Il fantasma di una mano

Joseph Sheridan le Fanu

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  1. Mike Enslin
         
     
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    Tratto dalla raccolta di racconti Il libro delle storie di fantasmi di Roald Dahl

    Racconto di Joseph Sheridan le Fanu
    Titolo originale The Ghost of a Hand
    Traduzione di Angela Ragusa

    In una lettera scritta nel tardo autunno del 1753, la signorina Rebecca Chattesworth fornisce un minuzioso e sorprendente resoconto di certi eventi verificatisi a Tiled House; eventi ai quali, a dispetto delle sue reiterate proteste contro simili sciocchezze, ella, è ovvio, ha prestato un’attenzione invero peculiare.
    La bizzarria e l’originalità di quella missiva erano tali da tentarmi a darla alle stampe per intero. Ma il veto dell’editore ha posto un freno alla mia iniziativa; e, a conti fatti, ritengo ch’egli fosse nel giusto. La lettera dell’anziana signorina è, forse, troppo lunga; mi accontenterò quindi di fornirvi pochi, rapidi cenni del suo contenuto.
    Quell’anno, più o meno intorno al 24 ottobre, una strana disputa scoppiò fra il consigliere Harper, di High Street, Dublino, e lord Castlemallard, che, in quanto cugino della madre del giovane erede, si era impegnato ad amministrare la piccola tenuta ove sorgeva Tiled House (o anche Tyled House, ché ho trovato il suo scritto in entrambi i modi).
    Questo consigliere Harper aveva preso in affitto la casa per conto di sua figlia, maritata con un gentiluomo di nome Prosser. Aveva pure provveduto all’arredamento e a rinnovare le tappezzerie, sostenendo nel complesso spese considerevoli. I signori Prosser si erano stabiliti nella casa in giugno e, dopo un soggiorno che li aveva privati di parecchi buoni domestici, la signora aveva deciso di averne abbastanza, e suo padre, recatosi da lord Castlemallard, gli aveva comunicato senza mezzi termini la rottura del contratto d’affitto in seguito a fenomeni inspiegabili che avevano avuto luogo nella casa. Per parlar chiaro, sosteneva che Tiled House era infestata, che la servitù vi resisteva al massimo qualche settimana, e che, dopo quanto la famiglia di suo genero aveva partito in quel luogo, non solo era giustificabile la rottura del contratto, ma si sarebbe dovuto abbattere la casa stessa, sia perché costituiva un pericolo sia perché vi si era introdotto qualcosa di ben peggio che semplici manigoldi in carne e ossa.
    Lord Castlemallard passò per vie legali nel tentativo di costringere il consigliere Harper a rispettare i suoi impegni. Ma il consigliere replicò con una relazione, appoggiata da non meno di sette lunghi affidavit e a Sua Signoria fu inoltrata copia di ognuno di essi, con l’effetto desiderato: piuttosto che permettergli di esibire in Tribunale quelle testimonianze, lord Castlemallard capitolò, e acconsentì alla rescissione del contratto.
    Mi duole che il caso non sia preceduto oltre, così da portare a conoscenza della Corte il veridico e inquietante racconto della signorina Rebecca.
    I fastidi ivi descritti iniziarono solo alla fine d’agosto, allorché una sera la signora Prosser, seduta tutta sola nel crepuscolo accanto alla finestra aperta del salotto sul retro, guardando verso il frutteto scorse una mano posarsi furtiva sulla destra della balaustra di pietra, come se qualcuno dall’esterno intendesse arrampicarvisi. Non vide altro che la mano, tozza ma non brutta, bianca e paffuta, posata sulla balaustra; una mano non più giovane, sulla quarantina, si sarebbe detto. La terribile rapina a Clondalkin risaliva a poche settimane prima, e la signora immaginò che la mano appartenesse a uno dei malfattori, intenzionato ora a dar l’assalto alle finestre della Tiled House. Urlò, in un parossismo di terrore, e all’istante la mano scivolò via silenziosa.
    Furono subito organizzate ricerche nel frutteto, ma senza trovare tracce della presenza di qualcuno fuori della finestra, sotto la quale peraltro si trovava, disposta lungo il muro, una fila di vasi da fiori che avrebbero dovuto rendere impossibile a chiunque avvicinarsi.
    La stessa notte, colpetti frettolosi furono battuti a più riprese alla finestra di cucina. Le domestiche s’impaurirono, e il cameriere, armato di schioppo, spalancò la porta di servizio, ma senza vedere alcunché. Comunque, a quanto riferì, cercando di richiudere l’uscio, aveva avvertito un tonfo, e una resistenza come se qualcuno tentasse di entrare a forza, il che aveva impaurito anche lui; e sebbene, una volta serrata la porta, fossero ripresi i colpi contro il vetro, non aveva azzardato ulteriori indagini.
    Il successivo sabato sera, più o meno alle sei, la cuoca, ‘una onesta donna sulla sessantina, astemia’, era tutta sola in cucina quando, alzando lo sguardo, vide il palmo di una mano grassoccia ma aristocratica premuto contro il vetro della finestra, quasi a controllarne la levigatezza. A quella vista la donna strillò e farfugliò una preghiera. Ma la mano fu ritirata solo dopo alcuni secondi.
    Dopodiché, per parecchie notti, un picchiettio dapprima soffocato e poi via via iroso, come di nocche serrate, provenne dalla porta di servizio. Stavolta il cameriere non aprì, e si limitò a chiedere: “Chi è?”; non si udì risposta, ma soltanto il lento strisciare carezzevole di una mano sull’uscio.
    E per tutto quel tempo, quando i signori Prosser si trattenevano nel salotto sul retro, momentaneamente usato come soggiorno, erano disturbati da colpetti alla finestra, ora furtivi e sommessi, come un segnale clandestino, ora improvvisi, e così violenti da far temere che il vetro si schiantasse.
    Tutti quei fenomeni si verificavano sul retro della casa che, come ho già detto, dava sul frutteto. Ma un martedì notte l’identico raspìo fu udito alla porta d’ingresso, e, con grande irritazione del padrone e terrore di sua moglie, proseguì a intervalli per un paio d’ore.
    Non ebbero altri fastidi per parecchi giorni e parecchie notti, e cominciarono a sapere che i loro problemi fossero terminati. Ma la notte del 13 settembre Jane Easterbook, una giovane cameriera, che si era recata nella dispensa per prendere la piccola tazza d’argento in cui era solita servire il latte caldo alla sua signora, alzando casualmente lo sguardo verso la finestrella, vide un bianco dito paffuto sbucare da un foro praticato nella persiana per farvi passare un lucchetto con cui assicurare l’imposta – prima la punta, seguita dalle prime due falangi, e rigirarsi e ripiegarsi verso l’interno, come in cerca di un chiavistello che il proprietario del dito intendesse far scorrere. Quando la cameriera tornò in cucina, così fu riferito, ‘cadde in deliquio’, e piombò in uno stato di prostrazione da cui non si riebbe neppure il giorno seguente.
    A quel che ho sentito dire, il signor Prosser era un tipo deciso e sicuro di sé; ragion per cui decise di tener d’occhio il fantasma e si burlò dei timori della servitù. Intimamente convinto che l’intera faccenda fosse uno scherzo di cattivo gusto o un imbroglio aspettava solo l’occasione per cogliere il furfante in flagrante delicto. E non si diede cura di tenere a lungo per sé questa teoria; anzi, la lasciò poco a poco venire alla luce, senza lesinare invettive e minacce, certo com’era che un domestico traditore reggesse le fila della congiura.
    In verità, sarebbe stata anche l’ora di far qualcosa; perché non solo i domestici, ma anche la buona signora Prosser, erano di giorno in giorno più ansiosi e inquieti. Restavano chiusi in casa fin dal calar del sole, e di notte non si arrischiavano a uscire se non in compagnia.
    Il picchiettio cessò per circa una settimana; poi una notte, mentre la signora Prosser era nella stanza del figlioletto, suo marito, ch’era in salotto, lo udì iniziare sommesso alla porta principale. Non si muoveva un filo d’aria, e non era possibile sbagliarsi. Era la prima volta che il fastidioso rumore si udiva in quella parte della casa, e anche il timbro dei colpi era cambiato.
    Il signor Prosser sgusciò silenzioso nell’atrio, lasciando aperta la porta del salotto. Sembrava che qualcuno battesse con quieta regolarità ‘il palmo della mano’ contro l’esterno della massiccia porta d’ingresso. Stava per spalancarla d’impeto, ma cambiò idea; indietreggiò pian piano e salì fino in cima alle scale della cucina, dove, in un ripostiglio sopra la dispensa, custodiva le armi da fuoco, le sciabole e i bastoni.
    Qui giunto, chiamò il maggiordomo e, infilate due pesanti pistole nelle tasche della giacca, ne diede un paio anche a lui; poi, impugnando un grosso bastone da passeggio, si diresse a passi felpati verso la porta, tallonato dal servitore.
    Tutto andò secondo i piani del signor Prosser. Il loro approssimarsi, lungi dall’intimorire l’assediante della casa, parve renderlo più impaziente; e i colpetti che dapprima avevano attirato la sua attenzione assunsero il ritmo e la forza di una serie di pugni decisi.
    Furibondo, il signor Prosser spalancò la porta, tendendo il braccio destro col bastone stretto in pugno. Vedere, non vide alcunché; ma il suo braccio venne spinto all’insù in modo singolare, come dal palmo di una mano, e qualcosa vi si insinuò sotto, con una sorta di lieve pressione. Il domestico non vide né sentì nulla, e non capì perché il padrone indietreggiasse così bruscamente, tagliando l’aria col bastone e sbattendo l’uscio con tanta violenza.
    Da quel momento il signor Prosser pose fine alle imprecazioni e alle minacce, e si mostrò altrettanto restio a discutere dell’argomento quanto il resto della famiglia. In effetti, le sue accresciute inquietudini erano aggravate dall’intima convinzione che quando, in risposta ai sonori colpi, aveva spalancato la porta, aveva in realtà permesso all’assediante di entrare nella casa.
    Non cominciò i suoi timori alla signora Prosser, ma si ritirò prima del solito in camera, ‘dove lesse a lungo la Bibbia, e recitò le preghiere’. (Mi auguro che il particolare rilievo attribuito a questa pratica non intenda porne in rilievo l’eccezionalità). A quanto pare, rimase sveglio a lungo; e, così suppose, era circa mezzanotte e un quarto quando udì il palmo soffice di una mano colpire dall’esterno la porta della camera e strisciarvi sopra lentamente.
    In preda al panico, il signor Prosser si precipitò a chiunque a chiave la porta gridando: “Chi è là?”, ma senza ottenere risposta, tranne il fin troppo noto strisciare carezzevole di una mano morbida sui pannelli.
    Al mattino, la cameriere annunciò sconvolta il ritrovamento dell’impronta di una mano sul tavolo impolverato del ‘salotto piccolo’, dove il giorno prima erano state tolte dai pacchi delle porcellane e altre suppellettili. Robinson Crusoe si era spaventato assai meno alla vista dell’orma di un piede nudo sulla sabbia. A quel punto erano ormai tutti molto tesi, e qualcuno aveva già i nervi a pezzi.
    Il signor Prosser intervenne per esaminare l’impronta e sembrò prendere la cosa alla leggera, ma, come giurò in seguito, più per tranquillizzare i domestici che per un’effettiva convinzione interiore; comunque, li fece entrare uno alla volta nella stanza, e a ognuno fece posare entrare la mano, col palmo rivolto verso il basso, su quel medesimo tavolo, così da ottenere un’impronta simile da tutti coloro che risiedevano a Tiled House, inclusi egli stesso e sua moglie; e il suo affidavit sosteneva che la forma della mano differiva da quella di ogni altro abitante della casa, e corrispondeva a quella già vista dalla signora Prosser e dalla cuoca.
    Chiunque o qualunque cosa facesse il proprietario della mano, quell’impronta annunciava a chiare lettere ch’egli non si aggirava più all’esterno, ma aveva ormai preso dimora nella casa.
    E a quel punto la signora Prosser cominciò a essere turbata da strani, orribili sogni, alcuni dei quali, descritti con dovizia di particolari nella lunga lettera di zia Rebecca, erano incubi davvero spaventosi. Una notte, chiudendo la porta della camera da letto, il signor Prosser fu colpito dal profondo silenzio che regnava nella stanza; inspiegabile soprattutto, perché aveva buone orecchie ed era sicuro che la moglie si fosse già coricata, gli parve il fatto di non udire il suo respiro.
    Sul tavolino a piè del letto ardeva una candela, e un’altra la reggeva il signor Prosser, stringendo sotto il braccio un pesante registro su cui erano annotati i conti relativi all’azienda del suocero. Scostate le cortine del letto, vide la signora Prosser giacere (come per alcuni secondi temé angosciato) morta, il viso irrigidito, cereo e coperto di sudore gelido; e sul cuscino, accanto alla sua testa, seminascosta fra le pieghe delle cortine, stava qualcosa ch’egli dapprima scambiò per un rospo… ma era invece la solita mano grassoccia, col polso che sfiorava le coltri e le dita protese verso la testa della donna.
    Con un grido d’orrore, il signor Prosser scagliò il pesante registro dritto verso le cortine, là dove presumibilmente si celava il proprietario della mano. La mano scivolò via rapida, le cortine ondeggiarono, e il signor Prosser, girò intorno al letto appena in tempo per vedere la porta dello spogliatoio, all’altro lato della stanza, richiusa, a quanto gli parve, dalla stessa bianca mano paffuta.
    Spalancò l’uscio con uno spintone, e guardò dentro: ma lo spogliatoio era vuoto, a parte i vestiti penzolanti dagli attaccapanni, il tavolo da toilette e il grande specchio di fronte alla finestra. Richiuse la porta con un colpo secco, girò la chiave nella toppa, e per un minuto, così sostenne, si sentì ‘sul punto di perdere la ragione’; poi suonò il campanello per chiamare i domestici. Con molte precauzioni risvegliarono la signora Prosser da una sorta di ‘trance’, durante la quale, a giudicare dal suo sguardo, ella doveva aver sofferto ‘le pene della morte’; e, sottolinea zia Rebecca, “da quel che ho saputo dalla viva voce della signora Prosser, avrebbe potuto aggiungere ‘e anche dell’inferno’”.
    Ma quel che, a quanto pare, colmò la misura fu la strana malattia che colpì il loro primogenito, allora sui due o tre anni. Il bambino prese a soffrire d’insonnia e di convulsioni, apparentemente provocate da crisi di terrore, e i medici, subito convocati, diagnosticarono i sintomi di un incipiente versamento cerebrale. Angosciata, la signora Prosser prese a vegliarlo seduta accanto al camino insieme alla bambinaia.
    Il lettino del bimbo era accostato al muro, con la testata contro la porta di un armadietto, che, peraltro, non chiudeva bene. A capo del letto era drappeggiata una spessa tendina, che scendeva per qualche centimetro, sfiorando il cuscino. Dopo qualche tempo le due donne notarono che il bimbo si acquietava se lo toglievano dal lettino, e lo tennero in braccio per un po’. Una sera che sembrava tranquillo e quasi assopito, provarono a rimetterlo a letto, ma dopo nemmeno cinque minuti il piccolo cominciò a urlare in preda a uno dei suoi attacchi di terrore; in quel medesimo istante la bambinaia scoprì, e, seguendo il suo sguardo, lo scoprì anche la signora Prosser, la vera causa delle sofferenze del bambino.
    Tutt’e due scorsero chiaramente una bianca mano grassoccia spuntare dallo spiraglio dell’armadietto e, celata nell’ombra della tendina, protendersi verso il capo del piccolo. Con un grido, la madre strappò la creatura dalle coltri, e corse a rifugiarsi con la bambinaia nella sua camera da letto, dove già si trovava il signor Prosser, chiudendosi in fretta la porta alle spalle; l’avevano appena fatto, che dall’esterno giunse un insistente, gentile picchiettio.
    Ci sarebbe ancora dell’altro, ma questo mi sembra più che sufficiente. Direi che la vera bizzarria del racconto consiste nel fatto che vi si parla unicamente del fantasma di una mano. La persona cui la mano apparteneva non si mostrò una sola volta; e nemmeno si trattava di una mano separata dal corpo, ma solo di una mano che ogni volta si manifestava in modo che, per un caso fortuito, il suo proprietario restava celato alla vista.
    Nel 1819, durante una riunione conviviale al college, conobbi un signor Prosser – un anziano, magro gentiluomo dall’aria solenne, ma piuttosto loquace, con i capelli bianchi legati in un codino – che raccontò a noi tutti, con dovizia di particolari, la storia di suo cugino, James Prosser, che da piccolo aveva per qualche tempo dormito in quella che sua madre definiva ‘una nursery infestata’ in una vecchia casa nei pressi di Chapelizod, e che fin da quando aveva memoria, ogniqualvolta era malato, sovraffaticato o febbricitante, era stato perseguitato dalla visione di un gentiluomo pallido e grassoccio; e ogni ricciolo della parrucca di quell’uomo, ogni bottone e ogni piega dei suoi abiti, ogni fattezza del suo sgradevole volto sensuale e mellifluo, era scolpito nella sua memoria altrettanto indelebilmente che l’abito e i lineamenti del ritratto di suo nonno che si vedeva davanti ogni giorno a colazione, pranzo e cena.
    Il signor Prosser menzionò il fatto come un caso singolare di incubo ricorrente, stranamente monotono e personalizzato, e pose l’accento sullo stato di ansia estrema, per non dire di orrore, in cui suo cugino, di cui parlava al passato come del “povero Jemmie”, cadeva tutte le volte ch’era costretto a parlarne.

    Edited by Mike Enslin - 17/10/2013, 16:42
     
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  2. Masashige
         
     
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    Carino. Sposterei in HS se va bene a tutti.
     
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  3. AlphaCharly
         
     
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    Andrebbe in Horror d'autore :ahse:
     
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    CITAZIONE (AlphaCharly @ 7/12/2012, 17:20) 
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    Ya, va in Horror d'autore, sposto
     
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  5. Mike Enslin
         
     
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    OK. Grazie mille! :)
     
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  6. WhiteQueen
         
     
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    Le Fanu <3 l'autore di Carmilla! Ho un suo libro di racconti di fantasmi
     
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  7. Mike Enslin
         
     
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    CITAZIONE (WhiteQueen @ 7/12/2012, 22:02) 
    Le Fanu <3 l'autore di Carmilla! Ho un suo libro di racconti di fantasmi

    In effetti, non conosco molto bene Sheridan Le Fanu, però sapevo che fosse l'autore di Carmilla...
    comunque sono curioso di leggere il tuo libro di racconti di fantasmi... come si chiama?
     
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6 replies since 7/12/2012, 17:04   3203 views
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