Spoglie Umane - pt. IV \ V

di Clive Barker

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  1. Smertefull_Dodskamp
         
     
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    Nulla di quanto era avvenuto la sera precedente gli sembrò aver senso il mattino dopo. Non si accese in lui l'improvvisa comprensione della natura del sogno a occhi aperti che aveva vissuto. Gli rimanevano nella memoria solo una serie di fatti nudi e crudi.
    Nello specchio c'era il fatto del taglio dall'orecchio al mento, ora rimarginato e più doloroso del dente marcio.
    Sui giornali i fatti riferiti del ritrovamento di due cadaveri nella zona di Covent Garden, noti criminali trucidati in quello che la polizia descriveva come un "sanguinoso scontro fra bande".
    Nella testa c'era il fatto sicuro che prima o poi lo avrebbero scovato. Qualcuno doveva pur averlo visto con Preetorius e lo avrebbe riferito alla polizia. Forse persino Christian, se così avesse deciso. E allora se li sarebbe trovati sullo zerbino di casa, armati di manette e mandati di cattura. E lui che cosa avrebbe potuto raccontare per difendersi dalle loro accuse? Che il vero colpevole non era un essere umano, bensì un simulacro, una statua, che però piano piano si andava trasformando in una sua replica? Allora l'interrogativo non sarebbe stato più se lo avrebbero incarcerato, ma in quale buco lo avrebbero chiuso per sempre, prigione od ospedale psichiatrico.
    Ingannando la disperazione con il rifiuto a credere, si presentò a un pronto soccorso per farsi medicare al viso, e attese paziente per tre ore e mezzo in compagnia di decine di altri incidentati come lui.
    Il medico non si lasciò commuovere più di tanto. Gli disse che ora che il danno era fatto i punti non sarebbero serviti più a niente. Si poteva ripulire e medicare la ferita, ma gli sarebbe rimasta inevitabilmente una brutta cicatrice. Perché non era andato subito la sera precedente, appena si era tagliato? volle sapere l'infermiera. Lui alzò le spalle come a dire: che cosa diavolo ve ne importa? La compassione artificiale non avrebbe fatto scomparire il taglio.
    Sbucando da dietro l'angolo nella strada in cui abitava, vide le automobili ferme davanti a casa sua, la luce blu, il capannello di vicini che si scambiavano bisbigli sogghignando. Troppo tardi per negare i segreti della sua vita privata. Ormai si erano impossessati dei suoi vestiti, dei suoi pettini, dei suoi profumi, delle sue lettere, frugando dappertutto come scimmie che si spidocchiano. Aveva ben visto quanto sapessero essere meticolosi quei bastardi quando volevano, fino a che punto riuscissero a impadronirsi dell'identità di un individuo, impacchettandola, divorandola, risucchiandola. Avevano la capacità di cancellarti peggio che con una fucilata, lasciandoti vivere come una nullità.
    Non poteva farci più niente. Ormai la sua vita apparteneva a loro, a chi lo avrebbe disprezzato e deriso e a chi avrebbe sbavato per lui. E magari qualcuno avrebbe sperimentato anche un attimo o due di nervosismo, vedendo le sue fotografie e domandandosi se non gli sarebbe piaciuto comperarsi qualche ora delle sue grazie.
    Si accomodassero pure. Da quel momento in poi sarebbe stato un senza legge, perché le leggi proteggevano la proprietà e lui non aveva più niente. Lo avevano ripulito dalla testa ai piedi, non aveva un luogo dove vivere, nulla che potesse definire proprio. Non aveva nemmeno paura e quello era l'aspetto più strano.
    Girò la schiena alla strada e alla casa in cui era vissuto per quattro anni e provò qualcosa di simile al sollievo, felice che la sua vita gli fosse stata sottratta in tutto il suo squallore. Si sentiva molto più leggero.
    Due ore dopo e a qualche chilometro di distanza controllò il contenuto delle sue tasche. Aveva con sé una carta di credito, quasi cento sterline in contanti, una piccola collezione di fotografie, alcune dei suoi genitori e di sua sorella, perlopiù di se stesso. Un orologio, un anello e una catenina d'oro intorno al collo. Usare la carta di credito sarebbe stato probabilmente pericoloso, perché sicuramente dovevano aver avvertito la sua banca. Meglio impegnare l'anello e la catenina e partire per il Nord. Aveva degli amici ad Aberdeen che lo avrebbero nascosto per qualche tempo.
    Ma per prima cosa, Reynolds.
    Un'ora dopo aveva trovato dove abitava Ken Reynolds. Erano passate quasi ventiquattr'ore da quando aveva mangiato l'ultima volta e il suo stomaco protestava, davanti alle Livingstone Mansions. Dominò la fame con un atto di volontà ed entrò nell'edificio. Di giorno l'ambiente gli parve meno sfarzoso. La guida sulle scale era logora e il corrimano era annerito dall'uso.
    Salì senza fretta le tre rampe di scale e bussò alla porta di Reynolds.
    Non rispose nessuno, né udì alcun movimento all'interno. In effetti Reynolds gli aveva detto di non tornare perché non si sarebbe in ogni caso fatto trovare. Aveva forse previsto le conseguenze che avrebbe scatenato liberando quell'essere nel mondo?
    Bussò di nuovo e questa volta ebbe la certezza di aver udito respirare dietro la porta.
    "Reynolds..." chiamò, avvicinandosi il più possibile all'uscio, "guarda che ti sento."
    Nessuno rispose, ma qualcuno c'era di sicuro. Batté il palmo della mano sulla porta.
    "Avanti, apri. Apri, bastardo."
    Un breve silenzio, poi una voce ovattata: "Vai via."
    "Voglio parlarti."
    "Vattene, te l'ho già detto, vai via. Non ho niente da dirti."
    "Mi devi una spiegazione, per l'inferno! Se non apri questa porta, ti giuro che trovo il modo di farmela aprire."
    Era una minaccia a cui non avrebbe potuto dar seguito, ma Reynolds si arrese. "No!" esclamò. "Aspetta, aspetta."
    Ci fu il rumore di una chiave che girava nella serratura e la porta si aprì di pochi centimetri. L'appartamento era immerso nel buio dietro il viso sfatto che scrutò Gavin. Era certamente Reynolds, ma con la barba lunga e visibilmente sconvolto. Si sentiva che non si lavava da giorni anche da quello stretto spiraglio e indossava una camicia sporca e un paio di calzoni tenuti su da una cintura annodata.
    "Non posso aiutarti. Vattene."
    "Se mi lasci spiegare..." insisté Gavin spingendo la porta e Reynolds non gli impedì di aprirla del tutto, o perché troppo debole o perché troppo stordito. Indietreggiò nel buio.
    "Ma che cosa diavolo succede qui dentro?"
    L'abitazione puzzava di cibo guasto. L'aria ne era impregnata. Reynolds lasciò che Gavin richiudesse la porta prima di togliersi di tasca un coltello.
    "Guarda che non mi inganni," dichiarò con impeto. "So che cosa hai fatto. Bravo. Davvero in gamba."
    "Parli degli omicidi? Non sono stato io."
    Reynolds gli puntò addosso il coltello.
    "Quanti bagni di sangue ci sono voluti?" domandò con gli occhi luccicanti di lacrime. "Sei? Dieci?"
    "Io non ho ucciso nessuno."
    "... Mostro."
    Il coltello che Reynolds teneva nella mano era lo stesso tagliacarte che aveva trovato Gavin. Gli si avvicinò brandendolo. Non c'era dubbio che avesse intenzione di usarlo. Gavin ebbe un attimo di incertezza e Reynolds si sentì incoraggiato dalla sua paura.
    "Ti eri dimenticato che effetto fa essere di carne e ossa?"
    Il pover'uomo sragionava.
    "Senti... sono venuto qui solo per parlare."
    "Tu sei qui per uccidermi. Io potrei smascherarti, perciò mi devi eliminare."
    "Sai chi sono?" chiese Gavin.
    Reynolds fece una smorfia. "Tu non sei il ragazzo che ho trovato al cinema. Ci somigli, ma non mi inganni."
    "Per l'amor del cielo, io sono Gavin... Gavin..."
    Le parole con cui spiegarsi, le frasi con cui tenere a bada la punta di quel tagliacarte, gli vennero improvvisamente a mancare.
    "Gavin, ricordi?" fu tutto quello che riuscì a dire.
    Reynolds esitò, lo osservò più attentamente.
    "Stai sudando," commentò e nei suoi occhi si spense la luce minacciosa.
    Gavin aveva la bocca così secca che riuscì soltanto ad annuire.
    "Lo vedo, che stai sudando," ripetè Reynolds.
    Abbassò il coltello.
    "Lui non poteva sudare," disse, "non c'è mai riuscito e non ci potrebbe mai riuscire. Tu sei quel ragazzo... non sei lui. Sei il ragazzo."
    I suoi lineamenti si rilassarono e il suo viso diventò flaccido come un sacchetto quasi vuoto.
    "Ho bisogno di aiuto," implorò Gavin con la voce roca. "Devi dirmi che cosa sta succedendo."
    "Vuoi una spiegazione?" ribatté Reynolds. "Accomodati pure."
    Lo condusse in soggiorno. Le tende erano accostate, ma nonostante l'oscurità Gavin vide che tutti i reperti della collezione erano stati fatti a pezzi. I cocci di vasellame erano stati ridotti in briciole, e le briciole in polvere. I bassorilievi erano stati frantumati, della lapide dell'alfiere Flavino rimaneva un mucchietto di ghiaia.
    "Chi è stato?"
    "Io," rispose Reynolds.
    "Perché?"
    Reynolds attraversò stancamente la stanza disseminata di frammenti e si fermò alla finestra a sbirciare dalla fessura sottile tra le tende di velluto.
    "Tornerà, capisci?" mormorò ignorando la sua domanda.
    Gavin non si diede per vinto. "Perché hai distrutto tutto?"
    "È una malattia," rispose Reynolds, "questo bisogno ossessivo di vivere nel passato."
    Si girò verso di lui.
    "Quasi tutti i pezzi della mia collezione li ho rubati nel corso di molti anni approfittando della posizione di fiducia che mi era stata assegnata."
    Scalciò un coccio un po' più grande sollevando una nuvoletta di polvere.
    "Flavino visse e morì e altro non c'è da raccontare. Conoscere il suo nome non ha alcun significato o quasi. Non serve a restituirlo alla realtà. Dorme in pace il suo sonno eterno."
    "E quella statua nella vasca?"
    Reynolds smise di respirare per qualche secondo, rivedendo con la mente il volto dipinto.
    "Quando sono entrato tu hai creduto che io fossi la tua statua, vero?"
    "Sì. Pensavo che avesse compiuto il suo processo."
    "Imita, vero?"
    Reynolds annuì. "Per quel tanto che riesco a capire di lui, sì, imita il prossimo."
    "Dove l'hai trovato?"
    "Vicino a Carlisle. Dirigevo uno scavo e lo trovammo alle terme. Era una statua raggomitolata accanto ai resti di un maschio adulto. Un vero enigma. Un morto e una statua insieme nella vasca di un bagno termale. Non chiedermi perché mi sono sentito così attratto, non saprei risponderti. Forse ha poteri telepatici. Ho portato via la statua di nascosto e me la sono messa in casa."
    "E l'hai nutrita, vero?"
    Reynolds si irrigidì.
    "Non chiedermelo.''
    "Ma te lo sto chiedendo! Le hai dato da mangiare?"
    "Sì."
    "Avevi intenzione di dissanguarmi, giusto? È per questo che mi hai portato qui, per uccidermi e darmi in pasto a quel mostro..."
    Gavin ricordò come la creatura batteva i pugni sui bordi della vasca reclamando il suo cibo, come un bimbo affamato nel suo lettino. E per poco lui non era stato consumato per le sue esigenze come comune carne da macello.
    "Perché non mi ha aggredito come ha fatto con te? Perché non è balzato fuori della vasca per prendermi?"
    Reynolds si passò il palmo della mano sulla bocca.
    "Ti aveva visto in faccia."
    Ma certo, aveva visto il suo volto perfetto e aveva desiderato essere come lui e siccome non avrebbe potuto replicare il volto di un morto lo aveva risparmiato. La logica del suo comportamento lo affascinò, ora che cominciava a comprenderla, e per un attimo palpitò della stessa passione che animava Reynolds, quella di svelare i misteri.
    "L'uomo delle terme, quello che avete trovato allo scavo..."
    "Sì?"
    "Stava lottando per non fare la stessa fine, vero?"
    "Probabilmente è per questo che il suo corpo non fu portato via. Nessuno aveva capito che era morto lottando contro una creatura che gli stava rubando la vita."
    Il quadro era quasi completo, restava da sfogare la collera.
    Quell'uomo aveva avuto intenzione di assassinarlo per nutrire la statua. Esplose tutto il furore di Gavin. Afferrò Reynolds per la camicia e lo scosse violentemente. Erano le ossa o i denti, a battere così rumorosamente?
    "Ha quasi replicato del tutto la mia faccia." Fissava gli occhi iniettati di sangue di Reynolds. "Che cosa succede quando il processo si completa?"
    "Non lo so."
    "Dimmi anche la parte peggiore, parla!"
    "Posso solo tirare a indovinare."
    "Sentiamo!"
    "Quando la replica fisica è finita, credo che sottragga al suo modello l'unica cosa che non può imitare. L'anima."
    Ora Reynolds non aveva più paura di Gavin. Il tono della voce si era addolcito, quasi che stesse parlando a un condannato a morte. Arrivò addirittura a sorridere.
    "Maledetto!"
    Gavin lo tirò a sé, naso contro naso. Parlò spruzzandogli saliva sulla faccia.
    "Non te ne frega niente! Non te ne sbatte un cazzo, vero?"
    Lo colpì al viso, una, due volte e poi di nuovo e di nuovo ancora, finché non prese ad ansimare.
    Il vecchio si lasciò percuotere in silenzio, offrendogli la faccia dopo ogni colpo per ricevere quello successivo, detergendosi il sangue dagli occhi che si gonfiavano solo perché potessero essere inondati di nuovo.
    Quando finalmente la tempesta di pugni finì, Reynolds, in ginocchio, si tolse pezzetti di dente dalla lingua.
    "Me lo meritavo," mormorò.
    "Come posso fermarlo?" domandò Gavin.
    Reynolds scosse la testa.
    "Impossibile," sussurrò, afferrandogli la mano. "Ti prego," disse, gli aprì il pugno e gli baciò il palmo.
    Gavin abbandonò Reynolds tra le rovine di Roma e scese in strada. Il colloquio con lui non gli aveva detto molto più di quanto avesse già intuito. L'unica cosa che poteva fare ora era trovare il mostro che si era impossessato della sua bellezza e sconfiggerlo. Se avesse fallito, si sarebbe ritrovato spogliato dell'unico tesoro di cui era certo, una faccia perfetta. Le chiacchiere sull'anima erano tutto fiato sprecato, per lui. Voleva solo la sua faccia.
    Attraversò Kensington a passo risoluto. Dopo che per anni era stato vittima delle circostanze vedeva finalmente le circostanze materializzate in qualcosa di concreto. Le avrebbe affrontate e superate, a costo di morire se non ci fosse riuscito.
    Reynolds scostò la tenda per contemplare una luce serale che cadeva su uno scenario urbano.
    Non era una notte che avrebbe vissuto, quella che si approssimava, non era una città di cui avrebbe percorso le strade, quella che vedeva. Lasciò ricadere la tenda e afferrò la tozza spada. Si girò la punta verso il petto.
    "Coraggio," disse a se stesso spingendosi l'arma nel corpo. Ma il dolore che gli provocò la lama quando se l'ebbe conficcata solo per un centimetro bastò a ottenebrargli la mente. Capì che sarebbe svenuto prima di compiere il suo gesto fatale, perciò si avvicino alla parete, vi puntellò contro l'impugnatura e si calò sulla lama con tutto il peso del corpo. Riuscì nel suo intento. Non aveva modo di sapere se la lama lo avesse trafitto da parte a parte, ma a giudicare dalla quantità di sangue era sicuro di essersi ucciso. Si era proposto di girarsi, in maniera da conficcarsi la lama fino all'elsa, cadendovi sopra, ma quando scivolò a terra si ritrovò invece su un fianco. L'impatto gli fece sentire concretamente la presenza della lama nel corpo, spiedo crudele che lo trafiggeva da parte a parte.
    Impiegò più di dieci minuti per morire, ma in quel tempo, dolore a parte, si sentì contento. A dispetto di tutto quello che aveva da rimproverarsi in cinquantasette anni di vita, e non era poco, sentiva che stava morendo in un modo che nemmeno il suo amato Flavino avrebbe disdegnato.
    Verso la fine cominciò a piovere e il rumore sul tetto lo indusse a credere che Dio stesse seppellendo la casa, per sigillarlo per sempre. E quando giunse il momento, fu accompagnato da una splendida visione: gli sembrò che dalla parete affiorasse una mano che portava una luce sull'onda di un coro di voci, fantasmi del futuro venuti a esumare la sua storia. Li accolse con un sorriso e stava per chiedere che anno fosse quando si accorse di essere morto.
    La creatura era assai più abile nell'evitare Gavin di quanto Gavin fosse stato capace di evitare lei. Trascorsero tre giorni senza che Gavin ne trovasse la minima traccia.
    La sua presenza nelle vicinanze, seppure sempre a distanza di sicurezza, era però inequivocabile. In un bar si sentiva dire: "Ieri sera ti ho visto in Edgware Road," quando non si era nemmeno avvicinato a quella zona della città. Oppure: "Com'è andata a finire poi con quell'arabo?" Oppure: "Cos'è, adesso non saluti più gli amici?"
    Andò a finire che cominciò a provarci gusto. L'ansia lasciò il posto a un piacere che non provava più dall'età di due anni: quello della serenità.
    Che gli importava se qualcuno batteva al posto suo, guardandosi da poliziotti e delinquenti? Che gli importava se i suoi amici (ma quali amici? tutte sanguisughe) venivano dissanguati dalla sua sprezzante replica? Che gli importava se quell'essere gli aveva sottratto la vita per portarsela in giro in sua vece? Poteva dormirsela tranquillo sapendo che lui, o qualcosa di tanto simile a lui da non fare differenza, era in giro di notte a farsi adorare. Cominciò a vedere in quella creatura non più un mostro che lo terrorizzava, ma un proprio strumento, quasi la proiezione della propria immagine pubblica. Riconosceva nella statua l'individuo e in se stesso l'ombra.
     
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