoltà, le ombre avevano tracciato lunghi sentieri intorno a me ed era il crepuscolo. Un movimento aveva attirato il mio sguardo, un movimento che proveniva dalla buca devastata nel pavimento del nartece.
    Una mano si protendeva, brancolando, sopra le travi divelte.
    La risata folle mi morì in gola. L'isterismo cui ero in preda si sciolse in una sorta di agghiacciato torpore.
    Con terribile, vendicativa lentezza, una figura semidecomposta si tirò su dall'oscurità, un teschio mezzo rosicchiato mi scrutò. Insetti strisciavano sopra la fronte senza carne. Una tonaca marcita aderiva agli incavi sbilenchi delle clavicole corrose. Soltanto gli occhi erano vivi: rossi, pozzi di qualcosa di più folle della follia, che mi incenerivano; che ardevano della vuota vita delle distese senza sentieri oltre gli orli dell'Universo.
    Veniva per trascinarmi giù nelle tenebre.
    Fu allora che fuggii, urlante, lasciando il cadavere del mio amico di sempre abbandonato in quel luogo d'orrore. Corsi finché l'aria parve esplodere come magma nei miei polmoni e nel mio cervello. Corsi fino a riguadagnare questa casa stregata e dominata dagli spiriti, e la mia stanza, dove crollai e sono rimasto a giacere come morto fino a oggi. Corsi perché perfino nel mio stato di pazzia, e nella devastata rovina di quella forma morta eppure animata, avevo visto la rassomiglianza di famiglia. Tuttavia non di Philip o di Robert, i cui ritratti erano appesi nella galleria del piano superiore. Quel volto decomposto apparteneva a James Boon, Custode del Verme!
    Egli vive ancora in qualche punto dei meandri contorti e senza luce al disotto di Jerusalem's Lot e di Chapelwaite: Esso vive tuttora. L'incendio del libro Lo ha contrariato, ma ce ne sono altre copie.
    Tuttavia, io sono la porta, la via d'accesso, e sono l'ultimo del sangue
    dei Boone. Per il bene di tutta l'umanità debbo morire... e spezzare la catena per sempre.
    Scendo al mare ora, Bones. Il mio viaggio, come la mia storia, è alla fine. Possa Dio darti riposo e accordare la pace a tutti voi.
    CHARLES


    ***



    La strana serie di lettere di cui sopra venne alla fine ricevuta dal signor Everett Granson, al quale erano state indirizzate. Si ritiene che un ritorno della malaugurata febbre cerebrale che lo aveva colpito una prima volta in seguito alla morte della moglie, nel 1848, avesse provocato in Charles Boone la perdita della sanità mentale e l'avesse spinto ad assassinare il compagno e amico di lunga data, Calvin McCann.
    Le annotazioni nel diario di McCann sono un affascinante esempio di falso, senza dubbio perpetrato da Charles Boone nel tentativo di rafforzare le proprie fissazioni di paranoico.
    In almeno due particolari, a ogni modo, è risultato che Charles Boone aveva torto. Primo: quando la città di Jerusalem's Lot venne «riscoperta» (uso il termine in senso storico, naturalmente), il pavimento del nartece, sebbene marcito, non mostrava tracce di esplosione o di gravi danni. Sebbene gli antichi scranni fossero capovolti e diverse finestre infrante, si può presumere che questo fosse opera di vandali venuti dalle città vicine nel corso degli anni. Tra i residenti più anziani di Preacher's Corners e di Tandrell circola ancora qualche voce oziosa su Jerusalem's Lot (forse, a suo tempo, fu questo genere di innocua leggenda popolare ad avviare la mente di Charles Boone sul suo corso fatale); ma sono voci di scarsa rilevanza.
    Secondo: Charles Boone non era l'ultimo della sua discendenza. Suo nonno, Robert Boone, procreò almeno due bastardi. Uno morì durante l'infanzia. L'altro prese il nome Boone e si stabilì nella cittadina di Central Falls, Rhode Island. Io sono l'ultimo discendente di questo germoglio del ramo Boone; sono secondo cugino di Charles, distante da lui tre generazioni. Queste carte si trovano in mano mia da dieci anni. Le offro, perché siano pubblicate, in occasione della mia permanenza nella casa avita dei Boone, Chapelwaite, nella speranza che il lettore provi comprensione, in cuor suo, per il povero, sconsiderato Charles Boone. Per quello che posso dire io, aveva ragione soltanto su una cosa: questo posto ha terribilmente bisogno dei servigi di uno sterminatore.
    Devono esserci dei topi enormi nelle mura, a giudicare dal rumore.
    Firmato,

    James Robert Boone
    2 ottobre 1971

    Edited by Indigo. - 20/12/2013, 13:40
     
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    Oh my God, hai messo anche Jerusalem's Lot! Io sono innamorata follemente di questo racconto!! Leggetelo, tutti quanti, è un po' lungo ma merita :ahse:
     
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  3. {Sandman}
         
     
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    Quanto mi affascina questo racconto.. Insieme al romanzo "Le notti di Salem".
    Uno dei piu belli di King.
     
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    Sul mio fantastico libro di antologia della seconda media (la fonte del 90% dei racconti che ho postato qui) vi era solo una parte di questo racconto, ma l'ho apprezzata tantissimo
     
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4 replies since 20/11/2013, 20:50   690 views
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