Spoglie Umane - pt. II V

di Clive Barker

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  1. Smertefull_Dodskamp
         
     
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    Fu così facile che quasi gli fece dimenticare il brutto episodio nel foyer dell'Imperiai. Era un uomo sui cinquantacinque, molto ben messo: scarpe di Gucci, cappotto elegantissimo. In poche parole, qualità superiore.
    Gavin era appostato sulla soglia di un cinemino culturale e stava controllando l'orario delle proiezioni di un film di Truffaut quando si accorse di essere osservato. Diede un'occhiata al suo candidato per assicurarsi che fosse davvero un pesce che stava per abboccare all'amo, ma lo sguardo diretto parve scoraggiare il presunto cliente, che si incamminò. Subito dopo sembrò cambiare idea, borbottò qualcosa fra sé e tornò indietro, manifestando un interesse palesemente falso per l'orario del cinema. Non aveva dimestichezza con quel genere di gioco, ne dedusse Gavin; era un novizio.
    Gavin si accese una sigaretta e il chiarore della fiammella nelle mani a coppa gli indorò gli zigomi. Era una mossa che aveva ripetuto mille volte, spesso anche davanti allo specchio per proprio piacere. Alzava gli occhi dalla fiammella prima di spegnerla e andava regolarmente a segno con quel piccolo trucco. Quando incontrò lo sguardo nervoso dell'altro, questa volta non ci furono ripensamenti.
    Tirò una boccata, spense il fiammifero agitandolo e lo lasciò cadere per terra. Erano mesi che non ne adescava uno in quel modo, ed era contento di scoprire che non aveva ancora perso l'estro. Il suo modo infallibile di riconoscere un potenziale cliente, la maniera di sottintendere l'offerta nel gioco degli occhi e delle labbra, non lasciavano trapelare nulla che non potesse essere trasformato in innocente predisposizione all'amicizia nel caso avesse commesso un errore.
    Ma non si sbagliava, il suo cliente era autentico. I suoi occhi erano incollati su di lui, così frementi di passione da sembrare in pena. Aveva la bocca aperta, come se all'ultimo momento le parole con cui aveva inteso esordire lo avessero tradito. Un viso che aveva poco da dire, ma era tutt'altro che brutto. Mostrava i segni di abbronzature troppo frequenti e troppo veloci, forse per essere vissuto all'estero. Presumeva che fosse inglese, come lasciava intendere il suo approccio titubante.
    Contro le sue abitudini, fu Gavin a prendere l'iniziativa.
    "Le piace il cinema francese?"
    L'altro parve liberare un muto sospiro di ringraziamento per aver rotto il silenzio.
    "Sì," rispose.
    "Entra?"
    L'uomo piegò la bocca all'ingiù.
    "Non... non credo."
    "Fa un po' freddo..."
    "Sì, è vero."
    "Fa un po' freddo per restarsene in giro, voleva dire."
    "Ah, certo."
    Finalmente abboccò.
    "Forse... le va di bere qualcosa?"
    Gavin sorrise.
    "Perché no?"
    "Io abito qui vicino."
    "Benissimo."
    "Mi stavo annoiando a casa, sa?"
    "So bene come va, certe sere."
    Ora fu l'altro a sorridere. "Lei è...?"
    "Gavin."
    L'uomo gli porse la mano in un guanto di pelle. Molto formale, come per un incontro d'affari. La stretta era forte, non conservava traccia delle sue precedenti esitazioni.
    "Io sono Kenneth," si presentò. "Ken Reynolds."
    "Ken."
    "Vogliamo andare al calduccio?"
    "Sicuro."
    "Sono a pochi passi da qui."
    Quando Reynolds aprì la porta della sua abitazione furono investiti da una folata di aria viziata dal riscaldamento centralizzato. Dover fare a piedi le tre rampe di scale fino al suo piano aveva accorciato il fiato a Gavin, ma non aveva per nulla rallentato Reynolds. Forse era un patito salutista. Occupazione? Qualcosa in centro. Lo deduceva dalla stretta di mano, dai guanti di pelle. Forse un impiegato statale.
    "Accomodati, entra."
    C'era odore di soldi. Sotto i piedi, la moquette era folta, smorzava totalmente il rumore dei loro passi. L'anticamera era quasi spoglia: un calendario alla parete, un tavolino con il telefono, una pila di elenchi di abbonati, un attaccapanni.
    "Qui fa più caldo."
    Reynolds si stava sfilando il cappotto. Lo appese all'attaccapanni. Tenne i guanti mentre accompagnava Gavin per i pochi metri del corridoio in una stanza spaziosa.
    "Dammi la giacca," disse.
    "Ah, certo."
    Gavin si tolse la giacca e Reynolds tornò in anticamera. Quando rientrò si stava sfilando i guanti. Una patina di sudore gli rendeva il compito difficile. Era ancora nervoso, anche se adesso era a casa sua. Di solito cominciavano a calmarsi dopo che si erano chiusi a chiave una porta alle spalle, ma costui era diverso, sembrava un catalogo di tic nervosi.
    "Ti verso qualcosa da bere?"
    "Volentieri."
    "Che veleno usi?"
    "Vodka."
    "Benissimo. Ci metti dentro niente?"
    "Giusto un goccio d'acqua."
    "Un purista, eh?"
    Gavin non capì molto bene la battuta.
    "Sì," rispose.
    "Allora andiamo d'accordo. Concedimi un secondo. Vado a prendere del
    ghiaccio."
    "Nessun problema."
    Reynolds l'asciò cadere i guanti su una sedia vicino alla porta e lo lasciò solo in soggiorno. Anche lì, come in anticamera, il caldo era quasi soffocante, ma l'ambiente non aveva niente di casalingo o accogliente. Quale che fosse la sua professione, Reynolds era un collezionista. La stanza era dominata da oggetti d'antiquariato, fissati alle pareti o allineati sugli scaffali. C'erano pochissimi mobili e quelli che c'erano sembravano strani: le vecchie sedie in tubolare d'acciaio apparivano fuori luogo in un'abitazione così pretenziosa. Forse era un docente universitario o un curatore di musei, un accademico di qualche genere. Quello non era il soggiorno di un agente di borsa.
    Gavin non sapeva niente di arte e meno ancora di storia, perciò tutti quegli oggetti avevano scarso significato per lui, ma andò lo stesso a esaminarli da vicino, giusto per dar segno di buona volontà. Era inevitabile che il suo anfitrione gli domandasse che cosa ne pensava. Gli oggetti sugli scaffali non gli sembrarono un gran che, nient'altro che pezzi di vasellame e sculture, nessun oggetto intero, solo cocci e frammenti. Su alcuni restava qualche traccia di un disegno, con i colori quasi del tutto sbiaditi dal tempo. In alcune delle sculture si riconoscevano figurine umane: un pezzo di busto, un piede (con tutte le cinque dita), una faccia quasi del tutto sbriciolata, né maschile né femminile. Gavin soffocò uno sbadiglio. Il caldo, i reperti da museo e il pensiero del sesso gli davano sonnolenza.
    Rivolse la sua svogliata attenzione agli oggetti appesi alle pareti. Erano più interessanti di quelli sugli scaffali, ma anche in quel caso tutt'altro che completi. Non capiva perché qualcuno dovesse provare piacere a contemplare tutti quei rottami. Che cos'avevano di tanto affascinante? I bassorilievi in pietra montati sulla parete erano butterati ed erosi, cosicché sembrava che le figurine avessero la lebbra e delle iscrizioni in latino non si riusciva a decifrare neanche una lettera. Non c'era niente di bello in quegli oggetti. Erano tutti troppo rovinati. Per qualche motivo lo facevano sentire sporco, come se il loro stato fosse contagioso.
    Solo uno dei reperti suscitò il suo interesse, una lapide, o comunque una pietra che a lui sembrava una lapide, più grande degli altri e in condizioni lievemente migliori. Un uomo a cavallo, armato di spada, incombeva sul nemico decapitato. Sotto l'immagine c'erano poche parole in latino. Le zampe anteriori del cavallo erano state spezzate e le colonne che facevano da cornice erano state duramente intaccate dagli anni, ma per il resto almeno si capiva qualcosa. C'era persino qualche traccia di personalità nel volto rudimentale del cavaliere, un naso lungo, bocca ampia, tratti distinguibili di un individuo.
    Gavin fece per toccare l'iscrizione, ma ritrasse la mano quando sentì entrare Reynolds.
    "No, ti prego, non aver paura di toccarla," si sentì dire. "È lì per dare piacere. Tocca pure."
    Ora che era stato invitato a toccare il bassorilievo, sentì venir meno il desiderio di farlo. Era imbarazzato per essere stato sorpreso nell'atto di farlo.
    "Coraggio," insistè Reynolds.
    Gavin toccò la lapide. La pietra era fredda, grumolosa sotto i polpastrelli.
    "È romana," lo informò Reynolds.
    "Una lapide?"
    "Sì. Trovata vicino a Newcastle."
    "Chi era?"
    "Si chiamava Flavino. Era un alfiere reggimentale."
    In effetti, quella che Gavin aveva scambiato per una spada, osservata più attentamente, era uno stendardo. Terminava in un motivo quasi completamente scomparso, forse un'ape, o un fiore, o una ruota.
    "Ma sei archeologo?"
    "Fa parte della mia attività. Svolgo ricerche presso gli scavi, ogni tanto li dirigo, ma il più delle volte restauro i reperti."
    "Come questi?"
    "L'epoca romana in Gran Bretagna è la mia passione personale."
    Posò i bicchieri e si avvicinò agli scaffali con i cocci.
    "Questi sono pezzi che ho collezionato in tanti anni di attività. Non ho mai smesso di provare una speciale emozione nel maneggiare oggetti che non hanno visto la luce del sole per molti secoli. E come tuffarsi nella storia. Capisci che cosa intendo dire?"
    "Sì."
    Reynolds prese un frammento di vaso.
    "Naturalmente i reperti migliori finiscono nelle collezioni più importanti, ma con un po' di astuzia qualche pezzetto si riesce a conservare. Hanno avuto un'influenza incredibile, i romani. Erano ingegneri civili, costruttori di strade e di ponti ineguagliabili."
    Reynolds scoppiò improvvisamente a ridere, dando sfogo al suo entusiasmo.
    "Oh, diavolo," sbottò, "eccomi a tenere di nuovo conferenze, scusami. Mi sono lasciato trasportare."
    Ripose il coccio nella sua nicchia sullo scaffale e tornò ai bicchieri, nei quali versò da bere. Volgendo la schiena a Gavin, trovò il coraggio di domandare: "Sei caro?"
    Gavin esitò. Il padrone di casa gli stava trasmettendo il suo nervosismo e l'improvviso spostamento del tema della conversazione dall'epoca della dominazione romana al prezzo di un pompino lo aveva messo momentaneamente allo sbando.
    "Dipende," tergiversò.
    "Ah..." fece Reynolds, ancora occupato con i bicchieri, "vuoi dire che tutto dipende dalla natura precisa delle mie, ehm, richieste."
    "Infatti."
    "Si capisce."
    Si voltò e consegnò a Gavin una solida razione di vodka. Senza ghiaccio.
    "Non ho esigenze particolari," disse.
    "Non sono a buon mercato."
    "Su questo non ho dubbi," ribattè Reynolds cercando di sorridere, ma riuscendoci solo per pochi secondi, "e sono disposto a pagarti bene. Puoi trattenerti per tutta la notte?"
    "Ti farebbe piacere?"
    Reynolds corrugò la fronte guardando nel proprio bicchiere. "Sì."
    "Allora posso."
    L'umore del suo anfitrione parve cambiare all'improvviso e all'indecisione subentrò l'euforia della sicurezza.
    "Salute," esclamò, facendo tintinnare il suo bicchiere di whisky contro quello di Gavin. "All'amore e alla vita e a tutto ciò per cui vale la pena pagare qualcosa."
    Il doppio senso del suo brindisi non sfuggì a Gavin: il suo cliente era evidentemente in grave disagio per ciò che stava facendo.
    "Salute," concordò Gavin e bevve un sorso di vodka.
    Dopodiché i bicchieri si susseguirono velocemente e alla terza vodka Gavin cominciò a sentirsi rilassato come non gli capitava da molto tempo, contento di ascoltare con un solo orecchio le chiàcchiere di Reynolds sugli scavi e le glorie dell'antica Roma. La sua mente vagava in una bolla di serenità. Ovviamente avrebbe trascorso lì la notte, almeno fino alle prime ore dell'indomani, perciò perché non bersi la vodka del suo cliente e godersi l'esperienza per tutto quello che aveva da offrirgli? Più tardi, probabilmente molto più tardi a giudicare dal fervore con cui Reynolds si era lanciato nei suoi racconti, ci sarebbe stato un momento di sesso, reso goffo dalle libagioni, nella penombra di qualche altra stanza, e tutto si sarebbe concluso. Non era la prima volta che gli capitavano clienti così. Erano persone sole, forse in un intervallo tra una storia d'amore finita e una ancora da cominciare, solitamente facili da accontentare. Quell'uomo non stava comperando sesso, bensì compagnia. Un altro corpo umano con cui condividere per un po' il suo spazio vitale. Un modo facile di guadagnare qualche soldo.
    Poi ci fu il rumore.
    Inizialmente Gavin pensò che quel battito fosse nella sua testa, ma poi Reynolds si alzò con una smorfia dipinta sulla bocca. L'aria di benessere era scomparsa.
    "Che cosa è stato?" chiese Gavin, alzandosi a sua volta e provando una lieve vertigine per aver bevuto un po' troppo.
    "Niente," rispose Reynolds, spingendolo sulle spalle perché tornasse a sedersi. "Resta qui..."
    Il rumore si intensificò. Un suonatore di tamburo in un forno che batteva la sua pelle mentre cuoceva.
    "Ti prego, aspettami qui un istante, per piacere, è solo qualcuno di sopra."
    Mentiva, perché il rumore non veniva dal piano di sopra, ma da qualche altro locale dell'appartamento. Era un battere ritmico, che accelerava e rallentava e accelerava di nuovo.
    "Serviti da bere," lo esortò Reynolds sulla soglia, con il volto accaldato. "Questi stupidi vicini..."
    I richiami, perché non potevano essere altro, stavano già smettendo.
    "Solo un momento," promise Reynolds chiudendosi la porta alle spalle.
    Gavin si era trovato altre volte in situazioni delicate, sorpreso con un cliente da un partner inferocito, sollecitato a subire violenze dietro compenso in denaro, coinvolto nell'inaspettata crisi di vergogna di un cliente che per sfogare il suo senso di colpa aveva distrutto una camera d'albergo. Erano cose che succedevano. Ma Reynolds era diverso, non c'era stato niente in lui che potesse far sospettare sgradevoli colpi di scena. Nelle retrovie della mente, sotto sotto, Gavin cercava di ricordare a se stesso che anche negli altri casi le persone con cui si trovava erano sembrate del tutto normali.
    Ma poi decise di scacciare tutti quei dubbi. Se avesse cominciato a star sulle spine ogni volta che accettava l'invito di uno sconosciuto, presto avrebbe dovuto chiudere baracca e burattini. Arrivava sempre un punto oltre il quale doveva affidarsi alla fortuna e al suo istinto e l'istinto gli diceva che Reynolds non era tipo da colpi di testa improvvisi.
    Scolò il bicchiere, si versò dell'altra vodka e aspettò.
    Il rumore era cessato del tutto, inducendolo a ricostruire la situazione con maggior ottimismo: forse era davvero l'inquilino del piano di sopra e del resto non sentiva Reynolds muoversi per l'appartamento.
    Il suo sguardo vagò per il soggiorno in cerca di qualcosa con cui occupare la mente e si posò di nuovo sulla lapide montata alla parete.
    Flavino il portainsegna.
    Riconosceva qualcosa di gratificante nell'idea di far incidere sulla pietra le proprie sembianze, per quanto approssimative, con cui segnare il luogo di sepoltura delle proprie spoglie mortali, anche se poi fosse arrivato qualche storico a separare la pietra dalle ossa. Suo padre aveva insistito per essere sepolto e non cremato: altrimenti, ripeteva, come ci si sarebbe potuti ricordare di lui? Chi sarebbe mai andato a piangere davanti a un'urna infilata in un muro? Ironia vuole che nessuno si recasse mai nemmeno davanti alla sua tomba. Da quando era morto, Gavin era andato a rendergli omaggio sì e no due volte, sostando davanti a una semplice lapide con un nome, una data e poche parole retoriche. Non ricordava nemmeno più in che anno suo padre era morto.
    Invece la gente si ricordava ancora di Flavino, persone che non avevano mai conosciuto né lui né la vita che aveva condotto lo conoscevano ora. Gavin si alzò per andare a toccare il nome dell'alfiere, quel FLAVINVS inciso nella pietra come seconda parola dell'iscrizione.
    All'improvviso il rumore ricominciò, più frenetico di prima. Gavin si girò a guardare la porta, aspettandosi di veder apparire Reynolds con qualche parola di spiegazione. Non c'era nessuno.
    "Dannazione."
    Il ritmo continuava insistente. Qualcuno era molto in collera e questa volta non aveva modo di ingannarsi, si sentiva perfettamente che il battitore era a pochi metri da lui, su quel piano. Non seppe resistere alle lusinghe della curiosità, svuotò il bicchiere e uscì in corridoio. Il rumore cessò nel momento in cui si richiuse la porta alle spalle.
    "Ken?" chiamò a voce bassa, tanto che il nome gli morì sulle labbra.
    Era immerso nell'oscurità. Solo in fondo al corridoio c'era un chiarore
    proveniente forse da un'altra porta aperta. Trovò un interruttore alla sua sinistra, ma non funzionava.
    "Ken?" chiamò di nuovo.
    Questa volta ottenne una risposta. Fu un gemito, accompagnato dal fruscio di un corpo che rotolava o veniva fatto rotolare. Era accaduto un incidente a Reynolds? Gesù, forse era a pochi passi da lui bisognoso d'aiuto, ma allora perché le sue gambe si rifiutavano di muoversi? Sentiva nei testicoli il formicolio che puntualmente tradiva uno stato di nervosa anticipazione e gli ricordava quando da bambino giocava a nascondino. L'emozione della caccia era la stessa, non priva di piacere.
    Ma a parte il piacere, avrebbe potuto forse andarsene senza sapere che cos'era stato del suo cliente? Si sentì obbligato ad andare in fondo al corridoio.
    La prima porta era socchiusa. La spinse e si affacciò in una stanza piena di libri che era una combinazione fra studio e camera da letto. La luce che entrava dalla strada attraverso la finestra priva di tende gli rivelò una scrivania sopraffatta dal disordine. Ma non c'era nessuno, né Reynolds, né altri. Più sicuro di sé, ora che aveva compiuto la prima mossa, Gavin continuò la sua esplorazione del corridoio. Anche la porta successiva era aperta ed era quella della cucina. All'interno non brillavano luci. Sentì il sudore che cominciava a inumidirgli le mani. Ricordò Reynolds che faticava a sfiiarsi i guanti, incollati alla pelle. Che cosa lo turbava tanto? Non poteva essere solo la sua avventura erotica: in quella casa c'era qualcun altro, qualcuno animato da un temperamento violento.
    Si sentì ribaltare lo stomaco quando il suo sguardo trovò l'impronta della mano sulla porta. Era sangue.
    La sospinse, ma gli oppose resistenza. Qualcosa la tratteneva dall'altra parte. Si infilò nello stretto pertugio ed entrò in cucina. L'aria era avvelenata da una pattumiera che Reynolds non aveva svuotato o da scorte di verdure andate a male. Passò la mano sulla parete e trovò l'interruttore. Con qualche spasimo si accese un tubo fluorescente.
    Da dietro la porta vide spuntare le scarpe di Gucci. Gavin spinse con più energia e Reynolds rotolò fuori del suo nascondiglio. Era evidentemente strisciato dietro la porta in cerca di rifugio e nella maniera in cui stava raggomitolato aveva qualcosa dell'animale picchiato. Quando Gavin lo toccò, rabbrividì.
    "È tutto a posto... sono io." Gavin staccò dal suo volto una mano insanguinata. Aveva un taglio profondo che gli scendeva dalla tempia fino al
    mento e un altro, parallelo ma non altrettanto grave, che gli attraversava parte della fronte fino al naso, quasi che fosse stato ferito dai due rebbi di un forchettone.
    Aprì gli occhi. Impiegò qualche secondo per riconoscere Gavin.
    "Vai via," mormorò.
    "Sei ferito."
    "Per l'amor del cielo, vattene. Fai presto. Ho cambiato idea, capito?"
    "Chiamo la polizia."
    Con impeto, Reynolds quasi ringhiò: "Vattene via, lurido pompinaro fottuto!"
    Gavin si rialzò incapace di raccapezzarsi. Evidentemente il dolore lo rendeva aggressivo. Che cosa doveva fare? Ignorare i suoi insulti e trovare qualcosa con cui medicargli la ferita. Sì, medicargli la ferita e andarsene abbandonandolo al suo destino. Se non voleva la polizia fra i piedi erano affari suoi. Probabilmente non voleva dover spiegare la presenza di un ragazzo di strada fra i suoi preziosi reperti antichi.
    "Lascia che ti trovi qualcosa per medicarti..."
    Uscì in corridoio.
    Da dietro la porta della cucina Reynolds disse: "Lascia stare," ma il pompinaro non lo udì. Non avrebbe fatto alcuna differenza in ogni modo, perché a Gavin piaceva disubbidire, era nella sua natura.
    Reynolds si appoggiò con la schiena alla porta della cucina e cercò di issarsi in piedi aggrappandosi alla maniglia. Ma gli girava la testa in una giostra di orrori, un turbinoso rincorrersi di cavalli, uno più brutto dell'altro. Gli cedettero le gambe e cadde da quel vecchio stupido che era. Maledizione. Maledizione. Maledizione.
    Gavin lo sentì cadere, ma era troppo occupato ad armarsi per poter tornare subito in cucina. Se l'intruso che aveva aggredito Reynolds era ancora nei paraggi voleva essere nelle condizioni di potersi difendere. Rovistò tra i libri e le scartoffie sulla scrivania nello studio e pescò un tagliacarte abbandonato vicino a un mucchio di corrispondenza ancora da aprire. Ringraziando Iddio, lo impugnò. Era leggero, con una lama sottile e fragile, ma piazzato al posto giusto era sicuramente in grado di uccidere.
    Più tranquillo, uscì nuovamente in corridoio dove si fermò per qualche istante a meditare sul da farsi. Innanzitutto doveva localizzare il bagno, dove sperava di trovare una benda per Reynolds o una salvietta pulita. Forse soccorrendolo sarebbe riuscito a strappargli delle spiegazioni.
    Appena oltre la cucina il corridoio faceva angolo a sinistra. Superato lo spigolo del muro Gavin trovò una porta socchiusa. La luce accesa dietro di essa gli lasciava scorgere piastrelle bagnate. Era il bagno.
    Si avvicinò tenendo la mano sinistra chiusa sulla destra nella quale impugnava il tagliacarte. La paura gli aveva irrigidito i muscoli delle braccia e si domandava se la reazione avrebbe favorito la precisione e la forza del colpo se gli fosse stato necessario usare la sua arma di fortuna. Si sentiva inetto, goffo, un po' stupido.
    Sullo stipite c'era del sangue, l'impronta di un palmo lasciata evidentemente da Reynolds. Dunque era accaduto lì dentro, concluse, e Reynolds si era aggrappato allo stipite per reggersi mentre cercava di sottrarsi al suo aggressore. Se lo sconosciuto era ancora nell'appartamento doveva essere ancora lì. Non c'era altro posto dove nascondersi.
    Più tardi, se ci fosse stato un più tardi, avrebbe probabilmente rianalizzato la situazione dandosi dell'imbecille per aver sferrato quel calcio alla porta, come per provocare un confronto, ma già mentre cominciava a rimproverarsi per tanta avventatezza la sua gamba si muoveva e la porta si spalancava su pareti di piastrelle macchiate di sangue annacquato e da un momento all'altro uno sconosciuto gli sarebbe saltato addosso urlando.
    Invece no. Non successe niente. L'aggressore non era lì. E se non era lì, non era in casa.
    Esalò un respiro, prolungato e lento. La punta del tagliacarte si abbassò, come dispiaciuta di non aver trovato niente da ferire. Adesso, nonostante il sudore e il terrore, si sentiva quasi deluso. La vita lo aveva tradito di nuovo, aveva fatto scappare dalla porta di servizio il suo destino lasciandolo con un pugno di mosche al posto di una medaglia. Gli restava solo da fare da infermiere al vecchio e togliere in fretta l'incomodo.
    Il rivestimento delle pareti era in diverse sfumature di verde, con le quali il colore del sangue faceva a pugni. La tenda semitrasparente della doccia, con i suoi pesci e gamberetti stilizzati, era accostata per metà. Gli sembrava la scena di un delitto cinematografico, per quel tanto di irreale che vi trovava: il sangue troppo vivido, la luce troppo piatta.
    Lasciò cadere il tagliacarte nel lavandino e aprì l'antina a specchio del pensile. Vi trovò una scorta consistente di colluttori, vitamine e tubetti di dentifricio usati, ma l'unico articolo di pronto soccorso era una confezione di cerotti. Quando richiuse il mobiletto si ritrovò a guardarsi nello specchio. La sua faccia era tirata. Aprì completamente il rubinetto dell'acqua fredda e abbassò la testa sul lavandino. Una sciacquata gli avrebbe schiarito la mente dai fumi della vodka e restituito un po' di colorito alle guance.
    Si stava portando le mani piene d'acqua alla faccia, quando qualcosa fece un rumore alle sue spalle. Si drizzò con il cuore che gli urtava contro le costole e chiuse l'acqua. L'acqua gli gocciolò dal mento e dalle ciglia e gorgogliò scendendo dallo scarico.
    Il tagliacarte era ancora nel lavandino, a pochi centimetri dalla sua mano. Il rumore veniva dalla vasca, da dentro la vasca, uno sciacquio inoffensivo.
    Lo spavento gli aveva intasato le arterie di adrenalina e i suoi sensi acuiti analizzarono l'aria con una nuova precisione. L'aroma penetrante del sapone al limone, la forma brillante di un pesce angelo turchese in un ciuffo di alghe color lavanda sulla tenda della doccia, il freddo delle goccioline sulla faccia, il calore dietro gli occhi: tutte esperienze improvvise, dettagli che la sua mente aveva trascurato fino a pochi attimi prima, troppo pigra per vedere, fiutare e percepire fino agli estremi limiti delle sue possibilità.
    Stai vivendo nel mondo reale, gli diceva la mente (e fu una rivelazione), e se non stai molto attento ci lasci le penne.
    Perché non aveva guardato nella vasca? Asino! Perché la vasca no?
    "Chi c'è lì?" chiese, sperando contro ogni logica che Reynolds tenesse in casa una lontra. Ridicolo. C'era del sangue su quelle piastrelle, maledizione!
    Si voltò nel momento in cui lo sciacquio cessava (Coraggio! Avanti!) e scostò la tenda della doccia facendo scorrere i ganci di plastica. Nella fretta di svelare il mistero aveva dimenticato il tagliacarte nel lavandino e adesso era troppo tardi, i pesci color turchese si ripiegavano su se stessi e già il suo sguardo si posava sull'acqua.
    Ce n'era molta, nella vasca, fino a pochi centimetri dal bordo superiore, molta acqua torbida. Volute di schiuma scura salivano alla superficie emanando un odore vagamente animalesco, come il pelo bagnato di un cane. Nulla affiorava dall'acqua.
    Si chinò sforzandosi di dare un senso alla forma che intravedeva sul fondo e la sua immagine riflessa vagò tra grumi di schiuma. Si abbassò di più, avendo difficoltà a mettere nella giusta relazione le varie parti dell'oggetto misterioso e finalmente riconobbe le dita tozze di una mano e si rese conto che stava osservando una forma umana rannicchiata in posizione fetale e assolutamente immobile nell'acqua sporca.
    Passò una mano sulla superficie dell'acqua per spostare la schiuma e la sua immagine riflessa si scompose, mentre diventava più nitida quella immersa nella vasca. Era la statua di una figura dormiente, solo che la testa, invece di essere appoggiata a una spalla come avrebbe dovuto, era ruotata in maniera che guardasse all'insù attraverso i sedimenti che intorbidivano l'acqua. Gli occhi dipinti erano aperti, due globi rudimentali fra quei lineamenti approssimativi, la bocca era un semplice solco e le orecchie erano ridicoli manici ai lati di una testa calva. Il corpo era nudo e rivelava un'anatomia solo abbozzata. Era evidentemente il lavoro di un apprendista. In più punti la vernice era stata intaccata, probabilmente dal liquido in cui la statua era immersa, e si staccava qua e là dal busto in bolle grigiastre. Sotto di essa cominciava a scoprirsi una superficie di legno scuro.
    Dunque non c'era niente da temere. Aveva di fronte a sé un pezzo d'arte immerso in un liquido che aveva lo scopo di ripulirlo da una rozza verniciatura. Il rumore che aveva sentito era quello di alcune bolle staccatesi dalla statua per via della reazione chimica in corso. Ecco spiegato tutto quanto, nessun motivo di cedere al panico. Continua a battere, cuore mio, come soleva dire il barista dell'Ambassador ogni volta che vedeva apparire una bella donna.
    A Gavin venne da sorridere a quel pensiero, perché la statua non era certo quella di un Apollo.
    "Dimenticati di averlo visto."
    Reynolds era sulla soglia. L'emorragia era stata arrestata da un ripugnante straccio di fazzoletto che si teneva premuto contro la faccia. La luce riflessa dalle piastrelle rendeva la sua pelle biliosa. Il suo pallore avrebbe fatto sembrare colorito un cadavere.
    "Stai bene? Non ne hai l'aria."
    "Non è successo niente di grave... ti prego solo di andartene."
    "Che cos'è stato?"
    "Sono scivolato. C'era dell'acqua per terra. Sono semplicemente scivolato."
    "Ma quei colpi..."
    Gavin stava guardando di nuovo il contenuto della vasca. Qualcosa di quella statua lo affascinava, forse la sua nudità, ma più in particolare il secondo denudamento che si stava svolgendo lentamente sott'acqua, quello definitivo, la levata della pelle.
    "Erano i vicini."
    "Che cos'è?" domandò Gavin, ancora contemplando il poco attraente volto della statua immersa nella vasca.
    "Niente che ti riguardi."
    "Perché è rannicchiata in quel modo? Sta morendo?"
    Gavin si girò e vide la reazione di Reynolds alla sua domanda, il più amaro dei sorrisi, già in via di dissolvimento.
    "Vorrai dei soldi."
    "No."
    "Al diavolo! È il tuo mestiere, no? Ci sono delle banconote vicino al letto. Prendi quanto pensi di meritare per il tempo che hai sprecato con me..." lo squadrò, guardandolo diritto negli occhi. "E per il tuo silenzio."
    Di nuovo la statua: Gavin non riusciva a distoglierne lo sguardo, era incantato dalla sua crudezza. La propria immagine perplessa galleggiava sul pelo dell'acqua, umiliando la mano dell'artista con le sue perfette proporzioni.
    "Non ci pensare," gli consigliò Reynolds.
    "Non posso farne a meno."
    "E una faccenda che non ti riguarda."
    "L'hai rubata, vero? Vale un occhio della testa e tu l'hai rubata."
    Reynolds riflette e parve infine che si sentisse troppo stanco per mettersi a inventare bugie.
    "Sì, l'ho rubata."
    "E poco fa è venuto qualcuno a cercare di riprendersela."
    Reynolds si strinse nelle spalle.
    "È così? Qualcuno è venuto a cercare la statua?"
    "È così. L'ho rubata..." recitò Reynolds meccanicamente, "... e qualcuno è venuto a riprendersela."
    "Ecco, mi bastava sapere questo."
    "Non tornare qui, Gavin, chiunque tu sia. E non tentare niente di troppo furbo, perché io non mi farò trovare."
    "Intendi un'estorsione?" domandò Gavin, "Non sono un ladro."
    Nell'espressione di Reynolds apparve una piega di disprezzo.
    "Ladro o no, sii riconoscente. Se ne sei capace." Si allontanò dalla porta per lasciarlo passare, ma Gavin non si mosse.
    "Riconoscente per che cosa?" volle sapere. Lasciava trapelare una punta di irritazione. Per quanto assurdo, si sentiva ripudiato, come se Reynolds avesse voluto liquidarlo con una mezza verità non ritenendolo degno di conoscere il suo segreto.
    Reynolds non aveva forze con cui tentare una spiegazione. Si era accasciato contro lo stipite, sfinito.
    "Vattene," ripetè.
    Gavin annuì e lo lasciò sulla soglia del bagno. Mentre usciva in corridoio, il liquido nella vasca doveva aver staccato un'altra bolla di vernice, perché la sentì giungere in superficie, udì lo sciacquio che provocò contro i bordi, si immaginò le increspature che facevano tremolare i contorni della statua.
    "Buonanotte," disse Reynolds.
    Già a qualche passo da lui, Gavin non rispose, né passò a prendere i soldi che gli erano stati offerti. Che si tenesse il denaro insieme con le sue lapidi e i suoi segreti. Andò invece in soggiorno a recuperare la giacca. Dalla parete lo guardava il volto di Flavino, il portainsegna. Doveva essere stato un eroe, riflette. Solo un eroe sarebbe stato commemorato in quella maniera. A lui non sarebbe toccato un simile onore, non ci sarebbero stati simulacri di pietra a ricordare il suo passaggio su questo mondo.
    Richiuse la porta uscendo sul pianerottolo, mentre avvertiva di nuovo il dolore al dente, e proprio in quel momento il rumore ricominciò, quel battere furioso, come di un pugno contro il muro.
    O la furia improvvisa di un cuore risvegliato.
     
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