Il Richiamo di Cthulhu

H.P. Lovecraft

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  1. Kalinicta
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    (Manoscritto ritrovato fra le carte dello scomparso Francis Wayland Thurston, di Boston)

    Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l'incapacità della mente umana a mettere in correlazione tutti i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell'infinito, e non era destino che navigassimo lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella propria direzione, ci hanno finora nuociuto ben poco; ma, un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo.
    I teosofi hanno intuito l'imponente grandezza del ciclo cosmico, del quale il nostro mondo e la razza umana costituiscono solo episodi transitori. Essi hanno alluso a strane sopravvivenze in termini che gelerebbero il sangue se non fossero mascherati da un blando ottimismo. Ma non è da loro che viene quell'unica visione di eoni proibiti che mi agghiaccia il sangue quando ci penso e mi fa impazzire quando la sogno.
    Quella visione, come tutte le temibili visioni della verità, è stata il risultato di una fortuita connessione di elementi separati: nello specifico, un vecchio articolo di giornale e gli appunti di un professore morto.
    Spero che nessun altro effettuerà questa connessione; certamente, se vivrò, non fornirò mai coscientemente un anello di una catena così spaventevole. Ritengo che anche il professore intendesse mantenere il silenzio intorno alla parte che conosceva, e che avrebbe distrutto i suoi appunti, se la morte non l'avesse colto all'improvviso.


    La mia conoscenza della cosa ebbe inizio nell'inverno 1926-27 con la morte del mio prozio, George Gammell Angeli, Professore Emerito di Lingue Semitiche alla Brown University, a Providence, Rhode Island.
    Il Professor Angeli era un'autorità ampiamente riconosciuta nel campo delle iscrizioni antiche, e veniva consultato di frequente dai direttori di musei importanti; cosicché la sua morte, all'età di novantadue anni, è forse ricordata da molti. Localmente, l'interesse fu amplificato dal mistero circa le cause del suo decesso. Il professore era morto mentre tornava dal battello proveniente da Newport; era caduto all'improvviso, come dissero i testimoni, dopo essere stato urtato da un negro dall'aspetto di marinaio, che era uscito da uno dei bizzarri cortili bui che si aprivano lungo il ripido pendio, una scorciatoia dalla banchina alla casa del defunto in William Street. I medici non furono in grado di trovare alcun disturbo evidente, ma conclusero, dopo un confuso dibattito, che qualche misteriosa lesione al cuore, causata dalla veloce salita di un pendio così scosceso da parte di un uomo così anziano, fosse responsabile della fine.
    All'epoca, non vidi i motivi di dissentire da questa diagnosi, ma ultimamente sono propenso a dubitarne, e non poco. In qualità d'erede ed esecutore del mio prozio, visto che era vedovo e senza figli, mi spettava esaminare le sue carte con una certa accuratezza; e, a questo scopo, trasferii tutti i suoi schedari e le sue casse nel mio appartamento di Boston. Gran parte del materiale che riunii verrà in seguito pubblicato dalla American Archeological Society, ma c'era una cassa che mi lasciò estremamente perplesso, e che mi sentii molto riluttante a mostrare ad occhi estranei. Era chiusa, e non ne trovai la chiave finché non mi venne in mente di esaminare il portachiavi personale che il professore portava sempre in tasca.
    Fu così che riuscii ad aprirla, ma, quando l'ebbi fatto, mi parve solo di trovarmi di fronte ad un ostacolo ancora più grande chiuso ancora più ermeticamente. Infatti, quale poteva essere il significato dello strano bassorilievo in argilla e degli appunti, delle divagazioni e dei ritagli senza senso che vi trovai accanto? Forse mio zio, negli ultimi anni della sua vita, era diventato credulone a tal punto da dar fede alle imposture più superficiali?


    Decisi di trovare l'eccentrico scultore responsabile di quell'evidente disturbo della pace mentale del vecchio. Il bassorilievo era un rettangolo approssimativo, di circa dieci centimetri per dodici e dello spessore di un paio; era palese mente di origine moderna. I disegni, però, erano lontani dalla modernità, nell'atmosfera e nelle allusioni; infatti, sebbene i ghiribizzi del cubismo e del futurismo siano molti e bizzarri, essi spesso non riproducono quella regolarità enigmatica che si cela nella scrittura preistorica. E scrittura di un qualche genere, senza dubbio, sembrava la maggior parte di quei disegni; benché il mio ricordo, nonostante la grande familiarità con le carte e le collezioni di mio zio, non riuscisse ad identificare in alcun modo quel tipo particolare, e nemmeno ad avere un'idea delle sue parentele più lontane.
    Al di sopra di quegli evidenti geroglifici, c'era una figura che aveva un chiaro intento pittorico, sebbene l'esecuzione impressionistica impedisse di farsi un'idea molto nitida della sua natura. Sembrava trattarsi di una sorta di mostro, o di simbolo che rappresentava un mostro, con una forma che solo una fantasia malata avrebbe potuto concepire. Se affermo che la mia immaginazione, alquanto stravagante, produsse le visioni simultanee di un polipo, di un drago e di una caricatura umana, non sarò infedele allo spirito della cosa.
    Una testa polposa, tentacolare, sormontava un corpo grottesco e squamoso, munito di ali rudimentali; ma era il profilo generale del tutto che lo rendeva sconvolgente e spaventoso in massimo grado. Alle spalle della figura si intuiva vagamente uno sfondo architettonico di dimensioni ciclopiche.
    Gli scritti che accompagnavano quella stranezza, a parte un mucchio di ritagli di giornale, erano vergati nella grafia più recente del Professor Angeli, e non avevano alcuna pretesa di stile letterario. Quello che sembrava il documento principale era intitolato Il Culto di Cthulhu, in caratteri impressi con cura per evitare la lettura erronea di una parola così inaudita.


    Questo manoscritto era diviso in due sezioni, la prima delle quali era intitolata: «1925 - Sogno e Opera Onirica di H.A. Wilcox, residente al numero 7 di Thomas Street, Providence, Rhode Island», e la seconda: «Resoconto dell'Ispettore John R. Legrasse, residente al numero 121 di Bienville Street, New Orleans, Lousiana, alla riunione dell'American Archeological Society del 1908 - Note al Medesimo, e resoconto del Prof. Webb». Le altre carte manoscritte consistevano tutte in brevi appunti: alcuni erano i resoconti degli strani sogni di varie persone, altri erano citazioni da libri e riviste teosofiche (degno di nota Atlantis and the Lost Lemuria di W. Scott-Elliot), e il resto erano commenti a brani tratti da fonti mitologiche e antropologiche, quali il Ramo d'oro di Frazer e La Stregoneria in Europa occidentale della Murray. I ritagli invece si riferivano in gran parte a bizzarre malattie mentali e ad esplosioni di follia o pazzia collettiva nella primavera del 1925. La prima metà del manoscritto principale raccontava una storia particolarissima.
    A quanto sembrava, il primo marzo del 1925, un giovane magro, scuro, di aspetto nervoso ed eccitato, si era presentato al Professor Angeli con quel singolare bassorilievo in argilla, che allora era estremamente umido e fresco. Il biglietto da visita portava il nome di Henry Wilcox, e mio zio riconobbe nel ragazzo il figlio minore di un'eccellente famiglia a lui nota. Il giovane, negli ultimi tempi, aveva cominciato a studiare scultura alla Rhode Island School of Design e viveva da solo nel Fleur-de-Lys Building, nei pressi di quell'Istituto. Wilcox era un giovane precoce, di genio riconosciuto ma di grande eccentricità e, fin dall'infanzia, aveva attirato l'attenzione grazie agli strani racconti ed ai sogni insoliti che aveva l'abitudine di raccontare. Si definiva «un ipersensitivo psichico», ma la gente seria dell'antica città mercantile lo liquidava chiamandolo semplicemente «bizzarro». Dal momento che non si mescolava mai troppo ai propri simili, era a poco a poco scomparso dalla società, ed era ormai noto solo ad un gruppetto di esteti di altre città. Perfino il Providence Art Club, ansioso di preservare il proprio conservatorismo, lo aveva trovato irrecuperabile.
    Durante la visita, diceva il manoscritto del professore, lo scultore aveva chiesto improvvisamente l'aiuto delle conoscenze archeologiche del suo ospite per identificare i geroglifici che erano sul bassorilievo. Parlava in una maniera ampollosa, sognante, che faceva pensare ad una posa, e gli alienava le simpatie; e mio zio mostrò una certa durezza nel rispondere, visto che l'evidente freschezza del bassorilievo poteva implicare l'affinità con qualsiasi cosa, tranne che con l'archeologia.
    La replica del giovane Wilcox, che impressionò mio zio a tal punto da fargliela ricordare e riportare testualmente, aveva l'impronta fantasiosa e poetica che doveva caratterizzare tutta la sua conversazione, e che, in seguito, ho trovato estremamente tipica in lui. Egli disse: «È nuovo, in verità, perché l'ho foggiato la notte passata nel corso di un sogno di strane città; i sogni sono più antichi della meditativa Tiro, della contemplativa Sfinge, o di Babilonia cinta di giardini».
    Fu allora che cominciò quel racconto incoerente che si basava sul ricordo di un sogno e che suscitò l'interesse febbrile di mio zio.


    La notte precedente c'era stata una lieve scossa di terremoto, la più alta avvertita negli ultimi anni nel New England, e l'immaginazione di Wilcox ne era stata acutamente colpita. Dopo essersi coricato, aveva fatto un sogno senza precedenti: aveva sognato città ciclopiche di blocchi titanici e monoliti svettanti fino al cielo, tutti stillanti melme verdi, e sinistri di un orrore nascosto.
    Geroglifici coprivano mura e colonne e, da un punto indefinito al di sotto, proveniva una voce che non era voce; una sensazione caotica che solo la fantasia poteva trasmutare in suono, ma che egli tentò di rendere con il guazzabuglio impronunciabile di lettere: «Cthulhu fhtagn». Questo guazzabuglio verbale fu l'elemento che ridestò il ricordo del Professor Angeli, e che lo eccitò e lo sconvolse.
    Egli interrogò lo scultore con minuzia scientifica, e studiò con un'intensità frenetica il bassorilievo al quale il giovane si era trovato a lavorare, gelato e vestito solo della biancheria da notte, quando il risveglio si era impossessato della sua mente, lasciandolo sconcertato. Mio zio incolpò la propria età avanzata, disse in seguito Wilcox, per la lentezza nel riconoscere sia i geroglifici che il modello pittorico. Molte delle sue domande sembrarono estremamente fuori luogo al visitatore, soprattutto quelle che miravano a collegare quest'ultimo con strani culti o società segrete; e Wilcox non riuscì a comprendere le ripetute offerte di silenzio in cambio dell'ammissione da parte sua di appartenere a qualche organizzazione religiosa, pagana o mistica.
    Quando il Professor Angeli si convinse che lo scultore ignorava veramente l'esistenza di un culto o di un sistema di sapere occulto, supplicò il visitatore di riferirgli i futuri sogni che avrebbe fatto. Questa richiesta produsse frutti regolari; infatti, dopo il primo incontro, il manoscritto riporta visite quotidiane del giovane, durante le quali egli riferiva frammenti sconcertanti di fantasie notturne, il cui tema ricorrente era sempre qualche terribile visione ciclopica di pietre oscure e cariche di umidità, con una voce o intelligenza sotterranea che urlava sillabe monotone ed enigmatiche, trascrivibili solo con fonemi disarticolati.
    I due suoni ripetuti più frequentemente erano quelli resi dalle parole «Cthulhu» e «R'lyeh».
    Il 23 marzo, continuava il manoscritto, Wilcox mancò all'appuntamento: indagini svolte nel suo appartamento, rivelarono che era stato colpito da un misterioso attacco di febbre ed era stato portato a casa della famiglia, in Waterman Street. Aveva urlato nel cuore della notte, destando molti altri artisti che vivevano nell'edificio e, da allora in poi, aveva alternato momenti di lucidità a momenti di delirio. Mio zio telefonò immediatamente alla famiglia e, da quel momento in avanti, seguì il caso da vicino, recandosi spesso nello studio sito in Thayer Street del dottor Tobey, che era il medico curante.
    La mente febbricitante del giovane, evidentemente, si soffermava su strane cose; e il medico talvolta rabbrividiva nel parlarne. Il delirio comprendeva non solo una ripetizione di quello che aveva sognato in precedenza, ma riguardava l'idea folle di una cosa gigantesca «alta miglia e miglia» che camminava o avanzava a passi pesanti. Egli non aveva mai descritto in tutti i particolari questo oggetto, ma parole sparse e deliranti, riferite dal dottor Tobey, convinsero il professore che doveva essere identico alla mostruosità senza nome che lo scultore aveva tentato di raffigurare nella sua scultura onirica.
    Il riferimento a quell'oggetto, aggiunse il medico, invariabilmente preludeva all'abbandonarsi del giovane ad uno stato di letargia. La sua temperatura, piuttosto stranamente, non era molto al di sopra del normale; ma le condizioni generali di salute invece erano tali da far pensare ad una vera febbre piuttosto che ad un disordine mentale.
    Il 2 aprile, alle 15 circa, ogni traccia della malattia di Wilcox scomparve d'improvviso. Egli si alzò a sedere nel letto, stupito di trovarsi a casa, e completamente all'oscuro di ciò che gli era accaduto in sogno o nella realtà, dalla notte del 22 marzo in avanti. Dichiarato guarito dal medico curante, fece ritorno nel suo appartamento dopo tre giorni, ma al Professor Angeli non fu più di nessun aiuto. Ogni traccia di un'attività onirica insolita era scomparsa con la guarigione, e mio zio non prese più nota dei suoi sogni, dopo una settimana di inutili e irrilevanti resoconti di visioni del tutto usuali.


    A questo punto finiva la prima parte del manoscritto, ma i riferimenti ad alcune delle note mi diedero molto materiale su cui riflettere; tanto materiale, in realtà, che solo il radicato scetticismo che allora costituiva la mia filosofia, può spiegare la mia ostinata sfiducia nell'artista.
    Le note in questione erano quelle che descrivevano i sogni di varie persone, avvenuti nello stesso periodo in cui il giovane Wilcox aveva avuto le sue strane visioni. Mio zio, a quanto pare, aveva rapidamente istituito un'organizzazione prodigiosamente efficiente che svolgeva indagini tra quasi tutti gli amici che poteva interrogare senza essere impertinente. Egli chiedeva loro i resoconti dei sogni notturni e la data di ogni visione degna di nota, che fosse avvenuta nel recente passato. L'accoglienza alla sua richiesta sembrava fosse stata assai varia; ma, come minimo, ricevette più risposte di quanto un uomo normale avrebbe potuto archiviare senza un segretario. Questa corrispondenza non era conservata nei testi originali, ma le note ne rappresentavano un sunto completo e veramente significativo. In media, le persone impegnate nella politica e negli affari - il tradizionale «sale della terra» del New England - diedero un risultato quasi del tutto negativo, sebbene casi sparsi di impressioni notturne sgradevoli ma informi appaiano qui e là, sempre tra il 23 marzo e il 2 aprile, ossia lo stesso periodo del delirio del giovane Wilcox. Gli uomini di scienza ne furono colpiti in misura solo lievemente maggiore, sebbene, in quattro casi, vaghe descrizioni suggeriscano visioni fugaci di strani paesaggi e, in un caso, si citi il terrore di qualcosa di anormale.
    Fu dagli artisti e dai poeti che vennero le risposte maggiormente pertinenti, e so che si sarebbe scatenato il panico se fossero stati in grado di confrontare le note.
    Così come stavano le cose, visto che mancavano gli originali delle lettere, avevo il vago sospetto che il compilatore avesse posto delle domande tendenziose, oppure che avesse annotato la corrispondenza in modo da avvalorare quello che palesemente era il suo punto di vista. Questo fu il motivo per cui continuai a pensare che Wilcox, in qualche modo a conoscenza dei vecchi dati in possesso di mio zio, avesse imbrogliato l'esperto scienziato.


    Le risposte fornite dagli artisti narravano un racconto sconvolgente. Dal 28 febbraio al 2 aprile, una gran parte di loro aveva sognato cose assai bizzarre, e l'intensità dei sogni era stata incommensurabilmente più forte durante il periodo del delirio dello scultore. Più di un quarto di coloro che avevano sognato qualcosa, avevano riferito scene e suoni non dissimili da quelli descritti da Wilcox. E qualcuno dei sognatori aveva confessato la paura intensa provocata da una gigantesca cosa senza nome, visibile verso la fine. Un caso, che gli appunti descrivono con enfasi, era molto triste.
    Il soggetto, un famoso architetto con propensioni verso la teosofia e l'occulto, era stato colto da una pazzia violenta nella stessa data dell'attacco del giovane Wilcox, ed era spirato parecchi mesi più tardi, dopo aver gridato incessantemente di voler essere salvato da una creatura fuggita dall'inferno. Se mio zio avesse attribuito a questi casi dei nomi invece che solo dei numeri, avrei tentato di trovare delle conferme e di fare delle indagini personali; ma, così come stavano le cose, riuscii a rintracciare solo poche persone. Spesso mi sono chiesto se tutti i soggetti dell'inchiesta del professore fossero sconcertati come quel gruppetto. È un bene che non sia mai giunta loro alcuna spiegazione.
    I ritagli di giornale, come ho già dichiarato, trattavano casi di panico, di pazzia e di eccentricità durante quel dato periodo. Il Professor Angeli doveva essersi servito di un'agenzia specializzata, perché il numero dei ritagli era spaventoso, e le loro fonti erano sparse in tutto il mondo. Un trafiletto parlava di un suicidio avvenuto la notte a Londra: una persona, che viveva da sola, era saltata dalla finestra dopo aver lanciato un grido sconvolgente. Un altro trafiletto riportava la lettera delirante inviata al direttore di un quotidiano in Sud America, in cui un fanatico deduceva un futuro catastrofico dalle visioni che aveva avuto. Un dispaccio dalla California diceva che una colonia di teosofi aveva indossato tuniche bianche per un «glorioso adempimento» che non sarebbe arrivato mai, mentre articoli dall'India parlavano con cautela di gravi disordini locali avvenuti verso la fine di marzo.
    Orge voodoo si moltiplicavano ad Haiti, e corrispondenti africani riferivano voci orrende. Ufficiali americani nelle Filippine avevano trovato che alcune tribù erano in fermento in quel periodo, e alcuni poliziotti di New York erano stati aggrediti da levantini isterici nella notte tra il 22 e il 23 marzo. Anche l'Ovest dell'Irlanda era pieno di voci e leggende strane, e un pittore immaginifico di nome Ardois- Bonnot esibì un blasfemo Paesaggio in sogno al Salone di Primavera di Parigi del 1926.
    Così numerosi erano i problemi segnalati negli ospedali psichiatrici, che solo un miracolo aveva impedito alla comunità medica di notare strani parallelismi e di trarne conclusioni ingannevoli. Si tratta di un inquietante mucchio di ritagli, tutto sommato; e, attualmente, riesco a malapena a figurarmi il razionalismo determinato con cui li misi da parte. Ma allora ero convinto che il giovane Wilcox fosse venuto a sapere le vecchie storie menzionate dal professore.

    Le vecchie storie che avevano reso il sogno e il bassorilievo dello scultore così significativi agli occhi di mio zio, costituivano il soggetto della seconda metà del suo lungo manoscritto. Già una volta, a quanto sembra, il Professor Angeli aveva visto l'infernale forma della mostruosità senza nome, si era scervellato sugli sconosciuti geroglifici, ed aveva udito gli orrendi suoni che si possono trascrivere solo con la parola «Cthulhu». Tutto ciò in un contesto così impressionante ed orribile, che non c'è da meravigliarsi se incalzò il giovane Wilcox con domande e richieste di dati.
    Questa esperienza precedente era avvenuta nel 1908, diciassette anni prima, quando l'American Archeological Society aveva tenuto la propria riunione annuale a St. Louis. Il professor Angeli, come si conveniva ad una persona della sua autorità e della sua cultura, aveva avuto una parte preminente in tutte le discussioni; ed era stato uno dei primi ad essere avvicinato da parecchi non addetti ai lavori che avevano approfittato della riunione per sottoporre domande alle quali ricevere risposte corrette, e problemi per i quali ottenere soluzioni esperte. Il più importante di questi non addetti ai lavori, nonché il centro dell'attenzione di tutta la riunione, fu un uomo di mezza età, dall'aspetto comune, che aveva lasciato spesso la natia New Orleans alla ricerca di informazioni particolari che non si potevano ottenere da nessuna fonte locale.
    Si chiamava John Raymond Legrasse, e di professione era ispettore di polizia. Aveva con sé l'oggetto della sua ricerca, una grottesca, repellente, e antichissima statuetta di pietra, la cui origine non era riuscito
    a stabilire.


    Non si deve credere che l'ispettore Legrasse nutrisse il benché minimo interesse per l'archeologia. Al contrario, il suo desiderio di spiegazioni era provocato da considerazioni puramente professionali. La statuetta, l'idolo, il feticcio, o qualsiasi cosa fosse, era stata sequestrata qualche mese prima nelle paludi boscose a sud di New Orleans durante un'incursione della polizia del luogo nel corso di una supposta riunione voodoo. E così singolari e orrendi erano i riti ad essa connessi, che i poliziotti erano riusciti solo a stabilire di essersi imbattuti in un misterioso culto a loro sconosciuto, e infinitamente più diabolico perfino dei più cupi circoli voodoo africani. Delle sue origini, a parte le storie deliranti e incredibili estorte agli arrestati, non si era scoperto assolutamente nulla. Da qui l'ansia della polizia di trovare una qualche teoria archeologica che aiutasse a identificare quel temibile simbolo, e attraverso esso rintracciare il culto alla fonte.
    L'ispettore Legrasse era a malapena preparato allo scalpore che destò con la sua richiesta. Una sola visione dell'oggetto era stata sufficiente a gettare gli uomini di scienza lì riuniti in uno stato di acuta eccitazione. Costoro non persero tempo ad affollarglisi attorno per osservare la minuscola statuetta, la cui stranezza assoluta e l'aria genuina di antichità abissale alludevano con tanta forza a prospettive archeologiche inesplorate. Nessuna scuola di scultura nota aveva creato quel terribile oggetto, ma centinaia e perfino migliaia d'anni sembravano segnati sulla superficie offuscata e verdastra di quella figura inclassificabile.
    La statuetta, che fu infine fatta passare di mano in mano per uno studio più ravvicinato e attento, era alta tra i diciotto ed i venti centimetri, ed era di squisita fattura artistica.
    Rappresentava un mostro dal profilo vagamente antropoide ma con una testa da polipo la cui faccia era un ammasso di tentacoli, un corpo squamoso ed elastico, artigli prodigiosi alle zampe posteriori e anteriori, ed un paio di strette ali sul dorso. Quella cosa, che sembrava permeata di una cattiveria spaventosa e perfida, era grossa ed enfia, ed era acquattata malignamente su un blocco rettangolare, o piedistallo, coperto di caratteri indecifrabili. Le punte delle ali toccavano il bordo posteriore del blocco ed il corpo ne occupava il centro, mentre i lunghi artigli delle zampe posteriori, ripiegate e rannicchiate, afferravano il bordo davanti e si allungavano verso il fondo del piedistallo. La testa cefalopode era china in avanti, cosicché le estremità dei tentacoli facciali sfioravano il resto delle enormi zampe anteriori che stringevano le ginocchia poste in alto. L'aspetto generale era anormalmente vivo, e ancora più sottilmente spaventoso perché la sua fonte era così totalmente sconosciuta.
    La sua antichità, profonda, spaventosa ed incalcolabile, era innegabile; eppure non mostrava nessun legame con alcun tipo noto di arte appartenente alla giovinezza della civiltà, o invero ad alcuna altra epoca. Assolutamente diverso e singolare, il materiale che la componeva era un mistero. Infatti, quella pietra untuosa, nero-verdastra, con macchie e striature dorate o iridescenti, non somigliava a nulla di noto in geologia o in mineralogia. I caratteri lungo la base erano egualmente enigmatici, e nessuno dei presenti, nonostante la folta rappresentanza della metà degli esperti di tutto il mondo in questo campo, poté formulare la benché minima ipotesi nemmeno sulle loro più lontane parentele linguistiche. Quei caratteri, così come il soggetto e il materiale, appartenevano a qualcosa di orribilmente remoto e distinto dal genere umano così come lo conosciamo noi; qualcosa che alludeva spaventosamente ad antichi ed empi cicli di vita, di cui il nostro mondo e le nostre concezioni non facevano parte. Eppure, mentre i membri ad uno ad uno scuotevano il capo e confessavano la loro resa davanti al problema posto dall'ispettore, ci fu un uomo in quella riunione a cui parve di vedere un tocco di bizzarra familiarità in quella forma mostruosa ed in quella scrittura, e che cominciò a comunicare con una certa timidezza le scarne e strane informazioni di cui era a conoscenza.
    Questa persona era il defunto William Channing Webb, Professore di Antropologia alla Princeton University, ed esploratore di non poca fama. Il Professor Webb, quarantotto anni prima, si era impegnato in un giro della Groenlandia e dell'Islanda alla ricerca di alcune iscrizioni runiche che non era riuscito a portare alla luce. Mentre si trovava al nord, sulla costa della Groenlandia occidentale, aveva incontrato una singolare tribù, o setta di eschimesi degenerati, la cui religione, una strana forma di adorazione del Demonio, lo aveva agghiacciato con la sua premeditata sete di sangue e con la sua repellenza.
    Era una fede di cui gli altri eschimesi sapevano poco, ed alla quale si riferivano solo rabbrividendo, dicendo che era nata in eoni terribilmente antichi, prima che il mondo fosse creato. Oltre i riti innominabili ed i sacrifici umani, c'erano alcune strane formule rituali rivolte a un demone supremo o tornasuk; e di queste il Professor Webb aveva fatto un'accurata trascrizione fonetica ascoltando un anziano angekok o stregone, e ne aveva espresso i fonemi quanto meglio poteva. Ma, in quel momento, di importanza preminente era il feticcio che quel culto venerava, e intorno al quale i fedeli danzavano quando l'aurora rimbalzava sui pendii di ghiaccio. Era, affermò il professore, un rozzissimo bassorilievo di pietra, che comprendeva un'orrenda figura e dei caratteri enigmatici. Per quanto gli constava, somigliava in tutti i tratti essenziali alla cosa bestiale che in quel momento era sotto gli occhi di tutto il consesso.


    Questi dati, accolti con ansia e stupore dagli studiosi riuniti, si rivelarono ancor più sconvolgenti per l'ispettore Legrasse, che cominciò ad incalzare di domande il suo informatore. Visto che aveva annotato e copiato una rituale formula orale in uso presso gli adoratori della palude che i suoi uomini avevano arrestato, egli sollecitò il professore a ricordare il meglio possibile le parole raccolte presso gli adoratori eschimesi del Diavolo. Allora seguì un confronto esauriente dei particolari, e un momento di silenzio riverente quando, sia l'investigatore sia lo scienziato, convennero della virtuale identità della frase comune ai due riti demoniaci, posti a mondi di distanza l'uno dall'altro.
    Quello che, in sostanza, sia gli stregoni eschimesi sia i sacerdoti della Louisiana cantavano ai loro venerati idoli, suonava più o meno così: «Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn». (La divisione delle parole era stata eseguita sulla base delle pause tradizionali fatte quando la frase veniva cantata.)
    Legrasse aveva un punto di vantaggio rispetto al Professor Webb, perché parecchi dei suoi prigionieri meticci gli avevano ripetuto il significato di quelle parole, che era stato loro detto dagli adoratori più anziani.
    La traduzione aveva più o meno questo tenore: «Nella sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu aspetta sognando».
    E allora, in obbedienza alla pressante richiesta generale, l'ispettore Legrasse riferì nel modo più particolareggiato la sua esperienza con gli adoratori della palude; e raccontò una storia, alla quale compresi che mio zio aveva attribuito un significato profondo. Aveva il sapore dei sogni più folli dei creatori di miti e dei teosofi, e svelò un livello stupefacente di immaginazione cosmica in quei meticci e paria quale nessuno si sarebbe mai aspettato che possedessero.
    Il primo novembre 1907, alla polizia di New Orleans era pervenuto un frenetico appello dalla regione lagunare e palustre che si trovava a sud. I coloni che vi dimoravano, generalmente primitivi ma benevoli discendenti degli uomini di Lafitte, erano stretti in una morsa di terrore provocato da una cosa sconosciuta che nella notte si era avvicinata furtivamente al loro villaggio.
    Era un voodoo, evidentemente, ma il voodoo più terribile che avessero mai conosciuto. E alcune delle loro donne e dei loro bambini erano scomparsi da quando quel malefico tam-tam aveva cominciato il suo incessante rullio nei boschi neri ed infernali in cui nessun abitante si avventurava. Si sentivano urla folli, grida strazianti, canti agghiaccianti, e si vedevano fuochi fatui danzanti; e, aggiunse lo spaventoso messaggero, la gente non ce la faceva più a sopportarlo. Di conseguenza, un gruppo di venti poliziotti, che riempivano due autocarri e un'auto, si erano avviati nel tardo pomeriggio sotto la guida del tremante colono. Alla fine della strada praticabile, avevano lasciato le vetture, e per miglia avevano sguazzato in silenzio tra i terribili boschi di cipressi in cui la luce del giorno non arrivava mai.
    Radici deformi e maligni cappi di sparta penzolanti li assediavano e, di tanto in tanto, un cumulo di pietre umide o di frammenti di un muro putrefatto con la loro allusione a morbosi abitanti, intensificavano lo scoramento che ogni albero deforme ed ogni isolotto di funghi ammuffiti contribuiva a creare. Alla fine, l'insediamento dei coloni, un miserabile mucchio di capanne, apparve all'orizzonte; e gli isterici abitanti corsero fuori a raccogliersi intorno al gruppo di lanterne ondeggianti.
    Il rullo soffocato di tam-tam era appena percettibile, lontano, molto lontano; e, di tanto in tanto, arrivavano grida agghiaccianti quando il vento cambiava. Anche un bagliore rossastro sembrava filtrare attraverso il pallido sottobosco aldilà delle infinite vie della notte della foresta. Riluttanti perfino ad essere lasciati soli, tutti gli atterriti coloni rifiutarono categoricamente di avanzare anche di un solo centimetro verso il luogo dell'empia adorazione, perciò l'ispettore Legrasse e i suoi diciannove colleghi si immersero senza guida in quel nero colonnato d'orrore che nessuno di loro aveva mai attraversato prima. La zona in cui si addentrarono i poliziotti aveva per antica tradizione una reputazione diabolica, ed era, in sostanza, ignota ai bianchi, che non l'avevano mai attraversata.


    C'erano leggende che parlavano di un lago nascosto mai visto da occhi umani, e nel quale dimorava un enorme polipo bianco ed informe con occhi luminosi; inoltre i coloni sussurravano che demoni dalle ali di pipistrello volavano fuori dalle caverne sotterranee per adorarlo a mezzanotte. Dicevano che era lì da prima d'Iberville, prima di La Salle, prima degli indiani, e perfino prima degli animali e degli uccelli dei boschi. Era l'incubo incarnato, e vederlo significava morire. Ma provocava sogni negli uomini, e così essi ne sapevano abbastanza da tenersene lontani.
    L'orgia voodoo aveva luogo proprio ai margini estremi di quella zona aborrita, ma la sua dislocazione era sufficientemente cattiva; perciò, forse, il luogo dell'adorazione aveva terrificato i coloni più dei rumori sconvolgenti e degli ultimi avvenimenti. Solo la poesia o la follia potrebbero fare giustizia dei rumori uditi dagli uomini di Legrasse mentre si facevano strada nel nero acquitrino verso il bagliore rosso e il rullio soffocato dei tam-tam.
    Ci sono qualità vocali peculiari agli uomini, e qualità vocali peculiari agli animali; ed è terribile sentire l'una quando quella fonte dovrebbe produrre l'altra.
    La furia animalesca e la sfrenatezza orgiastica li incitavano fino ad un culmine demoniaco con ululati e grida estatiche che squarciavano il buio e si riverberavano nei boschi, simili a tempeste pestilenziali provenienti dagli abissi dell'Inferno. Ogni tanto, gli ululati meno organizzati cessavano e, da quello che sembrava un coro ben addestrato di voci aspre, si alzava in un canto monotono quella orrenda frase o formula rituale: «Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtang».
    Poi i poliziotti, raggiunto un posto in cui gli alberi erano meno fitti, si trovarono improvvisamente davanti lo spettacolo. Quattro di essi vacillarono, uno svenne, e due lanciarono urla frenetiche che la folle cacofonia dell'orgia fortunatamente soffocò. Legrasse spruzzò un po' d'acqua della palude sulla faccia dell'uomo svenuto, e tutti restarono tremanti e ipnotizzati dall'orrore. In una radura naturale c'era un'isola erbosa di circa un acro di estensione, sgombra di alberi e sufficientemente asciutta. Su quell'isola balzava e si contorceva un'orda indescrivibile di esseri umani abnormi che solo un Sime o un Angarola avrebbero potuto dipingere. Privi di abiti, quegli ibridi ragliavano, strillavano e si dimenavano intorno ad un mostruoso falò circolare, nel centro del quale, rivelato da occasionali squarci nella cortina di fiamme, si ergeva un grande monolito di granito alto circa due metri e mezzo, sulla cui cima, incongrua nella sua piccolezza, c'era la statuetta.
    Da un ampio circolo di dieci forche sistemate ad intervalli regolari con il monolito cinto di fiamme al centro, a testa in giù, pendevano i corpi stranamente martoriati degli inermi coloni che erano scomparsi. Era all'interno di questo circolo che l'anello di adoratori balzava e urlava, e la direzione generale del movimento si spostava da sinistra a destra, in un baccanale interminabile tra l'anello costituito dai corpi e l'anello di fuoco.


    Forse fu solo l'immaginazione, o forse furono solo gli echi, che indussero uno degli uomini, un eccitabile spagnolo, a credere di aver sentito delle risposte antifonali al rituale, provenire da un punto lontano e buio, più all'interno di quel bosco gravido di leggende e di orrori antichi.
    Quell'uomo, Joseph D. Galvez, l'ho in seguito conosciuto e interrogato; e si è rivelato fantasioso fino alla confusione mentale. È arrivato al punto di alludere al flebile battito di grandi ali, ed alla fugace visione di occhi scintillanti e di una massa bianca e grande come una montagna aldilà degli alberi più lontani, ma credo che avesse sentito troppe leggende indigene.
    In realtà, la pausa di orrore dei poliziotti fu di durata relativamente breve. Il dovere venne prima di ogni cosa, e, sebbene dovessero esserci un centinaio di adoratori meticci in quella moltitudine, i poliziotti si fidarono delle loro armi da fuoco e piombarono con determinazione su quella folla nauseante. Per cinque minuti, lo strepito ed il caos che ne risultavano furono aldilà di ogni descrizione. Vennero assestati colpi violenti, furono sparate pallottole, e qualcuno fuggì; ma, alla fine, Legrasse poté contare quarantasette prigionieri, che costrinse a vestirsi in tutta fretta ed a mettersi in fila tra due schiere di poliziotti.
    Cinque adoratori erano morti, e due, feriti gravemente, venivano trasportati su barelle improvvisate dai loro compagni di prigionia. La scultura che era sul monolito, naturalmente, fu rimossa con cura e portata via da Legrasse.
    Esaminati al quartier generale, dopo un viaggio di grande fatica e tensione, i prigionieri si rivelarono tutti uomini di sangue misto e, naturalmente, aberranti. La maggior parte era composta di marinai e un gruppetto di negri e mulatti, in gran parte provenienti dalle Indie Occidentali, dalla Costa Brava o dalle Isole di Capo Verde, dava una sfumatura voodoo a quel culto eterogeneo. Ma, dopo poche domande, divenne chiaro il fatto che si trattava di qualcosa di molto più profondo e antico del feticismo negro. Per quanto fossero degradate e ignoranti, quelle creature si attennero con una coerenza sorprendente all'idea centrale della loro religione disgustosa. Essi adoravano - così dissero - i Grandi Antichi che vivevano da secoli prima della nascita dell'umanità, e che erano scesi sul giovane pianeta dal cielo.
    Questi Antichi erano poi scomparsi, sotto la terra e sotto il mare; ma i loro corpi morti avevano narrato in sogno i loro segreti al primo uomo, che aveva creato un Culto che non era mai morto. Questo era quel culto, e i prigionieri dissero che era sempre esistito e che sarebbe sempre esistito, nascosto in terre selvagge e lontane ed in luoghi oscuri di tutto il mondo, finché sarebbe arrivato il giorno in cui il grande sacerdote Cthulhu, dalla sua oscura dimora nella potente città di R'lyeh sotto le acque, sarebbe sorto ed avrebbe riportato la terra sotto il suo dominio. Un giorno egli avrebbe chiamato, quando le stelle sarebbero state pronte, e il culto segreto sarebbe sempre stato in attesa per liberarlo. Intanto, non si doveva dire null'altro.
    C'era un segreto che nemmeno la tortura poteva estorcere. Gli esseri umani non erano affatto i soli esseri coscienti della terra; c'erano forme che uscivano dalle tenebre per visitare i pochi fedeli. Ma queste non erano i Grandi Antichi. Nessun uomo aveva mai visto i Grandi Antichi.
    La statuetta rappresentava il Grande Cthulhu, ma nessuno poteva sapere se gli altri erano uguali a lui. Nessuno era più in grado di leggere quella scrittura antica, ma alcune storie venivano tramandate oralmente. Il rituale cantato non era il segreto: quello non veniva mai pronunciato a voce alta, solo sussurrato.
    Il canto significava solo questo: «Nella sua dimora di R'lyeh il morto Cthulhu aspetta sognando».
    Solo due dei prigionieri furono trovati abbastanza sani di mente da essere impiccati: gli altri furono affidati ai vari ospedali psichiatrici. Tutti negarono di aver preso parte agli omicidi rituali, e asserirono che le uccisioni erano state opera delle Creature dalle Ali Nere che erano arrivate dal loro innominabile luogo di riunione nel bosco infernale. Ma da quei misteriosi alleati non si riuscì ad ottenere nessun racconto coerente.


    Quello che la polizia riusciva ad estorcere, proveniva principalmente da un meticcio immensamente vecchio di nome Castro, che affermava di aver navigato fino a strani porti e di aver parlato con i capi immortali del Culto tra le montagne della Cina. Il vecchio Castro ricordava frammenti di orride leggende che facevano impallidire le speculazioni dei teosofi e facevano sembrare gli uomini e il mondo recenti e transitori.
    C'erano stati eoni in cui altri esseri governavano la Terra, ed essi avevano avuto grandi città. Resti di essi, gli avevano detto gli immortali cinesi, si potevano ancora trovare sotto forma di pietre ciclopiche sulle isole del Pacifico. Erano tutti morti ere ed ere prima della venuta dell'uomo, ma c'erano arti nascoste che avrebbero potuto farli rivivere quando le stelle fossero ritornate nelle giuste configurazioni nel ciclo dell'eternità. Anch'essi, in verità, erano venuti dalle stelle, e avevano portato le loro immagini con sé.
    Questi Grandi Antichi, aveva continuato Castro, non erano affatto composti di carne e sangue. Avevano una forma - e quella statuetta foggiata tra le stelle non lo provava? - ma quella forma non era fatta di materia. Quando le stelle erano nelle giuste configurazioni, Essi potevano balzare da un pianeta all'altro attraverso il cielo ma, quando le stelle erano nelle configurazioni sbagliate, non potevano vivere. Comunque, sebbene non vivessero più, non sarebbero mai veramente morti. Tutti giacevano nelle loro dimore di pietra nella grande città di R'lyeh, protetti dagli incantesimi del potente Cthulhu, in attesa della gloriosa resurrezione quando le stelle e la Terra fossero stati di nuovo pronti per loro. Ma quel giorno una forza dall'esterno doveva servire a liberare i loro corpi.
    Gli incantesimi che li conservavano intatti, allo stesso tempo impedivano loro di fare il movimento iniziale, per cui potevano solo giacere desti nel buio e pensare, mentre innumerevoli milioni di anni passavano. Sapevano tutto quello che accadeva nell'universo, perché comunicavano attraverso il pensiero. Perfino in quel momento stavano parlando nelle loro tombe. Quando, dopo infiniti anni di caos, erano arrivati i primi uomini, i Grandi Antichi avevano parlato ai più sensibili fra loro penetrando nei loro sogni; perché, solo in quel modo, il loro linguaggio riusciva a raggiungere le menti corporee dei mammiferi.
    Allora, aveva bisbigliato Castro, quei primi uomini avevano creato il Culto intorno a piccoli idoli che i Grandi avevano loro mostrato; idoli portati in ere tenebrose da oscure stelle. Quel Culto non sarebbe mai morto fino a che le stelle non fossero ritornate nelle giuste configurazioni, e i sacerdoti segreti avessero preso il Grande Cthulhu dalla tomba per far rivivere i suoi sudditi e fargli riprendere il dominio della Terra.
    Sarebbe stato facile capire quando fosse arrivato il momento, perché allora il genere umano sarebbe diventato come i Grandi Vecchi; libero, sfrenato e aldilà del bene e del male; avrebbe gettato alle ortiche leggi e morale, e tutti avrebbero urlato, ucciso e gioito. Allora gli Antichi, ormai liberi, avrebbero loro insegnato nuovi modi di gridare, uccidere, gioire e divertirsi, e tutta la Terra avrebbe fiammeggiato di un olocausto di estasi e libertà. Nel frattempo il Culto, con i riti appropriati, doveva tenere vivo il ricordo di quegli antichi modi e preannunciare il loro ritorno.
    Nei tempi antichi, uomini eletti avevano parlato in sogno con gli Antichi sepolti nelle loro tombe, ma poi era accaduto qualcosa. La grande città di pietra di R'lyeh, con i suoi monoliti e sepolcri, era sprofondata nel mare; e le acque profonde, colme dell'unico mistero primigenio che nemmeno il pensiero può attraversare, avevano interrotto quello spettrale contatto. Ma il ricordo non era mai morto, e gli alti sacerdoti dicevano che la città sarebbe riemersa quando le stelle fossero state nelle giuste configurazioni. Poi erano usciti gli spiriti neri della terra, ammuffiti, tenebrosi e circondati da oscure dicerie, erano andati a vivere in caverne al di sotto di obliati fondi marini. Ma di loro il vecchio Castro non osava parlare molto. Si interruppe immediatamente, e né la persuasione né l'astuzia, riuscirono a strappargli qualche altra notizia su quell'argomento. Stranamente, si rifiutò anche di parlare della grandezza degli Antichi. Del Culto disse che riteneva che il suo centro si trovasse nei deserti inesplorati dell'Arabia, dove Irem, la Città delle Mille Colonne, sogna celata e intatta. Non era affiliato alla Stregoneria europea, ed in pratica era sconosciuto alla quasi totalità dei suoi membri.
    Nessun libro ne aveva mai veramente parlato, sebbene gli immortali cinesi dicevano che c'erano doppi sensi nel Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred che gli iniziati potevano leggere come volevano, soprattutto il discusso distico:

    Non è morto ciò che può vivere in eterno,
    E in strani eoni anche la morte può morire.



    Legrasse, profondamente impressionato, e stupito non poco, aveva indagato invano riguardo alle affiliazioni storiche del Culto. Castro, evidentemente, aveva detto la verità quando aveva affermato che era
    totalmente segreto. Le autorità della Tulane University non avevano potuto gettare alcuna luce né sul culto né sulla statuetta, e allora l'investigatore si era rivolto alle più eminenti autorità del paese e non aveva trovato altro che il racconto groenlandese del Professor Webb.
    L'interesse febbrile destato durante la riunione dalla storia di Legrasse, avvalorata com'era dalla statuetta, si rispecchia nella successiva corrispondenza di coloro che vi parteciparono, sebbene nelle pubblicazioni ufficiali ne ricorrano poche citazioni. La prudenza è la prima preoccupazione per chi è abituato ad affrontare occasionalmente la ciarlataneria e l'impostura.
    Legrasse per qualche tempo prestò la statuetta al professor Webb ma, alla morte di quest'ultimo, essa gli fu restituita ed è tuttora in suo possesso: non molto tempo fa, l'ho vista. È veramente una cosa terribile, e innegabilmente somiglia alla scultura onirica del giovane Wilcox. Che mio zio fosse eccitato dal racconto dello scultore non me ne meraviglio: infatti, quali dovevano essere i suoi pensieri nel sentire, dopo aver appreso quello che Legrasse sapeva del Culto, di un giovane sensibile che aveva sognato non solo la figura e i geroglifici della statuetta trovata nella palude e del bassorilievo groenlandese, ma che in sogno aveva udito almeno tre delle parole della formula pronunciata sia dagli adoratori del diavolo eschimesi sia dai meticci della Louisiana? Il fatto che il Professor Angeli avesse immediatamente dato inizio ad un'indagine esauriente era naturalissimo; sebbene io personalmente sospettassi il giovane Wilcox di aver saputo del Culto attraverso qualche via indiretta, e di aver inventato una serie di sogni per ingrandire e continuare il mistero a spese di mio zio.
    I sogni e i ritagli di giornale raccolti dal professore, naturalmente avvaloravano con forza quella storia; ma il razionalismo della mia mente e la stravaganza del tutto, mi portarono alle conclusioni che ritenevo più sensate. Di conseguenza, dopo aver riletto accuratamente il manoscritto ed aver messo in correlazione gli appunti teosofici e antropologici con il resoconto del Culto fatto da Legrasse, feci un viaggio a Providence per incontrare lo scultore e rivolgergli l'aspro rimprovero che ritenevo fosse doveroso per aver tanto impudentemente imbrogliato un uomo colto e anziano.


    Wilcox viveva ancora da solo nel Fleur-de-Lys Building in Thomas Street, un'orrenda imitazione vittoriana dell'architettura bretone del diciassettesimo secolo, che ostentava gli stucchi della sua facciata tra le graziose case coloniali dell'antica collina, e all'ombra del più bel campanile georgiano d'America. Lo trovai intento a lavorare nel suo appartamento, e subito, a giudicare dagli esemplari sparsi tutt'intorno, ammisi che il suo genio era veramente profondo e autentico.
    Lui un giorno sarà famoso, credo, come uno dei più grandi decadenti; perché ha cristallizzato nell'argilla, e un giorno rispecchierà nel marmo, quegli incubi e quelle fantasie che Arthur Machen evoca nella prosa, e Clark Ashton Smith evidenzia nella poesia e nella pittura.
    Scuro, fragile, e di aspetto alquanto scarmigliato, al mio bussare egli si girò languidamente e mi chiese che cosa volessi senza alzarsi. Quando gli dissi chi ero, mostrò un certo interesse; infatti mio zio aveva destato la sua curiosità con l'indagare sui suoi strani sogni, ma non gli aveva mai spiegato le ragioni di quello studio. Io non ampliai le sue conoscenze al riguardo, ma cercai con una certa astuzia di farlo parlare. In breve mi convinsi della sua assoluta sincerità, perché parlò dei sogni in una maniera che nessuno poteva equivocare. Quei sogni e i loro residui subconsci avevano influenzato profondamente la sua arte, e mi mostrò una statua morbosa i cui contorni mi scossero per la potenza delle loro misteriose allusioni.
    Egli non ricordava di aver visto l'originale di quella cosa se non nel suo bassorilievo onirico, ma la figura si era formata inconsciamente sotto le sue mani. Era, senza alcun dubbio, la forma gigantesca di cui aveva parlato in delirio. Fu subito chiaro che non sapeva veramente nulla del culto segreto, se non quello che l'inesorabile interrogatorio di mio zio aveva lasciato capire. E ancora mi sforzai di pensare in quale modo avesse potuto ricavare quelle bizzarre impressioni. Parlò dei suoi sogni in una maniera stranamente poetica, che mi fece vedere con terribile vividezza la stillante città ciclopica di viscida pietra verde - la cui geometria, disse stranamente, era tutta errata - e mi fece sentire con ansia e paura, l'incessante richiamo mentale che proveniva da sottoterra: «Cthulhu fhtagn, Cthulhu fhtagn».
    Quelle parole facevano parte della temibile formula rituale che parlava dell'attesa sognante del morto Cthulhu nella sua cripta di pietra a R'lyeh, ed io mi sentii scosso fin nel profondo nonostante le mie credenze razionali. Wilcox, ne ero certo, aveva saputo del Culto in qualche modo casuale, e l'aveva presto dimenticato nella massa delle sue lettere e delle sue fantasie altrettanto bizzarre. In seguito, solo in virtù della sua capacità impressiva, esso aveva trovato espressione subconscia nei sogni, nel bassorilievo, e nella terribile statua che stavo guardando; cosicché egli aveva imbrogliato mio zio in modo del tutto innocente.
    Il giovane era un tipo, nello stesso tempo lievemente affettato e lievemente sgarbato, che non mi sarebbe mai potuto piacere; ma ero ormai disposto ad ammettere sia il suo genio sia la sua onestà. Presi congedo da lui amichevolmente, e gli augurai tutto il successo che il suo talento prometteva.
    L'oggetto del Culto continuava ad affascinarmi, e a volte fantasticavo di diventare famoso grazie alle mie ricerche sulle sue origini e connessioni.
    Andai a New Orleans, dove parlai con Legrasse e con altri che avevano partecipato a quella vecchia spedizione, vidi la spaventosa statuetta, e nterrogai perfino i prigionieri meticci che erano ancora in vita. Il vecchio Castro, purtroppo, era morto da alcuni anni. I vividi racconti che udii di prima mano, sebbene non fossero più di una conferma particolareggiata di quello che aveva scritto mio zio, mi eccitarono nuovamente. Infatti, ero certo di essere sulle tracce di una religione vera, segretissima e molto antica, la cui scoperta mi avrebbe reso un antropologo di fama. Il mio atteggiamento era ancora improntato ad un materialismo assoluto - come vorrei lo fosse ancora - e con inspiegabile perversione sminuii l'importanza del parallelismo tra i racconti dei sogni e gli strani ritagli raccolti dal Professor Angeli.
    Una cosa che cominciai a sospettare, e che ora temo di sapere, è che la morte di mio zio fosse lontana dall'essere naturale. Era morto su una stretta salita che partiva da un'antica banchina brulicante di mezzosangue stranieri, dopo essere stato sbadatamente spinto da un marinaio negro. Non avevo dimenticato il sangue misto e le abitudini marinare dei membri del Culto in Louisiana, e non sarei stato sorpreso di apprendere di metodi segreti e aghi avvelenati crudeli ed antichi quanto quei riti e quelle credenze enigmatiche. Legrasse e i suoi uomini, è vero, sono stati lasciati in pace; ma in Norvegia un certo marinaio che aveva visto qualcosa è morto. Non era possibile che le indagini più approfondite di mio zio dopo il suo incontro con lo scultore fossero arrivate ad orecchie pericolose? Io credo che il Professor Angeli sia morto perché sapeva troppe cose, o perché pensavano che sapesse troppo. Resta da vedere se anch'io farò la sua stessa fine, perché ormai so molte cose.


    Se il Cielo volesse mai concedermi un beneficio, dovrebbe cancellare completamente l'effetto di un puro caso che fece posare i miei occhi su un foglio di giornale che serviva a rivestire una mensola. Non era qualcosa in cui mi sarei potuto imbattere nel corso della mia vita quotidiana, perché era un vecchio numero di un quotidiano australiano, il Sidney Bulletin del 18 aprile 1925. Era sfuggito perfino all'agenzia specializzata che, all'epoca della sua pubblicazione, stava accuratamente raccogliendo il materiale per le ricerche di mio zio.
    Mi ero ormai dedicato completamente alle indagini su quello che il Professor Angeli chiamava il «Culto di Cthulhu», ed ero andato a trovare un mio erudito amico che abitava a Paterson, nel New Jersey, curatore di
    un museo locale e mineralologo di fama. Un giorno, mentre esaminavo i campioni rozzamente disposti su degli
    scaffali in un magazzino sul retro del museo, il mio sguardo fu attirato da una strana fotografia su uno dei vecchi giornali che erano distesi sotto le pietre. Era il Sidney Bulletin come ho già detto, perché il mio amico aveva un'ampia rete di conoscenze di ogni possibile luogo del mondo. La fotografia era un cliché a mezza tinta che rappresentava una orrenda statuetta di pietra, pressoché identica a quella che Legrasse aveva trovato
    nella palude. Liberato ansiosamente il foglio dal suo prezioso contenuto, lessi attentamente l'articolo; e fui deluso nello scoprire che era di scarsa lunghezza. Il suo soggetto, però, era di enorme significato per la mia
    ricerca, il cui interesse si stava affievolendo; tagliai con cura il trafiletto per entrare immediatamente in azione. Diceva quanto segue:

    Misterioso relitto trovato in mare.
    La nave Vigilant arriva con il relitto di uno yacht neozelandese al traino. Trovati a bordo un superstite e un morto. Si parla di una disperata lotta e di morti in mare. Il marinaio salvato rifiuta di dare particolari su questa strana esperienza. Strano idolo trovato in suo possesso. Seguirà un'inchiesta. La Vigilant della Morrison Co., proveniente da Valparaiso, è arrivata questa mattina al suo molo di Darling, Harbour, portando al traino lo yacht a vapore, danneggiato e fuori uso ma pesantemente armato, Alert di Dunedin, Nuova Zelanda, che era stato avvistato il 12 aprile a 34° 21 Latitudine Sud, 152° 17 Longitudine Ovest, con a bordo un superstite ed un morto. La Vigilant era salpata il 25 marzo da Valparaiso, e il 2 aprile era stata deviata a sud della sua rotta da violenti uragani e onde enormi. Il 12 aprile il relitto veniva avvistato e, sebbene apparisse abbandonato, a bordo era stato trovato un superstite in stato di delirio, ed un uomo che era evidentemente morto da più di una settimana. Il superstite stringeva fra le mani un orribile idolo di pietra di origine ignota, alto circa trenta centimetri, riguardo alla cui natura le autorità della Sidney University, della Royal Society e del museo di College Street, ammettono la più completa ignoranza, e che il superstite dice di aver trovato nella cabina dello yacht, in un piccolo scrigno intagliato, di tipo comune. Quest'uomo, dopo essere ritornato in sé, ha raccontato una storia incredibilmente strana di pirateria e carneficina. Si chiama Gustaf Johansen, è un norvegese di una certa intelligenza, ed era il Secondo Ufficiale della goletta due alberi Emma di Auckland, che era salpata per Callo il 20 febbraio con un equipaggio di undici uomini. L'Emma, afferma il superstite, era stata ostacolata e spinta a sud della sua rotta dal violento uragano del primo marzo, e il 22 marzo, a 49° 51 Latitudine Sud, 128° 34 Longitudine Ovest, incontrò l'Alert, armata di un equipaggio strano e dall'aspetto malvagio, di kanaka e di mezzosangue. Ricevettero l'ordine perentorio di tornare indietro, ma il Capitano Collins rifiutò; dopodiché, la strana ciurma cominciò a fare fuoco a casaccio e senza preavviso sulla goletta con una batteria particolarmente pesante di cannoni d'ottone, che faceva parte dell'equipaggiamento dello yacht.

    Gli uomini dell'Emma opposero resistenza, afferma il superstite e, sebbene la goletta cominciasse ad affondare a causa dei colpi al di sotto della linea di galleggiamento, riuscirono ad accostarsi alla fiancata della nave nemica e ad abbordarla. Iniziarono una lotta corpo a corpo sul ponte con la selvaggia ciurma, e furono costretti ad ucciderli tutti, nonostante il loro numero fosse lievemente superiore, a causa del loro modo disgustoso, disperato e goffo di lottare. Tre degli uomini dell'Emma, compreso il Capitano Collins e il Primo Ufficiale Green, vennero uccisi; e i restanti otto, sotto il comando del secondo ufficiale Johansen, proseguirono la navigazione a bordo dello yacht catturato, e procedettero nella direzione originaria per vedere qual era la ragione per cui era stato loro ordinato di tornare indietro. Il giorno successivo, a quanto pare, avvistarono un'isoletta e vi attraccarono, sebbene non se ne conosca nessuna in quella zona dell'oceano; e sei degli uomini morirono in qualche modo a terra, benché Johansen sia stranamente reticente riguardo a questa parte della storia e dica solo che caddero in un crepaccio roccioso. In seguito, a quanto pare, lui ed un compagno salirono a bordo dello yacht e cercarono di governarlo, ma furono trascinati alla deriva dall'uragano del 2 aprile.

    Da quel momento fino al suo recupero, avvenuto il 12 aprile, l'uomo ricorda ben poco, e non rammenta nemmeno quando è morto William Briden, il suo compagno. La morte di Briden non ha una causa evidente, e forse è stata dovuta a stanchezza o a fame. Cablogrammi inviati da Dunedin riferiscono che l'Alert vi era ben conosciuta come nave mercantile, e che aveva una cattiva reputazione nel porto. Era di proprietà di un curioso gruppo di mezzosangue, le cui frequenti riunioni e spedizioni nei boschi destavano non poca curiosità; ed era salpata in gran fretta, subito dopo l'uragano e le scosse telluriche del primo marzo.
    Il nostro corrispondente di Auckland riferisce che l'Emma e il suo equipaggio avevano una reputazione eccellente, e Johansen viene descritto come un uomo serio e onesto. L'Ammiragliato promuoverà un'indagine sulla faccenda a cominciare da domani, durante la quale saranno fatti tutti gli sforzi per indurre Johansen a parlare più liberamente di quanto abbia fatto fino ad ora.


    Questo era tutto, accompagnato dalla foto dell'infernale statuetta; ma a quale catena di pensieri diede inizio nella mia mente! Lì c'era una nuova miniera di notizie sul Culto di Cthulhu, e la prova che aveva strani influssi
    sul mare così come sulla terra. Quale motivo aveva spinto la ciurma mezzosangue, che navigava con il proprio orrendo idolo, ad ordinare all'Emma di tornare indietro? Qual era l'isola sconosciuta sulla quale sei uomini dell'equipaggio dell'Emma erano morti, e intorno alla quale l'ufficiale Johansen era così reticente? Che cosa aveva concluso l'indagine dell'Ammiragliato, e che cosa si sapeva di quel nocivo Culto a Dune-din? E, particolare più stupefacente, quale legame profondo e soprannaturale esisteva tra quelle date? Quel legame dava un significato malevolo e ormai innegabile alle varie serie di eventi annotati con cura da mio zio.
    Il primo marzo - il nostro 28 febbraio secondo la Linea Internazionale del Cambiamento di Data - erano arrivati l'uragano e il terremoto. Da Dunedin, l'Alert e il suo disgustoso equipaggio erano salpati in tutta fretta, come convocati da un ordine imperioso e, dall'altra parte della terra, poeti ed artisti avevano cominciato a sognare una strana città ciclopica, mentre un giovane scultore aveva modellato in sogno la figura del temibile Cthulhu. Il 23 marzo l'equipaggio dell'Emma aveva preso terra in un'isola sconosciuta e vi aveva lasciato sei morti.


    In quella stessa data, i sogni degli uomini più sensibili avevano assunto una vividezza più intensa ed erano stati incupiti dalla paura di un mostro gigantesco e maligno, mentre un architetto era impazzito ed uno scultore era stato improvvisamente preso dal delirio! E che cosa pensare di quell'uragano del 2 aprile, la stessa data in cui tutti i sogni sulla città stillante fango erano cessati, e Wilcox era emerso indenne dalla schiavitù di quella strana febbre? Che cosa pensare di tutto questo, e di quelle allusioni del vecchio Castro agli Antichi, venuti dalle stelle e sommersi sotto il mare, ed al loro regno a venire, al loro Culto e al loro dominio sui sogni? Vacillavo sull'orlo di orrori cosmici, al di là della capacità di sopportazione dell'uomo? Se era così, dovevano essere orrori solo della mente perché, in qualche modo, il 2 aprile aveva fatto cessare la minaccia
    mostruosa che aveva cominciato ad assillare l'anima degli uomini.
    Quella sera, dopo una giornata di affrettati cablogrammi e prenotazioni, mi congedai dal mio ospite e presi un treno per San Francisco.


    Dopo meno di un mese ero a Dunedin dove, però, scoprii che si sapeva poco degli strani membri del Culto che avevano indugiato nelle vecchie taverne del porto. La feccia del luogo era fin troppo comune per suscitare un'attenzione particolare, ma giravano vaghe voci a proposito di un viaggio verso l'interno che avevano fatto quei meticci, durante il quale erano stati notati sulle lontane montagne un lieve rullare di tamburi ed una fiamma rossa.
    Ad Auckland appresi che Johansen era tornato con i capelli biondi diventati bianchi, dopo un interrogatorio superficiale e inconcludente a Sydney, e che in seguito aveva venduto la sua villetta in West Street ed era partito con sua moglie per tornare alla sua vecchia casa di Oslo. Della sua esperienza sconvolgente non aveva detto agli amici più di quanto avesse detto agli ufficiali dell'Ammiragliato, e tutto quello che poterono fare fu di darmi il suo indirizzo di Oslo. Dopodiché, mi recai a Sydney e parlai senza alcun profitto con i marinai e i membri del Tribunale dell'Ammiragliato. Vidi l'Alert, ormai venduta e usata come mercantile, al Circular Quay nella baia di Sydney, ma non ricavai niente dalla visione del suo innocente scafo. La statuetta acquattata con la testa di seppia, il corpo di drago, le ali squamose, e il piedistallo coperto di geroglifici, era conservata nel museo di Hyde Park.
    La studiai a lungo e approfonditamente, trovando che era un oggetto di fattura squisita, e che aveva la stessa aria di mistero assoluto e di terribile antichità, oltre la stessa ultraterrena stranezza nel materiale che avevo notato nell'esemplare, più piccolo, di Legrasse. I geologi, mi disse il curatore del museo, l'avevano ritenuta un mistero insolubile, e sostenevano che nel mondo non esistessero rocce del genere. Allora pensai con un brivido a quello che aveva detto il vecchio Castro a Legrasse a proposito dei Grandi Antichi: «Erano venuti dalle stelle, ed avevano portato le loro immagini con sé».
    Scosso da una vera tempesta mentale, quale non avevo mai provato, decisi allora di andare a trovare Johansen ad Oslo. Navigai fino a Londra, poi mi imbarcai immediatamente per la capitale norvegese; e, in una
    giornata d'autunno, attraccai alle banchine bene attrezzate all'ombra dell'Egeberg. Scoprii che la casa di Johansen si trovava nella Città Vecchia costruita dal re Harold Haardrada, il quale aveva tenuto vivo il nome di Oslo durante tutti i secoli in cui la città più grande si era travestita da Christiania. Compii il breve viaggio con un'auto pubblica, e bussai con il cuore che mi palpitava alla porta di un bell'edificio antico, con la facciata intonacata.
    Una donna in nero, dal volto triste, rispose alla mia chiamata, ed io fui colto da disappunto quando mi disse in un inglese stentato che Gustaf Johansen era morto. Non era sopravvissuto a lungo al suo ritorno, disse la moglie, perché quegli avvenimenti del 1925 lo avevano distrutto.
    Non aveva detto a lei più di quanto avesse detto al pubblico, ma aveva lasciato un lungo manoscritto - su «questioni tecniche» aveva detto - scritto in inglese, evidentemente per salvaguardarlo dal pericolo di occhiate casuali. Durante una passeggiata lungo una stretta viuzza nei pressi del Bacino Gothenberg, alcuni pacchi di carta erano caduti dalla finestra di una soffitta e lo avevano buttato a terra. Due marinai indiani lo avevano aiutato immediatamente a rialzarsi ma, prima che arrivasse l'ambulanza, era morto. I medici non erano riusciti a trovare nessuna causa plausibile per la sua morte, e l'avevano attribuita ad un problema cardiaco e al suo fisico indebolito. In quel momento mi sentii stringere il cuore da quel terrore oscuro che non mi lascerà mai, finché anch'io non riposerò in pace, «accidentalmente» o in un altro modo. Persuasa la vedova che il mio legame con le «questioni tecniche» del marito era sufficiente a darmi il diritto di possedere il suo manoscritto, portai con me il documento e cominciai a leggerlo sul battello per Londra.
    Era uno scritto semplice ed allo stesso tempo confuso: il tentativo di un ingenuo marinaio di comporre un diario a posteriori e lo sforzo di ricordare giorno per giorno quell'orribile, ultimo viaggio. Non posso riportarlo parola per parola in tutta la sua nebulosità e ridondanza, ma ne riferirò l'essenziale, abbastanza da far comprendere perché il rumore dell'acqua contro le fiancate della nave mi divenne così intollerabile che mi otturai le orecchie con l'ovatta.
    Johansen, grazie a Dio, non sapeva tutto, anche se aveva visto la città e la Cosa, ma io non dormirò mai più sonni tranquilli quando penserò agli orrori che si celano dietro la vita quotidiana, nel tempo e nello spazio, ed a quelle empietà, venute dalle stelle più antiche, che sognano sotto il mare, conosciute e aiutate da un Culto da incubo, ansioso di liberarle ogniqualvolta un altro terremoto farà riemergere nuovamente la città di pietra al sole ed all'aria.


    Il viaggio di Johansen era cominciato esattamente come l'aveva descritto all'Ammiragliato. L'Emma, senza carico, era salpata da Auckland il 20 febbraio, ed aveva subito tutta la violenza della tempesta originata dal terremoto, che doveva aver sollevato dal fondo del mare degli orrori che avevano riempito i sogni degli uomini. Quando fu di nuovo governabile, la nave riprese la navigazione, ma allora fu assalita dall'Alert, il 22 marzo, ed io avvertii il dispiacere dell'ufficiale nello scrivere del suo affondamento. Degli scuri adoratori del diavolo che costituivano l'equipaggio dell'Alert egli parla con un orrore significativo.
    In essi c'era qualcosa di particolarmente abominevole che faceva apparire la loro distruzione quasi un dovere, e Johansen mostra una meraviglia ingenua di fronte all'accusa di spietatezza fatta al suo equipaggio durante l'inchiesta dell'Ammiragliato. Poi, spinti dalla curiosità, avevano proseguito la navigazione sullo yacht catturato, sotto il comando di Johansen.
    Ad un tratto avevano avvistato una grande colonna di pietra che emergeva dal mare e, a 47° 9 di Lat. Sud e 126° 43 Long. Ovest, si erano imbattuti in un'isola ricoperta di fango, di melma e di mura ciclopiche e muschiose, la quale altro non era che l'incarnazione tangibile del supremo terrore della terra: la città-sepolcro di R'lyeh, edificata innumerevoli eoni prima da quegli enormi, disgustosi esseri discesi dalle stelle oscure. Lì giacciono Cthulhu e le sue orde, nascosti in caverne verdi e melmose da dove, dopo cicli incalcolabili, hanno infine trasmesso i loro pensieri che hanno diffuso la paura nei sogni degli uomini sensibili e hanno ordinato imperiosamente ai fedeli di accorrere sin lì in un pellegrinaggio di liberazione e restaurazione.
    Tutto questo Johansen non lo sospettava, ma Dio solo sa se lui, subito dopo, non vide abbastanza!
    Credo che solo la cima della montagna, quell'orrenda cittadella coronata dal monolito in cui il Grande Cthulhu fu sepolto, emergesse dalle acque. Quando penso alla vastità di ciò che incombe laggiù, vorrei uccidermi subito.
    Johansen ed i suoi uomini furono intimoriti dalla maestà cosmica di quella stillante Babilonia edificata da antichi demoni, e dovettero sospettare, senza alcuna cognizione, che non appartenesse né al nostro né a nessun altro pianeta sano. Il timore reverenziale che provarono davanti alle dimensioni incredibili dei blocchi di pietra verdastri, all'altezza vertiginosa del grande monolito intagliato, e davanti all'identità stupefacente delle statue colossali e dei bassorilievi con la strana statuetta trovata nello scrigno dell'Alert, lo si avverte acutamente in ogni rigo della spaventata descrizione dell'ufficiale.
    Senza sapere che cosa sia il Futurismo, Johansen vi si avvicinò molto quando parlò della città; infatti, invece di descrivere una struttura definita o un edificio, egli si sofferma solo sulle impressioni generali di vasti angoli e superfici di pietra, superfici troppo grandi per appartenere a qualcosa di adatto a questa terra, e rese empie da figure orribili e geroglifici. Riferisco il suo discorso sugli angoli, perché mi fa pensare a qualcosa che Wilcox mi aveva detto dei suoi sogni spaventosi. Aveva detto che la geometria della città del sogno era anormale, non euclidea, e disgustosamente memore di sfere e dimensioni diverse dalle nostre. E un marinaio illetterato aveva provato la stessa cosa nel guardare quella terribile realtà.
    Johansen ed i suoi uomini sbarcarono su un pendio fangoso di quella mostruosa acropoli, e si arrampicarono con difficoltà lungo i blocchi titanici e melmosi che non potevano assolutamente essere dei gradini per esseri mortali. Perfino il sole sembrava distorto se visto attraverso il miasma polarizzante che fluiva da quella corruzione intrisa di mare. E ansia e minaccia si celavano maligne dietro quegli angoli follemente elusivi di roccia scolpita, dove uno sguardo più approfondito poteva scorgere una concavità laddove prima aveva visto solo una convessità.
    Qualcosa di molto simile alla paura aveva assalito tutti gli esploratori, e questo prima ancora che vedessero qualcosa di più definito delle rocce, del limo e delle alghe. Ognuno avrebbe voluto scappare, se non fosse stato per il timore di essere disprezzato dagli altri, e fu solo con il timore nel cuore che essi cercarono poi - invano, come si rivelò - qualche ricordo da portare via.
    Fu Rodriguez, il portoghese, che si arrampicò fino ai piedi del monolito e gridò di aver trovato qualcosa. Gli altri lo seguirono, e guardarono con curiosità l'immensa porta scolpita con il bassorilievo dell'oramai familiare calamaro-drago.


    Era - diceva Johansen - simile ad un grande portone; e tutti capirono che si trattava di una porta a causa degli architravi ornati, della soglia e degli stipiti, sebbene non riuscissero a decidere se fosse inserita nella roccia di piatto o obliquamente. Come avrebbe detto Wilcox, la geometria di quel luogo era tutta errata. Non si poteva essere certi che il mare e la terra fossero orizzontali: di conseguenza, la posizione relativa di ogni altra cosa sembrava fantasmagoricamente variabile. Briden spinse la pietra in molti punti senza alcun risultato. Poi Donovan la tastò delicatamente lungo i bordi, premendo un punto dopo l'altro, mano a mano che avanzava. Si arrampicò interminabilmente lungo la grottesca modanatura di pietra - cioè, si può affermare che si arrampicava, se si ammette che la porta non era orizzontale - e gli uomini si chiesero come potesse esistere nell'universo una porta così vasta. Poi, lentamente e con delicatezza, la parte superiore del pannello cominciò a cedere verso 'interno; e videro che era bilanciata. Donovan scivolò, o in qualche modo si spinse lungo lo stipite, e raggiunse i suoi compagni, e tutti guardarono lo strano retrocedere del portale dalle mostruose incisioni.
    In quella fantasia di distorsioni prismatiche, il battente si muoveva anormalmente in senso diagonale, cosicché tutte le regole della materia e della prospettiva sembravano sconvolte. L'apertura era buia, di un'oscurità quasi tangibile. Quelle tenebre avevano veramente una qualità concreta; infatti, oscurarono parti delle pareti interne che avrebbero dovuto essere illuminate e, simili a fumo, uscirono dalla loro prigione millenaria, oscurando visibilmente il sole mentre si allontanavano nel cielo, rimpicciolito e gibboso, su ali membranose.
    L'odore che si alzò dalle profondità appena scoperte era intollerabile, e infine ad Hawkins, che aveva l'udito fine, parve di sentire un rumore viscido e insidioso provenire dalle tenebre.
    Tutti si misero in ascolto, e stavano ancora ascoltando, quando la Cosa apparve con passo pesante e, a tentoni, infilò la sua immensità verde e gelatinosa attraverso la buia soglia, uscendo nella fetida aria esterna di quella velenosa città di follia. La mano del povero Johansen aveva quasi ceduto mentre descriveva questa scena. Dei sei uomini che non raggiunsero mai la nave, egli riteneva che due fossero morti di paura in quell'istante maledetto.


    La Cosa è indescrivibile: non esiste una lingua per simili abissi di follia urlante e antichissima, per simili contraddizioni soprannaturali della materia, della forza e dell'ordine cosmico. Una montagna che camminava o barcollava. Dio! Non c'era da meravigliarsi che dall'altra parte della terra un grande architetto fosse impazzito, e il povero Wilcox fosse stato colto telepaticamente dal delirio, in quell'istante.
    La Cosa che aveva ispirato gli idoli, quel figlio verde e nauseabondo delle stelle, si era destato per reclamare ciò che era suo. Le stelle erano tornate nelle giuste configurazioni, e quello che un Culto millenario non era riuscito a fare di proposito, un gruppo di marinai innocenti l'aveva fatto per caso. Dopo bilioni di anni, il Grande Cthulhu era di nuovo libero, ed esultava per la gioia.
    Tre uomini furono spazzati via dai suoi flaccidi artigli prima che qualcuno si girasse. Che riposino in pace, se esiste la pace nell'universo! Erano Donovan, Guerrara e Angstrom. Parker cadde giù, mentre gli altri tre scappavano su distese infinite di rocce incrostate di verde, verso la barca, e Johansen giura di essere stato ingoiato da un angolo di muratura che non avrebbe dovuto trovarsi in quel punto; un angolo che era acuto, ma si comportava come un angolo ottuso. Perciò, solo Briden e Johansen raggiunsero la barca, e remarono disperatamente verso l'Alert mentre il mostro grande come una montagna si precipitava lungo le pietre fangose e restava esitante e infuriato ai bordi dell'acqua. Il motore non era stato spento completamente, nonostante la partenza di tutti i marinai per l'isola: per cui fu questione solo di qualche momento e di qualche febbrile corsa tra gli ingranaggi per mettere l'Alert in condizione di partire.
    Lentamente, tra gli orrori distorti di quella scena indescrivibile, la nave cominciò a far spumeggiare le acque letali; mentre sulle mura di quella riva mortale e ultraterrena, la Cosa titanica e astrale sbavava e farfugliava, simile a Polifemo che malediceva la nave in fuga di Ulisse. Poi, più audace degli storici Ciclopi, il Grande Cthulhu scivolò viscidamente nell'acqua e cominciò ad inseguire l'imbarcazione con colpi di una potenza cosmica che faceva alzare montagne d'acqua.
    Briden guardò a poppa e impazzì. Rise ad intervalli finché la morte non lo colse una notte nella sua cabina, mentre Johansen dormiva. Ma Johansen non aveva ancora ceduto. Sapendo che la Cosa avrebbe certamente raggiunto l'Alert prima che il motore arrivasse al massimo, decise di tentare un'impresa disperata. Messo il motore alla velocità massima, corse come un fulmine sul ponte e girò il timone dall'altra parte. L'acqua salmastra turbinò e spumeggiò e, mentre il vapore aumentava sempre più, il coraggioso norvegese diresse il vascello contro la massa gelatinosa che l'inseguiva e che si alzò al di sopra della fetida spuma come la prora di un galeone demoniaco. L'orrenda testa di polipo, con i tentacoli che si contorcevano, arrivò vicina alla prua del robusto yacht, ma Johansen avanzò implacabile.
    Ci fu uno scoppio come di una vescica natatoria che esplodesse, una sporcizia viscosa come di un pesce luna spaccato in due, un tanfo come di mille tombe, e un rumore che il cronista non volle descrivere. Per un
    istante la nave fu insudiciata da una nube verde, accecante ed acre, e poi ci fu solo un venefico ribollire d'onde a prua. E lì - Dio mio! - la materia sparsa di quella innominabile creatura astrale si stava nebulosamente ricomponendo nella sua odiosa forma originale, mentre la distanza aumentava ad ogni secondo che l'Alert guadagnava in forza della pressione crescente del vapore.


    Questo fu tutto. In seguito, Johansen meditò sull'idolo che era nella cabina e si preoccupò del cibo per sé e per il ridente pazzo che gli stava a fianco. Non cercò di governare la nave dopo quella prima fuga audace: perché quella reazione aveva privato la sua anima di qualcosa. Arrivò l'uragano del 2 aprile, e sulla sua coscienza si addensarono le nubi. Poi roteò spettralmente in abissi liquidi di infinito, cavalcò sulla coda di una cometa in universi barcollanti, e volò dall'abisso alla luna e dalla luna di nuovo nell'abisso, il tutto animato dal corpo cachinnico degli ilari e distorti Dèi Maggiori e degli irridenti demoni del Tartaro, verdi e dalle ali di pipistrello. In quel sogno arrivò la salvezza, la Vigilant, poi il tribunale dell'Ammiragliato, le strade di Dunedin, e il lungo viaggio di ritorno alla vecchia casa all'ombra dell'Egeberg. Non poteva parlare: lo avrebbero reputato folle. Scrisse quello che sapeva prima che arrivasse la morte, ma sua moglie non doveva intuire. La morte fu un sollievo, anche se riuscì solo a cancellare i ricordi.
    Questo era il manoscritto che lessi. Ora l'ho messo nella scatola di latta accanto al bassorilievo ed alle carte del Professor Angeli. Accanto ad essi finirà questo mio documento, questa testimonianza della mia sanità
    mentale, in cui viene ricostruito quello che spero non venga mai più ricostruito.
    Ho visto tutto l'orrore che c'è nell'universo, e perfino i cieli di primavera e i fiori dell'estate sono ormai un veleno per me. Ma non penso che la mia vita durerà ancora a lungo. Come è finito mio zio, come è finito il povero Johansen, così finirò io. So troppo, e il Culto vive ancora. Anche Cthulhu vive ancora, credo, in quell'abisso di pietra che lo ha protetto fin da quando il sole era giovane. La sua città maledetta è
    sprofondata di nuovo, perché la Vigilant ha navigato in quella zona dopo l'uragano di aprile; ma i suoi sacerdoti sulla terra ancora strillano, danzano e uccidono intorno agli idoli posti sulla cima dei monoliti in luoghi solitari. Dev'essere rimasto intrappolato nello sprofondamento del nero abisso, perché, in caso contrario, il mondo ora risuonerebbe di urla di un terrore agghiacciante. Ma chi può sapere come andrà a finire? Ciò che è risorto può cadere, e ciò che è caduto può risorgere. L'orrore aspetta e sogna nel profondo, e la decomposizione e il marciume si spargono sulla Terra nelle fragili città degli uomini. Verrà un tempo... ma non devo e non voglio pensarci!
    Una preghiera soltanto. Se non sopravviverò a questo manoscritto, i miei esecutori testamentari usino più la cautela che l'audacia, e facciano in modo che nessun altro occhio umano lo possa legge.

    Edited by Indigo. - 25/12/2013, 15:45
     
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