Spoglie Umane - pt. V V

di Clive Barker

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Smertefull_Dodskamp
         
     
    .

    User deleted


    Si svegliò. Aveva sognato.
    Erano passate le quattro del pomeriggio e dalla strada arrivava forte il rumore del traffico. Una stanza crepuscolare; la stessa aria respirata in continuazione aveva l'odore dei suoi polmoni. Era passata più di una settimana da quando aveva abbandonato Reynolds fra le sue macerie e in tutti quei giorni si era azzardato a lasciare la sua tana (tre locali minuscoli: cameretta, cucinino, bagnetto) solo tre volte. Dormire era più importante che nutrirsi o fare ginnastica. Aveva droga a sufficienza da tenerlo beato e tranquillo quando non riusciva a dormire, cosa che accadeva di rado, e l'aria viziata della sua stanza aveva cominciato a piacergli, trovava rassicurante l'avvicendarsi della luce e del buio alla finestra priva di tende, la percezione di un mondo che esisteva altrove e del quale non faceva parte.
    Quel giorno si era ripromesso di uscire a prendere una boccata d'aria fresca, ma stentava a farsene venire la voglia. Forse più tardi, molto più tardi, quando i bar avessero cominciato a svuotarsi e nessuno lo avrebbe notato. Forse a quell'ora sarebbe sgattaiolato fuori del suo bozzolo a vedere quel che c'era da vedere. Per ora, c'erano i sogni...
    Acqua.
    Aveva sognato l'acqua. Era a Fort Lauderdale, seduto sulla sponda di uno stagno pieno di pesci. E lo sciabordio dei loro balzi e tuffi era costante, trabordava dal suo sonno. O era alla rovescia? Sì. Aveva sentito nel sonno il rumore dell'acqua corrente e la sua mente addormentata aveva creato un sogno adatto a quel suono. Ora che si era svegliato, il rumore continuava.
    Giungeva dal bagno e non era più il gorgogliare dell'acqua corrente, bensì uno sciacquio. Evidentemente qualcuno si era introdotto in casa sua mentre dormiva e adesso faceva il bagno. Passò in rassegna il breve elenco dei possibili intrusi. I pochi che sapevano che era lì. C'era Paul, un ragazzo di vita in erba che aveva dormito a casa sua per terra due giorni prima; c'era Chink, lo spacciatore; c'era una ragazza che abitava al piano di sotto e gli sembrava si chiamasse Michelle. Ma chi stava cercando di ingannare? Nessuno di loro avrebbe forzato la serratura per entrare. Sapeva benissimo chi doveva essere. Stava solo giocando con se stesso, si divertiva a ragionare per eliminazioni, prima di arrendersi all'evidenza della logica.
    Desideroso di rivederlo, scivolò fuori del suo involucro di lenzuola e piumino. La sua pelle reagì accapponandosi nel freddo della stanza, l'erezione spontanea del sonno nascose la testa. Per andare a staccare la vestaglia appesa all'uscio passò davanti allo specchio e per un istante scorse la propria immagine riflessa, un fotogramma ritagliato da un film impietoso, un afflato di uomo, avvizzito dal freddo e illuminato da una luce piovana. Era così diafana, la sua immagine, che tremolava debolmente come un miraggio.
    Avvolto nella vestaglia, unico suo indumento comperato da poco, andò in bagno. Ora l'acqua non si sentiva più. Aprì la porta.
    Sotto i suoi piedi il vecchio linoleum era come una lastra di ghiaccio. Gli avrebbe dato un'occhiata e sarebbe corso a rifugiarsi di nuovo nel letto. Così pensava, ma la sua curiosità non si sarebbe accontentata di così poco: aveva delle domande da porgli.
    Nei tre minuti trascorsi da quando si era svegliato la luce attraverso il vetro smerigliato si era rapidamente deteriorata nel calare della notte e nell'intensificarsi della pioggia. La vasca era piena fino all'orlo e l'acqua era placida come olio e scura. Come già la prima volta, non affiorava nulla. La creatura giaceva sul fondo, nascosta.
    Quanto tempo era passato da quando si era avvicinato a una vasca piena di un liquido verdastro in un bagno verdastro? Anche un solo giorno, forse: gli era impossibile ricordarlo visto che da allora la sua vita si era trasformata in una lunga notte. Era lì, rannicchiato come la prima volta, e addormentato, ancora vestito di tutto punto come se non avesse avuto il tempo di spogliarsi prima di immergersi. Là dov'era stato calvo ora mostrava una folta chioma e i lineamenti del suo viso erano completamente formati. Non c'era più traccia di pittura sul suo volto che adesso era forgiato nella sua stessa plastica bellezza, in tutto e per tutto identico fino all'ultimo neo. Teneva le mani perfettamente modellate incrociate sul petto.
    La notte si addensò. Non poteva far altro che guardarlo dormire e non era molto emozionante. Se lo aveva rintracciato e raggiunto in casa sua, era improbabile che scappasse di nuovo, perciò si risolse di tornare a letto. La pioggia aveva rallentato il ritorno a casa dei pendolari, costringendoli a procedere a passo d'uomo. C'erano stati degli incidenti, alcuni fatali, si era surriscaldato qualche motore e anche qualche cuore. Ascoltò il traffico. Dormì a intermittenza. Era già sera quando lo svegliò di nuovo la sete. Sognava acqua e si udiva di nuovo il rumore di prima. La creatura stava uscendo dalla vasca, posava la mano sulla maniglia, apriva la porta.
    Eccola lì. La poca luce che rischiarava la camera da letto era quella che veniva dalla strada sottostante, riusciva a delineare a malapena il visitatore.
    "Gavin? Sei sveglio?"
    "Sì."
    "Mi vuoi aiutare?" Non c'erano vibrazioni di minaccia nella sua voce, la domanda era posta come a un fratello, nel nome dei legami di sangue.
    "Che cosa vuoi?"
    "Tempo per guarire."
    "Guarire?"
    "Accendi la luce."
    Gavin accese la lampada accanto al letto. Ora che la creatura non teneva più le braccia incrociate sul torace, vide che aveva nascosto una grave ferita d'arma da fuoco. Un proiettile le aveva aperto uno squarcio nelle carni incolori. Naturalmente non c'era sangue, non sarebbe stato mai possibile, né da quella distanza Gavin vedeva dentro di lui nulla che somigliasse a un'anatomia umana.
    "Dio del cielo," sussurrò.
    "Preetorius aveva degli amici," spiegò la creatura toccandosi i bordi della ferita con la punta delle dita. Quel gesto evocò nella mente di Gavin un quadro appeso in casa di sua madre. La Gloria di Cristo, il Sacro Cuore sospeso nel petto del Redentore. Sottolineando con le dita le dolorose conseguenze della rappresaglia che aveva subito, la creatura disse: "Questo è successo per te."
    "Come mai non sei morto?"
    "Perché non sono ancora vivo."
    Non ancora. Ricordatelo, pensò Gavin. C'è un sottinteso di mortalità.
    "Fa male?"
    "No," rispose tristemente, quasi che rimpiangesse di non provare dolore, "non sento niente. Tutte le mie manifestazioni vitali sono puramente cosmetiche. Ma sto imparando." Sorrise. "Ho acquisito dimestichezza con gli sbadigli. E mollare da dietro mi riesce bene." Era un'idea insieme assurda e commovente quella che potesse aspirare alla flatulenza, che potesse vedere un prezioso segno di umanità in un ridicolo effetto collaterale di qualche squilibrio nel processo della digestione.
    "E la ferita?"
    "... sta guarendo. Con un po' di tempo andrà a posto del tutto."
    Gavin non disse niente.
    "Mi trovi repellente?" gli chiese spassionatamente.
    "No,"
    Osservava Gavin con occhi perfetti, i suoi occhi perfetti.
    "Che cosa ti ha detto Reynolds?" volle sapere.
    Gavin alzò le spalle.
    "Molto poco."
    "Che sono un mostro? Che sottraggo agli umani il loro spirito?"
    "Non esattamente."
    "Più o meno."
    "Più o meno," gli concesse Gavin.
    L'essere annuì. "Ha ragione," confermò. "In un certo senso, ha ragione. Ho bisogno di sangue e questo mi rende mostruoso. Nella mia gioventù, un mese fa, mi immergevo nel sangue. Il contatto dava al legno l'apparenza della carne viva. Ma adesso non ne ho più bisogno, ormai il processo è quasi terminato. Adesso mi serve solo..."
    Esitò. Gavin intuì che non si era fermato per inventare una bugia, ma perché non trovava le parole con cui descrivere la sua condizione.
    "Di che cosa hai bisogno?" lo incalzò.
    Scosse la testa, abbassando gli occhi sul tappeto. "Sono già vissuto parecchie volte, sai? Mi sono impossessato di altre vite e l'ho fatta franca. Ho vissuto un lasso di tempo naturale, poi mi sono sbarazzato di una faccia per trovarmene un'altra. Certe volte, come quest'ultima, sono stato sfidato e ho perso..."
    "Sei una macchina di qualche tipo?"
    "No."
    "E allora che cosa sei?"
    "Sono quel che sono. Non conosco altri come me, anche se non c'è motivo perché io debba essere l'unico. Forse ce ne sono altri, e anche molti, ma molto semplicemente non so della loro esistenza. Così vivo e muoio e vivo di nuovo e non apprendo niente," confessò con amarezza, "... di me stesso. Capisci? Tu sai che cosa sei perché vedi altri come te. Se fossi solo sulla Terra, che cosa sapresti? Niente più di quello che può raccontarti uno specchio. Tutto il resto sarebbe ipotesi e congetture."
    Enunciava il sunto del suo esistere senza alcuna partecipazione emotiva.
    "Posso sdraiarmi?" chiese.
    Quando gli fu più vicino, Gavin vide più chiaramente le forme incomprensibili che gli dondolavano nella cavità toracica al posto del cuore. Con un sospiro, la creatura si adagiò bocconi sul suo letto, negli abiti fradici che ancora indossava, e chiuse gli occhi.
    "Guariremo," mormorò. "Ci serve solo un po' di tempo."
    Gavin andò a sprangare la porta d'ingresso. Contro di essa spinse un tavolo che incastrò sotto la maniglia. Nessuno avrebbe fatto irruzione aggredendolo nel sonno. Sarebbero rimasti lì insieme, lui e la sua creatura, lui e se stesso. Resa impenetrabile la sua fortezza, si preparò un caffè, si sedette in un angolo della camera da letto e guardò la creatura dormire.
    Per un'ora la pioggia scrosciava violenta contro la finestra, poi la sua forza scemava nell'ora successiva. Il vento soffiava foglie fradice contro il vetro dove restavano appiccicate come falene curiose; ogni tanto le guardava, quando era stanco di osservare se stesso, ma non passava molto tempo prima che avesse voglia di guardare di nuovo e tornava allora a considerare la languida bellezza del braccio disteso, la carezza della luce sull'osso del polso, sulle ciglia. Verso mezzanotte si addormentò, nell'ululato della sirena di un'ambulanza e nel tamburellare della pioggia.
    Scomodo per essersi assopito seduto, riaffiorava dal sonno ogni pochi minuti, socchiudendo gli occhi. La creatura si era alzata: la vedeva alla finestra, poi allo specchio, ora la sentiva in cucina. Acqua corrente. Sognò l'acqua. La creatura si spogliò. Sognò sesso. Andò a fermarsi davanti a lui, con il torace rimarginato, e la sua presenza lo rassicurò: sognò, per non più di un momento, se stesso sollevato dalla strada e trasportato in paradiso attraverso una finestra. La creatura si vestì con i suoi indumenti: mormorò di compiacimento per il proprio furto nel suo sonno. La creatura fischiettava sommessamente e c'era una minaccia di giorno alla finestra, ma era troppo intorpidito per muoversi e gli andava bene che quel giovane canticchiante vivesse in sua vece nei suoi abiti.
    Finalmente la creatura si chinò a baciarlo sulle labbra, un bacio fraterno, prima di andarsene. Sentì la porta che si richiudeva.
    Trascorsero giorni, senza che sapesse quanti, durante i quali restò in quella camera a non fare niente altro che bere acqua.
    La sete era diventata implacabile. Beveva e dormiva, beveva e dormiva, in un'alternanza ritmica.
    Il letto su cui dormiva era rimasto umido per aver ospitato la creatura, ma non provò il desiderio di cambiare le lenzuola. Anzi, si sentiva a suo agio nel bagnato e lasciò che il suo corpo assorbisse l'umidità, cosa che avvenne in breve tempo. Allora andò a immergersi nella stessa acqua in cui era sprofondata la creatura e tornò a letto gocciolando, con la pelle che fremeva per il freddo, nella stanza che si saturava di odore di muffa. Più tardi, troppo indolente per muoversi, scaricò la vescica restando sdraiato nel letto e anche quella pozza con il tempo si raffreddò, finché non l'ebbe asciugata con il suo declinante calore corporeo.
    Per qualche motivo, nonostante il gelo della stanza e il conseguente pericolo di assideramento, nonostante la fame, non poteva morire.
    ,Si alzò nel cuore della notte del sesto o settimo giorno e si sedette sulla sponda del letto a chiedersi che cosa imprigionasse la sua forza di volontà. Quando non trovò risposta, cominciò a vagare per la camera come aveva fatto la creatura una settimana prima, fermandosi davanti allo specchio a rimirare il suo corpo miseramente mutato, si fermò, alla finestra a guardare la neve che cadeva ammiccando sciogliendosi sul davanzale.
    Per caso trovò una fotografia dei genitori che ricordava di aver visto nelle mani della creatura. O se lo era sognato? No, era sicuro di averla vista prendere quella foto e osservarla.
    Ecco dunque dov'era l'ostacolo al suo suicidio, lo scopriva da quella fotografia: aveva da rendere un onore e come avrebbe potuto sperare di morire prima di aver assolto ai suoi doveri?
    Si incamminò alla volta del cimitero nel guazzo di piogga e neve avendo addosso solo un paio di calzoni e una maglietta. Non sentì nemmeno i commenti delle donne di mezza età e degli scolari, era una questione del tutto privata se aveva scelto di rischiare la morte camminando a piedi scalzi. La pioggia riprendeva a cadere di tanto in tanto, condensandosi talvolta in qualcosa di simile alla neve, senza riuscirci mai.
    In chiesa era in corso una cerimonia, davanti al portone erano parcheggiate in fila varie automobili. Si inoltrò nel camposanto che si trovava dietro il tempio. Vantava un bel panorama, guastato quel giorno dal velo fumoso del nevischio, e tuttavia intravide le forme slanciate degli alti caseggiati, le file sovrapposte dei tetti. Si aggirò tra le lapidi, senza sapere dove trovare la tomba di suo padre.
    Erano passati sedici anni e quel giorno non era stato in alcun modo memorabile, nessuno aveva detto niente di illuminante sulla morte in generale o su quella di suo padre in particolare, non c'era stata neanche una gaffe a ricordargli quel giorno, il peto di una zia al tavolo del buffet, una cuginetta che lo avesse tratto in disparte per esibirgli i suoi lati migliori.
    C'era da chiedersi se qualche altro parente andasse mai in visita al cimitero; c'era persino da chiedersi se non fossero partiti tutti. Sua sorella aveva spesso minacciato di andarsene, espatriare in Nuova Zelanda a rifarsi una vita. Sua madre si stava probabilmente facendo fuori il quarto marito, poveraccio, anche se forse quella da compatire era proprio lei, costretta a nascondere il panico dietro a un incessante parlare.
    Trovò la lapide. E c'erano fiori freschi nell'urna marmorea, dunque quel vecchio bastardo non se n'era rimasto lì a godersi il panorama dimenticato da tutti. Evidentemente qualcuno, quasi di sicuro sua sorella, era andata al cimitero a cercare un po' di conforto dal padre. Passò la punta delle dita sul nome, sulla data, sulla frase retorica. Niente di eccezionale ed era giusto che così fosse, perché nella sua vita non c'era stato niente di eccezionale.
    Mentre osservava la pietra tombale udì parlare, quasi che suo padre fosse seduto sul bordo della sua tomba con le gambe penzoloni a passarsi la mano fra i radi capelli sulla cute lucida del cranio, fingendo, come sempre, di non accorgersi di lui.
    "Che cosa te ne pare?"
    Suo padre non reagì nemmeno.
    "Sono poca cosa, vero?" ammise Gavin.
    L'hai detto tu, figliolo.
    "Comunque sono stato prudente, come mi dicevi sempre tu. Non ci sono bastardi a darmi la caccia."
    Quasi tronfio.
    "Non sarebbe un grande spettacolo se mi trovassero, vero?"
    Suo padre si soffiò il naso e se lo pulì tre volte. Una volta da sinistra a destra, di nuovo da sinistra a destra, l'ultima volta da destra a sinistra. Sempre così. Poi scomparve.
    "Vecchio maiale."
    Un treno che sembrava un giocattolo mandò il suo fischio scorrendo in lontananza e Gavin rialzò gli occhi. Era lì, se stesso, assolutamente immobile a pochi metri da lui. Indossava gli stessi indumenti che aveva una settimana prima, quando aveva lasciato casa sua. Erano stropicciati logori di usura. Ma la pelle! Ah, la pelle era luminosa come la sua non era mai stata. Quasi splendeva nella luce brumosa di pioggia e le lacrime sulle guance della sua replica erano come il tocco di una finitura squisita.
    "Che ti prende?" chiese Gavin.
    "Piango sempre quando vengo qui." Gli si avvicinò fra le tombe, i suoi passi scricchiolarono sulla ghiaia, frusciarono sull'erba. Era così reale.
    "Eri già stato qui?"
    "Oh, sì, molte volte, per anni..."
    Anni? Come sarebbe a dire per anni? Andava al cimitero a piangere sulla tomba delle persone che uccideva?
    Come in risposta:
    "... sono venuto a trovare papà. Due o tre volte l'anno."
    "Non è tuo padre," obiettò Gavin, quasi divertito dall'allucinazione. "È mio padre."
    "Non vedo lacrime sul tuo viso."
    "Sento..."
    "Niente," lo precedette il suo alter ego. "Tu non senti niente, se sei sincero."
    Era la verità.
    "Mentre io..." e riprese il pianto, cominciò a colargli il naso, "avrò nostalgia di lui fino al giorno della mia morte."
    Stava certamente recitando ma, se così era, come mai c'era tanto cordoglio nei suoi occhi? E perché il suo bel volto si contraeva in una smorfia così brutta, distorta dal dolore? Raramente Gavin cedeva al pianto, perché le lacrime lo facevano sentire debole e ridicolo, mentre quell'essere era orgoglioso delle sue, se ne sentiva glorificato, erano per lui come il segno del suo trionfo.
    Ma nemmeno in quel momento, in cui seppe di essere stato raggiunto, Gavin riuscì a trovare in sé un sentimento che si approssimasse al rimpianto.
    "Fai pure," gli disse, "fatti colare il naso, se ti aggrada."
    La creatura non lo ascoltava nemmeno. "Perché è tutto così doloroso?" domandò. "Perché è il lutto a rendermi umano?"
    Gavin si strinse nelle spalle. Che cosa mai sapeva lui dell'arte raffinata di essere umano? La creatura si asciugò il naso con la manica, cercò di far affiorare un sorriso da tanta tristezza.
    "Mi dispiace," mormorò, "non ho fatto una gran bella figura. Ti prego di perdonarmi."
    Trasse un respiro profondo cercando di ricomporsi.
    "Non fa niente," rispose Gavin. Quello sfogo lo imbarazzava e se ne andava volentieri.
    "I fiori sono tuoi?" domandò prima di girarsi.
    La creatura annuì.
    "Detestava i fiori."
    La creatura trasalì. "Ah."
    "Ma in fondo, che cosa ne sa adesso?"
    Infine si voltò e senza esitazioni si avviò per il sentiero che correva accanto alla chiesa. Pochi metri dopo la creatura gli gridò: "Avresti un buon dentista da raccomandarmi?"
    Gavin sorrise continuando a camminare.
    Era quasi l'ora di punta. La strada che passava davanti alla chiesa, che era una delle arterie principali, era già densa di traffico. Forse era venerdì, i primi erano già in fuga per le loro abitazioni fuori città. Lampeggiavano gli abbaglianti, protestavano i clacson.
    Gavin scese nel flusso del traffico senza guardare né a destra né a sinistra, ignorando lo stridere dei freni e le imprecazioni e proseguì in mezzo ai veicoli come se si trovasse in aperta campagna.
    Un parafango gli strusciò una gamba, per poco una ruota non gli schiacciò un piede. Trovava comica la loro foga di arrivare da qualche parte, di raggiungere al più presto una meta dove di lì a poco sarebbero stati assaliti dal bisogno di ripartire. Che lo maledicessero, che lo odiassero, che tenessero impressa nella memoria la sua faccia e che quel ricordo inquietasse i loro sogni a casa.
    Volendosi realizzare le circostanze giuste, uno di quegli automobilisti avrebbe magari sterzato, colto dal panico, e lo avrebbe travolto. Andasse come doveva. Da adesso in poi sarebbe appartenuto al caso, di cui per certo sarebbe stato alfiere.
     
    .
0 replies since 8/2/2013, 11:19   57 views
  Share  
.