Spoglie Umane - pt. III V

di Clive Barker

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  1. Smertefull_Dodskamp
         
     
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    Il giorno dopo il mal di denti era lancinante e verso la metà della mattina andò dal dentista, con l'intenzione di sedurre la ragazza e ottenere l'appuntamento seduta stante. Ma il suo fascino era in fase di stanca e i suoi occhi non scintillavano come al solito. La segretaria del dentista gli comunicò che avrebbe dovuto aspettare fino al prossimo venerdì, a meno che fosse urgentissimo. Lui insistè che lo era, lei rispose che non era vero. Sarebbe stata una giornataccia: mal di denti, una segretaria di dentista lesbica, ghiaccio sulle pozzanghere, donne a spettegolare a ogni angolo di strada, brutti bambini, brutto cielo.
    Fu il giorno in cui ebbe inizio la caccia.
    Era già successo che degli ammiratori gli dessero la caccia, ma mai così, mai in un modo così subdolo, così furtivo. C'erano state persone che lo avevano pedinato per giorni e giorni, da un bar all'altro, di strada in strada, da farlo ammattire con la loro tenacia. Gli era toccato di rivedere la stessa faccia sera dopo sera, lo stesso individuo che con uno sforzo più che visibile trovava il coraggio di offrirgli qualcosa da bere, spingendosi poi a proporgli di tutto, da un orologio a un quantitativo di cocaina, a una settimana in Tunisia. Aveva cominciato a detestare fin da subito quel tipo di adorazione appiccicosa che si guastava più velocemente del latte, dopodiché puzzava da tramortirti. Uno dei suoi più ardenti ammiratori, un attore insignito di un'onorificenza da quanto aveva appurato, non lo aveva mai avvicinato, limitandosi a seguirlo dappertutto e a guardarlo e guardarlo da lontano. Dapprima si era sentito lusingato dalle sue attenzioni, ma il piacere era presto degenerato in irritazione, al punto che una sera lo aveva affrontato in un bar minacciandolo di spaccargli la testa. Era così inferocito quella sera, così stufo di essere divorato dagli occhi di quell'uomo, che probabilmente avrebbe messo in atto una dura rappresaglia se il miserabile bastardo non lo avesse preso sul serio. Non lo aveva più rivisto. Non escludeva che, tornato a casa, si fosse appeso al lampadario.
    Ma la caccia di adesso non era altrettanto palese, era invece poco più di una sensazione. Non aveva alcuna prova tangibile di avere qualcuno alle costole, solo una sensazione di disagio ogni volta che si girava a guardare, l'impressione di qualcuno che si affrettasse a nascondersi, o che per qualche via notturna un passante camminasse alla sua stessa andatura, facendo corrispondere in perfetta sincronia il rumore dei passi ai suoi, persino nelle più piccole esitazioni. Era qualcosa di simile alla paranoia, eppure era convinto di non soffrire di manie di persecuzione. Se così fosse stato, era sicuro che qualcuno glielo avrebbe fatto notare.
    C'erano poi gli incidenti strani. Una mattina la donna dei gatti che viveva al piano di sotto ebbe a chiedergli di passaggio chi fosse il suo visitatore, quel tipo strambo arrivato a tarda ora e rimasto in attesa sulle scale per ore a sorvegliare la sua porta. Gavin invece non aveva avuto visite e non conosceva nessuno che rispondesse alla descrizione di quell'individuo.
    Un'altra volta, in una strada affollata, si era staccato dal flusso dei passanti per infilarsi nell'androne di un negozio vuoto e si stava accendendo una sigaretta quando aveva scorto con la coda dell'occhio un'immagine distorta che si rifletteva nella vetrina impolverata. Il fiammifero gli aveva bruciato il polpastrello e aveva abbassato lo sguardo mentre lo lasciava cadere per terra, ma quando aveva rialzato la testa la folla si era richiusa intorno allo sconosciuto come una marea febbrile.
    Era una brutta sensazione, bruttissima, ed era solo l'inizio.
    Gavin non aveva mai parlato con Preetorius, anche se si scambiavano cenni di saluto per la strada e ciascuno chiedeva dell'altro quando si trovava in compagnia di qualche amicizia comune, quasi che fossero vecchi amici. Preetorius era un nero di un'età imprecisata tra i quarantacinque e il secolo, un protettore vanesio che sosteneva di essere discendente di Napoleone. Da quasi dieci anni sfruttava un giro di donne e tre o quattro ragazzi, grazie ai quali si era assicurato un notevole tenore di vita. Quando aveva cominciato a lavorare, Gavin si era sentito consigliare vivamente di rivolgersi a Preetorius, ma il suo spirito indipendente lo aveva indotto a declinare un aiuto come il suo. Di conseguenza non era mai stato visto di buon occhio da Preetorius e dal suo clan. Ciononostante, dopo che si fu ritagliato il suo posto al sole, nessuno aveva contestato il suo diritto a fare di testa propria. Girava addirittura la voce che Preetorius avesse confessato di provare suo malgrado ammirazione per lui.
    Che lo ammirasse o no, doveva essersi messo a piovere all'inferno il giorno in cui Preetorius ruppe il silenzio e gli rivolse la parola.
    "Ragazzo bianco."
    Erano quasi le undici e Gavin si stava trasferendo da un bar nei pressi di St. Martin's Lane a un locale in Covent Garden. C'era ancora animazione nella via, con un buon numero di potenziali clienti fra coloro che uscivano da teatri e cinematografi, ma era lui quella sera a non averne voglia. Aveva in tasca cento sterline che si era guadagnato il giorno prima e che non era andato a versare in banca. Gli erano più che sufficienti.
    Quando si vide bloccare da Preetorius e dai suoi sgherri variegati, il suo primo pensiero fu: vogliono i miei soldi.
    "Ragazzo bianco."
    Poi riconobbe il volto piatto e lucido del nero. Preetorius non era un rapinatore da strapazzo, non lo era mai stato e mai lo sarebbe diventato.
    "Ragazzo bianco, vorrei fare due chiacchiere con te."
    Preetorius si tolse una noce di tasca, ne ruppe il guscio nel palmo della mano e se la buttò nella grande bocca.
    "Non ti scoccia, vero?"
    "Che cosa vuoi?"
    "Come ho detto, fare due chiacchiere. Non chiedo molto, mi pare."
    "Va bene. Su che cosa?"
    "Non qui."
    Gavin considerò i suoi accompagnatori. Non erano gorilla, perché non sarebbe stato nello stile di Preetorius, ma non erano nemmeno dei gracili fuscelli. Nel complesso, la situazione non era delle più brillanti.
    "Grazie, ma no, grazie," rispose Gavin incamminandosi, con l'intenzione di allontanarsi dal terzetto a un'andatura il più possibile disinvolta e regolare. Lo seguirono. Lui pregò che così non fosse, ma loro io seguirono. Preetorius parlò alla sua schiena.
    "Ascolta. Ho sentito cose brutte sul tuo conto," lo informò.
    "Ah, sì?"
    "Ho paura di sì. Mi dicono che hai aggredito uno dei miei ragazzi."
    Gavin fece altri sei passi prima di rispondere. "Non io. Hai sbagliato indirizzo."
    "Ti ha riconosciuto, belloccio. Gli hai giocato un tiro poco simpatico."
    "Ripeto, non sono stato io."
    "Sei uno squilibrato, lo sai? Farebbero bene a metterti in gabbia."
    Preetorius stava alzando la voce. Alcune persone attraversavano la strada per tenersi alla larga da un'eventuale rissa.
    Senza pensare, Gavin svoltò in Long Acre e non impiegò molto a rendersi conto di aver commesso un errore tattico. Lì c'era molta meno gente e avrebbe avuto un lungo tragitto da percorrere nelle vie di Covent Garden prima di raggiungere un altro centro di attività notturne. Avrebbe dovuto svoltare a destra e non a sinistra, così si sarebbe trovato in Charing Cross Road, dove sarebbe stato al sicuro. Maledizione, non poteva tornare sui suoi passi andando a sbattergli contro, perciò non gli restava che continuare a camminare senza correre, mai correre quando si ha un cane inferocito alle calcagna, sperando di mantenere la conversazione a un livello pacifico.
    "Mi sei costato un mucchio di soldi," lo accusò Preetorius.
    "Non capisco."
    "Hai messo fuori combattimento uno dei miei ragazzi più richiesti sulla piazza. E ci vorrà un bel pezzo prima che rientri in circolazione. Se la fa sotto, capisci?"
    "Senti, io non ho fatto niente a nessuno."
    "Perché cazzo cerchi di mentire a me, belloccio? Che cosa ti ho mai fatto per essere trattato così?"
    Preetorius allungò leggermente il passo e si portò al suo fianco, lasciando indietro i suoi due angeli custodi.
    "Guarda," bisbigliò a Gavin, "un ragazzo come quello può anche far gola qualche volta, giusto? Mi sta bene. Lo capisco anch'io. Me ne servi uno di quelli ghiotti come lui e non sarò certo io a storcere il naso. Ma tu gli hai fatto male e quando tu fai male a uno dei miei ragazzi sanguino anch'io."
    "Se avessi fatto veramente quello che dici, credi che me andrei in giro tranquillamente per le strade di notte?"
    "Ma forse non stai molto bene nella testa, sai? Qui non stiamo parlando di un paio di lividi, belloccio. Sto parlando di te che ti fai una doccia con il sangue di un ragazzo, ecco di che cosa parlo. Di appendere uno dei miei ragazzi e tagliuzzarlo dappertutto e poi lasciarmelo sulle scale di casa con solo un paio di calzini addosso, maledizione. Faccio breccia nel tuo cervellino, ragazzo bianco?"
    Descrivendo i suoi presunti crimini, Preetorius si era cupamente infervorato e Gavin non sapeva bene come destreggiarsi. Continuò a camminare in silenzio.
    "Per quel ragazzo tu eri un idolo, sai? Ti considerava un esempio fondamentale per un giovane che aspirasse a fare la vita. Che te ne pare?"
    "Non mi commuove più di tanto."
    "Dovresti esserne lusingato, invece, perché più di questo nella vita non farai."
    "Grazie."
    "La tua è stata una carriera brillante. Peccato che sia finita."
    Gavin si sentì un blocco di ghiaccio nel ventre. Aveva sperato che Preetorius si accontentasse di un avvertimento, ma apparentemente si era sbagliato, lui e i suoi avevano intenzione di punirlo e, Gesù, gli avrebbero fatto male sul serio, per qualcosa che non aveva mai fatto, per giunta, qualcosa di cui non sapeva assolutamente niente.
    "Ti toglieremo dalla strada, ragazzo bianco. Per sempre."
    "Io non ho fatto niente."
    "Il ragazzo ti ha riconosciuto, anche con quella calza sulla testa. La voce era la stessa, i vestiti erano i tuoi. Rassegnati, sei stato riconosciuto. Adesso subiscine le conseguenze," disse Preetorius.
    "Vaffanculo."
    Gavin partì di corsa. A diciotto anni aveva gareggiato come velocista per la sua contea e adesso faceva appello al suo talento di corridore di quei tempi. Preetorius rise (quel simpaticone!) mentre alle sue spalle cominciava di scatto un duplice scalpiccio. Si stavano avvicinando e lui era in pessime condizioni fisiche. Le cosce presero a fargli male dopo i primi pochi metri e i jeans che indossava erano troppo stretti per permettergli di correre agevolmente. L'inseguimento terminò appena cominciato.
    "Non ti ho detto che potevi andartene," lo rimproverò lo sgherro bianco, affondandogli le dita nei bicipiti.
    "Lodevole," fu il commento di Preetorius quando raggiunse i cani e la lepre ansimante. Sorridendo, annuì quasi impercettibilmente rivolgendosi all'altro sgherro.
    "Christian?"
    Al suo implicito invito, Christian mollò un cazzotto alle reni di Gavin.
    La durezza del colpo lo costrinse a piegarsi in due vomitando imprecazioni.
    Christian disse: "Là dentro." Preetorius aggiunse: "E senza perdere tempo." E all'improvviso lo stavano trascinando in un vicolo, dove l'illuminazione era scarsa. Prima che gli fosse permesso di rialzarsi con un gemito, si ritrovò con la camicia e la giacca strappate e le preziose scarpe graffiate dalle irregolarità della pavimentazione. Era buio e gli occhi di Preetorius erano come sospesi nell'aria davanti a lui.
    "Eccoci di nuovo," gli disse. "Felici e contenti."
    "Io... non l'ho mai nemmeno toccato," balbettò Gavin.
    Il tirapiedi senza nome, quello che non era Christian, lo spinse con una mano grossa come un prosciutto mandandolo a finire contro il muro che chiudeva il vicolo. Scivolò in uno strato di fango e non riuscì a reggersi sulle gambe improvvisamente liquefatte. Aveva perso anche tutto l'amor proprio, non era il momento adatto per mostrarsi coraggioso, avrebbe pregato, implorato, si sarebbe buttato in ginocchio e gli avrebbe leccato i piedi, se necessario, qualsiasi cosa per impedire che lo rovinassero. Qualsiasi cosa purché non lo sfigurassero.
    Era quello il passatempo preferito di Preetorius, o almeno così si diceva in giro: apporre la propria firma alla bellezza altrui. In questo era un vero artista, capace di segnare irreparabilmente la sua vittima con tre rapidi colpi di rasoio, regalandogli poi le labbra da tenere in tasca come souvenir.
    Gavin venne avanti barcollando, schiaffeggiando rumorosamente i palmi sul fondo bagnato. Qualcosa di putrido schizzò fuori da una buccia che schiacciò involontariamente.
    Quello che non si chiamava Christian scambiò un sogghigno con Preetorius.
    "Non è un godere?" commentò.
    Preetorius stava schiacciando una noce. "Mi sembra che abbia finalmente trovato il suo posto nel mondo."
    "Io non l'ho toccato," gemette Gavin. Non poteva far altro che negare e continuare a negare e anche così sapeva che la sua era una causa persa.
    "Sei solo un maiale," disse quello che non si chiamava Christian.
    "Ti supplico!"
    "Vorrei veramente chiudere questa questione al più presto," dichiarò Preetorius guardando l'orologio. "Ho degli appuntamenti, ci sono delle persone che non posso far aspettare."
    Gavin alzò gli occhi sul terzetto. La strada illuminata era a venticinque metri, se solo fosse riuscito a infilarsi fra di loro cogliendoli alla sprovvista.
    "Lascia che ti cambi un po' i connotati. Faremo diventare di moda un nuovo tipo di bellezza."
    Preetorius aveva estratto un coltello. Quello che non si chiamava Christian si era tolto di tasca una corda con appesa una palla. La palla te la mettevano in bocca, e la corda intorno alla testa, dopodiché non avresti più potuto gridare a costo della vita. Era il momento.
    Via!
    Gavin partì dalla posizione in cui si trovava come uno scattista dai blocchi di partenza, ma il fondo viscido gli fece mancare la presa sotto la suola delle scarpe e perse l'equilibrio. Invece di spiccare il balzo fatidico grazie al quale li avrebbe superati correndo verso la salvezza, piombò addosso a Christian facendolo cadere per terra e cascando sopra di lui.
    Ci fu un affannato trambusto prima che intervenisse Preetorius a sporcarsi le mani con la sua vittima, issandolo in piedi.
    "Niente da fare, belloccio," lo apostrofò premendogli la punta della lama contro il mento. In quel punto l'osso era più vicino alla pelle e Preetorius cominciò a tagliare senz'altro, risalendo lungo la mascella, senza preoccuparsi che non fosse stato imbavagliato. Gavin si mise a urlare sentendo il sangue che gli scendeva sul collo, ma fu subito zittito dalle dita grasse di una mano che gli afferrò la lingua.
    Il cuore cominciò a battergli forte nelle tempie e, una dopo l'altra, davanti a lui si aprirono innumerevoli finestre, nelle quali precipitò verso l'incoscienza.
    Meglio morire. Meglio morire. Gli avevano rovinato la faccia. Era meglio morire.
    Poi si ritrovò a urlare di nuovo, anche se non era consapevole di farlo. Cercò di concentrarsi sulla voce che stava sentendo nello scroscio che gli riempiva le orecchie e allora si rese conto che a gridare era Preetorius e non lui.
    Gli avevano liberato la lingua e non poté dominare uno spontaneo conato di vomito. Indietreggiò vacillando e vomitando, staccandosi da un groviglio di forme che lottavano nel vicolo. Era arrivato qualcuno, uno sconosciuto si era intromesso salvando il suo bel volto. Per terra c'era un corpo, a faccia in su. Era quello che non si chiamava Christian, con gli occhi aperti, privo di vita. Dio: qualcuno aveva ucciso per lui. Per lui!
    Si tastò cautamente la faccia per constatare i danni subiti. Aveva una lacerazione profonda lungo la linea del mento, fino a un centimetro dall'orecchio. Era un brutto taglio, ma Preetorius, maniaco della programmazione, si era riservato per ultimo il piacere più grande ed era stato interrotto prima che avesse il tempo di squarciargli le narici o recidergli le labbra. Una cicatrice lungo la linea del mento non era niente di cui vantarsi, ma non era nemmeno un disastro.
    Dal groviglio si era staccato qualcuno che gli si stava avvicinando. Era Preetorius con il viso bagnato di lacrime e gli occhi grandi come palle da golf.
    Dietro di lui Christian si dirigeva verso la strada barcollando, con le braccia rese inservibili.
    Preetorius non lo seguiva. Come mai?
    Aprì la bocca. Dal labbro inferiore gli discese un filamento elastico di saliva imperlata.
    "Aiuto," invocò come se la sua vita fosse nelle mani di Gavin. Una mano grande si alzò a spremere una goccia di misericordia dal cielo, ma all'improvviso da dietro di lui sbucò un altro braccio appena sopra la spalla a conficcargli nella bocca la rozza lama di un coltello. La gola di Preetorius tentò in un disperato gargarismo di dar spazio al corpo estraneo, ma passò solo un momento prima che l'aggressore sollevasse bruscamente la lama tenendolo per il collo affinchè assorbisse per intero la forza del colpo. Il volto sbigottito del nero si spaccò in due e un'onda di calore proruppe dal suo interno investendo Gavin in una nuvola.
    L'arma cadde per terra in un sordo tintinnio. Gavin gli diede un'occhiata. Era una spada corta e con la lama larga. Tornò subito a guardare il morto.
    Preetorius era in piedi davanti a lui, ormai sorretto solo dal braccio del suo giustiziere. Quando la sua testa squarciata ricadde in avanti, l'aggressore lo prese come un segno di resa e lasciò che si accartocciasse ai piedi di Gavin. Ora che finalmente non c'era più l'ostacolo di Preetorius, Gavin poté vedere in faccia il suo salvatore.
    Gli ci volle solo un istante per riconoscere i rudimentali lineamenti di quel volto, gli occhi sbarrati e privi di vita, il solco al posto della bocca, le orecchie a manico. Era la statua di Reynolds. Sorrideva con denti troppo piccoli per una testa così grande. Denti da latte, erano i suoi, ancora tutti da cambiare. C'era tuttavia qualche miglioramento nell'aspetto generale. La fronte si era incurvata in una linea più naturale e nell'insieme la faccia appariva meglio proporzionata, nonostante la luce scarsa. Era sempre una bambola dipinta, ma era una bambola con qualche aspirazione.
    La statua si esibì in un inchino un po' anchilosato, con un distinguibile scricchiolio di articolazioni, e solo allora Gavin fu colpito dall'assoluta assurdità della situazione. Era una statua che si inchinava, dannazione, sorrideva, assassinava la gente. Ma come poteva essere viva? In seguito avrebbe negato che fosse successo. Promise a se stesso che in seguito avrebbe trovato mille ragioni per non accettare la realtà che aveva davanti agli occhi. Ne avrebbe incolpato il cervello esangue, la confusione, il panico. In un modo o nell'altro si sarebbe convinto che era stata solo una visione fantastica e sarebbe stato come se non fosse mai successo.
    Se fosse riuscito a sopportarla per qualche minuto ancora.
    La visione allungò la mano e gli toccò il volto, delicatamente, passando le dita tozze sulla ferita provocatagli da Preetorius. Un anello che portava al mignolo mandò un riflesso di luce. Era identico al suo.
    "Avremo una cicatrice," disse.
    Gavin riconobbe la voce.
    "Povero me, che peccato," seguitò la statua. Parlava con la sua voce. "Comunque, sarebbe potuta andarci peggio."
    La sua voce. Dio, era la sua, la sua, la sua.
    Gavin scosse la testa.
    "Sì," confermò la statua, intuendo che aveva capito.
    "No."
    "Sì."
    "Perché?"
    La statua staccò le dita dal volto di Gavin per toccarsi il proprio, ripercorrendo la stessa linea lungo la quale avrebbe dovuto avere una ferita anche lui e così facendo sotto le sue dita la superficie si aprì, trasformandosi immediatamente in cicatrice, senza sanguinare, però. Perché la statua non aveva sangue.
    Eppure quel volto che non era il suo, nella linea della fronte e nella profondità dello sguardo, non era forse vero che stava assumendo le sue sembianze in ogni particolare, persino nel nuovo, seducente disegno della bocca?
    "Il ragazzo?" domandò Gavin, cominciando a congiungere i tasselli.
    "Ah, quel ragazzo..." La statua rivolse il suo sguardo ancora incompleto al cielo. "Che tesoro era. E come abbaiava," concluse.
    "L'hai lavato nel sangue?"
    "Ne ho bisogno." Si inginocchiò sul corpo di Preetorius e gli infilò le dita nello squarcio del cranio. "Questo sangue è vecchio, ma mi accontento.
    Quello del ragazzo era migliore."
    Si pitturò le guance con il sangue di Preetorius, come segnandosi con i colori di guerra. Gavin non seppe nascondere il suo disgusto.
    "È una perdita così grave?" domandò l'effigie.
    La risposta era negativa, naturalmente, non era affatto una perdita, la morte di Preetorius, né valeva la pena versare lacrime se un implume pompinaro drogato aveva ceduto un po' del suo sangue e del suo sonno perché quel miracolo di legno ne aveva bisogno per crescere. O
     
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