La banda maculata

Arthur Conan Doyle

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    I



    Tra tanti casi risolti da Sherlock Holmes, ricordo con particolare nitidezza quello della famiglia Roylott, del Surrey.
    Erano i primi giorni di Aprile del 1883; a quel tempo dividevo con il mio eccellente amico un appartamento in Baker Street. Un mattino fui svegliato da Holmes, già completamente vestito alle prime luci del giorno. La cosa era straordinaria, dal momento che il mio coinquilino amava di solito poltrire a lungo tra le lenzuola.
    “Spiacente di svegliarvi, Watson!” declamò con enfasi esagerata. “Ma i destini degli uomini sono spesso legati come le maglie di una catena. La nostra governante è stata svegliata di soprassalto e ha quindi svegliato me. Adesso a me non resta che rifarmi con voi”.
    Con il sospetto di essere l'ultimo anello della catena, chiesi di conoscere il motivo di quella concitazione: la casa stava forse andando in fiamme?
    Ma Holmes sapeva come trasformare la mia irritazione in soddisfazione: mi disse che secondo lui era in arrivo un caso molto interessante, e che probabilmente avrei voluto essere al suo fianco, Aveva pensato benissimo: per nessuna ragione al mondo intendevo perdermi qualcosa che al mio amico fosse sembrata degna di interesse.
    Dunque, Holmes mi avvertì che una signorina ci stava già aspettando. In un attimo fui pronto e passai in salotto, dove fui presentato a miss Helen Stoner. Era una giovane donna vestita di nero, con il viso nascosto da un velo anch'esso nero. Subito Holmes pregò la fanciulla di mettersi accanto al camino, perchè aveva notato che un tremore la scuoteva tutta.
    “Oh no... Non è il freddo... che mi fa rabbrividire” sussurrò la giovane “Mister Holmes... è la paura... anzi... il terrore”.
    Così dicendo alzò il velo dal viso e mostrò i suoi lineamenti sconvolti dall'agitazione. La bocca era tesa fino allo spasimo, lo sguardo smarrito come quello di un animale braccato.
    Sherlock Holmes esaminava con grande attenzione le espressioni del volto della fanciulla e la sua intera figura.
    In breve concluse: “Non dovete temere nulla”.
    Le si avvicinò e le sfiorò con dolcezza un braccio, soggiungendo:
    “Fidatevi di me. Vedo che per venire da me vi siete alzata prestissimo e... vedo che siete arrivata in treno”
    “Chi vi ha detto...”
    “Nessuno, ma dal vostro guanto sinistri ho notato un biglietto d'andata e ritorno. E, non vorrei spaventarvi, ma di voi so anche che avete fatto una lunga corsa in calesse, su strade pesanti, per raggiungere la stazione”
    La ragazza sobbalzò dalla sedia con gli occhi sgranati.
    “La prego, miss, si rassicuri, non è di fronte a una magia. La manica sinistra della vostra giacca è spruzzata di fango in almeno sette punti. Macchioline riconoscibili come quelle spruzzate da un calesse su una persona che sieda alla sinistra del conducente”.
    Sollevata, la giovane donna confermò quanto Holmes aveva intuito e iniziò così, senza più nessuna esitazione, a confidarci la sua angoscia.
    “Mister Holmes, non ce la faccio più. Sto per impazzire e non ho nessuno a cui rivolgermi. Sono sola e sento che voi saprete ascoltarmi. Anche se...”
    Abbassò gli occhi per il pudore e riprese.
    “Anche se in questo momento non sono in grado di ricompensarvi. Ma spero di sposarmi tra un paio di mesi, e allora potrò disporre del mio denaro e, non temete...”.
    Il mio amico sorrise con sincera indulgenza: io sapevo bene che la retribuzione più adeguata per lui era la sua personale soddisfazione. Se il caso si fosse dimostrato appassionante, buona parte della ricompensa sarebbe già stata versata.
    La fanciulla espose allora un secondo motivo di incertezza.
    “Raccontarvi che cosa mi sta succedendo non è facile. Tutto è vago e i miei sospetti si fondano su indizi vaghi, imprecisi... Tuttavia voi, che siete capace di veder chiaro anche nei fatti più oscuri, non penserete, come tutti, che si tratti delle fantasie di una malata di nervi. Temo che anche il mio fidanzato la pensi così. Perciò voglio che siate voi, voi e nessun'altro, a conoscere la mia situazione”.
    Helen Stoner raccontò che abitava con il patrigno, l'ultimo superstite di una delle più antiche e – almeno fino al secolo scorso – delle più ricche famiglie d'Inghilterra, i Roylott del Surrey. Poi, nel corso degli anni, il casato era andato in rovina e il suo patrimonio si era ridotto soltanto alla casa e alla poca terra circostante.
    Durante un soggiorno in India, il patrigno aveva sposato la signora Stoner, madre di due sorelle gemelle, Helen e Giulia. La donna possedeva una fortuna notevole, ben mille sterline di reddito annuo, che lasciò in usufrutto a mister Roylott fino a quando le figlie avessero abitato con lui. Era stata firmata una clausola che impegnava Roylott a corrispondere alle sorelle una certa somma annua nel caso che esse si fossero sposate.
    Poco dopo il ritorno in Inghilterra, la signora Stoner morì in un incidente ferroviario. Mister Roylott portò le due sorelle a vivere con sé nell'antica casa del Surrey. Niente lasciava prevedere che la loro serenità potesse conoscere interruzioni.
    “Invece nel mio patrigno avvenne un mutamento spaventoso. Invece di farsi amici i nostri vicini, si chiuse in casa. Ne usciva molto di rado, e ogni uscita si concludeva in una lite selvaggia con chiunque gli attraversasse il cammino. Quell'uomo, insomma, si rivelò un individuo violento e brutale. E' diventato il terrore del villaggio: la gente lo evita e sono già famose alcune sue scenate da folle, nelle quali ha perso completamente il controllo dei nervi.
    In preda alla collera, ha buttato nel fiume il fabbro del paese. Vi giuro, mister Holmes, lo ha scagliato giù dal parapetto, come se volesse ucciderlo”.
    Miss Stoner tacque per qualche secondo, sconvolta dal ricordo ancora vivido. Poi riprese il racconto con tono affranto.
    “Ho raccolto tutto il denaro che ho potuto e sono riuscita a mettere a tacere la faccenda prima che finisse davanti al magistrato. Nessun domestico vuole rimanere al nostro servizio. Io e mia sorella siamo state costrette per molto tempo a sbrigare da sole tutte le faccende di casa”
    “Non dev'essere rasserenante vivere con un uomo così...” intervenne Holmes cercando di sorridere
    “Signore, le sue stranezze non finiscono qui. Ha una passione esagerata per tutti gli animali indiani, e in questo momento lascia correre liberamente per i campi un leopardo addomesticato e un babbuino”.
    La ragazza emise un sospiro addolorato e soggiunse
    “Adesso vorrei parlarvi della morte di mia sorella Giulia”.
    Sherlock Holmes si sporse in avanti sulla sedia, del tutto trasformato nell'atteggiamento. La giovane proseguì
    “Giulia è morta esattamente due anni fa. E' stato un avvenimento orribile, che mi ha privato della sola compagna e amica che avevo e che ha strappato mia sorella alla vita nel momento in cui la sua speranza cresceva di giorno in giorno. Giulia è morta quindici giorni prima delle nozze, n modo atroce... atroce!”
    La fanciulla non scoppiò in pianto, come invece ci si sarebbe aspettati: la sua commozione si tradusse solo in una tensione spasmodica dei muscoli del volto, in una convulsione delle labbra che rendeva evidente quanto sacrificio le recava il parlare.
    A Sherlock Holmes non sfuggì quel tormento. Si adagiò nella poltrona per dissimulare la sua stessa tensione, e con voce amabile incoraggiò la ragazza
    “Vi prego, miss Helen, confidatevi pure e vedrete che ne troverete sollievo. Raccontatemi tutto quanto – con precisione, mi raccomando – e cercate di non trascurare nessun particolare”
    “Voi siete molto buono. Non mi sarà difficile accontentarvi, perché ogni istante di quel periodo spaventoso è impresso nella mia memoria”
    Helen Stoner raccontò che la convivenza con il collerico patrigno impediva a lei e a sua sorella di avvicinare chiunque. In queste circostanze, Giulia accolse come un dono dal cielo l'incontro con un maggiore di Marina che le dichiarò il suo amore. I due si fidanzarono e il patrigno non sollevò obiezioni.
    Holmes interruppe la ragazza: chiese maggiori dettagli, la sollecitò a liberare il suo cuore da ogni peso. Lo conoscevo troppo bene per non sapere che si trovava in uno dei momenti in cui il suo implacabile spirito deduttivo aveva bisogno di stivare notizie in abbondanza.
    Quasi rispondesse a una domanda precisa, la ragazza prese a descrivere la casa dei Roylott. Disse che le camere da letto erano allineate lungo un corridoio. Non comunicavano tra loro e tutt'e tre si affacciavano con le finestre – finestre sempre chiuse, precisò Helen – sul prato davanti alla casa.
    La notte in cui Giulia Stoner era morta, mister Roylott si era ritirato presto, ma la povera ragazza si era accorta che egli non dormiva, perchè fu a lungo disturbata dall'odore dolciastro dei suoi sigari indiani. Helen spiegò che ricordava bene questo particolare perché la sorella era venuta a trovarla in camera sua per parlare delle nozze imminenti. Erano pensieri lieti, speranze, progetti; perfino le apprensioni erano dolci, come lo sono quelle amorose. Tuttavia Helen si rese conto che una preoccupazione di altro genere assillava sua sorella.
    Verso le undici, al momento di tornare nella sua stanza, Giulia si fermò sulla soglia e chiese:
    “Hai mai sentito qualcuno fischiare nel cuore della notte?”
    “No, mai. Perché?”
    “Helen, ti assicuro: in queste ultime notti, verso le tre del mattino qualcuno ha sempre lanciato un fischio sommesso. Tu sai che io ho il sonno leggero, e ogni volta questo fischio mi ha svegliata. Non so nemmeno dire da dove provenga; forse dalla stanza attigua, quella di mister Roylott, o forse dal prato...”
    Helen aveva persuaso la sorella che la cosa non poteva essere preoccupante per nessun motivo. Giulia stessa aveva concluso che era solo una sciocchezza e si era ritirata nella sua stanza, chiudendosi a chiave.
    “Un momento...” Sherlock Holmes intervenne ancora a orientare il racconto “Era sua abitudine chiudersi a chiave in camera?”
    “Sì, mister Holmes. Del resto anch'io lo faccio sempre tuttora. Non ci sentivamo sicure con un leopardo e un babbuino abituati a girare dappertutto, voi capite”.
    Holmes annuì gravemente. Ora miss Helen esponeva con voce più tranquilla, a ogni parola più fiduciosa nell'uomo a cui si era affidata. Raccontò che quella terribile notte un presentimento le aveva impedito di prender sonno. Una notte indimenticabile, precisò: spaventosa e strana. Il vento ululava e la pioggia batteva contro le finestre. All'improvviso, in mezzo al frastuono della tempesta era echeggiato un grido di donna, un urlo selvaggio, terrificante. Giulia! Helen era balzata giù dal letto per correre dalla sorella. Nel corridoio aveva udito anche lei un fischio sommesso, quel sibilo cui Giulia aveva accennato. Pochi attimi dopo un altro suono, qualcosa di metallico che cadde a terra.
    Finalmente la porta della camera di Giulia si era aperta e la ragazza era comparsa, illuminata dalla lampada del corridoio, il volto pallido e le mani protese in avanti. Barcollava e, quando Helen si era fatta avanti per sostenerla, era caduta a terra in preda a furiose convulsioni. La sua faccia contratta aveva cercato lo sguardo della sorella e dalle sue labbra era uscita una frase inspiegabile:
    “La banda maculata!”
    Holmes si sbilanciò verso la ragazza e si accertò di aver inteso bene:
    “Con il termine banda vostra sorella alludeva per caso a un nastro, a una fascia maculata? E non immaginate che cosa volesse indicare?”
    La giovane donna scosse il capo e proseguì il suo sconvolgente racconto. Giulia non aveva saputo pronunciare nessun'altra parola e, mentre con lo sguardo stravolto si aggrappava a Helen, una nuova convulsione le aveva soffocato la voce. In quel momento, il patrigno era uscito dalla sua stanza e, resosi conto della gravità della situazione, era corso via a chiamare un medico. Ma nessuno aveva fatto in tempo a visitare la ragazza, che era morta in pochi minuti, senza essere in grado di fornire alcuna traccia.
    “Cercate di ricordare, miss Helen” disse Sherlock Holmes prendendo con dolcezza la mano di Helen “Siete sicura di aver udito il fischio e poi quel suono metallico?”
    “Sono pronta a giurarlo! Ho sentito sia l'uno che l'altro rumore, credetemi, mister Holmes”
    “Vi credo, miss Helen. Riferitemi ogni particolare che vi torna in mente. Non trascurate niente”
    La fanciulla socchiuse gli occhi nello sforzo di concentrarsi, e dopo alcuni istanti aggiunse che in una mano sua sorella stringeva un mozzicone di fiammifero.
    “Probabilmente miss Giulia accese un fiammifero per guardarsi attorno quando aveva avvertito il pericolo” intervenne Holmes riflettendo a voce alta. “Doveva sentirsi sicura nella sua stanza, chiusa a chiave com'era... Per non ripercorrere un cammino già fatto, vorrei sapere quali indagini ha svolto il magistrato inquirente”
    Helen allargò le braccia e sospirò
    “Ha escluso alcune possibilità, come quella dell'aggressione da parte di qualcuno. Però non è stato in grado di suggerire quali altre ipotesi potessero rimanere in piedi. Ha fatto esaminare la stanza di Giulia, dal pavimento alla cappa del camino. Niente, mia sorella non poteva che essere sola al momento della tragedia”
    “Non è stata considerata l'ipotesi di un veleno?”
    “Sì, mister Holmes, i medici indagarono in questa direzione, ma senza successo”
    Holmes stava riflettendo con lo sguardo inchiodato al pavimento. Di scatto sollevò due occhi fieri sulla ragazza e si accinse a parlare ancora. Riconobbi quell'atteggiamento: il mio amico non accettava l'oscurità del mistero e stava per sfidarla.
    “Tanto per cominciare, miss Stoner, se volete che io vi aiuti dovete dirmi tutto. Non potete proprio voi tenermi nascosto qualcosa di importante e nello stesso tempo desiderare sinceramente che io risolva il caso di vostra sorella”
    “Io vi assicuro...”
    “Miss Helen, voi state tentando di difendere il vostro patrigno”
    Con dolcezza Holmes sollevò il polsino della camicetta della giovane donna: sulla pelle dell'esile polso erano impresse cinque piccole macchie livide, le impronte di quattro dita e di un pollice.
    “Siete stata trattata davvero brutalmente!” soggiunse il detective.

    II



    Dunque Helen Stoner voleva nascondere qualcosa a Sherlock Holmes. Perché non aveva ancora parlato di quei lividi recenti che aveva sul polso?
    La fanciulla arrossì e balbettò con un'aria di dolce rassegnazione sul volto:
    “Il mio patrigno è un uomo molto duro, ma io credo che egli stesso ignori la sua forza”
    Si vedeva che cercava di vincere l'imbarazzo che le creava lo sguardo di Sherlock Holmes; alla fine scelse di rivolgere gli occhi a me e proseguì la sua storia:
    “Non dovete pensare che mister Roylott sia cattivo. Mi vuole molto bene. In linea di principio il mio patrigno non si oppone al mio matrimonio. E' convinto però che Percy non sia un marito adatto a me”
    “Miss Helen, non abbiate timore, io non penso affatto che mister Roylott non vi voglia bene. Anzi, fatemi capire meglio il suo affetto raccontandomi tutte le circostanze del vostro fidanzamento”
    Helen parve rinfrancata e spiegò che un mese prima un suo vecchio amico l'aveva chiesta in sposa.
    “Io e Percy abbiamo deciso di sposarci in primavera. Mister Roylott mi ha sconsigliato vivamente di commettere un errore che, a suo dire, è evidentissimo. Percy non sarebbe la persona più confacente a me. Comunque sia, il mio patrigno ha intrapreso alcune riparazioni nella casa e da allora io sono stata costretta a trasferirmi nella camera dov'è morta mia sorella...”
    Sherlock Holmes si levò in piedi e iniziò a percorrere la sala a lunghi passi nervosi.
    Senza rendersi conto dell'agitazione che aveva trasmesso al mio amico, miss Helen aggiunse che nella notte anche lei aveva udito lo strano fischio soffocato che aveva preceduto la morte della povera Giulia.
    “Lo supponevo!” sbottò Holmes con un tono di voce in cui si mescolavano il senso di apprensione che ci coglie di fronte a un pericolo imminente e la trepidazione che accompagna l'annuncio di una scoperta appena compiuta.
    Dopo qualche istante riprese l'abituale controllo e chiese alla giovane donna
    “Se noi venissimo oggi stesso a casa vostra, ci sarebbe possibile dare un'occhiata alle camere all'insaputa del vostro patrigno?”
    Helen rispose che probabilmente mister Roylott sarebbe rimasto fuori casa tutto il giorno. Holmes confermò allora che saremmo arrivati a casa dei Roylott per le prime ore di quel pomeriggio.
    La fanciulla ringraziò, ripeté più volte dichiarazioni accorate di fiducia nei nostri confronti e si congedò. Poi lasciò ricadere sul viso il velo nero e scivolò fuori dalla stanza come un'ombra.
    Quando fummo soli, il mio amico mi confessò che prima di partire per il Surrey avremmo avuto bisogno di conoscere molti altri particolari. Tuttavia, con tutta evidenza, si trattava di un caso urgentissimo: non potevamo permetterci il lusso di perdere nemmeno un minuto. Riassunse in breve gli elementi più significativi del racconto:
    “Una stanza chiusa e inviolabile è stata il teatro di una morte violenta. Non conosciamo nient'altro, se non i sintomi della povera donna morente e la frase misteriosa che nominava una “banda maculata”. Sappiamo anche che Giulia Stoner aveva udito un sibilo seguito da un suono metallico. Quest'ultimo suono potrebbe essere stato causato da una delle sbarre di ferro che chiudono la finestra, mentre tornava al proprio posto... Non c'è dubbio: dobbiamo intervenire subito per evitare pericoli a miss Helen. Posso contare su di voi, vero, Watson?”
    Quest'ultima richiesta era poco più che una formalità: la mia collaborazione era già stata offerta alla fanciulla come certa. Inoltre il mio amico sapeva che, una volta affascinato da un mistero come quello, non potevo che fornire una risposta affermativa. Tuttavia quella volta non ci potè essere risposta; e non già perché essa fosse troppo ovvia, ma perché la porta sbatté spalancandosi all'improvviso.
    Un uomo gigantesco era comparso sulla soglia della stanza. Alto e massiccio, restava fermo senza avanzare, ansimando dalla collera e stringendo fino allo spasimo due pugni grossi come mazzuoli. Gli occhi infossati erano iniettati di sangue e comunicavano un unico, intenso mesaggio: odio.
    “Signore, non ho il piacere di conoscervi”. La voce di Holmes risuonò strana nella sua tranquillità, all'opposto di quello spettacolo di furore che ci veniva offerto così di sorpresa.
    “Mister Sherlock Holmes, suppongo...” ringhiò l'energumeno. Poi, senza muoversi da dove si trovava, si presentò:
    “Io sono mister Roylott, patrigno di Helen Stoner”
    “Molto lieto, signore” rispose calmo il mio amico.
    “Lieto? Non ne avete alcun motivo, maledetto ficcanaso! State per cacciarvi in un brutto pasticcio, ve lo garantisco. Ho seguito la mia figliastra di nascosto e adesso voglio sapere per filo e per segno di che cosa avete parlato”
    “Non certo del tempo, caro signore. Anche se abbiamo una stagione davvero deludente, per essere a fine aprile...” rispose Holmes con voce suadente.
    “Bando alle ciance! Voglio sapere che cosa vi ha detto Helen!” urlò Roylott.
    “... Quantunque siamo perfettamente convinti che avremo un maggio eccezionale...” proseguì il mio amico nella sua soavità provocatoria.
    L'effetto fu immediato: mister Roylott perse anche quel poco di autocontrollo che fino a quel momento gli era rimasto. Tanto per cominciare emise un ruggito di rabbia furibonda. Poi iniziò a minacciare e a insultare: snocciolò un nutrito elenco che iniziava con mascalzone, impiccione, spione e proseguiva con tutta una gamma di sinonimi più o meno sfumati. Non raggiunse però lo scopo di sfogarsi. Al termine, infatti, digrignò i denti e sibilò:
    “Non immischiatevi, non mettetevi sulla mia strada. Posso essere pericoloso, sapete?”.
    Si mosse rapidamente in avanti, afferrò l'attizzatoio del camino e lo curvò come un ramo di salice tra quelle sue man gigantesche.
    “Alla larga dalle mie unghie!” tuonò ancora; e, scagliando nel fuoco l'attizzatoio ormai inservibile, uscì dalla stanza con un balzo impetuoso.
    Durante tutta quella scena, Sherlock Holmes non era arretrato di un passo né aveva perduto il suo sorriso quasi carezzevole. Raccolse l'attizzatoio e, con una certa aria di sollievo, lo raddrizzò di nuovo.
    La clamorosa irruzione non gli aveva fatto perdere per nulla il filo delle sue elucubrazioni: lo sguardo aveva già ripristinato la cortina imperturbabile che celava solitamente i suoi pensieri.
    “Ho necessità di consultare un mio informatore, esperto insuperabile in tutto ciò che avviene nel Surrey. A più tardi, Watson”. E mi lasciò senza dire altro.
    Quando tornò era ora di pranzo. Aveva in mano un foglio azzurro scarabocchiato di appunti e cifre.
    “Mi sono potuto impadronire di un'indicazione preziosa riguardo ai possibili motivi che il patrigno ha per opporsi al matrimonio della figliastra. Ho consultato il testamento della moglie defunta e una persona che conosce la gratitudine mi ha permesso di conoscere l'ammontare del reddito annuale dei Roylott. E' disceso a 750 sterline all'anno. Ciascuna figlia, se si sposa, può reclamare un reddito di non più di 250 sterline. Se entrambe le fanciulle si fossero sposate, a quel delicato fiorellino di mister Roylott sarebbe restato poco più di un misero piatto di minestra. Ma anche se una sola ragazza si fosse sposata, l'egregio signore avrebbe visto notevolmente ridimensionati i suoi già magri proventi”
    “La povera Helen è dunque in una gravissima situazione!” esclamai.
    “In special modo, aggiungo, perché il nostro uomo sa che noi ci siamo interessando a lui”.
    Holmes completò il quadro, che si annunciava effettivamente drammatico. Poi aggiunse:
    “Non abbiamo un minuto da perdere. Prendiamo subito una vettura per recarci nel Surrey. Vi sarei molto grato se portaste con voi il vostro revolver: può costituire un ottimo argomento di riserva con certi gentiluomini che si divertono ad andare in giro ad attorcigliare attizzatoi d'acciaio. Pistola e spazzolino da denti, non avremo bisogno d'altro”.
    Era una giornata meravigliosa, la prima di quella primavera che tardava tanto a esplodere: i raggi di un sole scintillante tingevano l'aria tersa del Surrey di un bell'azzurro vivo e i colori erano ovunque netti e intensi. Qua e là bianchi cumuli di nubi spiccavano fulgidi nel cielo. Di fronte a quel rigoglio di vita, io riflettevo al compito cui ci eravamo impegnati: quello di difendere il diritto, oscuramente minacciato, di una giovane a una vita felice.
    Seduto di fronte a me sul calesse, il mio amico mi scosse per avvertirmi che aveva riconosciuto la casa dei Roylott: dietro gli alberi si intravedevano i segni di un cantiere. Le indicazioni che ricevemmo nella piazza del paese ci confermarono che Holmes aveva indovinato. Miss Helen Stoner si illuminò di gioia nel vederci.
    “Oh, come si aspettavo! Il mio patrigno non è ancora rientrato”
    “Siamo fortunati...”-
    Sherlock Holmes fu costretto a rivelarle che mister Roylott era al corrente della sua scelta di affidarsi a un detective. La giovane impallidì e istintivamente cercò un sostegno nel braccio di Holmes. Qualcosa quel contatto dovette comunicarle, perchè subito dopo Helen ci sospinse con vivacità a visitare la casa.
    Holmes volle subito controllare l'esterno dell'abitazione, alla ricerca delle sbarre di ferro alle finestre. Voleva verificare che il misterioso rumore metallico provenisse proprio da lì. Quando però fu davanti alle finestre e le vide perfettamente sigillate dalle imposte, mormorò:
    “Inespugnabili. Dall'esterno non si può assolutamente rimuovere la sbarra di chiusura”
    “Che delusione! La vostra ipotesi sull'origine del rumore metallico è dunque caduta...” mi azzardai a commentare.
    “Non vedo proprio che cosa ci sia da esser delusi” ribattè Holmes in un tono mezzo conciliante e mezzo irritato “Un'ipotesi da scartare semplifica moltissimo lo scenario delle possibilità. Adesso sappiamo con certezza che l'ambito delle nostre ipotesi future è l'interno della casa”.
    Prima però di visitare gli appartamenti, Sherlock Holmes chiese a Helen la ragione dei lavori intrapresi attorno alla casa. La risposta dovette essere una conferma delle sue congetture, perché quell'uomo infallibile ammiccò verso di me con un sorrisetto, nell'udire che nessuna ragione era tanto urgente da provocare l'allestimento di un cantiere.
    “A meno che non sia abbastanza urgente il fatto di far traslocare voi in camera di vostra sorella” commentò Holmes senza ammainare il suo sorrisetto, simbolo del trionfo imminente.
    Volle senza indugio esaminare la stanza di Giulia, dove attualmente dormiva Helen. Disse che, non essendoci tempo per un'esplorazione generale, occorreva assumere per buona la pista che aveva imboccato. Sembrava conoscere la casa, tant'è vero che fummo noi due a seguire lui nel corridoio.
    Nella camera da letto si acquattò a terra sotto un tavolino per osservare il pavimento, tastò le pareti e in seguito si trattenne a lungo a scrutare il letto. Mentre lo guardava ben bene, lo rividi ancora sorridere rassicurato. Non aveva più bisogno di far domande: sapeva da solo che cosa cercare e le sue ricognizioni gli davano risposte già esaurienti. A un tratto, invece, additò una stretta, sottilissima apertura nel muro sopra il letto.
    “Quello sfogo di ventilazione comunica con la stanza accanto. Vero, miss Helen?”
    “Sì, con la stanza del mio patrigno”
    “E' stata una scelta ben sciocca da parte del costruttore far prendere aria a una stanza mettendola in comunicazione con un'altra stanza, piuttosto che con l'esterno”.
    Holmes appariva infastidito dall'eccessiva evidenza dei segni da decifrare. Proseguì nella rassegna di ovvietà e indicò un cordone di campanello che dalla ventola nel muro scendeva fino al letto.
    “Scommetto che quel cordone è collegato a un campanello in camera della cameriera”
    “Che domande, amico mio, è naturale che un campanello...” intervenni io.
    “Watson, vi prego. Non è affatto naturale che un cordone unisca una ventola a un giaciglio”. E Holmes sorrise con benevolenza.
    “A me sembra comodo poter chiamare dal letto...” volli insistere.
    Sherlock Holmes afferrò il cordone e lo strattonò. Dalla parete si staccò un semplice chiodo non collegato a nessun campanello.
    “E' finto, Watson. Non è comodo affatto, non essendo attaccato ad alcun filo. Tanto più che miss Stoner non ha una cameriera da chiamare”
    Il detective aveva dimesso l suo sorriso e fissava pensieroso la fanciulla stupefatta:
    “Una stanza piena di trovate curiose, non vi pare?” disse dopo qualche tempo.
    La giovane spiegò che si trattava di adattamenti recenti, di piccole modifiche effettuate poco prima della tragica fine di Giulia.
    Holmes non volle ascoltare altro. Affermò che non c'era più tempo: bisognava ancora dare una breve occhiata in camera di mister Roylott, sempre che questi non li sorprendesse nel bel mezzo dell'esplorazione.
    La camera del patrigno era spoglia e disadorna, ma agli occhi di Holmes fu dubito ricca di indizi messi in bella mostra. In corrispondenza della ventola di aerazione era appoggiata al muro una sedia di legno grezzo. Su un piccolo scaffale una catasta disordinata di libri illustrati e di manuali di zoologia.
    “Sono quasi tutti libri sugli animali indiani. Vi avevo detto che mister Roylott ne è appassionato” commentò la dolce Helen.
    Al centro della parete dirimpetto troneggiava una piccola cassaforte di metallo.
    “Che cosa c'è lì dentro?” domandò Helen con tono un po' esitante.
    “Vorrei esserne certo. Anch'io supporrei che contenesse carte. Ma perchè qui non vedo l'ombra di un gatto, visto che sopra c'è questo?”
    Così dicendo prese in mano un piattino pieno di latte, che era posato sul coperchio della cassaforte.
    “Ricordate, amico mio, il leopardo? Sarà preparato per lui...” mi permisi di suggerire.
    “E' vero, Watson, che in un certo modo un leopardo è un gattone: tuttavia temo proprio che non si accontenti di un piattino di latte. E nemmeno che gli piaccia tanto essere tenuto al guinzaglio...”
    Mentre pronunciava queste ultime parole, Holmes aveva sollevato un guinzaglio da cane da un angolo del letto. L'oggetto era legato in modo da formare un cappio. Il grande detective ci sospinse fuori dalla stanza in gran fretta, con un'affermazione perentoria:
    “Basta così. Adesso so tutto”

    III



    Era ormai imbrunito da tempo. Chiusi nella stanza di miss Helen, Sherlock Holmes e il sottoscritto attendevamo che qualcosa succedesse. Zitti, immobili e tesi a cogliere qualsiasi rumore sospetto.
    Dopo che eravamo usciti dalla stanza di mister Roylott, Holmes aveva dato certe disposizioni alla sua giovane cliente. Innanzitutto avrebbe dovuto soltanto fingere di pernottare nella stanza della sorella. Una volta che il patrigno fosse entrato nella propria stanza, la ragazza avrebbe messo fuori dalla finestra la lanterna, come segnale per noi due. Holmes e io avremmo atteso quel segnale nella taverna che sovrastava la vallata. Quando la luce ci avesse dato il via, avremmo raggiunto la casa dei Roylott e saremmo entrati di nascosto nella camera misteriosa.
    “Al contrario voi, miss Helen, dovrete uscire dalla camera della povera Giulia al nostro arrivo. Vi ritirerete nella vostra solita camera. Non voglio che in nessun modo possiate rischiare qualcosa di irreparabile” disse il detective con una voce che non concedeva spazio a tentennamenti o a obiezioni.
    “Io credo, signore, che voi abbiate già capito il segreto che si nasconde dietro alla morte di mia sorella...” e così dicendo miss Stoner appoggiò con delicatezza la mano sul braccio del mio compagno. Ma non ottenne risposta, se non l'invito ad accomiatarci tutti all'istante. Infatti un rumore di ruote e uno scalpitio di cavalli annunciava che la carrozza di mister Roylott aveva già imboccato il viale che portava alla villa.
    Nella locanda trascorremmo circa tre ore; io ingannavo il tempo leggendo i giornali e bevendo alcuni boccali di ottima ale fresca, mentre il mio amico sorseggiava tazze su tazze di the carico e non staccava nemmeno per un istante gli occhi dalla finestra della fanciulla. Mentre i suoi occhi, ridotti a due fessure, scrutavano l'oscurità in attesa della lanterna, egli cominciò a riordinare insieme a me tutta la lista degli elementi osservati.
    “Campanelli finti... ventilatori che non danno aria... guinzagli con un'imboccatura di dimensioni ridicole... piattini di latte per chissà quale animaletto. E restano da elencare i fischi notturni, i rumori metallici e soprattutto quella sibillina fascia maculata. La situazione è pericolosa, caro amico. Se volete accompagnarmi, è giusto che prima consideriate bene il rischio cui voi e io andiamo incontro”
    Gli risposi che a me alcuni particolari sembravano strani, altri francamente bizzarri, ma che malgrado ciò non riuscivo a collegare tutte quelle osservazioni e, per così dire, a materializzarle in un pericolo concreto, a elaborare un'ipotesi definita. Ammisi che poteva essermi sfuggito qualche elemento in più.
    “Le nostre osservazioni sono probabilmente le stesse, caro amico” mi rispose Sherlock Holmes. “Se c'è una differenza, è questa: che le mie non sono più frammenti sparsi, ma tessere di un mosaico, messe insieme con un metodo preciso”
    “Volete dire che da ciò che avete visto siete riuscito a trarre una serie di deduzioni logiche, certe quanto i fatti che avete constatato?£ domandai.
    “Vedete, per essere sincero” rispose “ero in attesa di quello spiraglio del ventilatore sulla parete fin da quando siamo partiti da Londra per il Surrey”
    “Come potevate, amico mio?”
    “Ero sicurissimo della sua esistenza. Se ben ricordate, miss Helen ci ha dichiarato che sua sorella avvertiva sempre quell'odore dolciastro, per lei nauseabondo, dei sigari indiani di mister Roylott. Tra le camere dei due doveva per forza esserci un'apertura; e quest'apertura doveva essere sicuramente piccola e insignificante, altrimenti il magistrato inquirente non avrebbe potuto fare a meno di notarla. Perciò sapevo che doveva trattarsi di un inoffensivo ventilatore”.
    Dopo questa esibizione di preveggenza, il mio amico riconobbe che anche la quantità di fatti da lui osservati era più abbondante della mia:
    “Per esempio, il letto. Avete notato che il mobile è fissato al pavimento mediante alcune borchie metalliche?”
    “Nn... no, Holmes. Borchie? Sarebbe il primo letto di questo genere che avrei mai visto in vita mia”
    “Anche questa non è una bizzarria senza motivo. Quel letto, la ragazza non avrebbe potuto spostarlo dalla sua posizione, cioè da sotto il ventilatore e il cordone. Un delitto orribile, che è stato congegnato nello stesso modo in cui si costruisce un puzzle. Speriamo di arrivare in tempo per guastare quel gioco prima che... Ecco, guardate! Ecco il segnale!”
    Il mio compagno era balzato in piedi e puntava l'indice verso la lanterna che Helen aveva esposto alla sua finestra.
    Non fu difficile penetrare nel parco che circondava la casa. Di lì raggiungemmo silenziosamente il portone che Helen aveva lasciato socchiuso. Ci accingevamo a entrare, quando una visione grottesca attraversò come un fulmine il vialetto alle nostre spalle. Un essere deforme e malfermo sulle gambe correva da un cespuglio all'altro.
    “Il babbuino!”
    Mi prese la paura di fare la conoscenza anche del leopardo. Richiusi il portone alle mie spalle e, dopo essermi tolto le scarpe, seguii Holmes fino alla camera dei misteri.
    “Il minimo rumore ci sarebbe fatale” mi bisbigliò accostandomi le labbra all'orecchio.
    Anuii per mostrargli che avevo capito. Non accendemmo la lampada perché attraverso il ventilatore non filtrasse qualche raggio di luce che poteva insospettire Roylott. Io mi sedetti sulla sedia di fronte al letto. “Ho il revolver in tasca, no?” mi andavo ripetendo per tranquillizzarmi; e di tanto in tanto mi assicuravo della sua presenza sfiorandone il calcio con la mano.
    Anche il mio amico aveva con sé uno strumento di difesa che per me era francamente incomprensibile: una canna lunga e sottile. Così attrezzati vegliavamo, zitti, immobili e tesi a cogliere qualsiasi rumore sospetto.
    Nel silenzio arrivava di tanto in tanto il grido di un uccello notturno. Ogni quarto d'ora il campanile del paese suonava profondi rintocchi. Passarono molte ore, lunghissime, esasperanti, buie e nere e senza novità.
    A un tratto, una luce! Una luce improvvisa guizzò attraverso lo sfogo d'aria. Con il breve lampo ci giunse anche il caratteristico odore di petrolio bruciato, poi più niente. Mister Roylott aveva acceso una lampada che subito dopo aveva coperto. Tutto ripiombò nell'oscurità totale e nel silenzio. Ma dopo un po' un soffio, un sospiro lieve. Un sibilo più forte. Ne ero sicuro: sentivo un leggero soffio. Avrei voluto vedere il mio compagno di avventura per sapere come stava reagendo. Che cosa diavolo faceva, Holmes?
    La capocchia di un fiammifero s'infiammò nel buio. Sentii i colpi secchi e violenti della canna di Sherlock Holmes, che batteva selvaggiamente il cordone del campanello. Il detective, con il fiammifero acceso nell'altra mano, mi sibilava:
    “Lo vedete? Lo vedete, Watson?”
    Aguzzai lo sguardo, ma per quanto mi sforzassi non riuscii a capire che cosa stesse sferzando con tanta, inconsueta violenza. Vedevo però la sua faccia, mortalmente pallida e piena di orrore e di ribrezzo.
    Si calmò di colpo e tacque. Il silenzio della notte regnò ancora per pochi secondi, quindi fu rotto dal grido più terribile che io abbia mai udito. Paura, dolore, collera misti assieme.
    “Tutto è finito, Watson” fece dopo qualche istante Sherlock Holmes “Prendete la vostra pistola. Andiamo a soccorrere mister Roylott”.
    Corremmo nel corridoio e bussammo più volte alla stanza accanto alla nostra. Nessuno rispondeva. Alla fine il mio amico spalancò la porta ed entrò. Lo seguii con la pistola puntata.
    Sulla grande sedia sotto la ventola sedeva mister Roylott, ormai senza vita. Era in veste da camera, con la testa gettata all'indietro, e aveva tra le mani il guinzaglio attorcigliato. Alle sue spalle la cassaforte con il coperchio sollevato. Facemmo qualche passo avanti. Quel che vedemmo fu spaventoso.
    “La banda maculata!”
    Attorno alla fronte del patrigno era avvolta una fascia gialla, macchiata qua e là di chiazze nere. E quella fascia si mosse, quello strano diadema si contorse. Tra i capelli si erse la repellente testa piatta di un mostruoso serpente. L'orribile animale gonfiò il collo e sibilò verso di noi.
    “Una vipera delle paludi, che è quanto dire il più velenoso dei serpenti indiani” constatò Holmes, che aveva identificato immediatamente la specie cui apparteneva il rettile omicida.
    Io, che sono medico, capii allora che la morta era stata pressoché istantanea. La povera Giulia era anch'essa stata morsa dal serpente ma – forse perché il veleno le era stato inoculato in una zona del corpo lontana dalla testa e dal cuore – aveva avuto il tempo sufficiente per chiamare e per rivelare quel che aveva visto. Questa volta l'assassino era stato punito con l'arma predisposta per un nuovo delitto.
    Holmes non esitò. Prese il guinzaglio dalle mani del morto e con gesto preciso lanciò il cappio attorno al collo del rettile. Lo gettò nella cassaforte, tenendo il braccio teso davanti a sé, e richiuse il coperchio.
    “Avevo preparato quella canna perché non poteva trattarsi che di un serpente indiano. Roylott apriva la cassaforte dove lo teneva, lo imprigionava nel cappio e saliva sulla sedia per arrivare alla fessura di ventilazione. Di lì, lungo il cordone, il serpente scendeva a mordere la sua vittima. I denti, sottili come aghi finissimi, lasciano tracce pressoché invisibili. Solo un appassionato della fauna dell'India poteva pensare a un simile strumento di morte, letale, rapido e impercettibile. Uno strumento esercitato a tornare nella sua gabbia, richiamato dall'odore del latte. A questo punto tutto è chiaro, tutto è definito...”
    Fece una pausa durante la quale, forse, rifletté su ciò che poteva restare ancora oscuro ai miei occhi. Quindi concluse:
    “Quando hp udito il rumore della cassaforte e il sibilo ero ormai pronto a scattare. Ho respinto il rettile lungo la strada appena percorsa, l'animalaccio è ricaduto oltre il ventilatore sul suo padrone. Questo non l'avevo previsto. Il destino di mister Roylott sarebbe stato certo la forca, ma non mi sarei mai immaginayo che per lui la punizione potesse giungere in modo tanto rapido!”.
     
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