Harry

Rosemary Timperley

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    Cose normalissime mi fanno paura. Sole abbagliante. Ombre taglienti sull’erba. Rose bianche. Bambini coi capelli rossi. E quel nome... Harry. Un nome così normale.
    Avvertii una premonitrice fitta di paura fin dalla prima volta che Christine pronunciò quel nome.
    Aveva cinque anni, e tre mesi dopo avrebbe iniziato ad andare a scuola. Era una calda giornata serena, e lei giocava in giardino da sola, come faceva spesso. La vedevo, sdraiata bocconi sull’erba, cogliere margherite e divertirsi a intrecciarle alacremente in collane. Il sole ardeva sui capelli fulvi e sembrava rendere ancor più bianca la sua pelle. La concentrazione le spalancava gli occhi azzurri.
    D’un tratto alzò lo sguardo verso il cespuglio di rose bianche la cui ombra si stendeva sull’erba, e sorrise.
    «Sì, Christine sono io» disse. Si alzò e si diresse lentamente verso il cespuglio, con le gambette grassocce che spuntavano tenere e indifese dalla gonna troppo corta di cotonina celeste. Stava crescendo alla svelta.
    Era già nell’ombra del cespuglio. Sembrava che avesse abbandonato il mondo della luce, inoltrandosi nelle tenebre. A disagio, senza sapere perché, la chiamai.
    «Che stai facendo, Chris?»
    «Niente». La sua voce suonava stranamente lontana.
    «Rientra, adesso. Fa troppo caldo, fuori».
    «Non fa troppo caldo».
    «Rientra, Chris».
    La sentii dire: «Devo rientrare, adesso. Ciao», e s’incamminò a passo lento verso casa.
    «Con chi stavi parlando, Chris?»
    «Harry».
    «Chi è Harry?»
    «Harry».
    Non riuscii a tirarle fuori altro, così alla fine le diedi un po’ di latte e una fetta di torta, e le lessi qualcosa finché fu ora di andare a letto.
    Mentre mi ascoltava leggere continuava a guardar fuori, in giardino. Una volta sorrise e agitò una mano in segno di saluto. Fu un vero sollievo infilarla a letto, al sicuro.
    Quando Jim, mio marito, tornò a casa, gli raccontai del misterioso «Harry». Lui scoppiò a ridere.
    «Oh, ha cominciato, eh?»
    «Che vuoi dire, Jim?»
    «Non è raro che i figli unici s’inventino un amico. Certe bambine parlano con le loro bambole. Ma Chris non ha mai avuto un debole per le bambole. Però non ha fratelli né sorelle. Non ha amici della sua età. Così ne ha inventato uno».
    «Ma perché ha scelto proprio quel nome?»
    Scrollò le spalle. «Sai come sono i bambini. Non capisco di che ti preoccupi, proprio non capisco».
    «Neanch’io, veramente. È solo che mi sento iperprotettiva nei suoi confronti. Più che se fossi la sua vera madre».
    «Lo so, ma va tutto bene. Chris sta bene. È una bimba graziosa, piena di salute e intelligente. E per merito tuo».
    «E tuo, anche».
    «Sicuro, siamo dei genitori eccezionali!»
    «E così modesti!»
    Ci baciammo ridendo. Mi sentii rassicurata.
    Fino al mattino seguente.
    Ancora una volta il sole splendeva sul piccolo prato luminoso e sulle rose bianche. Christine, seduta sull’erba a gambe incrociate, fissava sorridendo il cespuglio di rose.
    «Ciao» disse. «Speravo che saresti venuto... perché mi sei simpatico. Quanti anni hai?... Io ne ho cinque e un pezzetto... No, non sono una mocciosa! Presto andrò a scuola, e avrò un vestito nuovo. Verde. E tu ci vai, a scuola?... Che fai, allora?». Tacque per un momento, ascoltò assorta, annuì.
    Immobile nella cucina, mi sentii avvolgere dal gelo. ‘Sciocchezze’ mi dissi disperatamente. ‘Un sacco di bambini ha amici immaginari. Fa’ finta di nulla. Non ascoltare. Non fare la stupida’.
    Ma feci rientrare Chris prima del solito per la sua merenda di metà mattina.
    «Il tuo latte è pronto, Chris. Vieni dentro».
    «Un momento». Una strana risposta. Di solito il latte e i biscotti alla crema di cui era ghiotta esercitavano su di lei un richiamo irresistibile.
    «Vieni subito, tesoro» insistei.
    «Può venire anche Harry?»
    «No!». Il grido mi salì alle labbra così brusco da sorprendermi.
    «Ciao, Harry. Mi dispiace che non puoi venire. Adesso devo fare merenda» disse Chris, poi corse a casa.
    «Perché Harry non può avere anche lui il latte?» mi chiese in tono di sfida.
    «Chi è Harry, tesoro?»
    «Harry è mio fratello».
    «Ma Chris, tu non hai fratelli. Papà e mamma hanno una sola figlia, una sola bambina, e quella sei tu. Harry non può essere tuo fratello».
    «Sì che è mio fratello. Me l’ha detto lui». Si tuffò nel bicchiere di latte e ne riemerse con un piccolo sbaffo sul labbro superiore. Poi attaccò i biscotti. Per lo meno, «Harry» non le aveva tolto l’appetito.
    «Andiamo a far spese, Chris» le proposi quando ebbe bevuto tutto il latte. «Non ti va di uscire?»
    «Voglio stare con Harry».
    «Be’, non puoi. Verrai con me».
    «Può venire anche Harry?»
    «No».
    Mi sistemai il cappello con mani tremanti. La casa era davvero fredda, come se, a dispetto del sole, vi fosse calata sopra un’ombra gelida. Chris venne con me abbastanza docilmente, ma mentre ci stavamo allontanando si voltò e agitò una mano.
    Non ne parlai a Jim. Sapevo che ci avrebbe riso su, come la volta precedente. Però man mano che, con lo scorrere dei giorni, l’immaginario «Harry» si faceva sempre più invadente, il mio nervosismo aumentò. Finii per odiare e temere quei lunghi giorni estivi. Desideravo cieli grigi e pioggia. Desideravo che le rose bianche avvizzissero e morissero. Tremavo ascoltando il ciangottio di Christine in giardino. Parlava di continuo con «Harry».
    Una domenica la sentì anche Jim. «Va detta una cosa a favore degli amici immaginari» commentò: «favoriscono lo sviluppo del linguaggio. Chris chiacchiera molto più spedita del solito».
    «E con un accento» proruppi.
    «Un accento?»
    «Un leggero accento cockney».
    «Tesoro mio, tutti i ragazzini di Londra hanno un leggero accento cockney. E peggiorerà, quando andrà a scuola e conoscerà altri bambini».
    «Ma noi non parliamo con quell’accento. Da dove l’ha preso? Da chi può averlo preso se non da Ha...». Non riuscii a pronunciare il nome.
    «Dal fornaio, dal lattaio, dallo spazzino, dal carbonaio, dal pulitore dei vetri... ti basta?»
    «Direi di sì». Risi imbarazzata. Jim mi faceva sentire molto sciocca.
    «E comunque» concluse Jim, «io non ho notato alcun accento dialettale».
    «Non quando parla con noi. Si nota soltanto quando parla con... lui».
    «Con Harry. Sai una cosa? Mi sto affezionando al piccolo Harry. Non sarebbe buffo se un giorno guardassimo fuori in giardino, e lo vedessimo?»
    «No!» gridai. «Non dirlo nemmeno! È il mio incubo. Il mio incubo a occhi aperti. Oh, Jim, non ne posso più».
    Mi fissò stupefatto. «Questa storia di Harry ti sconvolge per davvero, eh?»
    «Certo che mi sconvolge! Giorno dopo giorno non sento che ‘Harry questo’ e ‘Harry quello’, ‘Harry dice’ ‘Harry pensa’, ‘Può averne un po’ anche Harry?’, ‘Può venire anche Harry?’... per te va tutto bene, tanto te se stai sempre in ufficio, ma io devo convivere con questa cosa: io... io ho paura, Jim. È così strano».
    «Sai che cosa dovresti fare per metterti l’animo in pace? »
    «Che cosa?»
    «Domattina porta Christine dal vecchio dottor Webster. Lascia che parli un po’ con lei».
    «Pensi che sia malata... di mente?»
    «Cielo, no! Ma quando c’imbattiamo in qualcosa che supera le nostre capacità di comprensione è bene rivolgersi a un professionista».
    Il giorno dopo portai Chris dal dottor Webster. La lasciai in sala d’aspetto mentre parlavo col medico e lo mettevo al corrente di «Harry». Lui annuì comprensivo e sentenziò:
    «Un caso piuttosto insolito, signora James, ma nient’affatto unico. Conosco diversi casi in cui gli ‘amici immaginari’ di certi bambini sono diventati così reali da far venire le convulsioni ai loro genitori. Sua figlia passa parecchio tempo da sola, non è vero?»
    «Non conosce altri bambini. Siamo nuovi della zona. Ma a questo si rimedierà quando inizierà la scuola».
    «E stia pur certa che, quando conoscerà altri bambini
    queste fantasie svaniranno. Vede, ogni bambino sente il bisogno di amici della sua stessa età, e se non li ha se li inventa. Talvolta anche i vecchi parlano da soli. Ma questo non significa che siano matti, solo che hanno bisogno di parlare con qualcuno. Un bambino ha più senso pratico. Parlare con se stesso sembra insulso, e così inventa qualcuno con cui parlare. Onestamente, non credo che lei abbia di che preoccuparsi».
    «È quel che dice mio marito».
    «Ne sono sicuro. Comunque, visto che ha portato Christine, farò quattro chiacchiere con lei. Sarà meglio che ci lasci soli».
    Tornai in sala d’aspetto. Chris stava alla finestra. «Harry aspetta» annunciò.
    «Dov’è, Chris?» chiesi in tono pacato, improvvisamente decisa ad assecondarla.
    «Là. Vicino al cespuglio di rose».
    Nel giardino del medico cresceva un cespuglio di rose bianche.
    «Ma non c’è nessuno, là» dissi. Chris mi fissò con occhi sprezzanti, stranamente adulti. «Adesso il dottor Webster vuole vederti, tesoro» balbettai. «Te lo ricordi? Ti ha portato delle caramelle quando sei guarita dalla varicella».
    «Sì» disse lei, ed entrò abbastanza di buon grado nell’ambulatorio. Fu un’attesa angosciosa. Udivo le loro voci attutite filtrare attraverso la parete, udii la risata chioccia del dottore, le risa zampillanti di Christine. Non aveva mai chiacchierato con me in quel modo.
    «La piccola è a posto» disse il dottor Webster quando infine uscirono dalla stanza. «È soltanto una scimmietta piena d’immaginazione. Le do un consiglio, signora James. Lasci che le parli di Harry. Lasci che si abitui a confidarsi. Suppongo che lei si sia mostrata piuttosto ostile a questo ‘fratello’, e perciò la bambina non gliene ha parlato molto. Harry costruisce giocattoli di legno, vero Chris?»
    «Sì. Harry fa bellissimi giocattoli di legno».
    «E sa leggere e scrivere, vero?»
    «E nuotare e arrampicarsi sugli alberi e disegnare. Harry può fare qualsiasi cosa. È un fratello meraviglioso». Il suo visetto era raggiante d’adorazione.
    Il dottore mi diede un colpetto sulle spalle. «Mi sembra che Harry sia proprio un fratello niente male» osservò. «E ha i capelli rossi come i tuoi, vero Chris?»
    «Harry ha i capelli rossi» dichiarò Chris con fierezza. «Più rossi dei miei. Ed è alto quasi come papà, però più magro. È alto come te, mamma. Ha quattordici anni. Dice che è alto, per la sua età. Cosa vuol dire ‘alto per la sua età’?»
    «Mamma te lo spiegherà tornando a casa» disse il dottor Webster. «Arrivederla, signora James. Non si preoccupi. Lasci che si sfoghi. Ciao, Chris. E saluta Harry da parte mia».
    «È là» disse Chris indicando il giardino. «Mi aspetta».
    Il dottor Webster rise. «Sono proprio incorreggibili, non trova?» mi chiese. «Conosco una povera donna i cui figli avevano inventato un’intera tribù di indigeni, e pretendevano che tutta la famiglia rispettasse i loro riti e i loro tabù. Credo che lei sia fortunata, signora James!»
    Le sue parole avrebbero dovuto tirarmi su di morale, ma non fu così. Speravo di cuore che, con l’inizio della scuola, quella dannata storia di Harry sarebbe finita.
    Chris corse sul marciapiede davanti a me. Alzò lo sguardo come se accanto a lei ci fosse qualcuno. Per un breve, agghiacciante secondo, vidi un’ombra allungarsi al suo fianco... un’ombra lunga e sottile come l’ombra di un ragazzo. Poi svanì. Mi affrettai a raggiungere Chris e la tenni stretta per mano per tutto il resto della strada. Ma anche nella relativa sicurezza della nostra casa — la casa così stranamente fredda in quell’estate afosa — non la persi di vista. In apparenza il suo comportamento verso di me era immutato, ma in realtà mi stava sfuggendo di mano. La bambina in casa mia stava diventando un’estranea.
    Per la prima volta da quando Jim e io l’avevamo adottata, mi chiesi seriamente: chi è? da dove viene? chi sono i suoi veri genitori? chi è la piccola, adorabile sconosciuta che ho preso per figlia? chi è Christine?
    Passò un’altra settimana. E c’era Harry, Harry tutto il tempo. Il giorno prima dell’inizio della scuola, Chris annunciò:
    «Non vado a scuola».
    «Ma inizia domani, Chris. E desideravi tanto andarci. Lo sai che lo desideravi. Ci saranno molti altri bambini».
    «Harry dice che lui non può venire».
    «Neanche tu lo vorresti. Lui» mi sforzai di seguire il consiglio del medico e di far finta di credere all’esistenza di Harry. «... lui è troppo grande. Un ragazzo grande, di quattordici anni si sentirebbe a disagio fra tanti bambini».
    «Senza Harry non vado a scuola. Voglio stare con lui». Cominciò a piangere forte, disperata.
    «Chris, smettila subito con quest’assurdità! Smettila!». La colpii con forza su un braccio. Il pianto cessò all’istante. Mi fissò con azzurri occhi spalancati e paurosamente gelidi. Uno sguardo adulto che mi fece tremare. Poi disse:
    «Tu non mi vuoi bene. Harry invece sì. Harry vuole stare con me. Dice che posso andare con lui».
    «Basta! Non una parola di più!» urlai, odiando l’ira nella mia voce, odiando me stessa per essermi infuriata con una bambina... la mia bambina... mia...
    Piegai un ginocchio a terra e le tesi le braccia.
    «Chris, tesoro, vieni qui».
    Si avvicinò lentamente. «Io ti voglio bene» le dissi. «Tanto bene, Chris, e sono vera. La scuola è vera. Non vuoi andare a scuola per farmi piacere?»
    «Harry mi lascerà, se ci vado».
    «Ti farai altri amici».
    «Io voglio Harry». Di nuovo le lacrime, umide contro la mia spalla, adesso. La tenni stretta.
    «Sei stanca, tesoro. Va’ a letto».
    Quando si addormentò, le lacrime le rigavano il viso.
    C’era ancora luce. Andai alla finestra per chiudere le tende. Nel giardino, ombre dorate e lunghe strisce di sole. Poi, come in sogno, la lunga ombra sottile d’un ragazzo si stagliò nitida accanto alle rose bianche. Come impazzita, spalancai la finestra e gridai:
    «Harry! Harry!»
    Mi sembrò di scorgere un luccichio rosso tra le rose, riccioli rossi sulla testa di un ragazzo. Poi più nulla.
    «Povera piccola» commentò Jim quando gli parlai dell’attacco di nervi di Christine. «È dura iniziare la scuola. Ma vedrai che, superato il primo impatto, andrà tutto bene. E sentirai anche parlar meno di Harry, con l’andar del tempo».
    «Harry non vuole che lei vada a scuola».
    «Ehi! Adesso sembra quasi che anche tu creda a Harry!»
    «Qualche volta sì».
    «Alla tua età credi ancora agli spiriti maligni?» scherzò lui. Ma i suoi occhi erano preoccupati. Pensava che mi stesse dando di volta il cervello, e non per colpa sua!
    «Non credo che Harry sia uno spirito maligno» replicai. «È solo un ragazzo. Un ragazzo che non esiste, tranne che per Christine. E chi è Christine?»
    «Piantala!» scattò Jim. «Quando adottammo Chris, decidemmo che sarebbe stata la nostra bambina. Niente scandagli nel passato. Niente domande e preoccupazioni. Niente misteri. Chris è nostra, proprio come se l’avessimo messa al mondo noi. Chi è Christine, figuriamoci! È nostra figlia... e farai bene a tenerlo a mente!»
    «Sì, Jim, hai ragione. Certo che hai ragione».
    La sua replica era stata così recisa che gli tacqui i miei progetti per l’indomani.
    La mattina dopo Chris era silenziosa e imbronciata. Jim scherzò con lei e cercò di tirarla su, ma lei si limitò a guardare fuori della finestra e a dire: «Harry se n’è andato».
    «Ora non hai più bisogno di Harry. Ora vai a scuola» disse Jim.
    Chris gli dedicò la stessa occhiata colma di adulto disprezzo che così spesso aveva dedicato a me.
    Lei e io non parlammo molto mentre l’accompagnavo a scuola. Ero sull’orlo del pianto. Pur essendo lieta che iniziasse la scuola, nel separarmi da lei avvertii un senso di perdita. Suppongo che tutte le madri provino la stessa sensazione, quando i loro cuccioli si recano a scuola per la prima volta. Segna la fine dell’infanzia, l’ingresso nella vita reale, la vita con le sue crudeltà, le sue stranezze, la sua barbarie.
    Al cancello la salutai con un bacio. «Pranzerai alla mensa con gli altri bambini, Chris» le dissi. «Verrò a prenderti alle tre».
    «Sì, mamma». Stringeva forte la mia mano. Erano in arrivo altri bimbetti nervosi, accompagnati da genitori altrettanto nervosi. Una giovane, graziosa maestra, bionda in un abito di lino bianco si affacciò al cancello, radunò i bambini attorno a sé e li condusse via. Mentre mi passava accanto, mi sorrise con aria comprensiva dicendo: «Avremo cura di lei».
    Mi allontanai sollevata, sapendo che Chris, era al sicuro e che non avevo da preoccuparmi.
    Potevo dare inizio alla mia missione segreta. Presi un autobus diretto in città e poi m’incamminai verso il grande edificio disadorno che non vedevo da cinque anni. Quella volta, Jim e io c’eravamo andati insieme. L’ultimo piano del palazzo apparteneva alla Greythorne Adoption Society. Salii le quattro rampe di scale e bussai alla porta ben nota ricoperta di vernice scrostata. Mi accolse una segretaria sconosciuta.
    «Sono la signora James. Posso vedere la signorina Cleaver? »
    «Ha un appuntamento?»
    «No, ma è molto importante».
    «Aspetti». La ragazza sparì, e tornò in un batter d’occhio. «La signorina Cleaver può riceverla, signora James».
    La signorina Cleaver — una donna alta e magra dai capelli grigi, con un sorriso affascinante, un viso gentile e una fronte solcata da molte rughe — si alzò per venirmi incontro. «Signora James. Che piacere rivederla. Come sta Christine? »
    «Sta bene, signorina Cleaver. Ma verrò subito al dunque. So che di solito non comunicate ai genitori adottivi informazioni relative alla famiglia d’origine d’un bambino, e viceversa... ma devo sapere chi è Christine».
    «Mi spiace, signora James, ma i regolamenti...».
    «La prego, mi faccia spiegare e capirà che la mia non è semplice curiosità».
    Le raccontai di Harry.
    «Stranissimo» commentò alla fine. «Davvero molto strano. Ebbene, signora James, per una volta verrò meno ai regolamenti e le dirò, in stretta confidenza, da dove proviene Christine.
    «È nata a Londra, in un quartiere poverissimo. Erano quattro, in famiglia: padre, madre, un figlio, e Christine».
    «Un figlio?»
    «Sì. Aveva quattordici anni quando... quando è successo il fatto».
    «Quando è successo che cosa?»
    «Mi faccia cominciare da principio. La nascita di Christine era stata un ‘incidente’. I suoi genitori non la volevano. Vivevano ammassati in una stanza all’ultimo piano di un vecchio palazzo che, secondo me, l’Ispettore Sanitario avrebbe dovuto dichiarare inabitabile. Era già difficile tirare avanti in tre, ma con l’arrivo della bambina la vita diventò un incubo. La madre era una nevrotica, sciatta, sfatta e depressa. Non si curava affatto della piccola. Il ragazzo, comunque, adorò la sorellina fin dal primo momento. Per badare a lei cominciò a marinare la scuola.
    «Il padre lavorava in un magazzino; non guadagnava molto, appena quanto bastava per sopravvivere. Poi si ammalò per diverse settimane e finì per essere licenziato. Così se ne rimase chiuso in quella stanza caotica, malato, preoccupato, tormentato dalla moglie, esasperato dagli strilli della piccina e dalle ossessive premure del figlio per la bambina... a proposito, questi sono tutti particolari che ho appreso in seguito, dai vicini. Mi hanno anche detto che in guerra il pover’uomo se l’era vista brutta, e che prima di tornare a casa era stato diversi mesi in un ospedale psichiatrico. Insomma, a un certo punto non ce l’ha più fatta.
    «Una mattina, molto presto, una donna che abitava al pianterreno vide qualcosa passare cadendo davanti alla sua finestra, e udì un tonfo. Uscì a vedere che fosse successo. C’era il ragazzo, per terra, con Christine fra le braccia. Si era spezzato l’osso del collo, ed era già morto. Christine era cianotica, ma respirava ancora debolmente.
    «La donna svegliò l’intero casamento, mandò a chiamare la polizia e il medico, e poi, con gli altri, salì all’ultimo piano. Dovettero buttar giù la porta, che era chiusa e tappata dall’interno. Nonostante la finestra aperta, l’odore di gas era soffocante.
    «Marito e moglie erano sdraiati sul letto, morti, e c’era un biglietto di pugno dell’uomo. Diceva:
    «‘Non posso più andare avanti così. Meglio farla finita. È l’unica soluzione’.
    «La polizia concluse che egli avesse chiuso e sigillato col nastro adesivo porta e finestre e avesse aperto il gas mentre gli altri dormivano, poi si era sdraiato accanto alla moglie, era scivolato nell’incoscienza, ed era morto. Ma il figlio doveva essersi svegliato. Forse aveva tentato di aprire la porta, ma invano. Doveva essere troppo debole per gridare. Aveva potuto soltanto strappare la carta incollata sulla finestra, spalancarla, e saltare giù stringendo fra le braccia l’adorata sorellina.
    «È un vero mistero come anche Christine non sia rimasta asfissiata. Forse teneva la testa sotto le coperte, stretta contro il petto del fratello... dormivano sempre insieme. In ogni modo, la piccola fu portata all’ospedale, poi nella casa dove l’avete vista per la prima volta... un giorno fortunato, quello, per la piccola Christine!»
    «Così, suo fratello le salvò la vita e morì?»
    «Sì. Era un ragazzo coraggioso».
    «Forse non pensò tanto a salvarla, quanto a portarla con sé. Santo cielo! Detto così, sembra meschino. Non intendevo questo. Signorina Cleaver, come si chiamava il ragazzo?»
    «Aspetti un momento, ora controllo». Consultò uno dei numerosi schedari e alla fine disse: «Il cognome era Jones e il ragazzo si chiamava ‘Harold’».
    «E aveva i capelli rossi?» mormorai.
    «Questo non lo so, signora James».
    «Ma è Harry. Il ragazzo era Harry. Che significa? Non capisco».
    «Non è semplice. Forse, nelle profondità del suo inconscio, Christine non ha mai dimenticato Harry, il compagno della sua infanzia. Di solito non pensiamo che i neonati abbiano molta memoria, ma nelle loro testoline devono essere immagazzinate molte immagini del passato. Christine non ha inventato Harry. Lei lo ricorda. E lo ricorda così chiaramente che lo ha quasi riportato in vita. So che sembra assurdo, ma tutta la storia è così strana che non riesco a pensare nessun’altra spiegazione».
    «Può darmi l’indirizzo della casa dove abitavano?»
    Era riluttante a darmi quell’informazione, ma la convinsi, e alla fine riuscii a trovare il numero 13 di Canver Row, dove Jones aveva tentato di uccidere se stesso e l’intera famiglia, e vi era quasi riuscito.
    Il casamento sembrava deserto. Era sporco e fatiscente. Ma una cosa mi colpì, pietrificandomi. C’era un giardino minuscolo. Un ritaglio di luminosa erba ondulata spiccava tra le nude zolle scure. E un tocco di sorprendente bellezza lo distingueva da tutte le altre case della povera strada desolata: un cespuglio di rose bianche. Fiorivano in tutto il loro splendore. Il loro profumo stordiva.
    Ferma accanto al cespuglio, alzai lo sguardo verso la finestra dell’ultimo piano.
    Una voce mi fece sobbalzare: «Che fai, qui?».
    Una vecchia mi sbirciava da una finestra al pianterreno.
    «Pensavo che fosse disabitato» dissi.
    «Dovrebbe. Da demolire. Ma non possono buttarmi fuori. Non ho dove andare. E non mi muovo. Gli altri se la sono svignati alla svelta, dopo il fatto. Nessun altro vuole venirci. Dicono che la casa è infestata. Eccome, se lo è. Ma perché farla tanto lunga? Vita e morte. Sono molto vicine. Te ne accorgerai invecchiando. Vivi, morti. Che differenza c’è?»
    I suoi occhi giallognoli iniettati di sangue erano fissi su di me. «L’ho visto cadere davanti alla mia finestra» proseguì. «È caduto proprio là. Fra le rose. E ancora ritorna. Io lo vedo. Non vuole andarsene senza di lei».
    «Chi... di chi sta parlando?»
    «Harry Jones. Bel ragazzo, era. Capelli rossi. Magrolino. Cocciuto, però. Voleva far sempre a modo suo. Amava troppo Christine, ecco quello che penso. Morì fra le rose. Se ne stava seduto là con lei per ore, fra le rose. Poi è morto, proprio là. Ma muore, la gente? La chiesa dovrebbe darci una risposta, ma non lo fa. Non una a cui si possa credere, almeno. Ma tu vattene, è meglio. Non è posto per te. Qui ci stanno morti che non sono morti, e vivi che non sono vivi. Sono viva o morta, io? Dimmelo. Io non lo so».
    M’impaurivano quegli occhi folli fissi su di me attraverso la bianca frangia arruffata. I pazzi sono terrificanti. Li si può compatire, ma fanno comunque paura. Mormorai:
    «Devo andare, ora. Arrivederci», e cercai di ripercorrere a passo svelto il duro marciapiede bruciato dal sole, ma mi sentivo le gambe pesanti e quasi paralizzate, come in un incubo.
    Il sole fiammeggiava sulla mia testa, ma me ne accorgevo appena. Barcollavo, tempo e spazio privi di significato.
    Poi udii qualcosa che mi gelò il sangue.
    Un orologio batté le tre.
    Alle tre sarei dovuta essere al cancello della scuola, in attesa di Christine.
    Dov’ero, adesso? Quant’era lontana, la scuola? Quale autobus avrei dovuto prendere?
    Rivolsi domande frenetiche ai passanti che mi guardavano timorosi, proprio come io avevo guardato la vecchia. Devono avermi preso per pazza.
    Alla fine riuscii a prender l’autobus giusto e, intossicata di polvere, di gas di scarico e di paura, raggiunsi la scuola. Attraversai di corsa l’isolato cortile deserto. In una classe, la giovane maestra vestita di bianco rimetteva in ordine dei libri.
    «Sono venuta per Christine James. Sono sua madre. Mi dispiace d’essere in ritardo. Dov’è?» ansimai.
    «Christine James?». La ragazza si accigliò, poi disse in tono allegro: «Oh, sì, quella bambina graziosa coi capelli rossi. Stia tranquilla, signora James. È venuto a prenderla il fratello. Come si somigliano, vero? E così legati. Fa tenerezza vedere un ragazzo di quell’età tanto affezionato alla sorellina. Suo marito ha i capelli rossi come loro?».
    «Che... che cosa ha detto... suo fratello?» chiesi con un filo di voce.
    «Niente. Si è limitato a sorridere. Saranno a casa, ormai. Ehi, signora, si sente bene?»
    «Sì, grazie. Devo andare».
    Corsi a perdifiato per le strade arroventate.
    «Chris! Christine, dove sei? Chris! Chris!». Ancora adesso, ogni tanto, posso udire le mie grida di allora risuonare nella casa gelida. «Christine! Chris! Dove sei? Rispondimi! Chrrriiiiis!». E poi: «Harry, non portarmela via! Torna indietro! Harry! Harry!».
    Fuori di me, mi precipitai in giardino. Il sole mi colpì come una lama rovente. Le rose erano d’un candore abbagliante. L’aria era così immobile che mi sembrò d’esser trasportata fuori del tempo, fuori dello spazio. Per un istante mi parve d’essere molto vicina a Christine, benché non potessi vederla. Poi le rose danzarono davanti ai miei occhi e divennero rosse. Il mondo divenne rosso. Rosso sangue. Umido rosso. E precipitai dal rosso alle tenebre, al nulla... fin quasi alla morte.
    Rimasi a letto per settimane: l’insolazione era diventata una febbre cerebrale. Nel frattempo Jim e la polizia cercavano Chris, inutilmente. La vana ricerca proseguì per mesi. I giornali erano pieni di articoli sulla strana scomparsa della bimba dai capelli rossi. La maestra descrisse il «fratello» ch’era venuto a prenderla a scuola. Ci furono articoli su bambini rapiti, bambini rubati, bambini assassinati.
    Poi le acque si calmarono. Uno dei tanti misteri irrisolti negli schedari della polizia.
    E soltanto due persone sanno quel ch’è accaduto. Una vecchia pazza in una casa in rovina, e io.
    Sono passati anni. Ma la paura è sempre al mio fianco.
    Cose normalissime mi fanno paura. Sole abbagliante. Ombre taglienti sull’erba. Rose bianche. Bambini coi capelli rossi. E quel nome... Harry. Un nome così normale.
     
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